Stigma e identità - Formazione on line

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LO STIGMA DELL’IDENTI TÀ
Cfr., E. Goffman, Stigma. L’identità negata, tr. it., Laterza, Bari 1970, pp.15 e ss. e 215 e ss.
I greci, i quali sembra fossero molto versati nell’uso di mezzi di comunicazione visiva,
dettero origine alla parola stigma per indicare quei segni fisici che caratterizzano quel tanto di
insolito e criticabile della condizione morale di chi li ha. Questi segni -venivano incisi col coltello o
impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un
criminale, un traditore, o comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato
specialmente nei luoghi pubblici.
Oggi quando ci troviamo davanti un estraneo, è probabile che il suo aspetto immediato ci
consenta di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi, qual è, in
altri termini la sua « identità sociale ». È meglio dire così piuttosto che « status sociale », perché in
questo contesto attributi personali come «l’onestà» si presentano insieme ad attributi strutturali
come « l’occupazione »…
Quando quell’estraneo è davanti a noi, può darsi ci siano le prove che egli possiede un
attributo che lo rende diverso dagli altri, dai membri della categoria di cui presumibilmente
dovrebbe far parte, un attributo meno desiderabile. Concludendo si può, al limite, arrivare a
giudicarlo come una persona cattiva, o pericolosa, o debole. Nella nostra mente, viene così
declassato da persona completa e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata.
Tale attributo è uno stigma specialmente quando ha la capacità di esercitare un profondo
effetto di discredito. Talvolta viene anche chiamato una mancanza, un handicap, una limitazione.
Allora il termine stigma verrà ad essere usato per riferirsi ad un attributo profondamente
dispregiativo, ma si deve notare che ciò che veramente conta è un linguaggio dei rapporti, e non
degli attributi.
Perciò uno stigma è in realtà un genere speciale di rapporto tra l’attributo e lo stereotipo,
sebbene non sostenga che si debba continuare a servirci di questa definizione, in parte perché ci
sono importanti attributi che, quasi a qualsiasi livello, nella nostra società, sono causa di discredito.
Il termine stigma ed i suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva. L’individuo
stigmatizzato presuppone che la propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista evidente,
oppure presuppone che non sia conosciuta dai presenti, né immediatamente percepibile?
Nel primo caso si ha a che fare con la sorte dello screditato e nel secondo con quella dello
screditabile. Questa è un’importante differenza anche se è probabile che l’individuo stigmatizzato
debba subire ambedue le situazioni. Comincerò con la condizione dello screditato, per passare poi a
quella dello screditabile ma senza separare i due momenti.
Si possono elencare, grosso modo, tre tipi diversi di stigma. Al primo posto stanno le
deformazioni fisiche; al secondo gli aspetti criticabili del carattere che vengono percepiti come
mancanza di volontà, passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà.
Tali aspetti sono dedotti, per esempio, dalla conoscenza di malattie mentali, condanne penali, uso
abituale di stupefacenti, alcolisrno, omosessualità, disoccupazione, tentativi di suicidio e
comportamento politico radicale. Infine ci sono gli stigmi tribali della razza, della nazione, della
religione, che possono essere trasmessi di generazione in generazione e contaminare in egual misura
tutti i membri di una famiglia.
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Comunque in tutti questi esempi di stigma, ivi compresi quelli che avevano in mente i
greci, spiccano le stesse caratteristiche sociologiche. Un individuo che potrebbe facilmente essere
accolto in un ordinario rapporto sociale possiede una caratteristica su cui si focalizza l’attenzione di
coloro che lo conoscono alienandoli da lui, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi
potevano avere. Ha uno stigma, una diversità non desiderata rispetto a quanto noi avevamo
anticipato.
Noi e tutti coloro che non si allontanano in modo negativo dalle aspettative particolari del
caso possa siamo esser definiti i normali.
Gli atteggiamenti che di solito teniamo verso una (persona con uno stigma e il modo in cui ci
comportiamo nei suoi confronti sono ben noti, perché sono proprio queste reazioni che un modo
benevolo di concepire i rapporti sociali si sforza di addolcire e migliorare. Per definizione, crediamo
naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana. Partendo da questa premessa,
pratichiamo diverse.
Nella storia recente, specialmente in Inghilterra, l’appartenenza alle classi subalterne
costituiva, come le colpe dei genitori o almeno il loro ambiente, un importante stigma tribale che
ricadeva sui bambini quando venivano allevati in una condizione sociale più elevata. Il modo di
affrontare lo stigma di classe costituisce naturalmente uno dei temi di fondo del romanzo inglese.
Specie di discriminazioni, grazie alle quali gli ridiciamo, con molta efficacia anche se spesso
inconscia mente, le possibilità di vita. Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta
a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che quella persona rappresenta
talvolta razionalizzando un’animosità basata su altre differenze, come quella di classe.
Nella nostra conversazione quotidiana ci serviamo di termini specifici, come zoppo, bastardo,
demente, che diventano una fonte di metafore e di immaginazione; è tipico che ormai non si pensi
più al significato che avevano originariamente.
Abbiamo la tendenza ad attribuire una vasta gamma di imperfezioni partendo da quella
originaria e nello stesso tempo ad affibbiare attributi desiderabili ma non desiderati, specie di natura
sovrannaturale, quali il « sesto senso »…
Inoltre, può darsi che percepiamo la sua reazione difensiva come diretta espressione della
sua minorazione e quindi giudichiamo sia il difetto che la reazione. Di qui, la giustificazione del
modo in cui noi lo trattiamo.
Ed ora passiamo dalla persona normale a quella contro cui essa è normale.
Generalmente, sembra incontestabile che i membri di una categoria sociale diano il loro
deciso appoggio a criteri di giudizio che essi ritengono non debbano applicarsi direttamente a loro.
In tal modo, l’uomo di affari pretenderà dalle donne un comporta-mento femminile e dai frati un
modo di comportarsi ascetico, ma non proietterà se stesso come la persona che dovrebbe seguire
questi modem di vita. La distinzione è tra il seguire ed applicare la norma e il dare ad essa un
semplice appoggio. Il problema dello stigma non nasce qui, ma solo là dove ci si aspetta da tutte le
parti che chi fa parte di una data categoria non debba soltanto appoggiare una norma particolare ma
anche applicarla. Inoltre, sembra possibile che un individuo non riesca a comportarsi nel modo che
noi ci aspetteremmo da lui, e tuttavia riesca a sentirsi non toccato direttamente da tale incapacità.
Isolato dalla sua alienazione, protetto dalle sue credenze sull’identità, egli si considera un essere
umano perfettamente normale e crede invece che siamo noi a non essere umani. Egli porta uno
stigma, ma non sembra esserne toccato o provare pentimento per il fatto di comportarsi così.
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Tale possibilità è celebrata nelle storie esemplari degli zingari, dei malfattori senza vergogna
e degli ebrei di stretta ortodossia.
Sembra che oggi, in America, le scale separate di ricompensa sociale siano in declino.
L’individuo stigmatizzato tende ad avere le stesse credenze, riguardo all’identità, che abbiamo noi.
Questo è un fatto fondamentale. Le sue più profonde convinzioni riguardo a ciò che egli è possono
costituire il suo senso di essere una «persona normale », un essere umano come chiunque altro, una
persona dunque che merita opportunità e riconoscimenti. In realtà, comunque si voglia dire, egli
basa le sue richieste non su ciò che ritiene sia dovuto a tutti, ma solo a coloro che fanno parte di una
categoria sociale di cui egli è membro, per esempio tutti quelli della sua età, sesso, professione e
così via.
Tuttavia può darsi che egli senta, e di solito a ragione, che quali che siano le opinioni
professate dagli altri, essi non lo « accettano » e non sono disposti ad avere rapporti con lui su di un
piano di «parità». Inoltre, i criteri che ha interiorizzato dalla società più ampia lo mettono in grado
di essere intimamente consapevole di quelle che gli altri giudicano come sue mancanze. Ciò
provoca inevitabilmente in lui, anche se solo in certi momenti, la convinzione di non riuscire ad
essere ciò che dovrebbe. La vergogna diventa una possibilità decisiva che scaturisce dalla
percezione che ha l’individuo di uno dei suoi attributi come un marchio infamante, oppure di un
attributo che chiaramente si accorge di non possedere.
Può darsi che la presenza immediata delle persone normali rafforzi questa frattura tra il sé e le
autodomande, ma in realtà l’odio di sé e l’autodisprezzo possono aversi anche quando la persona si
trova sola davanti ad uno specchio.
Possiamo ora definire qual è la caratteristica principale della situazione in cui viene a trovarsi,
nella vita, la persona stigmatizzata. E’ una questione di quella che spesso, anche se in modo assai
vago, viene chiamata « accettazione ». Quelli che trattano con lui, non gli accordano il rispetto e la
considerazione che le coordinate intatte della sua identità sociale li avevano portati ad anticipare e
che lui aveva anticipatamente creduto di dover ricevere. La persona fa eco a questo diniego
scoprendo che alcuni dei suoi. attributi gli valgono come garanzia.
Come risponde lo stigmatizzato alla sua situazione? In alcuni casi gli sarà possibile fare un
ten¬tativo diretto per correggere quella che egli ritiene la base soggettiva del suo fallimento, come
quando una persona deforme si sottopone alla chirurgia plastica, un cieco alle cure oftalmiche, un
analfabeta ai corsi di istruzione speciale, un omosessuale alla psicoterapia. Quando tali rimedi sono
possibili, il risultato non è tanto la riconquista di uno status completamente normale, ma più spesso
la trasformazione della persona da uno stato di biasimo a quello di chi è riuscito a correggerlo.
A questo punto, è opportuno citare la tendenza alla « vittimizzazione », risultato del fatto
che la persona stigmatizzata è esposta alle fraudolente attività di chi vende terapia correttiva,
preparati per schiarire la pelle, strumenti per aumentare la statura, panacee per recuperare la
giovinezza come la cura di tuorli d’uovo fertilizzati, terapie spirituali e modi di stare in società. Sia
che si tratti di un metodo pratico o di una frode, l’aspettativa, spesso segreta, che ne deriva offre una
speciale indicazione degli estremi a cui lo stigmatizzato è disposto ad arrivare: di qui la dolorosità
della situazione che appunto lo spinge a tali estremi.
Lo stigmatizzato può anche cercare di modificare la propria condizione indirettamente
sforzandosi di impadronirsi di attività da cui, di solito, si ritiene debbano essere esclusi coloro che
hanno quella sua minorazione. Questo fatto è illustrato dallo zoppo che con grande fatica impara, o
impara di nuovo, a nuotare, ad andare a cavallo, a giocare a tennis o a guidare un aeroplano, oppure
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dal cieco che diventa un bravo sciatore o rocciatore. Naturalmente le torture subite per imparare
possono accompagnarsi a quelle necessarie per mettere in pratica ciò che si è imparato.
Stigma e devianza
Una volta che si consideri la dinamica della diversità che produce vergogna come una
caratteristica fondamentale della vita sociale, si può passare al rapporto dello studio di essa con
quello dei problemi collaterali sintetizzato nel termine deviance, una parola attualmente di moda,
che finora abbiamo evitato malgrado l’utilità che riveste come etichetta.
Cominciando dal concetto generale di un gruppo di individui che condividono certi valori e
aderiscono a tutta una serie di norme sociali riguardanti la condotta e gli attributi personali,
possiamo definire qualsiasi individuo che non aderisce a tali norme come un deviante e la sua
caratteristica come una deviazione.
Quando il « termine di riferimento » si sposta da una comunità ristretta al più vasto mondo
degli insediamenti urbani, si nota un corrispondente cambiamento nella varietà e nel significato
delle deviazioni.
A noi qui interessa particolarmente il tipo di deviazione rappresentato da chi volontariamente
e apertamente rifiuta di accettare il posto sociale che gli è assegnato e si comporta in modo
irregolare e ribelle nei confronti delle nostre istituzioni fondamentali come la famiglia, il sistema di
gruppi di età, la divisione stereotipata di ruoli tra i sessi e il lavoro legittimo a tempo pieno che
implica il mantenimento di una singola identità personale ratificata dal governo e la segregazione di
classe e di razza. Questi sono i « disaffiliati ». Coloro che prendono una posizione indipendente e a
titolo puramente personale possono definirsi eccentrici o « personaggi »… coloro che invece si
riuniscono in una sotto-comunità li definiremo devianti sociali e la loro vita collettiva una comunità
deviante…
Se esiste un campo di ricerca chiamato deviance, sono i devianti sociali come li abbiamo qui
definiti che ne dovrebbero costituire l’oggetto. Le prostitute, i drogati, i delinquenti, i criminali, i
suonatori di jazz, i bohémiens, gli zingari, i guitti, i vagabondi, gli straccioni, i giocatori, i parassiti
balneari, gli omosessuali e i poveri refrattari delle zone urbane dovrebbero far parte di questo
gruppo. Si tratta di gente che viene considerata parte di un gruppo che nega globalmente l’ordine
sociale. Vengono percepiti come persone che non vogliono servirsi di opportunità reali per
migliorare la propria condizione in settori approvati dalla società, di gente che fa aperta mostra di
disprezzo per le classi sociali superiori, che non ha pietà e che incarna il simbolo del fallimento
rispetto agli schemi tradizionali della società.
Come abbiamo detto, i devianti sociali fanno sfoggio del proprio rifiuto di accettare il posto
che viene loro assegnato e, temporaneamente, questa loro ribellione a gesti viene tollerata, purché
rimanga all’interno dei confini ecologici della loro comunità. Come i ghetti etnici e razziali, queste
comunità rappresentano un paradiso di autodifesa e il luogo dove il deviatore individuale può
apertamente sostenere di essere in fondo come tutti gli altri. Oltre a ciò, i devianti sociali spesso
ritengono di essere non soltanto uguali alle persone normali, ma anzi addirittura migliori e che la
vita che essi conducono sia assai migliore di quella che, secondo le previsioni, avrebbero dovuto
vivere. Inoltre, i devianti sociali offrono modelli di vita ai normali insoddisfatti, riuscendo così ad
attirarsi non solo la simpatia, ma a fare anche dei neofiti.
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In primo luogo i gruppi etnici e razziali: individui che hanno una storia ed una cultura comuni
e spesso anche una origine nazionale comune, che trasmettono l’appartenenza per via ereditaria e
che si trovano in posizione di chiedere prove di lealtà da alcuni dei loro membri o che, nell’ambito
della società, occupano un posto di svantaggio. In secondo luogo, ci sono quei membri delle classi
inferiori che in modo abbastanza vistoso rivelano il marchio della propria condizione nel modo di
parlare, nell’aspetto, nei modi e che, messi di fronte alle istituzioni della società, scoprono di essere
cittadini di seconda classe.
Ora è chiaro che i devianti del gruppo interno, i devianti sociali, i membri dei gruppi di
minoranza e gli appartenenti alle classi subalterne possono in certe occasioni scoprirsi stigmatizzati,
non sicuri del modo in cui verranno ricevuti nel rapporto diretto e profondamente preoccupati delle
varie risposte da dare a questa condizione di svantaggio. Ciò accadrà semplicemente perché quasi
tutti gli adulti devono in qualche modo avere a che fare con organizzazioni private e pubbliche, in
cui sembra che prevalga un trattamento cortese ed uguale per tutti, fondato sulla sola restrizione
della cittadinanza, a contatto con le quali può sorgere la preoccupazione circa i criteri valutativi
particolari di cui si servono e che sono basati sui valori della classe media.
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