20150503alias2 - Il Manifesto

di CORRADO BOLOGNA
Giulio Camillo, amico di Ariosto e di Tiziano, di Pietro Aretino e di Lorenzo Lotto, era basso di statura, corpulento, geniale e coltissimo,
un po’ folle come ogni donchisciotte perso dietro a un suo mondo alternativo, affascinante seduttore e sognatore con un’idea fissa, fra le più
belle e anticipatrici dell’età moderna. Girava di
corte in corte, da Ferrara alla Francia, per dar
corpo al suo grande progetto, che chiamava il
Teatro della Memoria, o anche della Sapienza.
Era insieme un libro e un anfiteatro: un luogo fisico, costruito con il legno e riempito di quadri
e di libri, e uno spazio mentale, il modello
astratto di un processo di edificazione interiore, non troppo dissimile da un esercizio spirituale, di quelli che a partire dal 1540, forse ispirandosi anche al Teatro camilliano di cui poté
sentir parlare durante il suo soggiorno a Parigi,
Ignazio di Loyola cominciò a praticare a Roma.
Giulio Paolini, «Recital»,
dalla serie «L’autore
che credeva di esistere»,
2012
Invasato da un fuoco sacro Camillo balbettava, si emozionava, non riusciva quasi più a parlar latino mentre accompagnava gli esploratori
invitati ad affacciarsi a quel suo universo in un
percorso iniziatico fra i più straordinari che l’Occidente abbia conosciuto. Il progetto era di insegnar loro a ricostruire artificialmente lo spirito,
imparando a classificare l’intera sapienza umana, tutte le parole, tutte le idee pensabili e a raggiungerne le radici profondissime, cogliendo
sul nascere le immagini e apprendendo l’arte di
produrne sempre nuove, in un ordinato proliferare dell’immaginazione creatrice.
Così, performativamente, insegnava ai suoi
ospiti-iniziandi l’arte della memoria e della metamorfosi spirituale. Lo descrive con toni un
po’ critici, leggermente maligni, l’oscuro Viglio
da Zwichem in una lettera al suo celebre amico
Erasmo da Rotterdam, con cui Camillo aveva
avuto una polemica sul classicismo. Il Teatro di
Camillo, scrive Viglio, è un edificio di legno, suddiviso in sette gradinate «tagliate» su sette livelli
corrispondenti a sette pianeti, che identificano
quarantanove «luoghi», spazi fisici e insieme
mentali costellati di quadri allegorici e di libri
su cui occorre concentrarsi (così balbettava Camillo, e riferiva, acidulo, Viglio) per poter compiere la trasformazione della propria anima. Camillo lo definiva «mens fenestrata» e «animus fabrefactus»: e Viglio non capiva che cosa significasse quel sondare le profondità della mente
leggendola attraverso «finestre», quel volere «ricostruire l’anima» come se fosse un’opera d’arte, dominando i meccanismi del suo funzionamento e imparando a orientarli e a riplasmarli.
Un semplice umanista di cultura molto tradizionale non poteva capire. Camillo non solo coniugava il suo classicismo in una dimensione
estetica e poetica già manieristica: era avanti di
secoli, pensava come un uomo moderno. Si direbbe un nostro contemporaneo: sembra aver
colto con secoli di anticipo – potendo però contare su dispositivi concettuali e materiali ancora inadeguati all’eccezionalità del progetto, che
infatti fallì – il senso dell’intreccio complesso
fra parole e immagini, memoria e inconscio, autenticità e artificio, tipica del pensiero psicoanalitico, delle neuroscienze, dell’iconologia,
dell’informatica e della comunicazione multimediale maturata nel tempo nostro. Lo sentiamo come un inquieto e coraggioso compagno
di strada, riconosciamo in lui prospettive e intuizioni modernissime, che infatti hanno conquistato alcuni dei moderni: Aby Warburg, per
esempio, che per edificare la biblioteca dei saperi umanistici intitolata Mnemosyne e per elaborare l’Atlante reticolare di immagini «dinamiche» ad essa collegato, pensò proprio al Teatro
di Camillo e a quello di Giordano Bruno, che a
sua volta ne aveva tratto ispirazione.
Negli ultimi decenni una formidabile ripresa
delle ricerche intorno all’aggrovigliata questione testuale, ai suoi rapporti con le mnemotecniche medioevali e moderne e con l’arte figurativa del primo Cinquecento, ha consentito di riscoprire il Teatro di Giulio Camillo, facendolo finalmente riemergere dai secoli di oblio in cui lo
aveva affondato il disdegno illuministico verso
qualsiasi idea che avesse sentore d’irrazionalismo, di magia, di cabala, di spiritualità neoplatonizzante. Con solida cura filologica ci restituisce oggi questa meraviglia della civiltà cinquecentesca, mettendone in luce le innumerevoli
relazioni con la rete della cultura manieristico-barocca, ma anche i molti punti di vista di
sorprendente attualità, la migliore specialista
del tema, Lina Bolzoni, che anni fa, in due bellissimi libri (Il teatro della memoria, Liviana, 1984;
La stanza della memoria, Einaudi, 1995), aveva
già offerto la più sottile, ricca e originale lettura
del Teatro camilliano e del suo ruolo nella formazione della rete di saperi, in quell’età cruciale che unisce e separa Ariosto, Bembo e Tiziano
da Tasso, da Athanasius Kircher, da Caravaggio.
Lina Bolzoni pubblica ora presso Adelphi la
prima, tanto attesa quanto preziosa e da oggi
imprescindibile, edizione critica e commentata
dell’Idea del theatro Con «L’idea dell’eloquenza», il «De Transmutatione» e altri testi inediti
(pp. 325, e 70,00) , che è una sorta di sintesi
d’autore di un’intera vita di letture, di progetti
complicati e sempre mutevoli, di ricerche matte e disperatissime. Camillo l’avrebbe composta in soli sette giorni poco prima di morire, nel
1544, secondo una testimonianza dai toni un
po’ mitografici del suo amico Girolamo Muzio,
che gli era accanto alla corte del vicerè di Milano, il Marchese Alfonso d’Avalos, anche lui perdutamente innamorato del progetto camilliano, così come una ventina d’anni prima lo era
stato il re di Francia Francesco I. Il testo fu pubblicato postumo, nel 1550, ed ebbe grandissima
diffusione anche nella ripresa con altre opere di
Giulio Camillo sul finire del Cinquecento. Ora
Lina Bolzoni introduce nell’esame dell’iceberg
sottostante all’Idea molti materiali manoscritti,
alcuni dei quali finora sconosciuti: il Teatro è
un universo in espansione, una «galassia di testi» in movimento, dinamica e metamorfica
proprio come la macchina spirituale che vi viene descritta, pensata per trasformare l’interiorità in «mente dotata di finestre» e «anima artificialmente ricostruita».
L’introduzione, magnifica, vale già da sola come viatico ai temi non solo relativi a Giulio Camillo, ma largamente rinascimentali, dell’imitazione dei classici, della formazione di un gusto
manieristico nel legame fra testo e immagine,
dell’ars della metamorfosi spirituale. In modo
speciale vi si propone la chiave storico-culturale delle arti della memoria e del loro rapporto
con l’arte figurativa e con l’architettura.
Camillo fu amico intimo del Pordenone, di
Francesco Salviati, di Tiziano, di Lorenzo Lotto,
di Sebastiano Serlio, e il suo teatro si intreccia
con molte delle loro opere in percorsi ancora in
parte da svelare: soprattutto, credo, nella direzione della Galleria che Francesco I fece realizzare a
Fontainebleau da Rosso Fiorentino e da Francesco Primaticcio, e che a me sembra direttamente
connessa al Teatro, in un reticolo di relazioni iconografiche in cui si trovano coinvolte la Camera
di San Paolo di Correggio a Parma, l’annessa
stanza allegorica di Alessandro Araldi, l’ancora
inedita casa del Pordenone nell’omonima città.
Tutti gli strumenti necessarî a entrare, senza
poi smarrirsi, nel labirintico Teatro di Camillo
vengono messi a disposizione del lettore da Lina Bolzoni, che dimostra come quel teatro sia
in primo luogo «una grande macchina per l’imitazione letteraria», utilizzabile nello stesso tempo «per costruire qualcosa di simile nelle arti
figurative», dal momento che «per Camillo il
letterato e l’artista operano su materiali diversi, ma seguendo procedure idealmente identiche». Una minuziosa, «spossante “anatomia”
cui Camillo sottopone i testi presi a modello»
permette di dislocarne gli estratti sui
“gradini” del teatro di legno (ma anche nei fogli dei libri preparati con rubriche e indicatori
grafici come un manuale mnemotecnico).
CONTINUA A PAGINA 4
LE METAMORFOSI
DI GIULIO CAMILLO
COMMENTATA
DA LINA BOLZONI,
ESCE PER ADELPHI
LA PRIMA EDIZIONE
CRITICA DELL’«IDEA
DEL THEATRO»,
SINTESI COMPOSTA
NEL 1544
DI RICERCHE
MATTE E DISPERATE.
DOVEVA ESSERE
INSIEME UN LIBRO
E UN ANFITEATRO,
UN LUOGO FISICO,
COSTRUITO
CON IL LEGNO
E RIEMPITO
DI QUADRI E LIBRI,
E UNO SPAZIO
MENTALE.
OGGETTO
VORTICOSO
E VIRTUALE,
POTENZIALMENTE
GIÀ BAROCCO
E PERSINO
NOVECENTESCO,
TANTO CHE ISPIRÒ
A WARBURG
IL SUO
«MNEMOSYNE»,
IL TEATRO
DI CAMILLO
DOVEVA FORNIRE
LA GRIGLIA
INTERIORE
NECESSARIA
A UN NUOVO
LINGUAGGIO
UNIVERSALE
FRISCH-JOHNSON • ROTH • BALL • NICOLOTTI • ASLAN • NGUGI • ONDJAKI • BEHN •
BRONZI ELLENISTICI • SQUILLACE • CANFORA • NAGASAWA • DESIGN GIAPPONE
(2)
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
«UNA DIFFICILE AMICIZIA», VENT’ANNI DI CORRISPONDENZA, EDIZIONI ARMANDO DADÒ
FRISCH-JOHNSON
di ANNA RUCHAT
Fin dalle prime battute l’amicizia tra Max Frisch e Uwe Johnson non si presentò priva di asperità: «Il modo in cui lei si è comportato durante il nostro incontro a
Berlino mi ha colpito (…) c’è qualcosa che mi deve dire? E allora la
dica. Non ho intenzione di accettare un altro incontro come quello di
Berlino», scrive Frisch piuttosto irritato dopo una cena con Johnson a
casa di Günter Grass. Johnson risponde dapprima con una lettera
molto dura, che però non spedisce. Ne manda invece una conciliante, per ricucire lo strappo.
Nonostante le scuse e benché i
due scrittori si incontrassero spesso in occasioni legate all’attività
della comune casa editrice, la
Suhrkamp, sarebbero passati altri
sei anni prima che lo scambio epistolare decollasse, costituendosi
come uno dei carteggi più significativi del secondo Novecento tedesco: esce in questi giorni, con il titolo Max Frisch – Uwe Johnson,
una difficile amicizia Corrispondenza (a cura di Mattia Mantovani)
presso un piccolo editore della
Svizzera italiana (Armando Dadò
Editore, pp. 304, s.i.p. ). Lo compongono centoventicinque lettere, corredate di numerosi interessanti allegati (rispetto all’originale tedesco del 1999, manca la revisione editoriale operata da Johnson sul Diario della coscienza e
poco altro), che i due scrittori lontani tra loro per età e per appartenenza geografica (Frisch era nato
nel 1911 a Zurigo e Uwe Johnson
nel 1934 a Cammin in Pomerania, oggi Polonia) si scambiano
nell’arco di quasi vent’anni, tra il
1964 e il 1983).
Nel gennaio del 1971, Johnson
accetta di assumersi la lettura e il
relativo editing del Diario della coscienza 1966-1971 (pubblicato da
Feltrinelli, oggi non più disponibile): conosce i propri limiti, dunque accoglie questo compito non
senza timori: «Per mia sventura
ho fama di essere arrogante» scrive a Frisch e poi subito mette
l’amico svizzero di fronte a quello
che potrebbe essere il tenore delle
sue argomentazioni, aggiungendo: «E io non potrò che comprenderla quando dirà: ma come si permette questo giovincello!» In realtà Frisch è convinto che Johnson
farà un buon lavoro: «Dovrà essere severo con me», scrive affidandogli il suo Journal, «da Lei posso
accettarlo».
Nelle lettere dei primi anni settanta i due scrittori getteranno le
basi di un rapporto che, sebbene
non confidenziale (continueranno a darsi del lei fino alla fine), sarà tuttavia segnato da una grande
stima reciproca e da una costante
onestà intellettuale.
Lettera dopo lettera Frisch si affiderà infatti sempre più allo scrit-
Centoventicinque lettere, scritte tra il ’64 e l’83:
sebbene più anziano, Frisch si affida al giudizio
etico e estetico di Uwe Johnson; ma si parla anche
di incontri in varie città e, molto, di denaro
Due autori Suhrkamp
lungo i confini fissati
tra pudore e coraggio
tore più giovane nella valutazione
etica ed estetica dei propri scritti.
La franchezza dell’amico rassicura lo scrittore più anziano anche
se le loro posizioni rispetto alla letteratura rimangono lontane: Frisch è preoccupato perché Johnson vive sempre più all’interno di
quel concatenamento di invenzione – ricordo – deformazione della
memoria, di cui si compongono il
romanzo in quattro volumi I gior-
ni e gli anni e l’esistenza della protagonista Gesine Cresspahl; d’altra parte lo ammira per lo scrupolo e per il senso di responsabilità
che dimostra nei confronti dei
suoi personaggi e della storia del
Novecento.
«Caro Uwe, uno dei presupposti
imprescindibili, abbiamo detto
passeggiando per strada» – scrive
Frisch il 16 marzo 1976 dopo una
visita a Johnson – «è la presunzio-
JOSEPH ROTH
di GIANCARLO MANCINI
Il cinema visto
negli anni di Weimar
da uno spettatore
tutto calato
negli incanti
di una lingua nuova
Se si dovesse procedere per decenni, dunque
inevitabilmente a volo d’uccello, si potrebbe dire che
gli anni venti per il cinema rappresentano la definitiva
consacrazione della sua essenza di arte popolare, di
massa. Scrittori e intellettuali, dal canto loro,
continuano a cercare di capirne le possibilità,
giocando con quella lingua spuria, frammista di
parole, suoni e immagini. Ma tra questi ci sono anche
quelli che decidono di andare a sedersi assieme al
pubblico e raccontare la complessa macchina
spettacolare del cinematografo. È proprio la curiosità
di scoprire come il cinema riesca a essere una calamita
così potente a nutrire molti dei pezzi di Joseph Roth,
ora raccolti in L’avventuriera di Montecarlo (a cura di
Leonardo Quaresima, «Piccola Biblioteca» Adelphi, pp.
285, e 12,00). Gli articoli sono divisi in quattro sezioni:
feuilleton, recensioni, critica militante, teoria del
cinema, e coprono un arco di tempo che va dagli inizi
della carriera giornalistica di Roth, attorno al 1919, fino
ai primi anni trenta. Il tono è generalmente quello
della divertita scoperta di un universo a parte, a tratti
anche bizzarro, senz’altro capace di toccare corde
impreviste, al punto da trasmettere, dagli attori agli
spettatori, gli elementi di un vero e proprio codice di
comportamento, un modo di stare a tavola e di parlare
ne, una sorta di spudoratezza. In
caso contrario non si fanno parlare figure fittizie, non le si fa agire,
nello specifico di Gesine: non le si
fa sposare. Ho lasciato Sheerness
non senza preoccupazioni».
Entrambi lavorano sul confine
tra realtà e finzione, ma se Frisch
lo fa spingendo i personaggi della
sua vita reale all’interno della narrazione, Johnson assume la posizione del testimone calandosi
completamente nel mondo fittizio, che per lui ha carattere di «verità storica»: «Caro signor Frisch!
Visto che ha indicato un indirizzo
a New York, 300 Central Park
West, posso solertemente permettermi di darle il benvenuto in una
zona della città che amministro in
nome e per conto della mia mandante Gesine Cresspahl».
Di certo, le considerazioni più
interessanti del carteggio nascono
intorno a Montauk, il racconto in
cui Frisch, narrando un fine settimana a New York in compagnia
di una giovane donna, ripercorre
dettagli della propria relazione
con Ingeborg Bachmann, sua
compagna dal 1958 al 1962, e riflette sull’adulterio della moglie Marianne e sui propri. A Johnson, Frisch chiede di leggere la prima versione e poi di scriverne a Marianne: «Cara Marianne» – dice tra le
altre cose Johnson in una lettera
molto dettagliata che sottolinea le
tappe dell’opera di Frisch sotto il
profilo etico-estetico: «Chiunque
conosca l’opera di questo scrittore, avrà a che fare con lui nell’attesa di incontrarvi se stesso quale
esperienza non dissimulata. L’autore sa cosa gli hanno mostrato le
persone della sua vita, e lo mostra
in queste stesse persone (…) L’autore ha portato avanti il procedimento della sincerità. Com’era da
aspettarsi». Johnson difende l’opera dell’amico pur senza condividerne sempre le scelte, la difende
come fanno le persone ricche ed educate. Siamo
nell’immediato primo dopoguerra, l’impero asburgico
si è dissolto e in Germania è stata appena varata la
repubblica di Weimar, Roth scrive il primo articolo per
«Filmwelt», una rivista di cinema viennese, e poi con il
trasferimento a Berlino prosegue questa sua attività su
testate di più ampio respiro, tra cui la «Frankfurter
Zeitung». La sua scrittura è come sempre precisa,
asciutta, mira a cogliere il dettaglio rivelatore, descrive
per capire, si appassiona ai grandi squarci naturalistici,
racconta i divi dell’epoca, da Asta Nielsen a Emil
Jannings. Poi ci sono eccelsi film d’autore da cui certo
non scappa, in Germania stanno emergendo registi del
calibro di Murnau, Robert Wiene, Fritz Lang da
Nosferatu (1922) a I Nibelunghi (1924). Ma c’è anche lo
spazio per osservare e recensire cinegiornali
sull’incontro tra Gandhi e Chaplin o sui funerali di
Lenin. Dall’estero in quegli anni non arrivano solo
Harold Lloyd o I Dieci comandamenti. La recensione di
Roth a un Cristo prodotto dall’italiana Cines è
esemplificativa del suo modo di intendere il cinema,
non da letterato in vacanza, come purtroppo ancora
oggi accade in Italia a molti, ma da appassionato e
cultore del suo alfabeto per nulla aulico. In cima
all’articolo non c’è nessuna descrizione di quanto si
vede sullo schermo ma direttamente un giudizio sulla
qualità di quanto si è visto, dunque non le parole
Max Frisch e Uwe Johnson, foto Bild
sul piano della priorità della letteratura rispetto alla vita. E conclude: «Cara Marianne, (…) Penso di
sapere cosa avresti preferito sentire, e so che non è quanto ti ho
scritto. Ho avuto la possibilità di
descriverti cosa penso realmente
del libro oppure di ferirti col mio
silenzio».
Frisch, da parte sua, pur convinto del grande valore letterario dei
Giorni e gli anni, non svolgerà mai
nessun commento specifico al riguardo, ma ricambierà, almeno in
parte, il gesto di Johnson qualche
anno più tardi, incoraggiandolo
nell’impostazione che vuole dare
alle sue Lezioni di Francoforte:
«Sono curioso di leggere le sue lezioni. Prendere "semplicemente"
spunto dalle sue esperienze sarebbe non solo lecito, ma anche perfettamente consono all’idea delle
lezioni di poetica». Scrive Frisch
l’11 gennaio 1979, rispondendo alla domanda: «Troverebbe discutibile se mi limitassi a prendere
spunto dalle mie esperienze (il
mio «caso»)?» E Frisch aggiunge:
«Il confine è fissato dal pudore
dell’autore, quindi è soggettivo».
Sullo sfondo di questa discussione, tutta interna ai processi della
scrittura e spesso condotta con toni ironici e lievi, ci sono la vecchiaia di Frisch, il fallimento della sua
relazione con Marianne: «Il mio
soggiorno qui è piuttosto insensato» – scrive Frisch nell’estate del
1975 – «è un’esercitazione al silenzio, non incontro nessuno – nemmeno me stesso». E c’è soprattutto il silenzio pesante di Johnson,
sempre più risucchiato nel «buco
nero», di un lavoro letterario che finisce per erodere la sua stessa esistenza: «Caro Frisch» – scrive il 3
ottobre 1979 – «Mi manca di nuovo quel coraggio che pertiene ad
ogni scrittura e in primo luogo a
quella di una lettera».
Se le discussioni relative al lavoro occupano lo spazio principale
nel carteggio, non sono tuttavia
l’unico argomento. Si stabiliscono
i prossimi incontri a Berlino, New
York, Berzona, Zurigo; si parla di
aiuti pratici (nel 1972, quando la
coppia Frisch si trasferisce a Berlino, Uwe Johnson si occupa dell’appartamento, e dell’arredamento); si
parla anche, e molto, di denaro perché Frisch animato da una generosità disinteressata, sostiene economicamente il giovane amico.
In Germania la pubblicazione
dei carteggi degli autori Suhrkamp
permette oggi al lettore di calarsi in
un’epoca in cui la casa editrice e i
suoi autori costituivano, per l’intera
area germanofona, una sorta di
istanza morale. Un vero peccato
che l’epistolario sia un genere poco
considerato dall’editoria italiana.
impresse nelle didascalie o le azioni, ma le immagini
sono il punto di riferimento di Roth. «Purtroppo –
scrive Roth – la qualità delle immagini è molto
scadente, lo schermo troppo stretto, lo spazio troppo
grande, la luminosità del proiettore molto scarsa». A
parte la precisione e l’acume dell’analisi riassunta in
termini così chiari, l’altro elemento interessante è
l’attenzione verso la dimensione spaziale in cui è
calata la pellicola, le caratteristiche dello spazio in
cui si svolge, sia esso un anfiteatro a cielo aperto o
una grande sala monumentale. Oppure, ancora, la
performance del direttore d’orchestra, insomma
tutte quelle componenti che ancora negli anni venti
sono centrali per il cinema e che invece spariranno
con l’avvento del sonoro. Qua e là affiorano anche
umori tipici della produzione maggiore di Roth,
quella narrativa, come ad esempio quando,
parlando del cinema della repubblica di Weimar,
dice che con la scomparsa delle dinastie degli
Asburgo e degli Hohenzollern è finito anche un
modo di parlare e di essere nel mondo. I colpi di
stato, le turbolenze reazionarie e infine
l’insediamento della repubblica «si incalzano con
tale velocità da far credere che la storia
contemporanea sia uno spettacolo cinematografico».
È questa febbrile caoticità a fare del cinema la lingua
del ventesimo secolo, l’era di Benjamin.
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
IN PRIMA TRADUZIONE DA ADELPHI, «CRISTIANESIMO BIZANTINO» DI HUGO BALL
BALL
Giovanni Climaco, Dionigi
l’Areopagita e Simeone lo Stilita
orientarono nell’inquieto dadaista
una mistica ricerca della luce
di EMANUELE TREVI
Hugo Ball è uno degli eroi del
Novecento. Il 5 febbraio del 1916
inaugurò a Zurigo il Cabaret Voltaire,
travestito come un grande, elegantissimo cazzo argentato. Il 28 luglio, lesse al pubblico il Manifesto del Dadaismo. In quel periodo compose alcune delle più memorabili insensatezze dell’epoca, come i «sonetti schizofrenici» e altre libere associazioni
di parole inesistenti. Ma non era fatto per diventare uno dei tanti papi
dell’avanguardia che invecchiano
fra anniversari e antologie. Nemmeno il Dadaismo può imbrigliare a
lungo uno spirito veramente inquieto e votato, più di ogni altra cosa, alla sua personale e inimitabile recherche de l’absolu. Nei suoi quarantun’anni di vita (morì nel 1927) Ball
si interessò di molte cose, dall’arte
drammatica di Max Reinhardt, di cui
fu un allievo, al pensiero di Bakunin
e degli anarchici dell’Ottocento. Forse il cattolicesimo assorbito in famiglia ebbe qualche parte nella profonda religiosità, decisiamente indirizzata alla mistica, che caratterizza gli ultimi anni della sua vita. Se misurato
sul metro della particolare intensità
che Ball riversava nelle sue passioni,
l’itinerario dal Dadaismo ai Padri della Chiesa può essere considerato meno lungo di quello che si immagina.
Fatto sta che Cristianesimo bizantino
(trad. di Piergiulio Taino, «Biblioteca
Adelphi», pp. 316, e 28,00) è tutto meno che uno dei tanti libri-fioretto scaturiti da una conversione che affollano gli archivi della modernità. In conseguenza di un bizzarro fenomeno
psicologico, molto spesso il pensiero
del convertito moderno, sia in senso
politico che religioso, è gravato da
una certa ottusità e da una fatale
mancanza, per così dire, di documentazione. Non è l’esattezza la virtù principale dell’uomo nuovo, nel quale
l’energia del cambiamento prevale
sulla conoscenza vera e propria. Naturalmente, sto trascurando ingiustamente tantissime eccezioni. Ma chi
ha letto la prima parte del Regno di
Carrère ha potuto toccare con mano
quanto sia pernicioso il narcisismo
che si acquatta in ogni esigenza di salvezza individuale, in ogni ricerca di
una rinnovata pienezza della vita.
Ecco, la prima cosa che si può dire
sul suo splendido libro è che Hugo
Ball, dai mistici e dagli asceti a cui si
è dedicato con tanta profondità, ha
imparato, per prima cosa, quanta salute («il superlativo della salute è
l’immortalità») sia racchiusa in
un’abolizione totale dell’Io e dei
suoi diritti. Anche a scrutarlo con
una lente di ingrandimento, non troveremmo in Cristianesimo bizantino
il minimo sottinteso autobiografico.
Il fatto è che quando una materia è
stata così assimilata da diventare la
sostanza più intima e tenace del pensiero e della personalità, non c’è più
bisogno di giustificare in qualche
modo il proprio coinvolgimento,
puntellandolo con circostanze estranee alla cosa in sé. Non a caso al suo
amico Hermann Hesse lo stile di
Ball ricordava quello di certe vite di
santi della tradizione ebraica scritte
da Martin Buber. L’analogia vale anche per il rigore delle conoscenze,
che si può definire «filologico» soprattutto per l’abitudine a un rapporto di prima mano con le fonti
più ardue e originarie.
Anche nel concepire l’architettura
dell’opera, Ball rivelò un vero talento
da artista degli abissi. Cristianesimo
bizantino è un trittico, i cui pannelli
sono rispettivamente dedicati a tre
campioni della mistica e dell’ascesi
vissuti tra il V e il VI secolo: Giovanni
Climaco, il grande solitario del Sinai
che scrisse La scala del Paradiso; il
misterioso e sublime teologo che alla fine del V secolo firmava le sue
opere con il nome di un personaggio
degli Atti degli Apostoli, l’ateniese
Dionigi l’Areopagita convertito da
san Paolo; Simeone lo Stilita, infine,
che visse quarant’anni in cima a una
colonna – un uomo ancora capace
di praticare la preghiera come una
«scienza esatta». L’inclinazione «pittorica» di Ball si rivela anche nel fatto che tre storie diverse si svolgono
nello stesso paesaggio: l’Asia Mino-
Icona del Cristo
Pantocratore,
monastero
di Santa Caterina
del Sinai; in alto
Hugo Ball recita nel
’16 al Cabaret
Voltaire di Zurigo
re, dai centri spirituali della Siria al
gran calderone sapienziale di Alessandria, passando per le rupi del Sinai pullulanti di comunità di monaci
e di eremiti. Si addice alla forma del
trittico anche il fatto che sia il pannello centrale quello più ampio e in
tutti i sensi impegnativo. Il cristianesimo di cui parla Ball – per non parlare dell’ortodossia cattolica – è ancora una pasta molle, un coacervo di
possibilità. La teologia mistica
dell’uomo che oggi chiamiamo (con
gran dispiacere di Ball) lo pseudo-Dionigi è un’impresa unica di armonizzazione all’incrocio di eredità
gnostiche, neoplatoniche ed ebraiche, fondata sulle due colonne della
gerarchia e del sacerdozio. Parole,
ammettiamolo pure, tutt’altro che attraenti, ammesso che siano ancora
Dal Cabaret Voltaire
ai Padri della Chiesa
SINDONE
di BEATRICE IACOPINI
Sacra o profana,
la reliquia viene
restituita all’agone
delle controversie
in un saggio
di Andrea Nicolotti
Quando, nei vangeli sinottici, gli agiografi
lasciarono traccia en passant di un «lenzuolo»
(sindòn) con cui sarebbe stato avvolto il corpo di
Gesù crocifisso, non potevano immaginare che da
quella parola, in greco semplicemente «lino»,
sarebbero scaturiti nei secoli culti e pellegrinaggi
destinati a durare fino a oggi. E che uno di questi
«lenzuoli» in particolare, il più famoso ai nostri
giorni, quello conservato a Torino, sarebbe diventato
in controtendenza un caso raro, se non unico, di
reliquia dichiarata falsa da un vescovo e da un papa
medievali pochi anni dopo la sua comparsa e oggi
invece venerata da molti come autentica. Presunte
stoffe sepolcrali di Gesù cominciano a comparire nei
racconti di pellegrini recatisi in Terra Santa intorno al
VI sec. e poi soprattutto in epoca carolingia, quando
il traffico di reliquie in Europa si fece più intenso. Ma
è soprattutto la Sindone per eccellenza, in questi
giorni esposta al pubblico, che ha suscitato e suscita
ancora oggi il maggior interesse, meta com’è di
pellegrinaggi oceanici e oggetto di studi di ogni
genere alcuni decisamente fantasiosi, come quelli
sulle sue presunte «radiazioni» in grado di far
crescere meglio le piante. Sull’autenticità del reperto
si sono accese discussioni di cui il lettore ha
(3)
in qualche modo comprensibili al di
fuori del mondo clericale. Ball sa bene che esiste questo ostacolo. «Abbiamo disimparato lo stile arcano»,
osserva a un certo punto, assieme alla capacità di interpretare i «segni divini per mezzo del cuore». Di conseguenza un intero vocabolario è scivolato nell’insignificanza. Anche quando riusciamo a esercitare un minimo di empatia nei confronti di quelle vite e di quelle menti così remote,
magari ammirando la sovrumana capacità di resistenza nelle privazioni
degli eremiti, li confondiamo facilmente con degli «artisti del digiuno»,
osserva Ball, non saprei dire se alludendo al racconto di Kafka, uscito in
rivista nel 1922. E ancora di più la sfida di Ball ci apparirà ardita ai limiti
dell’impossibile, artisticamente ancora prima che filosoficamente,
quando si tratta di affrontare le vertigini e gli aneliti del pensiero dello
pseudo-Dionigi. Nulla è più lontano
dal Cristianesimo bizantino, infatti,
che un intento di divulgazione e semplificazione a uso della curiosità dei
contemporanei.
Sostenuta da un traliccio perfettamente congegnato di citazioni, la
prosa di Ball non mira a spiegare, ma
a far vedere la bellezza di una visione
del Cosmo percorsa da una sola luce
che dalla sua fonte ineffabile percorre tutta la gerarchia degli esseri, richiamandoli a sé lungo il cammino
ascendente della purificazione,
dell’illuminazione, della perfezione.
Quello che Ball descrive è come
l’esplodere di una luce nella storia
del pensiero. È una luce paradossale, poiché proprio con la sua abbondanza il divino rimane occultato e,
come dice Dionigi, celato anche
all’interno della sua manifestazione.
Ed è la stessa luce che, secoli dopo,
nutrirà le più alte emozioni visionarie di Dante, degli spericolati maestri
del gotico, dei pittori di icone con i
loro pennelli intrisi d’oro.
Se si trovano la pazienza e il ritmo
necessari, il libro di Ball agisce come
una specie di incantesimo, tanto più
efficace quanto più si era del tutto
ignoranti o solo vagamente informati dei suoi astrusi argomenti. Facciamo esperienza diretta di un modo
di intendere il mondo e il destino
talmente estranei alle nostre abitudini che ne ricaviamo un senso benefico di incremento delle possibilità della mente. E insieme, quel senso di libertà che proviene sempre
dall’incredibile. Già, perché sembra
incredibile che qualcuno abbia scritto libri come la Scala del Paradiso o
la Gerarchia celeste o che abbia passato gran parte della sua vita in cima a una colonna. Lasciando da
parte la storia del cristianesimo, è
un capitolo importante, quello scritto da Ball, della storia universale
dell’estremismo. Nessun’altra definizione si addice meglio a uomini capaci di immaginare una scala tra la
terra e il cielo, e poi montarla senza riposo, giorno dopo giorno, con tutto il
corpo e tutta la mente.
testimonianza in una bibliografia sterminata,
all’interno della quale tuttavia è difficile reperire un
lavoro che non sia già in partenza palesemente di
parte. Sindone di Andrea Nicolotti, (Einaudi, pp. 351,
e 32,00), si situa in questo clima di contrapposizione
accesa tra autenticisti e negazionisti come una
ricostruzione scientifica molto dettagliata della
nascita e dello sviluppo del culto per i lini sepolcrali
di Gesù e in particolare per quello torinese, la cui
storia certa risale solo alla metà del XIV sec. Ma
nemmeno il lavoro attento di uno storico di indubbia
levatura, che vanta al suo attivo svariati studi
sull’argomento, ce la fa ad uscire dall’agone: l’autore,
schierato decisamente tra coloro che negano con
fermezza l’autenticità della Sindone, non risparmia
frecciate pungenti e maligne considerazioni nei
confronti degli avversari. Attraverso pagine dense di
informazioni e ricostruzioni minuziose di vicende
controverse, Nicolotti vuol dimostrare che le stoffe
sepolcrali di Gesù, cui i vangeli accennano in modo
laconico e di cui non si parlò per diversi secoli –
prova evidente del fatto che non si era conservata
alcuna benda o sudario originali – sono tutte di
origine medievale e che la fama della Sindone
torinese ha surclassato in epoca moderna quella di
tutte le altre soprattutto grazie a un’abile propaganda
sostenuta prima da casa Savoia, che ne è stata
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proprietaria fino al 1983, poi dalle autorità
ecclesiastiche e oggi rinvigorita dai cosiddetti
sindonologi, studiosi autenticisti che Nicolotti non
manca di inserire nel novero degli
«pseudoscienziati». L’autore non ha dubbi nel
sostenere le sue tesi, ma chiunque abbia cercato di
informarsi con oggettività in proposito sa che ogni
minima affermazione riguardante il sacro lenzuolo
sembra destinata a essere messa in discussione con
argomenti almeno apparentemente altrettanto validi.
D’altra parte tutto ciò risulta da un problema
oggettivo, e Nicolotti giustamente non manca di
sottolinearlo: prelievi e indagini dirette sul reperto
sono stati resi possibili solo due volte e in anni ormai
lontani, nel 1978 e nel 1988. Questo avrà giovato
senz’altro a rinvigorire l’aura di mistero che aleggia
intorno alla Sindone e a aumentare il numero dei
pellegrini che si muovono in occasione delle
ostensioni, ma certo allontana gli scienziati più seri e
favorisce il proliferare di letteratura di scarso valore.
Intanto, milioni di persone si recheranno in questi
mesi a Torino per ammirare un oggetto che la Chiesa
stessa non si sbilancia a proporre come reliquia
autentica e su cui afferma ambiguamente di voler
lasciare alla scienza, che però intanto viene tenuta
lontana dall’osservazione diretta, il compito di dire
l’ultima parola.
(4)
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
«NON C’È DIO ALL’INFUORI DI DIO», UN SAGGIO DI REZA ASLAN PER RIZZOLI
ASLAN
di VERMONDO BRUGNATELLI
«L’islam può essere oggi usato
per costruire una democrazia veramente liberale nel Medio Oriente e oltre?» Si può dire che sia questo l’interrogativo di fondo del volume di Reza
Aslan, Non c’è dio all’infuori di Dio Perché non capiamo l’islam (Rizzoli, pp.
409, e 20,00). A dispetto del sottotitolo italiano, il saggio non è banalmente
concepito allo scopo di fornire un po’
di nozioni sulla religione islamica a
lettori ansiosi di «capirne» qualcosa,
dal momento che si è fatta più vicina
e minacciosa. Nell’accostarsi a questo
libro, sarà utile tenere presente che è
stato scritto una decina d’anni fa, in
un contesto diverso da quello odierno, in cui non si era ancora assistito
né alle «primavere arabe» né al sorgere del «califfato» dell’Isis: sarebbe
quindi vano cercarvi «spiegazioni» di
quanto è avvenuto negli ultimi anni e
degli eventi dell’attualità.
È vero che il lavoro di questo studioso iraniano trapiantato in America
contiene un’eccellente esposizione
del divenire storico dell’islam e può
quindi essere molto utile anche per
conoscere le cause remote di tanti fatti odierni, ma l’obiettivo del libro è diverso e ben più ambizioso. Il sottotitolo originale inglese «origine, evoluzione e futuro dell’islam» lo descrive in
modo sintetico ma efficace. Introducendo la nozione di «futuro» si esce
dalle scienze storiche o sociologiche,
e si entra nei territori, infidi ma affascinanti, della futurologia.
Il libro non si limita, infatti, a descrivere l’esistente ma propone una chiave di lettura nuova e inconsueta della
storia, anche se indubbiamente ragionevole e verosimile, sforzandosi di
tratteggiare scenari futuri che si accordino con questa visione e di indicare
le possibili vie da seguire per una «riforma» dell’islam in senso umanistico
e liberale. Non a caso, l’opera ha già
suscitato intensi dibattiti sia in America che in Europa e nello stesso mondo islamico.
L’esposizione, molto chiara e in genere ben documentata, è mirata a seguire per quali vie il messaggio originale dell’islam si è inverato nelle forme che oggi conosciamo, con un interrogativo di fondo: se questo sia
l’aspetto immutabile e definitivo della religione predicata da Maometto o
se non sia possibile prevedere evoluzioni future che la portino a convivere
in modo meno conflittuale con il
mondo moderno.
La parte iniziale del libro di Aslan ripercorre la nascita dell’islam, dalle
condizioni di vita nell’Arabia preislamica, in cui il politeismo conviveva
già con diverse forme di monoteismo,
cristiano o giudaico, alle vicende della
vita di Maometto e dei primi suoi successori. È una descrizione che in più
punti si discosta dalla visione tradizionale – affermata sulle incerte basi delle vite del Profeta e della miriade di
racconti di quanto da lui detto e fatto
(hadith) – e che offre una lettura molto più spirituale e meno «terrena» della figura dell’Inviato di Dio. Anche
quando Maometto prese di fatto il potere sulla città di Medina, per la quale
promulgò una «Costituzione», il suo
obiettivo sarebbe stato non tanto
quello di creare le basi di un forte potere temporale quanto quello di costituire una comunità (umma) retta secondo principi di uguaglianza e giustizia (secondo le parole di Aslan «un
esperimento unico di organizzazione
sociale»), in contrapposizione alle palesi ingiustizie su cui si basava la prosperità della classe dirigente della
Mecca. Addirittura, agli inizi le rivelazioni mostrerebbero l’esigenza più di
una «riforma sociale» che di una nuova religione. Solo dopo tre anni di predicazione si sarebbe manifestata con
chiarezza la nascita di un rigoroso monoteismo riassunto nella frase «Non
c’è dio all’infuori di Dio».
Il senso originale dell’ «esperimento» di Maometto sarebbe stato poi
progressivamente dimenticato dai
Iraniano, trapiantato in America, l’autore
propone una tesi secondo cui i conflitti interni
al mondo musulmano ricorderebbero le guerre
in corso in Europa durante la riforma protestante
suoi successori, i «califfi», che rivestivano una carica istituita in modo frettoloso e improvvisato subito dopo la
morte inattesa del Profeta. Non potendo ovviamente condividere con Maometto il dono della profezia e del contatto diretto con la divinità, i califfi assunsero la guida della neonata comunità solo per quanto concerne gli
aspetti secolari (il che col tempo si trasformò nella gestione di un potere imperiale ad opera di una dinastia),
mentre l’ultima parola per quanto ri-
guarda l’interpretazione della parola
rivelata venne lasciata ai «dotti» (ulema), alla cui opera, protratta nel tempo, si deve l’elaborazione e la fissazione delle norme religiose quali oggi le
conosciamo.
Nei primi tempi le indicazioni degli
ulema erano elastiche, allo scopo di
adattarsi di volta in volta al mutare
delle circostanze, ma dopo alcuni secoli questa casta si richiuse su sé stessa e, decretando che «le porte dell’interpretazione erano ormai chiuse», ir-
rigidirono il corpus di leggi così elaborato dichiarandolo sacro e immutabile (sharia). Ma in proposito Aslan sottolinea quanto sia «irragionevole considerare quello che è palesemente il risultato di un lavoro umano come l’infallibile, inalterabile, inflessibile e vincolante legge sacra di Dio».
Esaminando sotto il profilo storico
tanti aspetti dell’islam oggi ritenuti
«problematici», Aslan mostra quanto
essi fossero estranei al messaggio originale di questa religione, la cui essen-
La parola del Profeta
di fronte alle porte
dell’interpretazione
BOLOGNA DALLA PRIMA
Folle ambizione
di Giulio Camillo:
una mente artificiale
a immagine del cosmo
Accanto ai testi verbali Camillo collocava dipinti di carattere allegorico (sappiamo che ne chiese a Francesco Salviati e a Tiziano Vecellio; ma i libri sono
stati distrutti dalla cattiva fortuna: anche su questo piano l’inchiesta è aperta). Insieme, libri e quadri alludevano a
un reticolo di associazioni fra immagini collegate mentalmente su una virtuale «scacchiera» che ne moltiplicava i significati: ed è proprio su questo piano
che l’Idea del theatro, ai primi del Novecento, eccitò l’immaginazione di Aby
Warburg in vista del grande progetto di
Mnemosyne, la Memoria, una macchina mnemotecnico-iconografica fatta
di sole immagini connesse dalla mente
profondamente concentrata attraverso
l’affinità di segni e di sensi.
Ecco, è questo il segreto del Teatro di
Camillo, che Viglio di Zwichem e gli altri contemporanei, stupefatti e turbati,
non potevano cogliere. Il Teatro è «un
puzzle», «un mosaico continuamente
costruito e rifatto», sfuggente, inafferrabile. Cercarlo nella selva dei plagi è un
po’ una "ricerca dell’assassino"». Molteplice e mutevole, è uno e infinito, come la Biblioteca di Babele borgesiana e
come quella utopizzata dall’«Accademia Veneziana della Fama, che ebbe vita splendida ma effimera» qualche anno dopo la scomparsa di Camillo. È nello stesso tempo un oggetto di legno, un
anfiteatro pieno di manoscritti e di quadri, che riprende lo schema dal De Architectura di Vitruvio pubblicata nel
1511 da Fra Giocondo da Verona, molto legato anche lui agli ambienti
za era un ideale di giustizia e uguaglianza. Le norme che discriminano
le donne risalirebbero in realtà alla misoginia di ‘Umar e dei tanti ulema maschi che diedero alla religione la forma che noi oggi conosciamo, mentre
la concezione detta «classica» del
jihad come guerra non solo difensiva
sarebbe stata formulata solo ai tempi
delle crociate e riproposta all’epoca
della lotta anticoloniale.
Solo negli ultimi capitoli Reza
Aslan esplicita il suo pensiero, affermando come sia possibile e auspicabile la nascita di «uno Stato islamico votato al pluralismo, al liberalismo e ai
diritti umani, ma fondato al contempo su una cornice morale di chiara
matrice islamica». Per quanto divergente da quella «tradizionalista», questa posizione – in assenza di un’autorità istituzionale che decreti ciò che è
ortodosso e ciò che non lo è – va considerata pienamente legittima. Solo il
Profeta avrebbe potuto contestarla,
ma dopo di lui nemmeno i califfi si arrogarono mai questa prerogativa.
Difficile dire fin d’ora quanto della
visione riformatrice di Aslan possa effettivamente realizzarsi in un prossimo futuro. Da una parte, l’avvento
delle «primavere» del 2011, tutto sommato inimmaginabili all’epoca in cui
il libro venne scritto, ha confermato
l’intuizione, ribadita più volte nel corso dell’opera, secondo cui anche nel
mondo islamico la maggior parte della popolazione aspirerebbe alla libertà e alla democrazia, che sarà tanto
più autentica quanto più nascerà
«dall’interno» e non da tentativi più o
dell’umanesimo italiano e francese.
Ma è anche un libro: anzi molti libri e
appunti e abbozzi e schemi, o forse proprio «una grande biblioteca dotata di
un catalogo per immagini» e che «rende visibile l’enciclopedia» sottostante;
e nel contempo un vortice di carte che
si attraversano e si innestano reciprocamente, che si moltiplicano, rendendo
difficile restituire «un» solo stato del testo, e invece proponendo l’inquietante
modello, appunto, di una «galassia di
testi» in espansione, imprendibile nella
sua natura proteiforme.
Soprattutto è la mente stessa di Camillo, che si trasforma via via che prende figura e corpo l’idea, e si fa libro, e
anfiteatro, e biblioteca e mille altre «cose» tutte insieme: oggetto virtuale metamorfico, già potenzialmente barocco e
perfino novecentesco come pochi altri
capolavori del Rinascimento.
meno maldestri di «esportarla» preconfezionata. D’altra parte, le successive evoluzioni in senso violento e la
nascita del «califfato» dell’Isis fanno
capire quanto il cammino verso una
«riforma liberale» dell’islam sia difficile, lungo e ostacolato non solo
dall’ideologia degli ulema ma anche
dagli interessi geopolitici di molte potenze regionali dalle smisurate risorse
finanziarie.
È possibile considerare le lotte in
corso, «un conflitto interno fra musulmani, non una guerra esterna fra
l’islam e l’Occidente», alla stregua delle guerre che dilaniarono l’Europa ai
tempi della riforma protestante? È
quanto Aslan crede sia in atto, con la
casta tradizionalista degli ulema che,
come a suo tempo la chiesa di Roma,
cerca di difendere con ogni mezzo il
proprio monopolio della interpretazione dottrinale. Se al tempo di Lutero la stampa contribuì a diffondere la
lettura personale delle sacre scritture,
oggi l’avvento di internet fornisce a
ogni musulmano la chiave per accedere, senza la mediazione di imam e
mullah, all’essenza del messaggio di
Maometto, allo spirito della comunità
di Medina. Il paragone è azzardato
ma accattivante. Se sia una prospettiva realistica solo il tempo lo dirà.
Shirin Neshat, «Women in a Line».
Nella pagina accanto,
un disegno di Mbunu Kivuthi Kawati,
1995
L’idea forte di Camillo, «il suo inedito e insolito gusto sperimentale», consiste nell’offrire a ciascun lettore, come
ogni autentico maestro iniziatico, il modello di un esercizio spirituale, la griglia delle operazioni interiori da compiere per realizzare, in un processo iniziatico radicale, «la costruzione di un
ordine totalizzante e “visibile”», «un
nuovo linguaggio universale». Insomma, il Teatro è davvero «una mente artificiale» che diviene «l’immagine del cosmo», l’«ombra del divino archetipo»,
«un vero thesaurus della memoria iconografica».
L’architettura del Teatro di Camillo è
mentale e cosmica, simile a quella che
Henri Corbin riconobbe nel pensiero
islamico: «la struttura della Tenda discesa dal Cielo e che l’angelo Gabriele
erige per Adamo è quella di una forma
spirituale che contiene in sé il suo universo». Il fine è ambizioso oltre ogni limite: ricreare sé stessi, la propria mente, tutta intera la propria interiorità, e così ricreare il mondo.
«DECOLONIZZARE LA MENTE» DI NGUGI WA THIONG’O
NGUGI
DALL’ANGOLA
Spazi di tempo
in un romanzo
di Ondjaki,
coetaneo
della propria
nazione liberata
di GIORGIO DE MARCHIS
La Luanda degli anni ottanta
era la capitale di una nazione appena
emersa da oltre un decennio di guerre di decolonizzazione e immediatamente sprofondata in una sanguinosa guerra civile, la cui conclusione sarebbe arrivata solo nel 2002. Condizioni di vita, quindi, inevitabilmente precarie per gli abitanti della città che l’ultimo romanzo pubblicato in Italia
dell’angolano Ondjaki lascia intuire,
filtrandole però attraverso lo sguardo
incantato di un gruppo di bambini
che tutto vedono attraverso i ninja e
le arti marziali dei film di Jackie Chan.
In NonnaDiciannove e il segreto del sovietico (Il Sirente, pp. 160, e 15,00), le
devastazioni del conflitto si confondono, infatti, con i disastri provocati da
Godzilla, mentre le battute di Trinità
e di «quel ciccione di Bud Spencer barbuto» si sovrappongono alle parole
d’ordine della rivoluzione socialista.
Del resto, nato nel 1977, Ondjaki è
praticamente coetaneo della propria
nazione e questa condizione biografica fa sì che i suoi primi ricordi abbiano come sfondo gli iniziali e difficili
passi di una nazione allora nascente.
Non è un caso, quindi, che l’infanzia
assuma un ruolo centrale nell’opera
di questo scrittore e ha ragione Livia
Apa – che traduce il romanzo e ne firma una prefazione, mentre la postfazione è affidata a Beppi Chiuppani –
quando afferma come, nell’universo
narrativo del più interessante esponente della generazione apparsa dopo l’indipendenza, si colga per metonimia un ritratto del suo giovane paese, così come per Luandino Vieira
(l’inevitabile punto di riferimento per
la scrittura di Ondjaki) la realtà dei
musseque lo era stata della violenza
coloniale.
Nel romanzo si muovono medici
cubani, operai sovietici impegnati nella costruzione dell’imponente mausoleo del presidente Agostinho Neto e
tutti gli straordinari abitanti di PraiaDoBispo, già noti ai lettori di Ondjaki:
l’irascibile SignorTuarles con il suo
immancabile kalashnikov, la figlia
Charlita, l’unica in famiglia ad avere
gli occhiali con cui guardare la telenovela, DonnaLibânia e il suo leggendario dolce di banana, SpumaDelMare
con il suo coccodrillo. E in queste pagine si conferma come un luogo possa essere conosciuto, amato e ricreato
in due modi: uno letterato e conscio –
in NonnaDiciannove e il segreto del sovietico Ondjaki dialoga anche con
Ana Paula Tavares, Manuel Rui e Ruy
Duarte de Carvalho –, l’altro, vissuto,
immediato e inconscio. Le considerazioni sul senso del luogo, espresse in
altre latitudini da Seamus Heaney, valgono, dunque, anche per Ondjaki e
per la PraiaDoBispo della sua infanzia. Come ricorda, del resto, la poetessa Ana Paula Tavares nella lettera
all’autore che chiude il volume, «Tutti noi siamo di un luogo, come di una
infanzia... e per essere di un luogo e
di una infanzia, bisogna scriverla, ci
hanno insegnato gli antichi, da Platone a NonnaCatarina, e non ci sono
versi, sembra, o prosa raffinata che
possa fissare il gesto e la parola uguale a quella di quanti hanno vissuto,
sono passati da lì, ne hanno ascoltato i suoni, toccato il mare. Solo così
la parola può sorgere così conforme
alle regole del dire e così fedele alle
norme del luogo».
PraiaDoBispo è, quindi, in fondo
un «quartiere fatto di polvere e giochi
antichi» da proteggere dalla dinamite
dei sovietici; ma è anche un tempo da
salvaguardare perché, come confida
al nipote NonnaAgnette, meglio conosciuta come NonnaDiciannove, ogni
passato è sempre, prima di tutto, un
luogo. Un luogo magari lontano, ma
comunque dentro ai nostri ricordi.
di PIETRO DEANDREA
«Gli oppressi e gli sfruttati della terra ribadiscono la loro sfida: libertà dal furto. Ma l’arma più grande scatenata dall’imperialismo con-
tro questa sfida collettiva è la bomba
culturale»: il keniota Ngugi wa
Thiong’o (nato nel 1938) definisce
con chiarezza il bersaglio di questo
suo volume finalmente in edizione
italiana, Decolonizzare la mente La
politica della lingua nella letteratura
africana (Jaca Book, traduzione di
Maria Teresa Carbone, pp. 126,
e14,00). La «bomba» in questione è
l’assoggettamento culturale inflitto
dal colonialismo e dal neocolonialismo: «una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome,
nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso.»
Romanziere, drammaturgo e saggista, uno dei padri della letteratura
africana anglofona e una delle sue voci più radicali, Ngugi è noto come instancabile spirito critico contro i regimi di un’Africa solo apparentemente
liberata, da cui ha subito carcere, esilio e violenze fisiche. Il nodo centrale
di questa raccolta di saggi datata
1986, è la questione che si traduce,
per gli studi postcoloniali, nella domanda delle domande: come immaginare una decolonizzazione reale,
dopo secoli di violenza culturale e
psicologica? Il sottotitolo del volume
allude alla risposta: attraverso la rivalutazione delle lingue africane in luogo di quelle europee.
L’autore parte dallo storico convegno di Makerere del 1962, dove gli intellettuali africani davano per scontato lo scrivere in francese, inglese o
portoghese. Per dimostrare come ciò
non fosse assolutamente un fatto dovuto, Ngugi torna alla sua infanzia
(narrata anche in Sogni in tempo di
guerra, Jaca 2012), immersa nella cultura e nella lingua gikuyu di espressione orale ma anche scritta, grazie
alla presenza di scuole dove l’apprendimento era in lingue locali.
Con la lotta di liberazione dell’esercito Mau Mau e la proclamazione dello stato d’emergenza, nel 1952, l’inglese divenne la lingua obbligatoria
dell’apprendimento, «unità di misura dell’intelligenza e dell’abilità», in
un clima orwelliano di delazioni tra
studenti e punizioni corporali per
chi fosse sorpreso a parlare gikuyu.
A questo proposito, Ngugi cita le parole del romanziere C.H. Kane: «Il
cannone domina i corpi, la scuola incanta le anime». Si spezzava dunque
l’armonia tra ambiente e lingua, radice dell’alienazione coloniale e di una
«dissociazione della sensibilità» per
cui apprendere «divenne così una attività cerebrale e non una esperienza
vissuta a livello emotivo.» Per una intera cultura tutto questo diede luogo
a un fenomeno che Ngugi descrive
come decapitazione culturale, quasi
una zombizzazione collettiva, «una
società di teste senza corpo e di corpi
senza testa».
In una prospettiva molto autobiografica, l’autore offre il proprio vissuto
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
(5)
Finalmente tradotti i saggi
del 1986 in cui l’autore keniota
di lingua gikuyu affronta i nodi
dell’emancipazione postcoloniale
personale come esemplare di una
possibilità di resistenza. La presa di
coscienza linguistica si lega a un
orientamento esplicitamente marxista, e alla profonda disillusione di
fronte ai fallimenti delle élite borghesi neocoloniali: come trovare il modo di parlare a contadini e operai e
spingerli verso un rinnovamento sociale, se non usando una lingua per
loro non aliena?
Coerentemente con gli obiettivi del
volume, la risposta si sviluppa in una
scrittura argomentata in maniera limpida e chiara, libera da vezzi espressionistici. Romanziere già affermato
in lingua inglese e accademico a Nairobi, nel 1977 Ngugi mise in gioco la
sua autorevolezza sposando l’esperienza del teatro di comunità di Ka-
Nelle lingue africane
suona meglio la lotta
miirithu: struttura collegata alla vita
sociale, oltre che spazio architettonicamente aperto per permettere a
ognuno di contribuire all’organizzazione dello spettacolo con propri racconti, osservazioni linguistiche (peccato che l’autore non scenda nel dettaglio) e discussioni: un democratico
«apprendimento continuo» per tutti,
autore incluso. Qui il debito verso lo
«spazio vuoto» di Peter Brook e il «teatro degli oppressi» di Augusto Boal
è dichiarato, ma viene da pensare anche alle creazioni collettive di certe
compagnie britanniche della seconda metà del Novecento.
Il prodotto finale, di grande successo, fu uno spettacolo in lingua
gikuyu di matrice tradizionale, dove
la parola si accompagna a canti e
danze. Ma venne stroncato sul nascere dal regime dittatoriale, che bandì
le attività teatrali del centro e successivamente lo rase al suolo, perseguitando e incarcerando gli intellettuali
coinvolti nel progetto. Isolato in galera nel corso del 1978, forte dell’esempio di quanto un’arte popolare possa
essere pericolosa perché efficace,
Ngugi si spostò sulla narrativa con
un romanzo in gikuyu, composto su
rotoli di carta igienica assai ruvida
(«un modo per punire i detenuti»,
ma «quello che andava male per il
corpo andava bene per la penna»).
CONTINUA A PAGINA 6
APHRA BEHN
Dal Ghana
al Surinam,
storia del nobile
schiavo africano
«Oronooko»,
modello di virtù
di MARIA PAOLA GUARDUCCI
Tradizione vuole che il primo romanzo
moderno di lingua anglosassone sia Robinson
Crusoe di Daniel Defoe, pubblicato nel 1719; ma
anche questa data, come tutte quelle
convenzionali, è funzionale a una lettura univoca
e ormai troppo patriarcale della letteratura, che
non ne restituisce complessità, battute di arresto e
slanci isolati. Era infatti il 1688 quando Aphra
(Johnson) Behn, forse di umili natali, vedova di un
illustre sconosciuto, arrivata alla notorietà di
drammaturga, traduttrice e poeta senza l’ausilio di
mariti né amanti, dava alle stampe Oronooko,
un’opera in prosa che segna il punto di non
ritorno nella distinzione tra le storie romanzate di
tradizione secentesca e il romanzo a venire, e che
esce adesso in una nuova traduzione per la casa
editrice Rogas: Oronooko Nobile schiavo (con testo
inglese a fronte, traduzione di Adalgisa Marrocco,
pp. 353, e 16,00). Primo romanzo scritto da una
donna, Oronooko nasce da un’esperienza
autobiografica (Behn trascorse un anno nel
Surinam) e racconta la tragedia di un africano
divenuto schiavo che nulla ha dello stereotipo del
subalterno. Non solo di stirpe reale e poliglotta, il
«grande uomo» è infatti un autentico modello di
virtù. Il racconto si sposta dall’attuale Ghana, terra
natale di Oronooko, dove si sviluppa la trama
amorosa con la bella Imoinda – sposata
all’anziano re e nonno di Oronooko e da quello
venduta come schiava per ripicca – alle Indie
occidentali, nelle quali l’uomo viene condotto
anch’egli come schiavo con l’inganno di un
capitano inglese. Poiché il mondo tardo
seicentesco era ancora, sulla scorta di
Shakespeare, un palcoscenico in cui ci si perde ma
anche ci si ritrova, nel Surinam Oronooko rinviene
la sua amata e la storia prosegue in parallelo tra
acute considerazioni sulle politiche coloniali
d’oltremare e il resoconto struggente dell’amore
tragico tra i due virtuosi. L’evidente differenza tra
Oronooko e gli europei, avidi, corrotti, disumani,
accecati dalla precoce smania capitalistica, hanno
fatto di quest’opera un testo prezioso per capire
anche la contemporaneità; per non dire del
rapporto tra donne e scrittura, che fa di Behn una
consapevole pioniera, come notò per prima
Virginia Woolf. In Italia Oronooko ha avuto varie
traduzioni, tra cui quella di Annamaria Lamarra,
una specialista dell’autrice, nel lontano 1986
(Guida) e la più recente di Einaudi (1998),
filologicamente impeccabile anche per l’inclusione
dell’epistola dedicatoria, a cura di Maria
Antonietta Saracino, sia traduttrice che autrice dei
fondamentali apparati critici e storici. Ora, tanto
va dato merito all’iniziativa di ripubblicare un
testo ormai inspiegabilmente irreperibile, tanto è
doveroso rimarcare le pecche di un’operazione
che forse reca più danno che beneficio alla sua
straordinaria autrice. Sebbene il libro si apra con
la copia del frontespizio originale, il testo inglese
riportato a fronte non è quello del 1688; da
nessuna parte è indicata la fonte di un’opera che
ebbe ben tre diverse ristampe nel solo Seicento.
Non si chiede all’editore di restituire la diatriba dei
filologi, ma un rigo sarebbe bastato. La traduzione
non brilla, rendendo le lunghe, complesse e
appassionanti frasi di Behn asciutte e brevi con
l’ausilio di punti fermi assenti dall’originale: forse
facilitano la lettura, ma snaturano lo stile.
L’edizione non ha apparati critici, utilissimi data
l’importanza e la complessità dell’opera e del suo
contesto. Al lettore curioso, Rogas riserva solo una
«nota storica», non firmata, tratta dal sito della
Treccani, rimaneggiata senza cura poiché riporta
refusi, come anche la traduzione, quali le date di
nascita e morte di Behn: 1840 e 1889.
(6)
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
A FIRENZE LA MOSTRA «POTERE E PATHOS. BRONZI DEL MONDO ELLENISTICO»
ELLENISMO
di PAOLO MORENO
FIRENZE
Fino al 21 giugno è aperta in Firenze a Palazzo Strozzi la mostra Potere e pathos Bronzi del mondo ellenistico, eccezionale scelta della produzione plastica dovuta alla fase
più lunga e complessa dell’avventura dei Greci dal vicino oriente al
lontano occidente: l’Italia meridionale, la Sicilia fino alle sponde
iberiche (Empórion, oggi Ampurias) e alla Costa Azzurra. In termini storici, il periodo ellenistico –
così definito dall’aggettivo hellenistés, che indicava lo straniero acculturato alla lingua e al costume
dei Greci – tra la morte di Alessandro Magno (323) e l’avvento di Ottaviano (31 a. C.).
Jens M. Daehner e Kenneth Lapatin, archeologi del Getty Museum
di Malibu (California), hanno pensato con grande impegno mostra e
catalogo (Giunti, pp. 367, e 42). Essenziale in Firenze l’apporto di Andrea Pessina, Soprintendente per i
Beni archeologici della Toscana, e
di Mario Iozzo, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove
ha luogo in contemporanea l’esposizione Piccoli, grandi bronzi, con
allestimento e catalogo coerenti alla presentazione dei Bronzi del
mondo ellenistico. Direttrice scientifica della Fondazione Palazzo Strozzi è la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, specialista del rinascimento, che ha trasmesso dall’antico il testimone alle didascalie per i
visitatori attraverso le sale, confermando la perizia esercitata presso
altre manifestazioni nel mobilitare
risorse informatiche, quali le touchtable che illustrano la portentosa
Testa di cavallo Medici Riccardi (n.
3) o l’avventura subacquea di alcuni reperti. Le si devono infine il Passaporto e la Mappa per l’archeologia in Toscana, che incontrano crescente successo non solo nel pubblico scolastico, al quale s’indirizza
comunque il Dipartimento educativo dello stesso Palazzo Strozzi.
Un’Italia che funziona, nel cuore di
una regione fervida di responsabilità civile.
Rispetto al manifesto ellenistico,
la rassegna fiorentina incorpora anche momenti di maggiore antichità,
dai quali può ricominciare una selezione personale di magnifici esemplari, da parte di chi abbia già percorso le nobili sale, attento alla distribuzione per categorie proposta dai curatori americani: ritratti del potere;
corpi ideali, corpi estremi; realismo
ed espressività; repliche e mimesi; divinità; stili del passato.
A voler privilegiare il senso della
progressione storica, familiare nella tradizione europea quale motivo
d’ordine nei fenomeni, si può ripartire dal raro episodio dei tre bronzi
uguali (n. 40, a Vienna da Efeso; n.
41, a Lussino dal mare dell’isola
croata; n. 42, a Fort Knox, Texas, la
sola testa, dalla collezione Nani di
Venezia) ricavati a stampo dal me-
Full immersion
nell’arte che enfatizza
i sentimenti
«Eros dormiente», New York,
Metropolitan Museum ; sopra,
Testa di cavallo Medici Riccardi,
Firenze, Museo Archeologico Nazionale
Due archeologi
del Getty Museum
hanno convocato
a Palazzo Strozzi
50 capolavori
della statuaria
tra IV e I sec. a.C.
Importanti prestiti
pubblici e privati
desimo modello dell’Atleta che ripulisce lo strìgile dopo averlo usato
per detergersi: l’originale risaliva a
un bronzista della discendenza di
Policleto, intorno al 360. Lisistrato,
fratello di Lisippo, diffondeva la riproduzione con forme in gesso, prese anche dal vivo, in un anelito veristico rilevato da Plinio. I multipli offerti in Palazzo Strozzi ne sono testimonianza tecnica, mentre il cosiddetto Pugile delle Terme, del Museo
Nazionale Romano, è un prototipo
dove la passione del vero giunge a
rappresentare i traumi del volto. È
questo l’ultimo dei convitati di
bronzo che giunge solo ora a Firenze, dopo essere stato ospite al Metropolitan Museum di New York.
In realtà l’atleta porta i guantoni
DEANDREA DA PAGINA 5
La rivalutazione
delle lingue africane
sotto gli imperativi
della globalizzazione
Come lo spettacolo teatrale, anch’esso trova
ispirazione nei generi letterari dell’oratura
(letteratura orale), e in maniera analoga viene trasmesso oralmente: letto nelle case e
nei bar, a gruppi, e distribuito attraverso canali non ufficiali. Da qui Ngugi comincerà
ad autotradursi dal gikuyu all’inglese, muovendosi tra le due lingue come faceva il compianto André Brink fra inglese a afrikaans.
Un capitolo finale è poi riservato alla questione della lingua affrontata da una prospettiva più sociale, partendo dal dibattito del
1968 sul ri-orientamento dei dipartimenti di
che lasciano libere le dita per le
prese di lotta, rinforzati dalle stringhe, himántes, di cui scriveva Platone nelle Leggi, intorno al 350 a.
C., proprio per distinguere l’attributo del pancraziaste (lotta e pugilato insieme) dai pesi di cui erano
dotati i pugili. Si ripete una datazione al tardo ellenismo, mentre è
documentata l’identificazione con
Polidamante di Scotussa, pancraziaste celebrato nel 338 con l’immagine postuma plasmata da Lisippo, di cui si conserva anche la
predella a rilievo sulla base in
Olimpia, con la superficie di appoggio di un metro quadrato, atta
ad accogliere il vincitore seduto.
Di Lisippo contempliamo ancora
la statuetta di Eracle in riposo
letteratura delle università del Kenya, al tempo ancora dominati dal canone britannico.
Nelle pagine seguenti Ngugi si sposta poi sul
più ampio dibattito nazionale del 1974 relativo al sistema scolastico, viziato da analogo
eurocentrismo. Le proposte di rinnovamento si fondavano sul ruolo di letterature orali e
scritte nel loro contesto panafricano e della
diaspora dei popoli neri, rigettando l’idea di
«sostituire lo sciovinismo britannico coloniale dei piani di studio esistenti con uno sciovinismo nazionale». È questo che Ngugi intende nel titolo Spostare il centro del mondo che
ha dato a un altro suo volume di saggi (Meltemi 2000). Anche i sostenitori di questo rinnovamento, ricorda l’autore, venivano bollati come sovversivi e perseguitati dal regime, e non
a caso il volume si chiude con una rivendicazione filosofica e politica della sua proposta.
Rivalutare il ruolo di culture di lingue africane è condizione necessaria, ma non sufficiente per una vera decolonizzazione, che non si
può compiere se ciò «non veicola la lotta antimperialista dei nostri popoli». Brecht e
Marx diventano, dunque, gli ispiratori di un richiamo a prendere posizione, di un invito
(338-336), trovata nel santuario di
Sulmona, dove era stata dedicata
come prezioso oggetto di antiquariato da un mercante italico nella
prima età imperiale (n. 16). Lascia
intendere lo stupore di Stazio nelle
sue Selve per un piccolo Eracle seduto a mensa (anch’esso attestato
da una statuetta in mostra, n. 17):
«in così breve spazio, tanto grande
illusione di bellezza! Quale misura
nella mano! Quanta esperienza
nell’applicazione del provetto artefice, per plasmare ornamenti da tavola e intanto agitare nell’animo
immani colossi». Il poeta impostava la dialettica della maturità di
un’arte universale.
Tra la classicità, cui appartengono i capolavori citati, e l’ellenismo
all’azione: «l’appello a riscoprire e a riprendere le nostre lingue è un appello a rigenerarci»,
«a riscoprire il vero linguaggio del genere
umano: il linguaggio della lotta».
Ad alcuni tutto ciò apparirà come ruggine
ideologica, ma sembra di risentire Arundhati
Roy quando sprona a lottare contro il neoliberismo dicendo proprio «fighting is fun» («lottare è divertente»). Quanto è ancora attuale
Decolonizzare la mente? Tantissimo, secondo
la nota della curatrice (purtroppo brevissima,
perché un libro così importante avrebbe meritato una prefazione più articolata); credo
sia vero, e rileggere il libro con le lenti dell’attualità stimola effettivamente una serie di riflessioni. Ad esempio, la rivalutazione delle lingue africane è solida e convincente, ma richiede investimenti culturali di ampio respiro: come pensare di attuarla sotto il tallone della globalizzazione? E, sostituendo «imperialismo»
con «globalizzazione», non si può certo non
restare colpiti quando Ngugi scrive che «l’imperialismo è totalizzante: ha conseguenze politiche, militari, culturali, e psicologiche per
tutta la popolazione del mondo. Potrebbe
perfino condurre all’olocausto.»
nella piena espressione del páthos
(«passione», da cui il titolo
dell’evento) si è individuata da tempo la generazione della maniera,
che inizia nel 323, quando non solo
Alessandro, bensì alcuni maestri,
Prassitele, Silanione ed Eufranore,
sono scomparsi, mentre si affermano i loro figli e discepoli, in parallelo con gli eredi diretti del re, i diàdochi nella definizione storica, signori della guerra che lottano per dividersi le conquiste. Evidente la coincidenza con quanto accadde in Europa tra gli artefici del primo Cinquecento
(convenzionalmente,
avanti il sacco di Roma del 1527) e
il barocco, che supera la «grande» o
«perfetta maniera» con l’attività di
Caravaggio (1590-1610). Sappiamo
MONDO ANTICO
Fiori e piante
aromatiche
dal mito
alla terapia:
un’indagine
di Squillace
del vecchio Lisippo, nato intorno al
390, che nel 314 diventava in qualche modo manierista di se stesso,
riassumendo le proprie principali
invenzioni per celebrare le Dodici
Imprese di Eracle, trovando poi la
forza di trasferire l’officina a Taranto per innalzare i rivoluzionari colossi di Zeus e di Eracle.
Annoveriamo alla maniera antica la citata testa di cavallo, proveniente da Roma, che faceva parte
della collezione di Lorenzo il Magnifico (n. 3). Notevole la somiglianza con quella che a Napoli risultava
donata nel 1471 dallo stesso Lorenzo, ora in quel Museo Archeologico
Nazionale. Entrambe segnalano un
complesso equestre, sulla traccia di
Lisippo, di cui abbiamo per confronto in mostra (n. 2) la replica ridotta dell’Alessandro in groppa a
Bucefalo nella battaglia sul fiume
Granico (334).
Termine finale dell’età dei diàdochi era per lo storico Diodoro Sìculo il 301, quando cadde in battaglia
Antigono, strenuo fautore dell’unità del dominio. Da quel momento
la memoria di Alessandro, come potenziale sovrano della terra abitata,
non è più un modello attuabile, e le
diverse corti si stabilizzano come
autonome cerchie di artefici.
Il mondo che segue è quello degli epìgoni, pur sempre «successori», bensì distanti da Alessandro,
quando vediamo delinearsi il cantiere di Pergamo, la scuola di Rodi,
l’intrepida ricerca del Museo che
in Alessandria spinge l’arte figurativa all’immagine della sofferenza
e della deformazione. Le diverse
tendenze rivivono nel dossier proposto dal Getty Museum, con i
prestiti internazionali da importanti collezioni pubbliche e private: si raccomanda full immersion,
anche grazie ai saggi introduttivi
del catalogo!
Illustriamo solo l’idillico Eros
dormiente, Metropolitan Museum
di New York, da un motivo che
Prassitele aveva affrontato con altro disegno nel marmo. Viene da
Rodi, vicino nello schema, pare incredibile, al mostruoso Ciclope, addormentato dal vino di Ulisse, che
conosciamo nel gruppo di Sperlonga: produzione del’isola dorica, corrispondente all’Altare di Pergamo,
meglio
definito storicamente
(197-168).
di MARIA PELLEGRINI
Nel recente libro dal titolo fiabesco Le
lacrime di Mirra (il Mulino «Saggi», pp. 297,
e 22,00) Giuseppe Squillace fornisce al
lettore una visione d’insieme sul tema del
profumo nell’antichità per intraprendere
un viaggio nel mondo delle fragranze: un
lungo percorso olfattivo tra sacro e
profano, in un vagare – che affascina e
stupisce – tra le memorie aromatiche
dell’antico Egitto, dell’Arabia, dell’India e
delle terre bagnate dal Mediterraneo. Con
uno studio organico e ordinato Squillace
ricostruisce l’antica cultura dei profumi
ripercorrendo nel corso dei secoli l’impiego
degli aromi, le tecniche di produzione, le
metamorfosi di personaggi del mito in
sostanza odorosa, i metodi di estrazione
delle essenze, la provenienza delle materie
prime. Molte altre notizie e curiosità sono
riportate e analizzate in questo ricco e
interessante saggio con citazioni di fonti
epigrafiche, archeologiche e soprattutto
letterarie da Omero ai lirici greci, alle
speculazioni filosofiche di Platone e
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
LUCIANO CANFORA, «AUGUSTO FIGLIO DI DIO» DA LATERZA
CANFORA
di CARLO FRANCO
L’anno augusteo è morto, assai dolcemente. A differenza dal bimillenario del 1937-’38, celebrato
dal regime fascista con grande visibilità, quello trascorso non resterà
memorabile. A opportuna distanza
dalla sbiadita ricorrenza appare da
Laterza un importante volume di
Luciano Canfora, Augusto figlio di
Dio («I Robinson/Letture», pp. 567,
e 24,00). Riprendendo e sistematizzando precedenti indagini, esso
analizza l’emblematica carriera
dell’erede di Cesare nel riflesso della tradizione storiografica. Secondo
la «tipica parabola del potere scaturito da una rivoluzione», Augusto
seppe creare «un nuovo ordine stabile, a prezzo della repressione di
ogni tentativo di togliergli il potere», diffondendo del proprio governo «un’immagine di stabilità e serenità». Ma «le notizie sopravvissute
nella tradizione bastano a farci capire che la facciata copriva un pericolo costante»: il libro insegue appunto le tracce della «memoria divisa» sulle guerre civili romane, e studia lo sforzo del princeps (non del
tutto riuscito) per affermare la propria visione dei fatti. Vi era, dietro il
volto impenetrabile e impassibile
che tutti conosciamo dalla statua
di Augusto rinvenuta a Prima Porta
nel 1863, un grumo di violenze e di
morte, di spregiudicatezza e di lotta politica. Violenza legata soprattutto agli anni giovanili: un carico rimasto, pesante, dalla giovanile «discesa in campo» nel 44 a.C. fino alla morte, sessant’anni dopo, quando il capoparte vittorioso su tutti i
competitors era divenuto il «venerabile» (sebastos), il «padre della patria». La chiave per rivisitare senza
miti la carriera di Augusto, superandone gli studiati oblii, è individuata nelle sue Memorie. Un testo
certamente cruciale, ma del quale
sopravvivono solo pochi frammenti: di qui l’indagine indiziaria di
Canfora, volta a recuperarne la presenza nella storiografia conservata. Al centro non sono gli storici antichi più celebri, ma le Storie di Appiano di Alessandria (II secolo
d.C.), superstiti tra l’altro proprio
per la sezione sulle guerre civili romane (libri 13-17, a cura di Emilio
Gabba, Domenico Magnino, Utet
2001): e si ragiona anche di Velleio
Patercolo, o di Floro.
La prima parte del libro è dedicata a una minuta analisi della struttura, della formazione e della tradizione dell’opera di Appiano: grande attenzione filologica è rivolta alle forme del libro antico, puntando a
comprendere il metodo di lavoro
dello storico e a ricostruire, nei limiti del possibile, le fonti (per noi perdute) che egli adoperò. Tale materia, già affrontata da altri, viene riesaminata da Canfora dialogando
più volentieri con gli studiosi passati che con i contemporanei, i quali
si meritano talora taglienti critiche
Augusto alla guerra
per la memoria
Aristotele, al trattato Sugli odori di
Teofrasto, ai poeti latini e alle trattazioni di
Plinio il Vecchio, per citarne soltanto
alcuni. Interessante scoprire che in
numerose iscrizioni sepolcrali rinvenute in
vari luoghi dell’impero romano siano citati
i nomi di profumieri, in genere schiavi o ex
schiavi, onorati dai loro padroni anche con
monumenti funebri ad attestare con
quanta gratitudine li ricordassero per la
creazione dei loro prodotti. Piacevole come
l’ascolto di antiche favole il racconto di
miti che associano piante aromatiche e
fiori profumati a giovani accomunati da
sofferenze d’amore, da prematura e tragica
scomparsa: Mirra, ossessionata dall’amore
incestuoso verso il padre, è trasformata in
un albero e le sue lacrime diventano gocce
di resina che stillano dal tronco con
profumo inebriante, Croco, consumato
dalla passione per una fanciulla, è reso
immortale sotto le sembianze
dell’omonimo fiore, e così Narciso:
innamorato della sua immagine riflessa
nell’acqua si lascia morire di consunzione.
Nell’affrontare un tema così vasto Squillace
Mirra in un affresco di età ellenistica,
Roma, Musei Vaticani
(7)
sottolinea in modo chiaro e confortato da
numerosi riferimenti bibliografici
l’importanza religiosa, sociale, economica
legata al mondo dei profumi. È rivolto a riti
di purificazione e di offerta agli dei il più
antico utilizzo di sostanze profumate,
bruciate perché spargano il proprio aroma
attraverso il fumo, intermediario fra
l’uomo e gli dei. Piacevoli fragranze,
sempre associate a qualche divinità la cui
presenza è segnalata da odorosi effluvi,
sono anche arma di seduzione: nell’Iliade
Era si cosparge di oli aromatici per
suscitare la passione di Zeus, Saffo
connette il nome di Afrodite ad altari
fumanti di incenso e a rose e fiori. Dopo
secoli di esclusivo appannaggio divino, i
mortali si appropriano del piacere delle
piante odorose e dei profumi, che
utilizzano per le loro virtù magiche e
terapeutiche e come emblema di lusso e
raffinatezza. Nella lirica greca arcaica
troviamo il riflesso di una nuova sensibilità
che privilegia gli unguenti, gli oli profumati
per la cura del corpo e l’uso di essenze
profumate nei banchetti. Saffo nel
Ritratto di Augusto da Meroe, 29-20 a.C.
circa, Londra, The British Museum
Così il principe
fece prevalere
una versione
depurata
e trionfale
della sua ascesa:
un libro indiziario,
tra fonti antiche
e analogie
con il moderno
(per esempio, la recente edizione
dei Fragments of the Roman Historians, 3 voll., Oxford 2013). Sono indagati così i materiali contemporanei agli eventi che Appiano mise a
frutto, ad esempio, per il suo documentatissimo racconto delle sanguinarie proscrizioni volute dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido
nel 43 a.C.: la «pagina nera» di Augusto (Appiano, Storie di proscritti,
Sellerio 1990).
Gli anni turbinosi e violenti seguiti all’assassinio di Cesare generarono una grande quantità di scritti:
una lunga battaglia per la memoria
, combattuta anche dopo la fine degli scontri armati. La suggestiva ricostruzione di Canfora, ricca di acribia non meno che di senso politico, immerge il lettore nel conflitto
che oppose i cesariani ai cesaricidi,
e i cesariani tra loro: in quei mesi furono scambiate molte lettere e diffusi aggressivi pamphlet, che rivelavano gli spericolati voltafaccia compiuti dai protagonisti (compreso il
vincitore finale) nella loro lotta senza quartiere. A distanza di tempo
quel materiale divenne imbarazzante: come nel caso dell’epistolario di Cicerone (vittima dei triumviri), che fu pubblicato post mortem
con opportune selezioni e fu usato
da Augusto con spregiudicata abilità. Vi erano, sull’agonia della repubblica romana, anche resoconti storiografici, «narrazioni inconciliabili
ed ovviamente faziose», divergenti
nelle interpretazioni e nelle analisi
delle colpe. Tra i testimoni sopravvissuti e scriventi c’era il cesariano
Asinio Pollione (le cui Storie sono ricordate da Orazio in un’ode famosa: 2,11), o altri contemporanei come Seneca padre, dalle cui Storie,
inedite per decenni e pure per noi
perdute, derivano le numerose e
poco favorevoli notizie su Augusto
che il figlio Seneca (il filosofo) disseminò nella sua opera. Anche per la
presenza di tali memorie non omologate, la carriera giovanile del princeps restò un argomento scottante:
persino il racconto di un autore «integrato» come Tito Livio vi si confrontò con difficoltà.
Di fronte a ciò, urgeva per Augusto «arginare le pulsioni storiografiche e memorialistiche di alcuni
ex-protagonisti o loro ammiratori»,
urgeva far prevalere una versione
depurata e trionfale, urgeva rimuo-
frammento sulle nozze di Ettore e
Andromaca narra che al loro arrivo sono
accolti dalla gente tra effluvi di mirra,
cassia e incenso, e i frammenti di Alceo e
Anacreonte attestano la consuetudine di
versare profumo sul petto dei convitati
durante il simposio. Quando il lusso e la
raffinatezza entrano nella vita privata, in
tutto il mondo antico si sviluppa l’arte dei
profumieri che pestano, macerano,
conservano, distillano e trasformano erbe,
cortecce, radici, fiori, frutti in creme,
balsami, profumi, il cui uso eccessivo
suscita la disapprovazione di intellettuali e
filosofi: Socrate, Platone, Senofane, Catone
il Censore, Giovenale lo considerano
«contrario alla virtù»; Cicerone rievocando
la semplicità del passato declama: «Si
apprezzi l’odore di terra più del profumo di
croco», e Plinio il Vecchio non esita ad
additare i profumi come il lusso più vano:
«Le perle e le gemme per lo meno passano
agli eredi, le vesti durano nel tempo, i
profumi si dissolvono istantaneamente e
muoiono appena nati».
vere le ambiguità e tacere le violenze, presentandole come legali o camuffandole sotto la «necessità» della politica. E per far questo bisognava che le voci dissonanti fossero
emarginate o tacitate. Augusto, da
vero maestro della comunicazione,
controllò la storiografia attraverso
intellettuali a lui fedeli, ma anche
in proprio. Le sue Memorie erano
un’opera che «rivelava dettagli, svelava, a modo suo, arcana, metteva
sotto luce positiva o negativa dei viventi, dei presunti o potenziali avversari, chiariva episodi». Un progetto delicatissimo: anche a distanza di anni, e nonostante la vigilanza del vincitore, le passioni restavano vive. Lo mostra il caso di un
ignoto ex-proscritto, che nell’elogio funebre della moglie ricordava
con rancore le sopraffazioni patite
da Lepido, e il salvifico intervento
di Ottaviano (Lidia Storoni Mazzolani, Una moglie, Palermo 1982).
Giovava allora affermare una memoria «teleologica» del grande conflitto civile, che facesse convergere
l’intero travaglio di un impero nella
provvidenziale affermazione del pacificatore, del restauratore della res
publica (!), del figlio di dio. Tale, in
quanto figlio del divinizzato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui
intera azione politica appariva come la legittima «vendetta» del padre e come l’assunzione di una eredità politica (per la verità, con esiti
diversi rispetto al modello: Augusto non voleva farsi uccidere, e fu
più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e
diffusore di una «buona novella»:
proprio un euanghelion, indirizzato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valorizzata da Santo Mazzarino in una pagina memorabile.
Al figlio di dio rinvia il titolo del libro, accattivante e in qualche misura spiazzante, se il protagonista
compare in primo piano solo oltre
la metà del volume. E certo, la ricchezza dei temi e dei materiali discussi costituisce per il lettore un
notevole impegno: la ricostruzione
di opere perdute, della loro tendenza, dei loro materiali, è esercizio
non facile. Esso chiede di orientarsi
tra sottili analisi di frammenti, che
recuperano molto dal poco che è
superstite, di ponderare ipotesi e
sottili inferenze, che sono argomentate per altro con chiarezza. Del resto la storia richiede anche immaginazione, e la temperie di quegli anni inquieti è resa con immediata
evidenza, grazie anche alle proiezioni per analogia, caratteristiche di
Canfora, e alle molte osservazioni
di «scienza politica» che sollecitano
consonanze e riflessioni. Così quando per spiegare l’acquiescenza degli intellettuali antichi verso i poteri
tirannici si evocano i «pentimenti»
espressi sotto il fascismo per alleviare condanne e confini, o quando si
discute la tipologia del dissenso, derivato ora da «insipienza», ora da
autentica urgenza, talora dalla fiducia «che il potere ... comporti o tolleri margini (il che, del resto, è quasi
sempre vero, pur se in certi limiti o
con varianti da regime a regime)».
Molte notazioni appaiono istruttive ben oltre l’oggetto d’indagine:
per chiarire il peso della vulgata imposta da Augusto sui controversi avvenimenti della sua gioventù, si nota che «la codificazione di una falsità man mano imposta come verità
(la cosiddetta ‘storia sacra’) … per
cerchi concentrici produce amplificazioni sempre più deformanti».
D’altra parte, si osserva, è inevitabile che si generi un sistema di
menzogne, giacché «la politica è
l’arte della parola non veridica:
strumento che si considera legittimato dalla rilevanza, quando davvero è tale, dell’obiettivo in tal modo perseguito». Il che riguarda
non solo gli antichi che si adeguarono alla propaganda orchestrata
da Augusto, ma anche i moderni: i
totalitarismi novecenteschi sono
ancora un reagente produttivo per
ripensare la rivoluzione romana.
(8)
ALIAS DOMENICA
3 MAGGIO 2015
UNA MOSTRA A MILANO E «WA», UN SAGGIO PHAIDON-IPPOCAMPO
GIAPPONE
di LEA VERGINE
MILANO
Qualcosa che ti toglie il fiato.
Ecco cos’è una mostra eccezionale; ecco cos’è la personale di Hidetoshi Nagasawa alla Galleria Renata Fabbri di Milano, aperta fino a
tutto maggio.
Sommessa, lieve e pur fastosa,
prima ancora che scultura, esperienza. Col fascino inafferrabile della incompletezza secondo la tradizione orientale del fare arte. Quindi solenne e leggiadra, giovane e
antica, cauta e stupefacente, questa scultura è veramente quella
dello spazio discontinuo. Marmo
di Carrara, legno, rame, carta, onice non sono tanto materiali collocati nello spazio ma forme di coagulazione dello spazio stesso. Le
opere non sono mai una forma
chiusa; sono, invece, un frammento di mondo in cui ristanno sospese, e tutti gli elementi che concorrono all’articolazione e all’aggregazione dello spazio sono fenomeni
generati da questo decantarsi di
sottintesi narrativi.
Le opere dell’artista giapponese,
che arrivò a Milano nel 1966, riportano al non dove, caricandolo di tutta la sua estensione utopica e toccando il massimo della maestosità
con mezzi minimi. Mentre rovescia
il rapporto tra pieni e vuoti ci consegna all’illusione che uno spazio vuoto sorregga un volume pieno, illusione che concorre a far riflettere sulla
statura di fuoriclasse di Nagasawa.
Nel mondo magico dello scultore
UNO «SPAZIALISTA» ALLA GALLERIA FABBRI
Hidetoshi Nagasawa,
visioni che colmano l’aria
di piccole estasi
si è presi dal piacere della contemplazione affidata al segno, al colore
della pietra o del legno; una visione
capace di colmare l’aria di piccole
estasi. Le linee che si propagano nel
vuoto sanno di sculture non terrene, in alcuni esemplari di sinopie.
Niente separa e, allo stesso tempo,
nulla unisce le forme posate sul ter-
reno o sulle pareti. Una delle grandi
risorse di Nagasawa sta nella calma,
nella misura, nell’assenza di enfasi
che comunica l’accadere di qualcosa di non presente, una virtualità
sprigionata dai riccioli di rame, dai
pali di legno, dai sette grandi anelli,
tutte forme attuali e, nel contempo,
lontane, intimamente e intensamente ambigue.
Benevolo ma distaccato, l’autore
racconta pacatamente con voce sonora e, più spesso, bisbigliante in
modo erratico, lesto a dirottare un
discorso consequenziale. Spesso è
come se narrasse di viaggi, ovvero
di luoghi simbolici in cui si snoda
la vicenda umana, sapendo che le
visioni non sono coerenti, che presentano una discontinuità il cui effetto è quello di una folgore. Non
c’è traccia di imbarazzo; niente archivi di affetti, di angosce, di paura, in quelle che sono epifanie sottili e polivalenti, schegge del mondo
raccolte e disposte aldilà del tempo e del luogo.
C’è un’opera, la scatola di onice
calcarea, di cui lo stesso Nagasawa
dice: «Una piccola ‘scatola’ di
onice, per terra, in mezzo.
Un parallelepipedo pieno,
che sembra niente. Lo si
vede dall’alto, solo dall’alto (è un punto di vista...).
Sembra pieno e invece è vuoto. Ingombro percepibile eppure cavo, tutto vuoto dentro. Con un piccolo pezzo di onice poggiato sopra,
per mantenere un equilibrio indicibile. Se lo togli tutto casca, perché
in mezzo, sotto, in un certo punto,
è stato “nascosto” un cono, un punto che regge la forma principale,
che le permette di ruotare su se stessa, scivolando lievemente, se sollecitata da un soffio qualunque».
Un universo linguistico e fantastico compatto, di rara esattezza e
pertinenza, una sintassi di materiali colori e forme. Una perfetta ma-
Giunto a Milano
nel ’66, lo scultore
torna a esprimersi
in onice carta
rame marmo legno
gata evocazione, di ascendenza
orientale forse, ma così sommessamente travagliata… Siamo di fronte a un enigma che raccoglie, come un’ombra di sorriso, le sembianze di tante sculture millenarie.
La scatola, alle prime indecifrabile, che cos’è? Un luogo sacro, una
testimonianza numinosa, una rappresentazione del «nulla», il non esserci di una entità che si rivela con
l’assenza, un qualcosa che non dice ma accenna?
In alto, Nagasawa,
scatola in onice;
al centro, esempi
di design tratti
dal volume Phaidon
di MAURIZIO GIUFRÈ
Charlotte Perriand, famoso architetto
responsabile degli interni dello studio Le
Corbusier, nella sua autobiografia narra che
Lao-tzu, riflettendo su un oggetto d’uso comune come una brocca, era andato ben oltre l’idea della forma che segue la funzione
– come asseriva il Bauhaus. «L’utilità di una
brocca d’acqua risiede nella cavità – diceva
il maestro del taoismo – nella quale possiamo riporre l’acqua, non nella forma, né nel
materiale del quale è fatta». È questa, forse,
la più efficace definizione per comprendere
l’essenza del design giapponese. Non è quindi un caso che nell’introduzione di Kenya
Hara al pregevole volume di Rossella Menegazzo e Stefana Piotti dal titolo WA (Phaidon-Ippocampo, pp. 288, e 39,90), si parta
dal concetto estetico di vuoto per comprendere l’origine, la qualità e la differenza di oggetti e arredi del Giappone attraverso il loro
excursus storico. All’apparenza vuoto può essere sinonimo di semplice, ma è un inganno perché per i giapponesi la semplicità della forma, che affonda le sue radici nella religiosità del buddhismo-zen, ha un significato diverso da quello occidentale. Per noi la
semplicità di un oggetto è una scoperta relativamente recente, riferita ai processi di serializzazione del prodotto intervenuti con la
rivoluzione industriale. Hara spiega che in
Giappone una tappa significativa verso il gusto per il semplice è avvenuta alla metà del
Cinquecento con la guerra civile di Önin. Il
conflitto durato dieci anni causò una tale distruzione del patrimonio culturale che il dittatore militare (shogun) Ashikaga Yoshimasa decise di abdicare per ritirarsi a una vita
sobria e austera. È dallo studiolo di Yoshimasa che matura un nuovo linguaggio estetico.
Lo spazio tradizionale giapponese si conforma così per superfici fatte di stuoie (tatami) e pareti scorrevoli di carta, all’interno
composizioni di fiori (ikebana), all’esterno
giardini secchi con sassi e rocce (karesansui). Il santuario e la stanza del tè rappresentano da allora il vuoto. Distinto il loro perimetro e coperti da un tetto, questi spazi sono luoghi aperti dove è consentito a noi e alle divinità di entrare e riempirli. Vi regna il
necessario per una cerimonia e insieme
Progettare
con il vuoto
qualcosa d’incompiuto, perché nell’imperfezione e nell’asimmetrico interviene sempre
l’immaginazione. Infatti «l’autentica bellezza – scrive Kakuzo Okakura – può essere còlta solo da chi ha con la propria mente completato l’incompleto». Per intendere il mondo degli oggetti giapponesi bisogna comprendere non solo il significato del vuoto
ma anche quello che appartiene ai materiali
che lo compongono. Bene hanno fatto,
quindi, le autrici del saggio a seguire questo
criterio per distinguere i vari capitoli. Legno, bambù, lacca, metallo, ceramica, pietra, vetro, fibre, tessuti sono i materiali della
tradizione, ma l’industria nipponica dell’arredamento impiega oggi anche plastiche rinforzate, poliestere, plexiglass, resine, e brevetta ogni genere di materiali compositi. In
particolare il legno riveste un ruolo speciale.
Come intuì Italo Calvino, «l’universo del legno» in Giappone è avvolto dal sentimento
religioso: sin dalle epoche remote, a rendere
più agevoli le ricostruzioni di case e templi
non sono solo leggerezza, flessibilità e facilità di lavorazione con le quali il legno viene
servito ai giapponesi; a esso si legano cerimonie di purificazione, come nel santuario di Ise, ricostruito da milleduecento anni ogni venti anni, o in quello di Izumo,
con l’enorme corda (shimenawa) di paglia
che dell’alto delimita lo spazio sacro. In
ognuna di queste architetture il processo
di rifacimento – spirituale e necessario –
perpetua da secoli la mutazione. Nel nuovo, infatti, pur se diverso di poco dal precedente manufatto, si compie lentamente il
cambiamento «nello stesso modo in cui si
evolvono gli esseri umani» (Hara).
La mutazione investe anche gli arredi. A
metà Ottocento l’occidentalizzazione cambia la vivibilità dell’ambiente domestico
giapponese: non più oggetti che presuppongono un uso stando abbassati o in ginocchio come tatami, cuscini (zabuton), materassi (futon) o scatole a scomparsa. L’apertura all’Occidente ha comportato la necessità
di «padroneggiare il progresso tecnico venuto da fuori – come scrisse Karl Löwith – e custodire viva al tempo stesso la tradizione inserendola nel progresso». È quel che hanno
provato a fare designer come Riki Watanabe
o Isamu Kenmochi negli anni cinquanta
con le loro sedute basse in legno o in bambù, oppure Toshiyuki Kita con il suo bollitore Cooki (2008) dalla sagoma pura e classica; o ancora Isamu Noguchi che nella lampada Akari (1951) rivisita la lanterna di carta del periodo Muromachi (XVI secolo).
Un buon numero di oggetti però resiste a
qualsiasi trasformazione dettata dall’ingerenza di industria e consumi. È il caso del
coltello da sashimi (yanagiba) fabbricato
sempre con la sua impugnatura a bastone, che dal 1792 respinge qualsiasi principio ergonomico per affermare le molteplici impugnature che l’attendono, ossia il
vuoto, come avviene anche per le cesoie
(okubo), il set da tavola in fogli di stagno
Suzugami o per cucchiai o frullini in bambù, corredo della cerimonia del tè.
Una buona parte degli oggetti elencati
nel saggio traccia «quel sottile filo che identifica l’essenza dello spirito giapponese – come scrive Menegazzo nella sua introduzione – oltre il tempo e oltre l’individualità del
singolo designer». In modo altrettanto completo però sono riportati tutti i complementi di arredo e gli articoli d’uso domestico nati da una libera rivisitazione delle forme
atemporali della tradizione. Emblematico
in questo senso è ciò che ha ispirato il frullino da tè: da una sedia in bambù (Cerimonia
de tè, Hiroki Takada) a una lampada (Chasen, Norifumi Numata). Nell’affascinante
percorso visivo che il libro offre attraverso
Arredo e design,
il mondo domestico
giapponese
fra tradizione
e progresso tecnico
l’alta qualità delle immagini e della composizione grafica (Géraldine Nassieu-Maupas) –
oggi così rara – si può cogliere, infine, un altro aspetto del design giapponese, la simulazione. Un particolare che si intuisce nei ripiani in acciaio laccato Blow di Yuki Yamamoto somiglianti a fogli di carta che sfidano
appesi la gravità, o nei tavoli Stone Garden
di Nendo simili a sassi di fiumi levigati, fino
agli abiti di Issey Miyake che con le loro raffinate pieghe fingono di essere grandi origami. L’accurata rassegna delle due studiose
offrirebbe ulteriori spunti di riflessione, ma
è evidente che oggi il design giapponese, tra
sofisticate tecniche artigianali e originali
sperimentazioni industriali, detiene un indiscutibile primato: della sua vitalità avremo
occasione di tornare a parlare.