STORIA PAESI GENTE - Valdidentro Informa

aldidentro
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S TORIA PAESI G ENTE
Lorenza Fumagalli
Manuela Gasperi
Marcello Canclini
aldidentro
V
S TORIA PAESI G ENTE
coordinamento editoriale Daniela Gurini
fotografie Giovanni Peretti
contributi di
Beatrice Bellotti, glaciologia
Remo Bracchi, toponimi
Marco Foppoli, stemma e illustrazioni
Alpinia
editrice
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Presentazione
Valdidentro, meravigliosa valle dell’alta Valtellina, il comune della Provincia di
Sondrio che con i suoi 24.000 ettari è il più grande di tutti.
L’azzurro è il colore che la contraddistingue e la fa individuare fra tutti i comuni
della Magnifica Terra, ma il verde è il colore che domina, con i suoi estesi boschi ove
prevale l’abete ed il pino e con i suoi pascoli, che d’inverno si mescola col bianco della
neve, che ammanta tutto e protegge la terra, quasi in modo intimo e materno.
Un tempo la Valdidentro faceva parte dell’antico Contado di Bormio, assieme ai
territori di Valdisotto, Valfurva e Livigno oltre che, naturalmente, di Bormio stessa.
La vita era molto dura, ma la gente della Valdidentro è sempre stata molto tenace
ed ingegnosa, ed anche orgogliosa.
Oltre al ricco apparato di fotografie che ben ci fanno cogliere l’ampiezza, la bellezza
e, si può dire, l’ariosità di questo vasto territorio ed alle numerose ed interessanti
iconografie ed immagini d’epoca, questo volume vuole illustrare la storia di questo
territorio, dai tempi più antichi agli inizi del XX secolo, e soprattutto vuole
approfondire la storia del Comune di Valdidentro, dalla sua nascita sviscerandone
tutte le problematiche che esistevano dal passaggio dei tempi autonomi dell’antico
Contado ai tempi post-napoleonici, storia che è scaturita dal nostro archivio comunale
con attente ed approfondite ricerche.
La religiosità ha sempre contraddistinto la vita delle sue frazioni, creando un senso
di appartenenza tramite le varie parrocchie, creando legami interni che sono tangibili
anche oggi. Ecco allora che viene approfondita la storia delle chiese della Valdidentro,
non solo per quel motivo ma anche per il fatto che in esse da sempre la popolazione
ha voluto lasciare tangibili segni della propria fede e della propria operosità tramite
numerose opere d’arte, spesso uscite dalle mani di abili artisti locali.
E, ancora, la gente. Il volume ci dona uno spaccato del carattere della gente di
Valdidentro, che affonda le sue radici e si è formato nei secoli passati, ci fa memoria
degli usi e costumi della popolazione di questa nostra verde valle.
Una memoria che ritengo non solo opportuna, ma necessaria. E tutto il libro vuole
avere questo spirito, questo valore di memoria. Per ciò questo libro non è solo
dedicato alle persone anziane, per fare rivivere emozioni di tempi andati, e
naturalmente a tutti i cittadini e numerosi ospiti, ma soprattutto è dedicato alle
giovani generazioni, perché dalle bellezze di questo territorio nel cuore delle Alpi, dalla
sua storia antica e recente e dagli usi e costumi della sua gente nasca e si rafforzi un
profondo amore per la propria terra, un attaccamento per i propri luoghi e per la
propria cultura che è garanzia di continuità e di salvaguardia per il territorio stesso,
che è garanzia di futuro.
Questo libro, ed il valore che rappresenta, è un dono per tutti noi.
Il Sindaco
Avv. Ezio Trabucchi
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Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Il territorio e lo Stemma
L’attuale comune di Valdidentro fu
sin dal primo Medioevo una delle
tre Onorate Valli che con il
borgo di Bormio, la
Terra mastra,
componevano il
contado
bormino.
Si può
ipotizzare
che in taluni
momenti anche la
Valdidentro, così
come le altre vallate
sorelle, abbia potuto alzare
proprie insegne distinte da
quelle del Contado. Documenti
settecenteschi ricordavano infatti
che nelle processioni religiose
potevano partecipare sia gli stendardi
delle parrocchie che quelli “laicali”
delle vicinie, se ne potrebbe dedurre
quindi l’esistenza di particolari insegne
tradizionali usate delle Onorate Valli.
Purtroppo però negli archivi nulla, al
momento, è stato rinvenuto: nessun
sigillo o immagine con l’antica insegna
della vicinia.
Ci limiteremo quindi ad analizzare lo
stemma moderno del comune di
Valdidentro che, concesso con il D.P.R.
del 26 aprile 1983, si allinea agli usuali
canoni compositivi degli emblemi civici
moderni.
Nella prima partizione ritroviamo la
raffigurazione delle celebri torri di
Fraele, baluardo fortificato
settentrionale del Contado di Bormio.
Le due torri, poste a ben 1930 m di
quota, erano infatti le sentinelle poste
sul passo che collegava la Valtellina con
la Valmüstair, l’Engadina e il
Tirolo; così ne accennava il Tuana nel
‘600:
«Da qui verso settentrione con una
salita lunga e dura, attraverso massi
enormi, scale, rocce asperrime per i
cavalieri, si apre la via verso i Reti e
Müstair attraverso il passo di Fraele,
davvero un baratro e vertiginoso per
chi non vi è avvezzo. Presso le gole a
mezza montagna e la corona di massi si
vedono oggi i ruderi di un’antica
fortezza e due torri gemelle: alcuni
ritengono che siano state erette dai
Galli».
Le stelle alludono ai
quattro principali
nuclei abitati del vasto
comune di valle:
Isolaccia, Premadio,
Pedenosso e Semogo.
La raffigurazione
della nota chiesa gotica
di San Gallo
rappresenta un altro
importante
monumento del
patrimonio storicoartistico del comune.
BLASONATURA
o descrizione tecnica araldica
Semitroncato partito:
nel 1° d’argento a due torri quadrate
diroccate di rosso fondate ciscuna su un
monte di verde movente dal fianco dello scudo
e formante un avvallamento verso la punta;
nel 2° d’azzurro a quattro stelle d’oro a cinque punte
ordinate 1,2,1;
nel 3° d’oro alla chiesa di S. Gallo terrazzata di verde con il
campanile addossato ad una montagna dello stesso.
7
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Indice
Presentazione
Lo Stemma del Comune
la Storia
13
STORIA DELLA VALDIDENTRO
13
La Valdidentro nell’antico regime prima del 1759
13
La Repubblica Cisalpina e quella Italiana dal ....al....
39
Il periodo francese (dal 1797 al 1804)
Il Regno d’Italia (dal 1805 al 1815)
APPROFONDIMENTI
Il dominio austriaco (dal 1816 al 1859)
La nazione (dopo il 1859)
Le torri pag 17
I Nomi e i Luoghi
alcuni toponimi della Valdidentro 29
Le streghe pag34
Il Palazzo Pretorio 41
I Bagni Nuovi
dalla nascita distrettuale alla privatizzazione 49
Il Pio Istituto scolastico 61
La divisione dei beni distrettuali nel 1841 67
Elenco dei beni e delle passività 67
La divisione dei boschi 70
I forni e le ferriere ottocentesche 72
I fabbriceri 82
Le strade comunali nel 1869 92
Terreni da vincolarsi in Valdidentro nel 1877 96
Gli esposti 98
I pascoli e gli alpeggi 102
Il 1900
39
43
47
77
i Paesi
119
LE CHIESE DELLA VALDIDENTRO 121
San Giovanni A Molina 121
San Gallo 125
San Cristoforo a Premadio
San Martino ai Bagni
129
133
Santuario della Madonna della Pietà
139
Chiesa della SS. Trinità di Turripiano 143
Isolaccia
145
Semogo
149
San Carlo 153
Santi Martino e Urbano a Pedenosso 155
San Antonio di Scianno, San Erasmo, San Giacomo di Fraele
165
la Gente
USI E COSTUMI DELLA VALDIDENTRO
Il carattere
173
173
Il ciclo della vita 177
La nascita e l’infanzia
177
Il fidanzamento e le nozze
191
La morte 197
Feste e usanze del ciclo annuale 201
Gabinèt
201
Il carnevale
206
La settimana santa e la Pasqua 207
Il Corpus Domini209
La Madonna dell’acqua di Isolaccia
Santa Lucia
211
213
La Stella
9
la S toria
Storia della Valdidentro
LA VALDIDENTRO NELL’ANTICO REGIME
“Vallata a Cruce Toii Intus”.
Così alla fine del ’400 veniva chiamata
la vallata che si distende a occidente
del borgo di Bormio che, con la
Valdisotto a meridione, la Valfurva a
oriente e Livigno, costituiva l’entità
politica e amministrativa denominata
negli antichi incartamenti “Communitas
Burmii”. Nei secoli che seguiranno si
preferirà a questa antica
denominazione quella di Valle di
Pedenosso o Valdidentro.
I suoi confini toccano il Comune di
Valdisotto, quello di Grosio, quello di
Poschiavo, quello di Livigno, quello di
Zernez, quelli di Val Monastero e
quello di Bormio. Nell’Antico Regime
era compresa nella Valdidentro anche
la lontana Trepalle.
Sei erano le Vicinanze che la
componevano: Semogo, Isolaccia,
Pedenosso, dette “Vicinanze di Dentro” e
Turripiano, Premadio e Molina, dette
“Vicinanze di Fuori”.
Ogni Vicinanza amministrava una
porzione di territorio (gestione dei
boschi e dei pascoli, manutenzione
delle strade e dei ponti, ripartizione
dell’acqua per l’irrigazione prativa,
suddivisione delle spese comuni o
“taglie”, ecc.) ed era presieduta da un
“anziano d’huomini”, eletto ogni anno
dall’assemblea dei vicini, ossia dagli
uomini con più di venticinque anni.
Egli era il referente del Consiglio
Ordinario (anche detto “Seduto”) di
Bormio, unitamente ai due consiglieri
di valle, uno eletto dalle “Vicinanze di
fuori” e l’altro da quelle “di dentro”.
Questi ultimi componevano, con
quattordici colleghi (quattro delle altre
due vallate e dieci di Bormio)
l’istituzione appena sopra citata,
partecipando però alla sola
amministrazione del Contado; erano
cioè esclusi, a differenza dei dieci
consiglieri di Bormio, dal Tribunale
penale. Tale esclusione cessò nel 1555,
quando un decreto delle Tre Leghe
Grigie estese anche ai sei
rappresentanti delle tre Valli (Livigno
fu sempre escluso dagli organismi
amministrativi e giudiziari) il diritto di
farne parte.
Il potere legislativo ed ogni
provvedimento straordinario erano una
prerogativa del Consiglio di Popolo
composto, sempre secondo quanto
decretato nel 1555, da centoventi
uomini, venti dei quali
nominati fra i vicini di
Valdidentro. Il numero era
però discrezionale e le
proporzioni mai rispettate
rigorosamente.
Pagina a fronte:
Isolaccia a inizio
1900, con la chiesa
del ‘500 abbattuta e
ricostruita con diverso
orientamento nel
1938.
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Croce di Toi
14
NNelle istituzioni ecclesiastiche le sei
Vicinanze, fino alla seconda metà del
XV secolo, furono parte della Pieve di
Bormio, la cui chiesa matrice o
plebana era quella dei santi Gervasio e
Protasio. A partire dal 1453 si vollero
però separare per costituire parrocchie
autonome. Fu così che in quell’anno le
tre Vicinanze “di dentro” fondarono la
cura di S. Martino e Urbano e, pochi
anni dopo, nel 1467, quelle “di fuori”
istituirono la cura di S. Gallo.
Dopo meno di due secoli inizierà il
processo di frammentazione della cura
di S. Martino e Urbano che si dividerà
in quattro distinte parrocchie: nel 1624
si costituirà la parrocchia di S.
Abbondio di Semogo, nel 1734, non
senza aspri contrasti, quella di Maria
Nascente di Isolaccia ed infine nel 1771
verrà istituita la parrocchia di Trepalle.
Didascalia
didascalia pagina successiva
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalie
16
SSul territorio di Valdidentro
correvano le due importanti strade
dell’Umbrail e di Fraele, definite nei
documenti medievali “regali”, ossia di
diritto del re, strade pubbliche per
eccellenza che nella seconda metà del
Settecento, con la carreggiabile che
portava a Serravalle e quindi in
Valtellina, si preferirà definire con
l’aggettivo di “imperiali”. La prima,
detta nel XIV secolo “via curta”, saliva
dal ponte sul torrente Campello alla
contrada di Molina, quindi ai Bagni,
per poi inoltrarsi da Boscopiano in
Forcola, scendendo a Santa Maria di
Val Monastero dalla Val Muranza. La
seconda, detta “via longa”, attraversava
Premadio per poi risalire il bosco
Arsiccio fino a fiancheggiare la piccola
contrada di Degola, raggiungeva, per
un tratto mediante scale aggrappate alla
roccia, le torri sopra le Scale,
percorreva la Val Fraele e poi dalla
Val Mora scendeva a
Valclava sempre in
Val Monastero.
LE TORRI
Le torri di Fraele, costruite nel periodo visconteo, e
precisamente nel 1391, attivando le direttive dei due
soprintendenti alla costruzione Tibaldo Marioli e Giovanni Foliani
(pagati per il loro lavoro in libbre di sale, ferro, panno e segale),
rappresentarono con le Serre dei Bagni e di Serravalle e il Castello di S. Pietro, il
sistema difensivo del Contado di Bormio.
La posizione delle stesse rendeva piuttosto difficoltoso conquistarle, anche per via delle guardie
che le presidiavano come attesta un documento del 1435.
Ancora nel 1481 il duca di Milano decise di fortificarle e chi ne
beneficiò fu un certo Diodato di Molina che tre anni dopo ottenne il
pagamento per l’opera eseguita, dal Consiglio ordinario di Bormio.
Pare probabile che nell’antichità le torri fossero molto più slanciate di
quanto lo siano oggi, come e invece sicuro che la “serra alle Scale” fu
abbattuta il 23 febbraio 1513, per ordine dei Grigioni che, dopo essersi
insediati quali dominatori nel Bormiese (1512), videro in questa rocca un
possibile impedimento futuro alla discesa delle proprie truppe.
la S toria
Fra i torrioni avanzava la strada di Fraele, anche detta “delle Scale” per la
particolarità d’essere stata costruita con traverse di legno di larice poste
orizzontalmente al versante del monte.
la S toria
Questi piccoli tronchi formavano infatti l’alzata dei gradini della
scala, mentre la pedata degli stessi era costituita dalla semplice terra
battuta.
Il primo intervento manutentivo documentato su tale
percorso risale al 1357, quando si avvertì la necessità di
transitavi con i cavalli, ma di seguito numerosi furono i
ripristini, fra cui ricordiamo quelli del : 16 ottobre 1397,
1495, 14 ottobre 1637, 27 maggio 1659 e il 1720.
Didascalie
19
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Il trasporto e il commercio furono
fra le più importanti attività praticate
nel Contado di Bormio. Per privilegio
di Francesco Sforza, dal 1450 i Bormini
ebbero infatti il monopolio sui
trasporti someggiati per i due valichi e
le entrate derivanti da questa attività
contribuirono significativamente alla
loro ricchezza. Le merci più
commerciate erano il vino ed il sale: il
primo acquistato senza dazio in
Valtellina fino a 1500 plaustri (ogni
plaustro corrispondeva a circa 760 l.), il
secondo, che permetteva il ritorno con
le bestie da soma sempre cariche ma
avvantaggiate da gabelle ridotte, veniva
acquistato nelle saline di Hall, poco
lontano da Innsbruck in Austria.
Un’altra risorsa di non poco conto
U
era quella dei pascoli, che, oltre a
permettere di estivare il bestiame
locale, consentivano di ottenere
rilevanti entrate affittandoli ai pastori
detti “tesini” (da Tesin, nome del fiume
Ticino, da cui provenivano le greggi e
in seguito utilizzato indistintamente
per identificare tutti i pastori
forestieri).
Didascalia
Didascalia
20
Alcuni di essi erano gestiti dalla
Comunità, mentre altri venivano
assegnati alle Vicinanze che affittavano
quelli sovrabbondanti, incassando in
tal modo parte del denaro necessario
per le spese collettive. Essendo una
risorsa di non poco conto, la
Comunità tendeva a riservarseli per far
fronte alle spese generali, divenendo
spesso oggetto di rivendicazioni e
proteste. Si giunse ad una definitiva
soluzione del problema a partire dai
primi anni del ’600 quando si
assegnarono i pascoli
proporzionalmente ai capi di bestiame
che si potevano svernare. Fu in questo
quadro che si aprì uno
la S toria
spinoso contrasto in Valdidentro tra le
Vicinanze “di dentro” e quelle “di
fuori”che si concluse con l’arbitrato
presieduto dal notaio Francesco Viviani
di Livigno, da mastro Giacomo
Romani di Molina e da Antonio
Trabucchi detto Cottol di Semogo.
Con la conclusione di tale vertenza l’11
gennaio 1619 si definì la cosidetta
“divisione Sermondi”, già abbozzata
negli anni precedenti, che prese il
nome dal notaio Leoprando Sermondi
che la stipulò.
didascalia
didascalia
21
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
IIn Valdidentro, accanto
all’agricoltura e alla zootecnia, si
coltivarono sin dai primi secoli del
millennio appena trascorso le miniere
di ferro della val Vezzola, della val
Fraele e di Pedenollo. Il primo forno
fusorio di cui vi si ha memoria fu
quello dell’Al (anticamente detta Val di
Semogo), che utilizzava la vena ferrosa
proveniente dalla val Vezzosa e
precisamente dalla località ormai quasi
dimenticata del “Mot dela Fereda” (si
ricordi a tal proposito che “Fereda”
significa appunto “miniera di ferro”).
Resta comunque ad oggi il sentiero
dei trasportatori del minerale che
dall’Al, per Pozzagliera e Brancon,
raggiunge la val Vezzola e quindi
costeggia i pascoli sopra Plator fino alla
miniera ormai nascosta e sommersa dai
detriti.
Il forno di Semogo è descritto nel
1272 in un antico repertorio di
documenti e percorrendo l’Al sono
ancora visibili, anche se trasformati e
destinati ad altri usi, edifici che si
sviluppano molto in altezza e che
furono probabilmente opifici per la
trasformazione della ghisa in ferro
malleabile. L’antico forno fu
abbandonato dopo che si costruirono
gli altiforni di Tort in valle di Livigno
nel 1332 e, qualche anno di sehuito, il
forno di Cazzabella, nella località
ancora esistente detta Gras del Forn,
oltre il valico di S. Giacomo.
Quest’ultimo fu smantellato dopo che
una straordinaria figura di
imprenditore, Vasino Muggi detto
Gratta, costruì nel 1548 il forno in
località Presuraccia in val Fraele.
la S toria
L’attività siderurgica richiedeva un
notevole consumo di legna da
trasformare in carbone e nei boschi di
Valdidentro si incontrano spesso le
tracce di questa attività: si tratta di
spiazzi circolari del diametro di cinque
metri e più, composti da terriccio
nero, dove si preparava il “pojat”, ossia
la catasta di legna che dopo una lenta
combustione generava un carbone che,
per essere di qualità, doveva avere
riflessi argentei ed un suono, al tocco,
quasi metallico.
Un altro tipo di attività che
richiedeva, oltre al materiale idoneo
(rappresentato in questo caso dalla
pietra calcarea) anche un notevole
consumo di legna, era la produzione
di calce. Le fornaci per la cottura delle
pietre si trovavano un po’ ovunque,
ma particolarmente apprezzata perché
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
priva di “grep”, cioè di parti che non
cocevano, era la calce prodotta nella
località anticamente detta Ponte di
Turriplano ed oggi Sughet: un decreto
del Consiglio di Bormio del 1445
autorizzava la costruzione della fornace
e stabiliva il prezzo del prodotto, allora
venduto a “bena”(piccolo carro a due
ruote con cassa di legno), e il
“boscatico”, ossia la gabella spettante al
fisco per il consumo di legna.
SSul territorio di Valdidentro
didascalia
24
scaturiscono anche le acque termali
che in tempi remoti costituirono la
“fama loci” di tutta l’ampia conca che
prese il nome di Bormio da un remoto
‘bhor’, nel significato di “caldo”,
riferito appunto alle acque che
sgorgano dalle rocce sopra le forre del
fiume Adda. Esse furono inizialmente
utilizzate per fini curativi, ma si
associarono anche ad attività ludiche e
ricreative tanto da poter dire che i
Questa pagiana
pagina successiva
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Bagni di Bormio furono gli antesignani
dell’attuale diffusa attività turistica.
Altre acque, a cui credenze ancestrali
attribuivano poteri medicamentosi e
rigenerativi straordinari sgorgano in
Valdidentro: sono le fonti dette “di san
Carlo” che scaturiscono a Prei, al
Bosco del Conte e poco sotto i Bagni
Vecchi.
Nel corso dei secoli questa valle fu
N
didascalia
molte volte percorsa e devastata da
eserciti e soldatesche. Curioso quel che
si racconta in una cronaca seicentesca a
proposito della località di Camplöng in
val Fraele: in quel luogo un esercito
ariano pare fu sconfitto dai Cattolici ai
tempi di Teodosio (379-395), ed è
alquanto singolare la credenza che
voleva non potesse più sbocciare
nessun fiore in tal luogo, che invece
vedeva affiorare le ossa dei soldati che
lì persero la vita.
Se il racconto appena esposto ha
qualcosa di leggendario, è invece certo
che, nel 1376, il giorno di S. Andrea,
entrarono dalla val Verva, dopo aver
risalito la val Grosina, aggirando in tal
modo le allora inespugnabili
fortificazioni di Serravalle, le milizie di
Galeazzo Visconti, guidate da Giovanni
Cane, le quali misero a ferro e fuoco
tutto il Contado, “tam in montes
quam in plano”.
Nel quadro della Guerra dei
Trentanni, la Valtellina e i Contadi di
Bormio e Chiavenna furono campo di
battaglia degli eserciti spagnoli,
francesi, grigioni e svizzeri.
La Valdidentro fu invasa il 2
settembre 1620 dalle truppe svizzere e
grigione penetrate da Livigno, le quali
sfondarono senza fatica le resistenze
che si erano concentrate tra
Piandelvino e Sughet (località con
nome derivante dalla corruzione dal
28
la S toria
Seguirono crudeltà inimmaginabili.
Qualche anno dopo la Valdidentro fu
di nuovo teatro di orribili massacri,
compresi quelli effettuati su donne e
bambini, perpetrati il 14 giugno 1635
dalle truppe dal barone di Fernamont.
Infine la val Fraele fu campo di
battaglia, il 31 ottobre, tra l’esercito
imperiale e quello francese guidato dal
duca di Rohan che, con geniale
strategia, sconfisse miseramente e
costrinse ad una umiliante ritirata dalla
val Mora i tedeschi che combattevano
per la Casa d’Austria.
dal soprannome di un certo Francesco
Marni detto Sughet di Isolaccia - che
nel 1617 ottenne di poter costruire una
segheria nella località precedentemente
chiamata Ponte di Turripiano) nella
“trinciera” che si costruì per
fermarne l’avanzata.
didascalia
I NOMI
E I LUOGHI
ALCUNI TOPONIMI
DELLA
VALDIDENTRO
di Remo Bracchi
Arnoga
Il Rohlfs propone, come per Arnate,
Arnasco ecc., una derivazione comune dal
nome personale celtico *Arn(i)os (DTL 62).
Data la sopravvivenza nel nostro territorio
dell'ant. cep. àrna «capanna di pastori», è forse
da preferirsi la partenza da una base prelat. *arna «concavità,
anfratto tra le rocce» (LEI 3.1,1340; Bracchi, Aevum 57,481). Negli
Statuti boschivi di Bormio troviamo però la variante Renoga (cap. 57),
che si ripete in tutta la documentazione successiva più antica. Sembra perciò
da preferirsi una derivazione dal celtico *renos «torrente, corso d’acqua», con un
suffisso caratteristico dello stesso sostrato linguistico.
29
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Cancano
Come rivelano le grafie antiche, che si presentano ripetutamente nella forma
Campcan(o) o simili, il toponimo deriva dal sintagma lat. campus canus «campo
bianco». Probabilmente è stato così battezzato in un periodo di innevamento. La
valle di Fraele doveva essere percorsa già in tempo molto antico sia per la facilità
che offre al valico, sia per la presenza di ferro nei massicci che la circondano.
Cardoné
Il suffisso -é è caratteristico dei collettivi di nomi di piante, arbusti o erbaggi.
Il nome locale deriva dunque da cardoneto «località nella quale abbondano i
cardi”, in dial. cardón.
Didascalia della foto
qui sotto
Fraele
Il friul. Fraelacco, nelle grafie del sec. XIV Frayelaco, Freyelaco,
Fragellaco, nel dial. locale Freelà, viene interpretato come un prediale,
un derivato cioè dal nome del primo colono o proprietario romano,
che doveva essere un Fricellius o Fircellius o
Fregellius. Un appellativo comune fraèl dal
lat. fragellum variante tarda di flagellum
«correggiato per battere il grano» si
riscontra all’intorno, ma non a Bormio. In
questo caso si dovrebbe forse presupporre
l’intermediazione di un soprannome.
Isolaccia
Dal lat. tardo *i(n)s?lacea «brutta isola». Il
primo nucleo di case è sorto entro la
lingua di terra dove il torrente Scianno si
incontra con il Viola, e il luogo di
insediamento poteva facilmente offrire
l'immagine di un segmento di terra
ritagliato dalle acque.
Pedenosso
In territorio di Oga troviamo il
toponimo Pedenale, che sembra
contenere la stessa base, completata con
un suffisso diverso. Nell’inventario dei
beni del monastero di Sant’Abbondio
in Bormio del 1316 l’appellativo
conserva ancora un’accezione comune
di «ripa, scarpata»: coheret... in parte
pedenale... a sero pedenale seu ripa.
Forse dal lat. pes, pvdis «piede», nel
senso di «pendio», con un suffisso
come in val-éna. Tanto il suffisso -éna
quanto -òs sembrano di origine
prelatina, ma probabilmente sono
rimasti vitali anche nei secoli
successivi alla romanizzazione.
30
Piandelvino
Tutta la documentazione antica fino almeno al sec. XVII è
concorde nel trascrivere il toponimo nella forma Plano
Albino o simili. Si deve dunque escludere l’etimologia
popolare che vorrebbe collocare nel piccolo nucleo ai piedi
delle torri di Fraele fantomatiche cantine per la
maturazione del vino. Difficile resta comunque
l’interpretazione di Albino, se debba essere raccostato al lat.
albus «bianco» o a un (sopran)nome personale.
Platòr
Un altro Platòr designava una serie di prati a Morignón a
est delle case del Mót, spurgati dal petrame di alcune frane
staccatesi dalla Val Màla. Come si ricava dagli Statuti
boschivi in riferimento alla località della Valdidentro, il
nome deriva dalla locuzione latina in sumbo pratorum «alla
sommità dei prati». Dopo la perdita dei primi segmenti, c’è
stata dissimilazione delle due r-r in l-r.
Premadio
In origine si tratta di un composto dal sintagma lat. pratum
maius «prato maggiore», probabilmente per designare
un’estensione erbosa più grande di quelle riscontrabili
all’intorno. La d, che non è presente nella forma dialettale
Premàio Permài, rappresenta un’epentesi secondaria.
Scale
Dalla conformazione a «gradinata» di qualche tratto del
pendio che sale verso la cima. Dal lat. scala «scala», con
specializzazione geonomastica «serie di balze».
Semogo
Un’antica variante Samòch potrebbe accreditare la
derivazione dal celt. *samos «estate», nel senso di «pascolo
estivo», riportandosi ai tempi che precedono una
colonizzazione permanente del territorio. In direzione
della Val Viola incontriamo Altoméira, che potrebbe
derivare dal lat. *autumnaria «pascoli d’autunno».
Trèla
Nome probabilmente risalito dalla Val Grosina. Nel
dialetto di Grosio tréla designa il «casello per la
conservazione del latte e l’affioramento, costruito in
muratura a secco sopra sorgenti o corsi d’acqua sui
maggenghi e gli alpeggi», forse da una base prelatina
*turra «monticello di terra». Le costruzioni più
antiche erano seminterrate e ricoperte di zolle
erbose (DEG 914; DTL 546; BSSV 15,100).
Val Lia
Dalla falsa scomposizione di un appellativo anticamente unitario, derivato da
una formazione aggettivale valliva «appartenente alla valle, conformata a
valle». La caduta della v intervocalica era un tempo assai più accentuata nel
nostro territorio.
la S toria
Val Viola
La grafia antica è costantemente Albiola, termine che ricalca una
formazione femminile parallela al lat. alveolus «piccolo alveo»,
probabilmento in riferimento agli inghiottitoi del fiume.
Vezzola
In dialetto locale li Esòla. Nel Quaternus alpium dell’anno 1309
leggiamo: usque ad plazum Sexevrum, et inde a dicto plazo ferit ad
ayralle quod dicitur ad ymas Assollas. Negli Statuti boschivi e nei
documenti successivi il toponimo appare generalmente preceduto
dall’articolo femm. la, che potrebbe derivare dalla falsa
segmentazione della sillaba iniziale. In tal caso non sarebbe del
tutto impensabile partire dal lat. lapideus «di pietra», con
l’aggiunta del suffisso dimin. -ola. Il toponimo potrebbe essere
nato in relazione a qualche cava di pietra utilizzata nella
costruzione di laveggi o anche per altre destinazioni (Bracchi,
BSSV 51,52).
Didascalia della foto
qui sotto e della
pagina a fronte
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
AAlle miserie derivanti dalla guerra si
aggiunsero in quegli anni efferatezze e
atrocità dettate da credenze che
avevano le loro radici nella notte dei
tempi. Con la peste che incombeva e
che aveva infettato le regioni limitrofe,
si deliberarono ordini e misure di
grande severità per evitare ogni
contatto con le popolazioni finitime,
ma un giovane di Isolaccia eluse ogni
controllo e si recò in Engadina per
consultare un maliardo di grande fama,
dopo che la moglie si ammalò di
“strana infirmità”. La causa fu
attribuita alle malie di tre streghe e
questa accusa scatenò una delle più
feroci cacce che il Contado di Bormio
abbia conosciuto. In una prima fase,
quella dell’autunno 1630 ci si accanì
esclusivamente con gli indiziati di
Pedenosso, di Isolaccia e soprattutto di
Semogo; le indagini si estesero poi, nei
due anni seguenti, a Livigno.
LE STREGHE
Il Bormiese conobbe la
sua prima caccia alle streghe nel
1483, quando le inquisite
venivano condannate vive al rogo
con “l’imputazione religiosa” d’essere al
servizio del diavolo e conseguentemente
rinunciatarie a Dio.
Questo atteggiamento, che si schierava a
favore della liberazione dal male, provocò
l’uccisione di ben 41 streghe nel Contado di
Bormio, che s’immaginava per credenza si cibassero
di cadaveri di bambini preferibilmente non
battezzati.
Il Tribunale di Bormio richiamò nuovamente gli
inquisitori nel 1519 e la seconda caccia alle streghe
fu aperta.
Molte furono le condannate, tanto che lo scritto
di un tedesco le annovera a ben 300.
Il loro ultimo viaggio partiva dalla piazza del
Kuerc di Bormio, su cui s’affacciava Palazzo Pretorio
contenente le carceri (marza), per terminare in località “la giustizia” (fra Premadio e
Bormio) dove attendeva un falò che volutamente era pubblico.
I Grigioni, divenuti padroni del Bormiese nel 1512, con decreto emanato nel 1557
impedirono l’entrata sui territori Valtellinesi agli ecclesiastici e per questo motivo le seguenti
cacce alle streghe non si avvalsero di tribunali ecclesiastici, ma bensì di giudici civili.
Ogni carestia, terremoto, frana, alluvione, etc. richiedeva un colpevole e questo portò spesso ad
identificarlo “con la strega”; come accadde durante la peste del 1630 che falcidiò la popolazione dell’Italia
34
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
del nord, risparmiando miracolosamente la Comunità di Bormio, che comunque viveva
nell’angoscia e nella paura, costituendo il substrato ideale per far scattare una nuova ondata
di stregoneria.
La cattura di una presunta strega doveva ottenere la confessione della vittima (che
generalmente avveniva sotto tortura) per poter procedere all’uccisione della stessa, previa
decapitazione e successiva bruciatura.
Spesso questa confessione attivava una cattura a catena; ogni strega ammetteva infatti
di aver ballato ai sabba con altre streghe, di aver operato malefici in gruppo, di aver
avuto maestre nell’utilizzato di erbe allucinogene o nella pratica della triturazione delle
ossa di bambini già morti per comporre unguenti, o ancora d’essere state istruite sui
gesti e sulle formule da compiersi o sull’educazione magica per diventare lupi, capre,
o altro.
I nomi di altre persone erano fatte e con questi s’attivava la procedura della
cattura e susseguentemente, quasi per tutte, dell’uccisione.
Se fortunatamente le malcapitate riuscivano a fuggire prima dell’arresto, esse
venivano bandite a vita dal territorio quali “ree confesse” e mai avrebbero potuto
rientrarvi previa uccisione senza processo.
Ancora fra il 1645 e il 1650 i roghi furono più volte accesi, ma dopo tale
data si assistette all’intervento del
Vescovo che tentò di frenare il
fenomeno, stabilendo un
atteggiamento contrario a quanto
era accaduto fino ad allora.
Nel 1675 però altre 37
persone furono giustiziate, e su
di esse venne cercato il “bollo
del diavolo”, corrispondente ad
un neo, una cicatrice, una
macchia scura o altro, che
potesse confermare
l’appartenenza della donna, o
dell’uomo, al diavolo.
didascalia foto grande
Dieci anni dopo i Gesuiti
istituirono il confortatorio,
ovvero un locale sito presso
Palazzo Pretorio, dove i
predestinati a morte
potevano ottenere
conforto, la sera
precedente all’esecuzione.
L’ultima strega del
Bormiese condannata a
morte fu, nel 1715,
Elisabetta di Oga.
36
Se la pestilenza del 1630 lasciò illese
le popolazioni del Bormiese, quella
iniziata nel 1635 ne decimò invece gli
abitanti e, se Semogo vide salire molti
suoi abitanti sul patibolo per reati di
stregoneria, fu invece preservato dal
micidiale contagio, tanto che, per
esempio, la riunione del Consiglio
Ordinario del 25 agosto 1636 si svolse
“nella Valle di Pedenosso, nei campi di
Lirun, vicino a Semogo, loco eletto a
preposito per essere la Terra di Bormio
et quasi tutte le altre Valli intacate di
contagione”. In quell’anno si iniziò in
località Arsure la costruzione della
chiesa intitolata ai santi Rocco,
Sebastiano e Carlo per adempimento
di un voto a protezione della peste.
la S toria
didascalia foto piccola
la S toria
IL PERIODO FRANCESE (DAL 1797 AL 1804)
LA REPUBBLICA CISALPINA
E QUELLA ITALIANA
Sul finire del 1797, dopo la vittoria
delle armate repubblicane capitanate da
Napoleone Buonaparte, la Communitas
Burmii intraprese un’alleanza “emotiva”
con i Valtellinesi e, per la prima volta
nella storia insieme difesero le rispettive
istituzioni democratiche, seppur
dissimili fra loro.
Nonostante l’intervento illuminato
di personaggi colti quali i deputati
Crespi e Bruni e il teologo Bardea,
chiamati in causa per riottenere la
libertà amministrativa, il proclama
francese fu comunque redatto,
stabilendo l’annessione dell’intera
regione valtellinese alla Repubblica
Cisalpina.
La Valtellina, la Valcamonica,
Bormio e Chiavenna divennero così
Province, abbandonando statuti,
privilegi e normative proprie e
accettando di buon grado Sondrio
quale capoluogo del Dipartimento
dell’Adda e dell’Oglio di cui esse ormai
facevano parte (fatta esclusione per
Chiavenna che si unì al Dipartimento
del Lario).
dimenticare la regolamentazione
amministrativa e quella giudiziaria.
Bormio e le sue Valli, dall’antichità
esonerate da gabelle, dazi e bolli, furono
così fortemente provate
dall’introduzione di una pesante
tassazione basata principalmente sul
dovuto richiesto per la redazione dei
documenti, sulla privativa del sale e dei
tabacchi e sul bollo per la formulazione
dei contratti.
In questo difficile periodo anche gli
scontri amministrativi interni agli enti si
fecero più duri e fra questi riaffiorò la
vertenza, apparentemente sedata alla
fine del XVIII secolo, fra le Vicinanze di
Premadio, Turripiano e Molina.
Esse trovarono un accordo sulla
modalità di divisione dei debiti e degli
introiti derivanti dall’affitto delle
montagne ai pastori, solo dopo
l’intervento del parroco Giacomo
Silvestri l’11 agosto1800, che stabilì di
dida
Pagina a fronte
L’organizzazione territoriale della
Repubblica era allora suddivisa in
Dipartimenti, regolati e gestiti da
Prefetti, sotto questi stavano i Distretti
capitanati dai loro Vice - Prefetti e ancor
sotto i Comuni retti dal Podestà o dai
Sindaci, affiancati da savi o consiglieri.
Il compito primario di questo nuovo
governo fu occuparsi dell’ordinamento
fiscale per ottenere il massimo del
reddito possibile, senza però
39
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
ripristinare la tradizione, suddividendo
benefici e obblighi economici in due
parti distinte: una competente alla sola
Premadio e l’altra condivisa fra le due
restanti Vicinanze.
Sempre nell’intento di ricercare
finalità economiche vantaggiose, anche
le chiese vennero private, e più volte
saccheggiate, d’oro, argento, paramenti
preziosi e gonfaloni che, dopo essere
stati venduti, impinguarono le casse
centrali governative milanesi, casse che
già si erano indebitamente arricchite
con la “Confisca Reta”, sottraendo
scorrettamente gli introiti spettanti alla
Prefettura di Sondrio.
didascalie
40
Per questi abusi e per il sovente
mantenimento di ingenti truppe
francesi e cisalpine da parte dei
Comuni dove essere risiederono, la
Costituzione della nuova Repubblica
Cisalpina fu subita, più che condivisa,
dalle popolazioni dell’Alta Valle.
la S toria
Il 14 giugno 1800 la vincita di
Napoleone sugli Austriaci a Marengo,
seguita dalla pace di Lunéville l’anno
seguente, determinò l’inizio della
seconda fase repubblicana (conclusasi
nel 1805) che darà vita al nuovo assetto
territoriale italiano.
Bisognerà però attendere fino al 21
gennaio 1802 per veder pubblicata, in
128 articoli, la nuova Costituzione della
Repubblica Italina che si sostituirà a
quella Cisalpina.
I territori continueranno comunque
ad essere divisi in Comuni, Cantoni o
Distretti e Dipartimenti, e il circondario
di Bormio acquisirà Sondalo, Grosio e
Grosotto.
Anche la Valdidentro entrerà nella
neonata Vice Prefettura circondariale di
Sondrio, portando con se un credito
pari a 49215,10 lire, dovutole per l’
affitto non riscosso dell’osteria
d’Ombraglio, incendiata e distrutta nel
1800 dalle truppe militari francesi, per
l’ affitto dell’osteria e delle case dei
Bagni nel periodo compreso fra 1798 e
l’inizio dell’800 e per i proventi fiscali
quali: dazi, dazi di consumo detti “ bazi”
e tassa sulla caccia, di cui la precedente
Repubblica Cisalpina si era
inopportunamente appropriata.
reclute, più volte chiamate a rispondere
dell’indisciplinato atteggiamento
assunto d’innanzi alla Pretura di
Tirano, dove era stato trasferito il
Tribunale alla fine del 1803,
attivando un decreto
sottoscritto da Ragazzi.
didascalia
IL PALAZZO PRETORIO
Una delle maggiori prerogative
E’ di questo periodo l’istituzione
dell’indipendenza del Contado di
del servizio militare obbligatorio,
Bormio, sciolto nel 1797, fu
l’opportunità di possedere un proprio
detto “Coscrizione”, malvisto
Tribunale
civile e penale, sito all’interno di
un po’ ovunque ma con più
Palazzo Pretorio, oggi sede della Comunità
determinazione nel
Montana Alta Valtelllina.
Bormiese, che fu
costretto ad
Questo privilegio svanì con l’entrata di Napoleone
negli alti territori Bormiesi, dopo l’emissione del
assistere alla
regolamento Ragazzi redatto il 29 novembre 1803.
diserzione in
massa
Il Mandamento d’allora risultò sprovvisto di una propria Pretura
delle
locale a vantaggio di quella Tiranese.
sue
Fortemente indignati per questo atteggiamento, considerato invadente e
restrittivo, un gruppo eletto di undici valenti cittadini Bormiesi inoltrarono
alcune suppliche alle autorità competenti, ottenendo soddisfazione solo il 18
gennaio 1804 quando il Segretario centrale Riva, dopo aver brevemente comunicato
41
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
“le motivazioni che portarono a disfarsi
dell’ufficio pretoriale di Bormio negli anni
precedenti”, promise “un attento
ripensamento sul ripristino della locale
giudicatura”, sostituita provvisoriamente in
loco dalla sola figura del Conciliatore, come
voleva la legge dell’11 luglio 1801.
La Pretura tornò quindi ad insediarsi nel
fabbricato Pretorio dal 1818 e li rimase fino
al 1964.
Il ballottaggio fra Distretto e Governo in
cui incorse questo palazzo nel XIX secolo,
iniziò con la vendita effettuata dal
Mandamento di Bormio al Regio Governo
nel maggio 1825 (non accettata fino
all’anno seguente dalla sola Valdidentro ,
che trovava inopportuno pagare un
contributo pari a 1/5 delle 1203 lire
richieste per l’obbligatoria manutenzione
precedente la vendita), si accrebbe con
l’atto del 16 aprile 1882, che vedeva lo
stesso Mandamento di nuovo proprietario
di un primo locale all’interno
dell’immobile, per concludersi
definitivamente con il riacquisto
complessivo dell’intera residenza da parte
del Circondario Bormiese il 21 agosto
1886.
didascalie
Quest’ultimo atto, rogato dal notaio
Giuseppe Tuana di Grosotto, sottolineò il
danno subito dal Mandamento che, fra la
vendita al Governo e il successivo
riacquisto dello stesso, perse ben 5000
lire.
Dopo il 1911, con contratto di
locazione stipulato dal Sindaco di
Bormio Pietro Rini, oltre alla Pretura,
alle Carceri mandamentali e al Genio
Civile, vennero introdotti nell’edifico
anche l’Ufficio di Registro e l’Agenzia
delle Imposte e delle Tasse.
42
la S toria
IL REGNO D’ITALIA (DAL 1805 AL 1815)
Il 15 aprile 1805 Napoleone I° fu
proclamato re d’Italia e i Prefetti
ordinarono l’immediata l’eliminazione
del titolo di Repubblica e l’attivazione
del Codice napoleonico.
Questo avvenimento fu celebrato
anche a Bormio, centro mandamentale
del territorio, con la lettura del
manifesto nella piazza principale del
paese al suono della bajona.
La maggioranza della popolazione
non gradì comunque partecipare a tale
ricorrenza e i pochi intervenuti
ostentarono scarso entusiasmo.
Ancora una volta si pensò infatti di
rivolgere una supplica al re, confidando
di riottenere gli antichi privilegi e la
diretta gestione del fisco, come
accadeva precedentemente alla
Repubblica Cisalpina; sotto
quest’ultima infatti il Bormiese incorse
nella completa decadenza dei
commerci, nella diminuzione della
popolazione, soprattutto nelle Valli e
fra queste maggiormente nella
Valdidentro (che contava allora sole
912 unità), nella devastazione prodotta
dalle ricorrenti guerre, e nell’inevitabile
povertà dell’intero Distretto, che non
potendo beneficiare di entrate proprie,
dovute per legge al solo governo
centrale, scivolò verso la più misera
disperazione.
1804 e il 1805, ben 72 risultarono i
calzolai, i cappellai, i negozianti, i
cocchieri e gli scodellai che richiesero il
visto d’espatrio, concesso
indistintamente ad ognuno per uno o
due anni consecutivi.
Solo tre anni più tardi l’ingegnere
Ferranti ottenne l’incaricato dalla
Direzione Generale delle Acque e
Strade per redigere una relazione sulla
transitabilità dei percorsi dell’Alta Valle
e fra le strade che ottennero maggior
attenzione, quella di Fraele risultò la
più studiata, tanto da scomodare lo
stesso Prefetto Ticozzi, che la voleva più
comoda e ampia sul versante di
didascalia
Fu proprio in questo periodo povero
e buio che alcuni cittadini tentarono la
sorte emigrando nel Bresciano, a
Chiari, nel Trentino, in Valtellina, a
Domaso, a Vienna, a Nizza, in
Germania, in Svizzera, nel Tirolo, in
Valcamonica ed anche a Roma.
Dall’elenco trasmesso alla Vice
Prefettura di Sondrio, a cavallo tra il
43
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Valdidentro e meno scoscesa verso la
piana di Cancano.
Se svanì però la possibilità di
ripristinare questa via per mancanza di
fondi, molto più grave fu ciò che
accadde nello stesso anno all’intera
Valtellina.
Essa fu più volte coinvolta da
tumulti e disordini scatenatisi nelle
zone confinanti del Tirolo meridionale,
che portarono gli insorti capitanati da
Andrea Hofer a combattere (dopo la
pace di Presburgo che aveva tolto
all’Austria il Veneto e la Dalmazia a
vantaggio del Regno italico).
dida
Caddero sotto le loro armi, una
dopo l’altra, le postazioni valtellinesi di
Albosaggia, Montagna, Caiolo,
Boffetto, Piateda , seguite da Teglio,
Villa, Tirano e, nel maggio 1809, anche
da Bormio.
Più restie furono invece Valdidentro,
Valdisotto e Valfurva che
determinarono, sostenute dallo
scontento Bormio, l’abbandono dei
territori da parte dagli insorti, spesso
“saccheggiatori ed avvinazzati, resi folli
dai facili successi militari ottenuti”.
La ritirata dei sovversivi si espanse
poi a macchia d’olio per merito delle
vittorie ottenute da Eugenio
Napoleone e nel luglio 1809 il segno
tangibile di ripresa del Regno italico si
notò nell’emanazione del sistema
tributario del “Dazio – consumo”, che
sostituì le antiche licenze coattive con
quelle libere, su cui però era imposto il
pagamento del diritto fisso.
Il Bormiese, nuovamente contrariato
si ribellò all’introduzione di questa
normativa, stabilendo la chiusura dei
propri esercizi in segno di protesta;
questo duro atteggiamento ottenne la
sospensione del dazio.
44
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Nel 1813 gli austriaci insorsero in
Valtellina e nell’aprile 1814 Napoleone
abdicò firmando l’armistizio con
l’Austria.
Bormio e le sue Valli tentarono con
caparbia la carta dell’annessione ai
Grigioni, augurandosi di poter divenire
la IV Lega Grigia; il risultato finale fu
invece l’annessione al Veneto e alla
Lombardia, che preventivarono per la
Valdidentro la suddivisione fra
Isolaccia e Semogo da una parte e
Premadio, Pedenosso e Fraele dall’altra.
Questa ipotesi di frammentarietà
territoriale non fu comunque
confermata dall’Imperial Regia
Delegazione Provinciale, che approvò
un unico Comune costituito da
Isolaccia, Pedenosso, Molina, Semogo,
Premadio e Turripiano, assegnando
Trepalle alla vicina Livigno.
didascalia
46
la S toria
IL DOMINIO AUSTRIACO (DAL 1816 AL 1859)
Il primo ventennio che seguì il
Congresso di Vienna (che definì sulle
valli dell’Adda il dominio austriaco), fu
cupo, povero e contrassegnato dalla
disoccupazione.
Non esistevano ad allora ormai più
commerci, sovente le carestie (come
quella del 1817) affamavano la
popolazione, i nobili erano decaduti e
la rigida legislazione austriaca, che pose
fine alle numerose diserzioni militari,
privando con l’obbligo del servizio di
leva, la “terra” e l’agricoltura di robuste
e giovani braccia, insinuò
inevitabilmente in questi luoghi: ozio,
ubriachezza, corruzione e
vagabondaggio.
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
didascalia
48
AAnche i Bagni Vecchi, detti di San
Martino, risentirono di questo negativo
atteggiamento diventando un luogo
“frivolo, licenzioso” e altamente
dispendioso per le casse comunali;
quest’ultima fu la motivazione
principale che indusse il Comune di
Valdidentro prima e l’intero Distretto
poi a deliberarne la vendita nel 1820;
vendita che venne riproposta sei anni
dopo per la mancanza di acquirenti che
mal si rapportavano all’esagerata
richiesta economica, alla sopraccitata
dequalifica dello stabile e soprattutto
all’incertezza derivante dalla scomparsa
dell’acqua calda del “bagno superiore”
fra il gennaio e l’aprile del 1822 (fatto
che si ripresentò identico nel 1843).
Si pensò quindi di ricorrere alla
locazione dello stabile per ottenere
almeno un’entrata sicura, attivando
una lunga serie di contratti triennali e
novennali, controfirmati per
accettazione dall’affittuario Antonio
Helzer.
Nel 1828 si decise inoltre di costruire
l’imponente complesso dei Bagni Nuovi,
sperando in tal modo di risanare gli
ammanchi delle “vecchio terme”. L’ atto
d’inizio lavori, per problemi logistici,
scivolò però all’anno successivo e lo
stabile fu ultimato nel 1836.
L’anno seguente si procedette
all’edificazione di un nuovo “braccio di
fabbricato” che conteneva l’oratorio, le
vasche marmoree e la stufa per asciugare
velocemente la biancheria, ma il
Distretto schiacciato da ulteriori e
gravosi debiti, fu costretto a proporre
quale unica soluzione possibile
l’approvazione del “progetto di libera
vendita o di contratto livellario”
sull’intero edificio, garantendo quale
scelta conclusiva quella che si fosse
rivelata maggiormente remunerativa.
la S toria
Il problema, non ancora risolto, si
ripropose con più determinazione nel
1839, con l’affitto di entrambi gli
immobili ad Helzer (verso cui il
Distretto aveva intentato una causa per
la mancata manutenzione di alcuni
tubi di piombo), che locò gli stessi
fino al 1858, quando
I BAGNI NUOVI
definitivamente si concluse la
DALLA NASCITA
sofferta vendita alla Società
DISTRETTUALE ALLA
Le Prese.
PRIVATIZZAZIONE
I BAGNI DISTRETTUALI
Nel 1828 si propose la costruzione dello stabilimento termale dei Bagni Nuovi
in aggiunta a quello esistente dei Bagni Vecchi, che venne risparmiato dalla
demolizione del 1205 (unitamente alla “chiesa di S. Martino e alle case vicine”), per
volere di un articolo introdotto nella pace fra Comaschi e Bormiesi.
Il progetto di questo nuovo complesso impose da subito tre difficoltà, la prima consisteva
nell’identificare il territorio su cui posizionarlo (problema risolto nel 1829), la seconda fu lo
stabilire come far giungere le acque fino in quel luogo e la terza il capire come aggirare
l’impossibilità di servirsi di una vera strada (che fu costruita e successivamente collaudata nel 1836).
49
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalie
Chi si contese il diritto di progettare l’opera grandiosa dei Bagni furono gli ingegneri
Ferranti e Donegani e nel 1832 (dopo la vincita di quest’ultimo), l’appaltatore della
costruzione Luigi Lambertenghi riuscì ad accumulare una cauzione ipotecaria sufficiente
per permettere l’inizio degli scavi.
Molti furono i disboscamenti effettuati
dal Distretto di Bormio per recuperare i
fondi necessari alla fabbricazione e non è
da sottovalutare neppure il prestito
concesso dall’amministrazione distrettuale
dal Pio Istituto scolastico di Bormio.
Nel 1835 si completarono i rustici di
servizio attigui al corpo centrale e nel 1836
si provvide al collaudo definitivo dello
stabile e alla sua inaugurazione.
Nel frattempo i Bagni Vecchi
continuavano ad essere locati seguendo le
linee guida dei contratti triennali e
novennali del 1801, 1821, 1829, etc. e al
locatario, che per lungo tempo fu Antonio
Helzer , spettò l’onere di procedere alla
manutenzione del vecchio complesso
termale.
Anche l’antica chiesetta di S. Martino fu
motivo di contenzioso fra l’amministrazione
distrettuale e la fabbriceria di Bormio al fine
di definirne l’effettivo possesso, che risultò
essere mandamentale.
50
la S toria
Dal canto loro i Bagni Nuovi stentavano a partire per le spese occorse
nella costruzione, spese che si triplicarono rispetto al preventivo iniziale
presunto; fu questo il motivo per cui ottennero l’abolizione della tassa di
consumo.
Anche questo non bastò a sollevare la soffocante situazione debitoria
venutasi a creare, tanto che si pensò di richiedere l’intervento del Re, almeno
per quietare le rimostranze intentate da scalpellini, pittori e imbianchini, che
dopo aver magnificamente operato non ottennero alcuna retribuzione.
Sua Maestà non venne interpellata, ma già nel 1837, nonostante la vendita di
parte del bosco del Gallo per far fronte alle spese, si iniziò a vociferare sulla
necessaria vendita dello stabilimento termale.
Le cose non andavano meglio ai Bagni Vecchi che trovarono Helzer sfavorevole
al rinnovo della locazione, per la richiesta di un fitto troppo alto; fitto che
abbassatogli lo incentivò a divenire unico locatario, per Bagni Vecchi e Nuovi, nel
1838.
Nello stesso anno l’Imperatore a cui pochi anni prima si pensava di appellarsi per
la rinascita degli stabilimenti, fu ospite d’onore delle terme e questo non poté che
contribuire ad accrescere l’ormai smisurato debito distrettuale.
Nel 1840 la preannunciata vendita sembrava imminente, ma ancora nel 1843 –
1844 Helzer ottenne un contratto a lui più favorevole per l’assenza di acque calde in
loco e per l’appostamento di una caserma ai Bagni Vecchi che svilirono i locali non
occupati a semplice osteria.
didascalie
Nel 1848 fu Giuseppe Negri ad affittare gli immobili e a lui toccò risolvere i
problemi legati alle requisizioni effettuate dai militari;
l’anno seguente i Bagni ridivennero osteria e nel 1850 di
nuovo furono occupate dai militari.
Otto anni più tardi Nicolò Negri, figlio di Giuseppe,
s’insediò quale nuovo locatario assistendo a ben cinque
esperimenti d’asta intentati per la vendita dei prestigiosi
quanto costosi stabili.
I Bagni privati
La “Società Le Prese”, con l’importo di 79150,40 lire
austriache, vinse l’appalto iniziando il 3 novembre 1858
la sua “rappresentanza di possesso” sugli immobili.
“Ad essa subingresse poco appresso la Società Bernina
dietro l’apporto di 28005 fiorini”, sborsati dall’allora
rappresentante Stefano Ragazzi.
Il primo documento stilato, a proposito della vendita
in oggetto, fu la convenzione del 2 aprile 1859, a questa
seguì l’accordo fra le rappresentanze dei Comuni
distrettuali e quelle dalla società acquirente (redatta
dall’ingegner Ulisse Salis, lo stesso dicembre) e ancora
l’intendimento d’acquisto di Ragazzi nel gennaio 1861,
che porterà alla stesura del rogito Bonomo Carbonera ( 13
ottobre 1862) con cui i Comuni sociali si privarono
dell’immobile a favore della società svizzera.
51
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Nacquero però alcune discrepanze dettate dal fatto che la ditta acquirente
considerava le fonti termali dell’intero circondario di propria spettanza, anche se
esterne al territorio realmente acquistato, mentre il Distretto combatteva questa tesi,
attribuendo alla ditta Bernina solo ciò che realmente aveva acquistato..
Nel 1867 bisognò richiedere l’intervento dell’ingegnere censuario Sioli per
definirne i corretti termini del territorio alienato, ma nonostante il parere
illuminato dello stesso, venne attivata una causa.
Questa fu intentata per volere del consigliere nazionale delle Confederazione
Svizzera Andrea Rodolfo Planta, quale presidente della società Bernina, e
l’avvocato che se ne occupò fu Antonio Songoni , residente a Sondrio.
Il 1 dicembre 1873 con altro atto a rogito Banzi, gli abitanti della contrada di
Molina concessero ai Bagni la terza parte dell’acqua di loro proprietà, che
defluiva nella Vicinanza passando attraverso i pascoli della società (la sorgente era
poco sopra la strada dello Stelvio), in cambio della costruzione di una vasca con
quattro aperture, due delle quali spettanti alla contrada e due ai predetti Bagni.
Quest’atto confermava che il Distretto aveva ragione nel sostenere che le sole
sorgenti all’interno del territorio acquistato fossero della ditta Svizzera e la stessa
fu quindi costretta a stipulare un contratto con i vicini di Molina per ottenere
le acque tanto vicine, ma sicuramente non sue.
Nel 1879 i Bagni chiesero ancora d’acquistare una porzione di terreno,
adibito a ghiaione e denominato Castellanella, rimasto sbadatamente escluso
nell’atto d’acquisto a rogito Carbonera.
Nel 1903 s’inaugurò la “Spa Bagni Nuovi”.
Nell’ultimo dopoguerra venne aggiunta , sul lato nord della costruzione
dei Bagni Nuovi un’ala per le cure inalatorie e per le piscine termali, fra cui
ancora si ricorda la “piscina dei coscritti”.
52
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
La luce elettrica ai Bagni
Nel 1887 dinnanzi a notaio Luigi Torelli di Bormio, comparve Luigi Motta segretario
di Valdidentro per richiedere la custodia di un atto stilato il 18 settembre dello stesso
anno, su cui risultava la concessione fatta alla ditta Bernina (allora rappresentata
dall’avvocato Giovanni Salis) di una porzione di territorio con finalità di pascolo
comunale, unitamente alla servitù di passaggio dello stesso, per permettere agli
stabilimenti dei Bagni Nuovi e Vecchi d’ottenere la luce elettrica, mediante il
posizionamento di “una sega circolare ed opifici simili…, nonché l’uso del corso o
canale irrigatorio … detto di Semigliore”, che traeva la sua acqua dal fiume Adda in
prossimità del ponte del forno e della ferriera; definendo inoltre che, non potendo
bastare la portata d’acqua allora esistente per il corretto funzionamento dell’impianto,
necessitava con urgenza l’ampliamento del canale.
La ditta s’accollò su questo progetto ogni spesa governativa.
Nel settembre 1894 ancora i fratelli Planta di Samaden, allora proprietari, mossero
istanza ai Comuni sociali per ottenere l’aumento della concessione di derivazione
d’acqua dal fiume Adda, sul territorio di Premadio, per ottenere la potenza di 60
cavalli ( anziché i 40 esistenti) idonei alla produzione di energia elettrica da utilizzarsi
per l’illuminazione degli stabili ( così come previsto dalla legge 10 agosto 1884 n.
2644).
Nel 1895 venne quindi fatto il sopralluogo necessario da Epifanio Tosco
ingegnere del Genio civile di Sondrio e, servendosi del progetto di Giacomo Orsatti,
fu stabilito di concedere l’acquisizione di acqua richiesta in cambio del diritto
esclusivo per i Comuni sociali dell’uso di tre sorgenti di acqua calda esistenti sulla
sponda sinistra del fiume
I Planta ottennero inoltre che, una volta aperto il nuovo complesso termale di
Bormio, (approvvigionato con le tre sorgenti calde) su questo gravasse la
concessione del bagno gratuito ai residenti , fino ad allora di spettanza dei Bagni.
didascalia
La prima concessione
d’acqua risaliva al 24
gennaio 1868 ed era “stata
stipulata a favore della ditta
Luigi Cornelliani
proprietaria delle officine
per la lavorazione del ferro
di Premadio”.
Nell’ultimo dopoguerra
venne aggiunta , sul lato
nord della costruzione dei
Bagni Nuovi un’ala per
cure inalatorie e per piscine
termali, fra cui si trovava
anche quella detta “dei
coscritti” e nel giardino
chiuso fra un’arroccata
cinta di mura era
posizionata, fino al 1970,
la fontana detta “dei
fanciulli”.
54
la S toria
La costruzione della strada dello
L
Stelvio avvenuta, per volere del governo
fra il 1820 e il ‘25, per primari fini
militari oltre che per incentivare il
ripristino dei commerci e la
conseguente ripresa dell’Alta Valtellina,
peccò però in scorrevolezza se
confrontata con i nuovi valichi dello
Spluga e dell’Aprica e con l’antico
percorso, allora fortemente migliorato,
del Tonale.
Questo fatto non permise d’ottenere
la sperata ripresa dell’attività
economica in Valle, aggravando
maggiormente, per le innumerevoli
spese sostenute, il bilancio distrettuale.
L’imponente lavoro di costruzione
rappresentò comunque un’eccezionale
opportunità per combattere la
disoccupazione; opportunità che la
popolazione locale, ormai svogliata e
soggiogata dall’ozio, utilizzò solo in
parte, a vantaggio dei 1500 braccianti,
stradini, muratori e minatori (700 dei
quali impegnati sul solo versante
italiano), provenienti dal Piemonte, da
Milano, e dalla Bergamasca .
didascalia
L’immigrazione in massa che ne
derivò, creò ulteriori disordini e nuova
criminalità, soprattutto fra coloro che
spinti dalla disperazione e dalla fame
avevano intrapreso lunghi viaggi senza
ottenere l’ambito lavoro.
Se la direzione di questa imponente
strada fu affidata a Carlo Donegani, a
suo fio figlio Giovanni spettò lo studio
del progetto dello splendido
stabilimento termale dei Bagni Nuovi,
completamente finanziato dal Distretto
che, come già si è detto, per lungo
tempo pagò i danni economici scaturiti
dalla stesura di un errato e superficiale
preventivo di spesa, addirittura
triplicatisi al momento
dell’inaugurazione dello stesso.
55
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
frizzante acqua acidula, su cui era stata
imposta una tassa, sull’esempio di ciò
che accadeva nello stabilimento di
Sampellegrino.
Sempre in quell’anno venne stabilita
la costruzione del tratto viabile fra
Bormio e Semogo, che avrebbe dovuto
sapientemente ricalcare l’antico tratto
bisognoso di manutenzione e
d’innovazione.
L’intera circoscrizione arricciò il
naso, ma il Distretto per garantire gli
imminenti lavori, si avvalse della
clausola che se i Comuni avessero
negato il concorso alla spesa, essi
avrebbero dovuto obbligatoriamente
restituire i fondi elargiti dalla
Valdidentro durante la costruzione
della propria “carrozzabile” che
percorreva la Valfurva. ( abbandonata
nel 1847 perché poco frequentata, fatta
esclusione per il solo tratto Bormio - S.
Antonio che d’allora divenne di
competenza dei due territori su cui
scorreva).
didascalia
Le strade, da sempre sinonimo di
L
possibile guadagno, anche
nell’Ottocento ottennero la loro
attenzione, tanto che il Distretto già
nel 1818 chiedeva l’intervento di
miglioria sull’intero tronco stradale
Bormio - Tirano, in modo da poter
permettere ai Bormiesi di recarsi alla
fiera annuale di S. Michele per
contrattare od effettuare la vendita del
proprio bestiame.
Ancora nel 1840 il Distretto
deliberò l’istituzione di un pedaggio,
mai comunque applicato, da pagarsi
per l’utilizzo della strada di S.ta
Caterina (costruita a partire dal 1839
con fondi del Pio Istituto scolastico)
nel momento in cui ci si recava alla
località omonima per sorseggiare la
56
Anche se non ci è dato di sapere
con esattezza se pesò più il ricatto o la
paura di dover sostenere
successivamente ogni lavoro senza
l’aiuto economico del Distretto, è certo
che la Valdidentro ottenne la
costruzione della propria strada con
contributo condiviso.
Ma se alcune strade nacquero
distrettuali, altre lo divennero
rompendo antiche tradizioni, come
accadde nel 1830 alle scale di Fraele
che, da sempre spettanti nella
manutenzione ai vicini di Pedenosso,
divennero circoscrizionali privando i
valligiani della tassa ottenuta per il
transito dei pecorai con le loro 3300
pecore annuali, quando si recavano
verso le vicine montagne Grigione.
Bisognerà però attendere fino al
1853 per vedere stilata la scrittura
privata con cui si stabilì di applicare ad
ogni capo di bestiame transitato il
corrispondente unitario di quattro
centesimi.
Il 1859 introdusse inoltre la
normativa sulla viabilità che obbligava
la costruzione delle siepi di protezione
alfine d’evitare lo sconfinamento del
bestiame transumante sui pascoli di
Pedenosso.
Le siepi e i muretti in sasso a secco
divennero d’allora un obbligo su tutto
il territorio nazionale.
TTutte queste spese (bagni, acque,
strade, manutenzioni, etc.), volute e
sostenute dalla Casa d’Austria, abituata
a “pensare in grande”, impegnarono
senza possibilità di rinuncia, ingenti
la S toria
quantità di soldi distrettuali e
comunali.
Questa fu la prima causa
d’indebitamento a cui si aggiunse, nella
Valdidentro, l’obbligatoria costruzione
del cimitero in conformità alle vigenti
discipline sanitarie, atte ad impedire gli
abusi nel seppellimento dei cadaveri.
Il fatto portò a concludere al temine
del 1817 che, essendo il Comune
composto da quattro cure parrocchiali,
oltre che sprovvisto di fondi necessari
da investire, la soluzione migliore
sarebbe stata da ricercare
nell’edificazione di una maggior
quantità di immobili con dimensioni
più ridotte, utilizzando la sola
manodopera locale, parzialmente
gratuita.
didascalia
57
la S toria
Fra il 1834 e il 1837 si fabbricarono
così tre dei quattro cimiteri di Valle,
dislocati: nella Parrocchia di S. Gallo (
per Premadio, Molina e Turripiano), in
quella di S. Martino ( per Pedenosso),
in quella di S. Abbondio (per Semogo)
e, nel 1818 con un impegno economico
di 180 lire, nella Parrocchia di Maria
Nascente ad Isolaccia.
Anche la procedura per il
seppellimento dei defunti che, fino al
13 ottobre 1836, spettava per
competenza ai sacrestani remunerati
dai parenti del defunto, divenne da
quel momento un impiego salariato a
garanzia di un maggior controllo sulla
tumulazione.
Nacquero pertanto le figure dei
seppellitori per ognuna delle
parrocchie di Valdidentro. Ad essi
spettava un salario prelevato delle casse
comunali, pari a tre lire per ogni
defunto in età adulta e a una lira per
ogni bambino sino all’età di sei anni.
L’atteggiamento introdotto
L
didascalia
’
dall’autorità sovrana, che si basava sulla
condivisione distrettuale dei vantaggi e
degli svantaggi e sulla gestione univoca
dei beni, spesso si confondeva nel
Bormiese con l’antica consuetudine
amministrativa dell’ex Contado.
Non fu quindi difficile attivare casi
di partecipazione nel Distretto, fra cui
si ritrovano il medico condotto e la
levatrice, entrambe figure di rilievo e
garanti di una sanità tutelata e
preventiva, spesso minacciata da
preoccupanti epidemie o anche solo da
semplici malattie quali: il gozzo, la
scrofola e il rachitismo; segnali certi
della mancanza di sale, igiene e luce.
Fu inoltre merito della Valdidentro,
seguita dall’intero circondario,
l’immissione della clausola nel
contratto stipulato con il medico
consorziale Francesco Picchi (nel 1826),
con cui si impose ai “chirurghi”
seguenti l’obbligo di curare,
gratuitamente e senza distinzione, sia
ricchi che poveri.
59
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Questo cavillo, inserito contro le
superiori prescrizioni austriache che
non gradivano implementare la
retribuzione dei medici consorziali di
nuova nomina, divenne comunque
attivo.
Sempre in campo sanitario è del 31
marzo 1829 la supplica rivolta dal
veterinario Francesco Rotta al Distretto
per ottenere un salario in cambio delle
proprie prestazioni, attivando in tal
modo le corrette prescrizioni
regolamentari governative; ed è dello
stesso giorno la risposta negativa
fattagli pervenire, noncurante delle
imposizioni superiori.
Si dovrà attendere fino al 1836 per
assistere alla copertura di tale incarico
da parte di Antonio Berbenni, con il
quale verrà istituita convenzionalmente
la figura del veterinario comunale
salariato nella Valdidentro, che ancora
nel 1856 verrà destituita da “uomini
pratici abbastanza esperti”.
didascalia
L’anno seguente con il sussidio
mensile “alla miserabile” (o
nullatenente) L. M. e all’inferma D. F.
(entrambe di Semogo) s’istituirà il
primo servizio assistenziale comunale.
SSe rigida era la direttiva che
imponeva la condivisione delle scelte
all’interno dell’intero Distretto, si
tollerava comunque fra gli austriaci,
per decisioni poco complesse e non
dispendiose, anche l’attivazione diretta
dei singoli Comuni, come accadde nel
1823 per la condotta, nella sola
Isolaccia, della levatrice Francesca
Peccedi stipendiata con 100 lire annue.
L’anno seguente, ancora in
autonomia, “il comizio” di Isolaccia a
cui appartenevano il commissario
distrettuale, i tre deputati, l’agente
comunale e tutti gli uomini della
frazione con più di 14 anni, si
riunirono nella chiesa parrocchiale per
eleggere Giovanni Battista Zini di
Livigno, di soli 27 anni, quale parroco
della cura di Maria Nascente,
disponendo contemporaneamente che
questo avvenimento ottenesse la
sanzione del Vescovo
e che solo dopo tale
adempimento potesse
essere formulata la
bolla di canonica
istituzione.
Anche la
scolarizzazione
operava
singolarmente
rispetto al Distretto,
fatta eccezione per il
ginnasio
circondariale che,
con sede a Bormio,
ottenne in eredità i
beni e il patrimonio
dei Gesuiti, oltre alla
donazione della
nobildonna Caterina
60
Alberti del 1611; questi beni, furono
venduti in più riprese per sanare le
ingenti difficoltà economiche
distrettuali (nel 1833 si dilapidò
l’intero patrimonio che i Gesuiti
possedevano a Bianzone e nel 1839
tutti i restanti beni, fatta esclusione
degli orti e dei caseggiati siti in
Bormio, che tuttora sono dai
quattro comuni sociali).
la S toria
IL PIO ISTITUTO
SCOLASTICO
Il Pio Istituto scolastico
rappresentò un fondo sicuro da cui
l’Amministrazione distrettuale, quella
mandamentale e di seguito i Comuni
sociali, ottennero più volte una degna
copertura economica.
Chiamato in tal modo dai primi anni del 1800,
esso divenne depositario dei beni confiscati ai Gesuiti
dal Governatore di Valtellina Riedi nel 1775.
A dare l’avvio all’ingente patrimonio
accumulatosi nei tempi fu Caterina Alberti nel
1611, mediante la donazione dello stabile di sua
proprietà al Contado, su cui però pendeva il vincolo “culturale”
dell’attivazione di una scuola pubblica.
Per rispettare l’impegno assunto con l’accettazione della donazione, la
Comunità di Bormio invitò i Gesuiti ad insediarsi nel Contado per svolgere l’azione
educativa richiesta.
D’allora agli stessi furono donati dalla popolazione i fabbricati di casa Foliani, Sermondi,
due mulini sull’agualar (corso d’acqua per l’irrigazione), oltre ai molti lasciti in denaro elargiti
quali elemosine.
Il patrimonio s’implementò ulteriormente per gli acquisti operati in prima persona dagli stessi
Gesuiti che disposero di bilanci sempre attivi.
Il 21 luglio 1773 fu soppressa da Papa Clemente XIV la Compagnia di Gesù e venne rimandata al
Governatore di Valtellina Pietro Antonio De Riedi la scelta “sull’impero economico” gesuita.
Tale scelta si attivò nella confisca dei beni per assegnarli alla Comunità di Bormio, mantenendo
però inalterato il vincolo scolastico.
Nacque in tal mondo il Pio Istituto di Bormio che non modificò l’istituzione iniziale del XVII
secolo, facendo però susseguire all’amministrazione della “Communitas Burmii”, quella del Distretto
di Bormio ( rappresentato dai cinque comuni di Bormio, Valdidentro, Valfurva, Valdisotto e Livigno)
e, dopo il 1841, quella dei Comuni sociali che in virtù dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1859
divennero anche enti morali.
61
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Le restanti scuole elementari minori
L
di Valdidentro, erano invece localizzate
nelle diverse parrocchie e venivano
aperte grazie al contributo elargito
dagli stessi studenti; nel caso di nullità
dei concorsi comunali l’elezione dei
maestri avveniva d’ufficio, come si
verificò nel 1824 per: Lanfranchi Carlo
Giuseppe nella contrada di Semogo,
Lorenzo Schena in quella di Isolaccia,
il curato Nicola Schena a Pedenosso e
il cappellano Pietro Giacomo Vitale
nella frazione di Premadio.
Ad essi spettava il compito di
provvedere al riscaldamento a legna
delle aule, oltre a garantire il
funzionamento delle scuole da
dicembre a maggio, percependo uno
stipendio di 300 lire a Pedenosso e
Premadio , e 390 a Semogo.
Nell’istruzione, nonostante i pessimi
momenti che si stavano attraversando e
le energie spese per reprimere l’ormai
chiara intolleranza verso gli austriaci, si
introdusse il concetto, oggi tanto
attuale, di “pari opportunità” per
volere del parroco di Isolaccia, che in
62
una missiva del 3 agosto 1846 chiedeva
al Consiglio di valle l’autorizzazione
per attivare nella sua contrada una
scuola femminile, separata dalla
maschile, sotto la direzione della
maestra Barbara Marni.
La scuola fu aperta seguendo
l’esempio di quella di Pedenosso
inaugurata il 30 maggio 1846 e fu
d’esempio per quella di Semogo che
s’insediò nel novembre 1848.
Tanta apertura mentale non la si
ritrovò però nella supplica rivolta dai
vicini della frazione di Premadio
all’Ispettore della scuola elementare del
Distretto di Bormio; essi infatti
asserirono, screditando l’insegnamento
femminile, che mai avrebbero potuto
accettare un unico insegnante per classi
femminili e maschili, o anche solo un
insegnante maschio che potesse
cimentarsi “nel far di sarto… non
meno che di calzetta”.
Precedentemente il 1866 la scuola
era pressoché facoltativa, ma dopo tale
data, ai padri di famiglia o a coloro che
ne facevano le veci, spettò l’obbligo
legislativo di provvedere affinché i figli,
compresi fra i sei e i dodici anni,
frequentassero almeno le prime due
classi elementari.
Solo dopo il 1867 l’istruzione
pubblica divenne di completa spettanza
di Province e Comuni.
Ogni lavoro deliberato, sia
O
la S toria
comunale che distrettuale, intrapreso
in questa prima metà dell’Ottocento,
doveva brutalmente scontrarsi con la
grave povertà dei bilanci, che
s’indebolirono ulteriormente dopo
l’eliminazione della stesura degli estimi
di Vicinanza.
La redazione di questi
volumi, spettava da
sempre agli anziani di
Valle, che con l’aiuto di
scrupolosi e qualificati
estimatori, redigevano le
liste dei beni posseduti da
ogni capo famiglia, su cui
correttamente, di seguito,
veniva applicata la tassa
proporzionale.
Venendo a mancare,
per cambiamento
amministrativo,
l’istituzionalità di questi
rappresentanti dell’Antico
Regime, cadde
conseguentemente anche
la validità dei loro scritti e
i deputati di Valle,
preoccupati per l’assenza
di introiti allora tanto
necessari, si trovarono
costretti a richiedere
l’intervento del
Commissario Distrettuale
di Bormio al fine di
ottenere la nomina di
figure professionali
complementari.
Queste non vennero
elette e gli estimi della
Valdidentro furono
destinati a divenire
incartamenti del passato,
come quelli di tutto l’ex
Contado, terminando la
loro esistenza fra il 1826 e
il ’27, fatta eccezione per
63
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
la sola Livigno, ultima fra le valli a
rassegnarsi, che ancora stese un suo
registro nel 1834.
L’assenza di questo strumento
definì l’impossibilità di una corretta
regolamentazione fiscale fintanto
che la seguente burocrazia nazionale
non ideò l’imposta sulla ricchezza
mobile e quella sui fabbricati agli
inizi degli anni ’60.
Fino a tale momento fu devoluta
alla sola redazione del nuovo
catasto, attivo dal 1826, ogni
possibile controllo tributario,
utilizzando la rappresentazione
grafica dell’intero territorio quale
unico strumento per stabilire la
rendita di ogni immobile e di ogni
appezzamento terriero.
La gravosa condizione economica
L
didascalie
64
d’inizio XIX secolo non permise
neppure di accogliere degnamente il
passaggio di Sua Maestà in
Valdidentro, il 30 marzo 1825.
Per tale motivo la Valle si era rivolta
anche al Distretto, costretto a negarle
ogni possibilità d’aiuto, perché non
all’altezza economica neppure per
sostenere il salario di un’assistente
ostetrica ( Marianna Appolini di
Sondrio) allora tanto necessaria
all’Ospizio e Luogo Pio di Santa
Caterina.
la S toria
Questa povertà fu aggravata dalla
scelta effettuata il 22 dicembre 1842 di
concorrere alla spesa per la costruzione
dei padiglioni dello stabilimento
dell’acqua ferruginosa di Santa
Caterina, che già nel 1849 si decise di
alienare allo Stato (unitamente al
complesso dei Bagni), utilizzando il
progetto di vendita redatto da
Domenico Paganoni.
Nel 1850 la Valle era tanto
indebitata da impedirle di ottenere il
prestito volontario statale, possibile
grazie alla vendita dei “viglietti del
Tesoro” introdotti in forma legale con
la notificazione del 16 aprile 1850.
Il comune di Valdidentro si trovò
infatti costretto a deliberare la propria
impossibilità ad accettare, esprimendo
tali parole: “spiace grandemente al
Consiglio, a cui è noto quali vantaggi
ne proverebbero nel concorrere a detto
prestito, il non potervi aderire,
essendovi inabilitato per assoluta
mancanza di mezzi, non essendo ignota
alla stessa Superiorità la triste posizione
economica di questo sgraziato
paese...forse il più sgraziato di ogni
altro di questo Regno,…i cui fondi
servono necessariamente e tutti per far
fronte alle spese d’amministrazione ed
a quelle ingenti che si sostengono pei
militari qui acquartierati”.
65
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Nel 1841 infatti la guerra
N
d’indipendenza, allora detta “Guerra
italiana”, gettò l’intero Distretto nel
caos.
Alle prime avvisaglie dei moti di
Milano, l’intera Valtellina si distinse
per coraggio attivando un forte
controllo sui passi e Bormio, il 23
marzo, nominò una Commissione di
Pubblica Sicurezza e istituì la propria
Guardia civica o nazionale, a cui
distribuì 100 fucili acquistati a
prezzo vantaggioso.
La milizia
I militari, quasi tutti
volontari, riuscirono in
condizioni disperate a
bloccare il passaggio
sulla strada dello
Se il Contado
possedeva un proprio
esercito con capitano eletto
da un Consiglio di popolo
costituito da più di 400 persone
(spesso oriundo della Vicinanza di
Valdidentro), la Repubblica Cisalpina
si avvalse invece nel Bormiese di una
“milizia mercenaria” formata da reclute che
sovente disertavano.
Stelvio (sul versante tirolese), strada che
gli Austriaci avevano realizzato per
poter raggiungere con minor difficoltà i
territori dell’Alta Valle.
Ma mentre il 5 agosto si concluse
con l’armistizio fra l’armata sarda e
quella austriaca il ritorno di Milano
all’Austria, sullo Stelvio noncuranti di
ciò che stava avvenendo si continuò a
combattere vittoriosamente, ancora per
altri sei giorni.
Di seguito ai patrioti Bormiesi
delusi non restò che guardare al
Piemonte quale unica possibilità per
liberarsi dalla opprimente dominazione
austriaca.
Questa insofferenza era tanto
evidente, che più volte costrinse in
Tribunale soggetti offesi dall’insulto di
spie austriache, come successe a Pietro
De Gaspari di Premadio beffeggiato da
Domenico Martinelli detto Macchè di
Pedenosso.
Dopo il 1816 la leva, detta
“Coscrizione”, divenne
obbligatoria e greve per il
popolo, che la subì come
soggiaceva al sovrano che
l’aveva introdotta e che si
preferiva disconoscere.
Durante il Regno d’Italia
(con il decreto del 4 marzo
1848) s’istituì un Corpo
nazionale formato da
battaglioni e legioni
finanziate dall’Intendente,
dai Prefetti e in primis dal
Ministero dell’Interno,
mentre susseguentemente
alla costituzione del
Mandamento, ovvero dopo il
1859, spettò ai Sottoprefetti
il compito di corrispondere
un contributo economico proporzionale al numero degli uomini che costituivano la Guardia
nazionale dei Comuni, oltre che garantire la copertura di tutte le spese straordinarie sostenute
per il corretto incarico degli stessi.
Ai Sindaci ne era invece devoluta la sola, ma continua, sorveglianza.
66
la S toria
In questo caldo e
turbolento periodo storico, a
complicare maggiormente le
già pessime condizioni
Bormiesi, intervenne anche
la divisione dei beni sociali
(voluta con ordinanza
dell’8 gennaio 1840).
LA DIVISIONE DEI BENI
DISTRETTUALI NEL 1841
ELENCO DEI BENI
I beni sociali posseduti dai cinque
comuni componenti il Distretto,
consistevano “nelle alpi di Federia, del
Gallo, del Braulio, nel Portico sociale (o Kuerc) e
nella campana della parrocchiale di Bormio, nel
vecchio stabilimento balneare di S. Martino, del nuovo
stabilimento pure balneario, nella cascina e praderia di
Santa Caterina, nella sorgente d’acqua acidula, nella
decima o prestazioni annuali parte in segale, parte in denaro
cioè staia 22,7, dovute dai proprietari delle tenute di Canisa,
Clausura, Bugliolo, Tresenda ed Areite sul territorio di Bormio, di
staia 44 dovute dai possessori di Fumarogo, Cepina, Santa Maria
Maddalena sul territorio di Valdisotto, staia 29,3… quest’ultime tutte
estinte per far fronte alle spese sostenute per la strada di Santa Caterina e
lo stabilimento dei Bagni…”
didascalie
E DELLE PASSIVITÀ
“Redatte pure le passività sociali che contano nel debito di lire 71581,87
verso l’Istituto scolastico sociale, lire 4117 verso l’Ospitale di Bormio…e
ancora quelle per la manutenzione della strada distrettuale che mette al
nuovo stabilimento dei Bagni sul territorio di Valdidentro e di quella di
Santa Caterina ( parte sul territorio di Bormio e parte su quello di
Valfurva) , la prima per annue lire 463,86 con durata fino al 1845 e la
seconda di lire 985 con durata fino al 1847 e ancora di lire 77 annue… per
la tratta di strada che porta da Semogo a Livigno, oltre che una quota da
pagarsi nel 1841 all’affittuario degli stabilimenti balneari a prima
tacitazione dei compensi accordati nella seduta del 6 giugno 1840”.
67
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
A seguito della quale nell’agosto
1841 ci si rivolse al Consiglio
distrettuale per definire la corretta
suddivisione dei beni e delle decime
dei Comuni, utilizzando gli smessi
estimi e l’antica divisione Sermondi.
La realizzazione di questo progetto
consisteva nel fatto che i beni concessi
in uso ai diversi Comuni, sul
documento sopracitato, avrebbero
potuto divenire di loro proprietà, se
essi in cambio avessero garantito la
copertura dei debiti già contratti dal
Distretto per l’edificazione dei Bagni e
per la costruzione della strada di Santa
Caterina.
Livigno rifiutò questa proposta
perdendo istantaneamente ogni diritto
sui beni sociali, che vennero divisi con
decreto dell’11 ottobre 1843, non senza
difficoltà (soprattutto per le decime),
fra i rimanenti quattro comuni.
didascalie
68
la S toria
II boschi rappresentarono, fra tanta
anche Dosso della Baita), pagando per
questo 3075 lire.
Fu così che al legname utilizzato per
il solo riscaldamento invernale, o
impiegato nell’edilizia, o ancora
adoperato nei forni di Fraele, si
aggiunse nel 1823 quello dovuto dal
Commissario distrettuale alla ditta
“Belf e Compari”, che con una
scrittura privata aveva acquistato il
quantitativo di materiale legnoso
necessario per ottenere 3000 bisacce di
carbone di “otto quarte” ognuna,
impegnandosi a disboscare i soli
appezzamenti di Motta e Solena ( detto
A tutela dei boschi, allora tanto
ambiti, il 23 maggio 1830 si elesse una
guardia forestale aggiuntiva e, dieci
anni dopo, si acquistò una macchina
idraulica per soffocare numerosi
incendi.
povertà, l’unica entrata sicura ma il
loro disboscamento, pur essendo
considerevole e utile, mai avrebbe
dovuto contrastare con il regolamento
introdotto il 27 maggio 1811.
didascalie
Il legname sarebbe servito ad
alimentare e ripristinare la fucina dello
stabilimento delle ferriere di Premadio,
carente di materia prima già nel
febbraio 1822, quando bisognò ridurre
in ferro malleabile la ghisa preparata ed
esistente nell’allora forno di Fraele.
S’istituì parallelamente anche una
“quadriglia volante” di sicurezza che
doveva operare su tutta la Valdidentro
69
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
e venne redatto il prospetto del
patrimonio boschivo indiviso dei
“p
Comuni sociali di Bormio, Furva,
Valdisotto e Valdidentro”, approvato il
13 settembre 1840.
Di questo periodo fu anche la
rivalutazione dei confini territoriali
comunali che si accostavano agli
appezzamenti privati; questa portò a
ripristinare gli antichi limiti posti sul
territorio; limiti segnalati da “termini”
che spesso erano sassi su cui era
scolpita una croce.
LA DIVISIONE DEI BOSCHI
L’atto ottocentesco di maggior
rilevanza per la divisione delle foreste
dell’Alta Valle fu il “prospetto sinottico di
stima dei boschi di proprietà promiscua dei
Comuni sociali” redatto dal Sotto Ispettore ai
boschi Stefanoni, per incarico del Distretto il 3
agosto 1852.
Da questa prima divisione, ultimata il 24 settembre
1853, Bormio usciva beneficiata di un importo di stima
pari a 9700,92 lire, Valdidentro di sole 997, 51 lire, Valfurva
di 745, 51 lire e Valdisotto invece era privata di ben 11448,94
lire.
La difficoltà d’accettazione di questo frazionamento
soprattutto da parte della Valdisotto, danneggiata gravemente, e
dalla Valfurva che si riteneva proprietaria del bosco dei Curti a
lei non assegnato, portò il 18 agosto 1901 a riformulare la
divisione che divenne attivata tre anni dopo, assegnando alla
Valdidentro:
1) “ il Bosco di Cornaccia: dalla val Cancano alla valle Paolaccia,
2) il bosco Pontin: da Fraele ( bosco Scala) alla val Petin e val Pisella ,
3) il bosco Arsicio: da Ferrarola al monte Scala in Fraele soprappassando Premadio ,
4) il bosco Morzaglia e Rezzolungo: dalla valle di S. Martino alla val Foscagno ,
5) il bosco Brettina e Arnoga: dal val Foscagno a val Satterona,
6) il bosco Campo: da val Satterona ai confini con Poschiavo in val Viola,
la S toria
7) il bosco Peccedaccio: da valle Dosdè alla val Verva ,
didascalia
8) il bosco Belvedere: dal bosco del Conte alla val Vallia ,
9) il bosco Pezzel: dalla val Vallia alla val Bociana ,
10) il bosco Colombina: dalla val Bociana al confine territoriale con
Valdisotto”.
I lotti così composti furono trasmessi al catasto e condivisi da tutti i Comuni.
Si lasciarono inoltre inalterate le servitù attive e passive pendenti su ognuno
d’essi e si stabilì che eventuali sorgenti d’acqua termale o miniere, successivamente
scoperte, continuassero ad essere di proprietà mandamentale.
Per i boschi assegnati a Bormio, ma siti nel comune di Valdidentro, il diritto di
pascolo dei residenti fu mantenuto, così come furono mantenuti quelli per gli
affittuari dell’alpe Casina in Fraele e per Solena.
Quello che sembrava un problema risolto si ripropose nuovamente nel 1907, per via
di una convenzione stipulata il 2 settembre 1904 e approvata con deliberazioni dei
diversi Consigli comunali, oltre che dalla Giunta provinciale, nel 1906.
Il 13 luglio 1911 ancora si delimitarono le zone boscate in val Fraele, stralciando
dalla zona comunale al di là di val Paolaccia e Valpisella il quantitativo di bosco
assegnato con atto 12 febbraio 1907 al Comune di Bormio.
Nel 1916 si riposizionarono alcuni termini di confine tra la Valdidentro e la
Valdisotto che risultavano essere stati strappati dopo la verifica del 12 e 13 agosto 1902.
Questo lavoro fu fatto soprattutto sui terreni che dalle Motte di Oga portavano a S.
Colombano, servendosi degli antichi termini ancora in loco, uno dei quali era il “sasso
Maro”, più conosciuto in valle come “crap del Marn” e l’altro posto più in alto (segnalato
su una pietra con un’evidente croce) e distante 10, 60 m. dal “Sas del Martol”.
Con l’atto Fay del 1 giugno 1926 la divisione dei boschi fu definitivamente conclusa.
71
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Il 6 febbraio 1843 sempre per
problemi territoriali nacque la vertenza
fra Valdidentro e i fratelli Molinari che
avevano trovato una vena ferrosa a
Fraele, su un terreno comunale, e se ne
erano impossessati.
Lo scavo fu confiscato e il materiale
trovato divenne di diritto comunale.
Premadio intanto si stava
preparando a subentrare, sostituendosi
definitivamente nel 1853, agli antichi
forni della val Fraele.
didascalia
Nel 1857 il lavoro della nuova
fucina divenne tanto intenso da
compromettere la stabilità del ponte
attiguo alla ferriera, provato dal
continuo transito di una quindicina di
“carratori” che quotidianamente
conducevano allo stabilimento il
carbone.
Per evitare disordini si stabilì
l’assunzione immediata della guardia
boschiva Bartolomeo Ponti, che vinse
la gara d’appalto su Pietro De Gasperi
di Premadio e Martino Giacomelli.
Da questo momento, e per lungo
tempo a venire, le foreste della valle,
provate nel 1840 dalla vendita delle
“ultime piante deperenti a Massaniga,
sopra Monte e nei pressi dei prati di
Zandilla” (fatta esclusione del bosco di
Pezzel, già gravemente compromesso) ,
furono decimate con cadenza regolare,
fino alla chiusura della stessa ferriera
nel 1875.
L’increscioso problema della
suddivisione dei boschi si protrasse
comunque per tutto l’Ottocento e
solo con i due atti rogati dal
notaio Ulisse Fay, il 12
febbraio 1907 e il primo
I FORNI
giugno 1926, si giunse
alla ripartizione
E LE FERRIERE
tuttora vigente.
OTTOCENTESCHE
Si sciolse a S. Martino del
1834 la società costituita fra
Bartolomeo Bels figlio di un certo
Pietro morto in Francia,
presumibilmente abitante a Parigi, e la
ditta Pellegrino e Bonsignore costituitasi
dopo che lo stesso ottenne il 12 maggio 1818,
con atto notarile Moreschi Codelli rogato a
Milano, “l’andamento dello stabilimento ferrarezza”
.
Questo atto lo vincolava al vitalizio di 2000 lire
annue da elargire a Giuseppe David per la
manodopera apportata alla manutenzione degli
stabili e delle strade.
Nacque così del tutto ingenuamente il debito
che portò alla chiusura delle ferriere alla metà degli
anni ‘50.
Il 26 giugno 1835 Bels subaffittò il complesso per
tre anni all’ingegner Francesco Mariani, abitante
nella contrada di S. Antonio, il quale considerato il
grave degrado in cui ancora si presentavano gli stabili
decise, nel 1836, di sciogliere l’impegno assunto con
il suo locatario, a beneficio di una scelta più idonea
72
la S toria
didascalia
in grado di risarcirlo delle 20000 lire utilizzate per il ripristino e
l’ammodernamento dello stabile.
Fu così che il 4 luglio dello stesso anno stipulò un contratto di
subaffitto con Agostino Mari, il quale non riuscendo a sostenere le spese di
riparazione dello stabile e non avendo fondi neppure per ripristinare le
compromesse fucine, rese inoperoso il forno fino alla fine del 1837, data in
cui sciolse l’impegno di locazione.
Mariani riottenendo suo malgrado la locazione diretta della fucina, chiese
ed ottenne dal Bels una locazione gratuita degli stabili per la durata di cinque
anni, in virtù delle anticipazioni elargite per le riparazioni degli edifici, di cui
ancora era creditore e contemporaneamente ottenendo la garanzia che lo stesso
Bels avrebbe pagato entro gli anni suddetti il capitale mancante aumentato dell’
interesse del 5 % principiando dal 1835.
A cauzione del detto debito sottopose inoltre ad ipoteca speciale l’intero
complesso ferrifero.
Dall’ispezione fatta agli stabili e ai relativi possedimenti annessi in occasione della
stipula di tale ipoteca si dedusse come gli stessi ammontassero a: “cava del ferro nel
monte Pedenoletto oltre le altre cave tutte aperte pei monti della Val Bruna e Val
Pisella, … baita del pastore con i diritti derivanti dall’autorizzazione prefettizia del 14
ottobre 1809…, le strade carreggiabili da esso David formate che conducono dalle fornelle
al forno di fusione, e ancora ripostigli, le fornelle di torrefazione e le casette de mineranti
e torrefatori.
Oltre al forno di fusione in Fraele nel comune di Premaglio, …con casa d’abitazione,
carbonili, ripostigli, magazzeni diritti d’acqua delle sorgenti e del lago di Cornacchia. D’una
fucina in Premaglio suddetta e tre fuochi a due magli con diritto d’acqua e rispettivi condotti,
due carbonili, magazzini e casa d’abitazione, uniti al beneficio in privativa del taglio e
godimento dei boschi comunali acquistati con investitura 3 novembre 1809 stipulata col
comune di Bormio con superiore approvazione per la durata d’anni 25, con diritto di prelazione
nel tempo successivo e per la quantità attualmente bastevole di legname…
73
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Ed infine l’intera proprietà del monte Ramelino e Temelina, prativo e boschivo,
popolato di più gembri, pini e larici, chiamato il bosco del Conte nelle adiacenze di
Semogo” .
Con atto rogato dal notaio Pietro Buzio Brambilla il 21 aprile 1838 si assistì però
all’apertura del contenzioso fra l’affittuario e il subaffittuario, per la mancata parola del
Bels sul pagamento delle 20000 lire dovute a Francesco Mariani e alla signora Antonia
Sangiorgio vedova Carnelli, che fidandosi dello stesso ingegner Mariani, aveva
contribuito elargendo la metà del dovuto per le necessarie riparazioni.
Nel 1847 la ricerca di soluzione si ripresentò nuovamente, per la richiesta di
restituzione dei liquidi (di complessive 3500 lire) fatta della vedova Carnelli che si
trovava gravemente indebitata con Marietta Caffulli, figlia di Francesco Binaschi e
domiciliata a Cordusio .
Sprovvista di liquidi la vedova decise di cederle una parte di ciò che doveva
riscuotere dal Bels.
Si stipulò così l’atto del 17 novembre 1847 a rogito del notaio Francesco Triaca, per
la cessione di una parte dei crediti dell’ormai defunto Bartolomeo Bels, acquisiti
completamente dall’ingegner Francesco, a favore di questa nuova intervenuta.
La cessione dei crediti, essendo crediti non garantiti, fu fatta in modo che la
Cafulli ottenesse dalla Carnelli un impegno economico maggiore rispetto a ciò che
realmente avrebbe dovuto ottenere.
Fu in questo periodo che l’ingegner Francesco Mariani conobbe l’interdizione.
La continuazione delle pratiche spettò quindi a Carlo Zanchi in qualità di suo
curatore e egli subito richiese la “rinnovazione dell’ispezione ipotecaria”,
originariamente assunta per Giuseppe David il 9 luglio 1818 e rinnovata poi, come
già si è detto l’11 maggio 1839, per Francesco Mariani, a garanzia del pagamento
delle 2000 lire austriache annuali dovute dal Bels prima a Giuseppe David e dopo
la sua morte al fratello Pietro, per una somma che complessivamente nel 1847
raggiungeva ormai le 25000 lire italiane esclusi gli interessi.
74
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
La vicenda si complicò ulteriormente e si definì solo con l’alienazione del bosco del
Conte “in asta giudiziaria a favore di Faustino Piani pel prezzo di 14150 lire austriache”
depositate al Tribunale di Milano e con l’annullamento di alcune pretese rogate il 27
giugno 1850 sull’atto dagli avvocati Ferdinando Taure e Quadrio.
Si era alla metà del 1800 e Mariani e Bels erano ormai entrambi deceduti.
Come per un triste gioco del destino negli anni in cui si chiudeva tragicamente
la “storia Bels”, nacque quella di un’altra figura molto importante per le ferriere
di Premadio.
Il 15 aprile 1848 infatti Luigi Cornelliani di Milano, orefice gioielliere,
presentò domanda per ottenere l’investitura cinquantennale di quattro
miniere del ferro esistenti sul comune di Valdidentro, situate due nella Val
Fraele, la terza nel piano di Pedenolo vicino alla casa dei pastori e l’ultima
sul monte Pedenoletto.
Gli alti forni di Premadio videro la luce nel 1853.
La siderurgia della valle stava per conoscere un periodo di altissimo
sviluppo, interi boschi privati delle loro piante più deboli, delle radici,
di tutto ciò che bruciava e che non era severamente sorvegliato,
utilizzato quale combustibile per garantire il continuo lavoro dei
forni che spesso richiedeva concessioni d’acqua ricavate dall’Adda.
Tutto ciò si concluse nel fallimento del 1875, che chiuse
definitivamente il tema del ferro nella Valdidentro.
didascalia
76
la S toria
LA NAZIONE (DOPO IL 1859)
Dopo la seconda guerra
d’indipendenza combattuta dai
Garibaldini nel 1859, il 24 giugno
1866 iniziarono le ostilità fra Italia e
Austria, che videro il Giogo dello
Stelvio protagonista dell’occupazione
austriaca.
Allora la sola Guardia nazionale,
armata con fucili di seconda mano ed
equipaggiata con divise di panno blu
ricamate in argento (acquistate nel
numero di 120 per la Valdidentro dalla
ditta Carlo Betti), fu lasciata, e quasi
abbandonata, a difesa del passo; così
come accadde anche alla IV
Cantoniera al gruppo comandato dal
luogotenente, nonché segretario
comunale, Pietro Pedranzini.
Gli Austriaci, senza troppa fatica,
giunsero pertanto a Bormio il 2 luglio,
mentre un’altra colonna di militi
s’insediava, valicando il Tonale, a Ponte
di Legno.
D’allora si può dire che il Bormiese
“rimase mobilitato in permanenza”,
fino alla conclusione del conflitto
militare che sfociò nella costituzione
dello Stato italiano.
Solo a quel tempo la Guardia
nazionale, che seppe dare indubbie
prove di sacrificio e di patriottismo,
divenne un’istituzione pacifica,
servendo Sindaci, Prefetti e Sotto
Prefetti, nelle rappresentazioni solenni,
spesso ufficiate nel capoluogo del
Mandamento (termine nato per
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
definire giuridicamente il territorio
distrettuale, che geograficamente veniva
invece detto Circoscrizione).
IIl nuovo sistema metrico decimale
dei pesi e delle misure, introdotto nel
1860, sostituì le oltre trenta misure
applicate in Provincia in favore di una
sola unità di misura riconosciuta
dall’intero Stato.
didascalie
78
Esso venne pubblicato sui libri
scolastici per una più veloce
conoscenza, oltre che inciso
obbligatoriamente, nelle sue misure
principali, su lastre di marmo bianco
che venivano esposte visibilmente nella
piazza principale del capoluogo.
Questo cambiamento nelle
misurazione segnò inevitabilmente,
anche nella provinciale Valdidentro ,
un nuovo tassello di confine fra
l’individualità antica e la nuova visione
statale.
In Valle il 23 luglio 1861 furono
soggetti al cambiamento di tali misure
e alla loro vidimazione periodica: i
dispensatori di sali e tabacchi di
Isolaccia, il forno delle fucine del ferro
a Premadio ( a cui spetterà una
vidimazione quinquennale ad iniziare
dal 1870), i pizzicagnoli (due di
Semogo e uno d’Isolaccia ) , gli
albergatori dei Bagni, i cinque
venditori di vino al minuto e i mugnai
di cui due di Premadio, due di
Semogo, uno d’Isolaccia e l’ultimo di
Turripiano.
A onor di cronaca si segnala inoltre
che da dodici che risultavano i soggetti
obbligati alla vidimazione nell’anno
soprascritto, trentuno divennero gli
esercizi nel 1874; segnale questo di un
rallentato ma effettivo incremento
commerciale ed economico.
Da un mercuriale della Valdidentro
di quegli anni si può desumere ancora
come i generi coltivati e venduti
maggiormente allora fossero: il
frumento, la segale, l’orzo, il fieno, la
legna, il formaggio, il burro, il lino, le
patate, le uova, il carbone, la paglia e la
carne.
didascalie
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalie
E se il prezzo al chilo del ferro si
mantenne stabile nel tempo, il
frumento, la segale e l’orzo ebbero un
notevole incremento nel 1874, la legna
subì una minor contribuzione fra il
1879 e il 1888 e il lino, dopo essere
calato di prezzo nel 1887, scomparve
dai calmieri successivamente al 1902,
concludendo il monopolio del tessuto
su tutti gli indumenti intimi e la
biancheria di casa a favore del cotone.
Per le fornaci di calce esistenti in
Valdidentro ( di cui è rimasta la sola di
Turripiano), i dati statistici del 1877
riportano l’impiego di otto lavoranti
per 60 giorni lavorativi cadauno, con
stipendio variabile fra le 450 e le 475
lire annuali.
La produzione complessiva di calce
forte ottenuta dagli stessi nel 1870
corrispose a 66 metri cubi e a 300
metri cubi quella prodotta nei cinque
anni successivi il 1866.
Ma seppur le ferriere davano lavoro
M
a molti, l’agricoltura e la pastorizia
restarono gli unici veri sostentamenti
per l’intera popolazione montana e
quindi il Consiglio comunale si vide
più volte costretto a rivedere i propri
confini di boschi e pascoli, che
quotidianamente subivano l’attacco di
chi gradiva possedere più terreno di
quello effettivamente avuto, o anche
solo riottenere quello che
ingiustamente gli era stato tolto, come
successe a Fraele, a Giacomo e
Margherita Martinelli che supplicarono
le autorità per la restituzione di un
terreno a loro appartenente secondo
l’atto originale d’acquisto del 1795.
Ancora il 20 luglio 1860 si deliberò
di acquistare 140 piante, prelevate dai
boschi di Fraele e di Muraglia, per
costruire “le cornici” necessarie alla
fabbrica della fontana di Turripiano,
tanto bramata dai comunisti che ne
assunsero la manutenzione.
Spesso si trovarono a discutere fra
loro anche i Comuni limitrofi,
impegnati a determinare correttamente
i legittimi confini, come accadde per il
pascolo Dosdé, di ragione comunale
della Valdisotto, confinante a
mezzogiorno con il bosco di
Peccedaccio (detto anche Orsa) al cui
interno esisteva un lotto di terreno
usufruito dai vicini di Semogo.
Il 7 novembre 1862 per stabilire la
corretta segnatura dei termini dello
stesso, fu incaricato il perito
agrimensore Eugenio Martinelli che,
con il Sindaco e l’Assessore, Antonio e
Gian Francesco Martinelli, stabilirono
80
la giusta dimensione del pascolo
correggendo le mappe esistenti, al fine
di poter locare la montagna senza
incorrere nell’usurpazione di terreno
altrui.
L’imminente pericolo di caduta della
spalla settentrionale del ponte di
Premadio invece portò a deliberare la
necessaria manutenzione dello stesso, e
con seduta straordinaria del 30 maggio
1861 si impegnò una somma
provvisoria in attesa di nominare una
“persona dell’arte”, ovvero da un
esperto in grado di preventivare
correttamente l’impegno d’assumere.
Nello stesso giorno si approvarono
le spese per la sistemazione delle casine
delle alpi di S. Colombano e Fraele,
con importi corrispondenti a 112,34 e
158,50 lire, di cui la seconda cifra più
alta perché comprensiva del dovuto per
l’ampliamento della costruzione ad
opera di Giacomo Bradanini.
la S toria
IIl 30 maggio 1862 si stimarono in
Consiglio comunale per la prima volta,
i conti della fabbriceria di Isolaccia e
quelli della chiesa parrocchiale di
Premadio, riferiti al periodo fra il 1855
e il 1860.
Essi ottennero un astenuto nella
votazione, nella persona dell’assessore
Romani, contrariato per l’assenza delle
pezze giustificative sui pagamenti
elargiti.
Fra le carte di quest’ultimo conto è
evidente la scarsezza economica vigente
in quegli anni, che costrinse il Distretto
a vendere al Governo parte delle piante
mature e deperenti del bosco di S.
Gallo sotto le Motte, per sanare un
debito di cassa di ben 3000 lire
austriache, contratto fra il 1834 e il
1855, dopo aver provveduto alla
sistemazione dei tetti delle case e delle
chiese di Molina, S. Gallo, Maria
Addolorata di Turripiano e S.
Giacomo di Fraele, in virtù di un
didascalie
81
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
ordine impartito del Vescovo di Como
in visita pastorale nel luglio 1834.
Oltre all’approvazione dei bilanci
parrocchiali, secondo la circolare
didascalie
ministeriale di Grazia, Giustizia e
Culto (del 1 novembre 1861) alla
Giunta comunale spettava anche il
compito d’eleggere ogni cinque anni i
fabbriceri delle chiese esistenti sul
proprio circondario, atti a garantire e
redigere i sopraccitati conti
economici ecclesiastici.
I FABBRICERI
Con il termine fabbricere
s’intende il magistrato che
soprintende a tutto ciò che riguarda
la costruzione delle chiese, la loro
conservazione, l’amministrazione delle
loro rendite e i necessari provvedimenti
d’assumere, siano questi ordinari quanto
straordinari.
I primi fabbriceri della Valdidentro, che si
sostituirono agli anziani di Vicinanza
dell’Antico Regime, furono quelli eletti nel
1808.
Ventinove anni dopo la fabbriceria
divenne un organo governativo e con il
decreto reale n. 27 del 16 ottobre 1861 venne
di nuovo ridefinita.
Secondo quest’ultima normativa il
Comune non poteva intervenire sul
regolamento della stessa in merito alle chiese
parrocchiali, né assumere il ripristino di
queste senza il consenso del Consiglio di
fabbriceria; ma poteva in caso di nuove costruzioni “assegnare banchi” a chi aveva concorso
economicamente alla fabbrica, sospendere il rilascio dei mandati di pagamento in favore di
fabbriceri reputati non idonei e doveva obbligatoriamente vistare i bilanci parrocchiali.
I primi fabbriceri eletti dal Consiglio comunale del 14 dicembre 1861, dopo l’avvenuta
costituzione dello Stato nazionale, furono:
per Isolaccia: Donati Pietro, Giacomelli Antonio, Illini Pietro, Trameri Lorenzo, Viviani Rocco,
Ponti Giuseppe, Giacomelli Pietro, Gurini Giovanni;
per Pedenosso: Bradanini Giuseppe, Bradanini Gervasio, Bradanini Giovanni, Romani
Antonio, Bradanini Gian Pietro, Romani Giuseppe;
per Semogo: Sosio Gervasio, Martinelli Pietro, Sosio Benedetto;
per Premadio: Battista Franchi, Trabucchi Giuseppe e Degaspari Martino (fra cui gli ultimi due
solo confermati, perché già eletti nel 1860).
82
Grazie a questi bilanci oggi si sa con
certezza che fu proprio in quegli anni
che si rese necessario ripristinare parte
del muro caduto davanti al coro della
Chiesa parrocchiale d’Isolaccia,
sistemare il “tabbiato e la circonferenza
della casa di residenza del parroco”,
oltre ad inargentare alcuni oggetti
bisognosi di restauro e aggiustarne i
paramenti sacri.
la S toria
83
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Si deliberarono inoltre le spese per
riparare la casa parrocchiale di Molina
e per evitare il logoramento esagerato
dei “voltapiano alle due piccole
sacrestie laterali al coro”, ancora una
volta utilizzando gli introiti riscossi
dagli esagerati tagli effettuati nel bosco
di S. Gallo.
segnalarono sole uscite ordinarie
dettate dalla necessità dell’acquisto di
cera o di olio per le lampade e per i
pagamenti di premi assicurativi
obbligatori sugli stabili parrocchiali;
poche cose che però non
compromisero il positivo bilancio
conclusivo.
Per la fabbriceria di Pedenosso i
conti dal 1854 al 1861 furono
approvati e venne stilato l’inventario
dei mobili che si depositò presso
l’archivio della stessa; per Semogo si
SSe le fabbricerie elette per la prima
volta dal Comune di Valdidentro fra il
1861 e il 1863 brillarono per conti
economici positivi, non così favorevoli
furono i bilanci comunali che
per scarsezza di liquidi
aumentarono le già salate multe
sulle vendite abusive operate da
un popolo affamato che vendeva
legname raccolto su fondi
comunali e quindi non solo suo.
Per impedire che ciò
continuasse si formulò la
deliberazione del 4 novembre
1862, che impediva
l’esportazione fuori dal
territorio comunale di legna da
riscaldamento, a garanzia del
pregiato materiale che avrebbe
dovuto bastare nei lunghi
inverni ai 1470 cittadini
residenti.
Per evitare scorrettezze
s’impose la vidimazione delle
piante recise da parte di una
guardia boschiva accompagnata
da un membro della Giunta
municipale e per i commercianti
locali nacque l’obbligo di
emettere ad ogni vendita
effettuata, la rispettiva bolletta
controfirmata da due membri
della Giunta comunale e
certificata dall’apposizione del
timbro del Comune.
Questo provvedimento
disturbò chi del legname faceva
88
la S toria
combustibile per fucine, e il
signor Cornelliani,
rappresentato da Carlo Berti,
che dal lontano 1853 (anno dell’
apertura della ferriera di
Premadio), non aveva mai
trovato ostacoli alla fornitura di
legname, si prodigò per ottenere
dal Comune, e ancora senza
grossi problemi vi riuscì, una
vendita di “zembro…per
formarvi depositi di materia
presso la propria fucina
ferriera”.
A garanzia dell’incolumità
A
della popolazione di
Valdidentro, aderendo alla
circolare prefettizia del
12.12.1860, nacque anche il
servizio di polizia urbana che
ottenne il regolare visto
d’approvazione con decreto reale
nel 1864.
Sul regolamento si stabilirono
le norme per garantire la
corretta igiene alimentare,
attivando gli adempimenti a cui
dovevano sottostare i panettieri,
i fornai, i “vermicelli”, i mugnai
e i macellai, senza però limitarne
il numero; definendo inoltre gli
spazi pubblici idonei da
occupare con il mercato.
A questo organo di vigilanza
spettava l’obbligo di provvedere alla
pulizia dell’abitato, allo sgombero delle
immondizie, alla pulizia di strade e
piazze e alla loro lavatura, alla
rimozione delle nevi, allo spurgo dei
canali, alla mondezza delle fontane e
d’ogni acqua destinata ad uso pubblico,
oltre che impegnarsi ad ordinare ai
privati cittadini la manutenzione delle
proprie case “minaccianti rovina e la
costruzione o la compensazione dei
selciati e dei canali di spurgo” limitrofi
alle proprie abitazioni, controllando
che questi non fossero danneggiati
dalla circolazione dei carichi
ingombranti o dai “bisogni impellenti
di bestie nocive”.
Alla polizia rurale invece, istituita
con la stessa delibera consigliare,
toccava il compito di impedire i
passaggi abusivi nei campi o sulla
proprietà privata, prevenire i furti nelle
campagne, garantire il corretto uso
dell’acqua ai Consorzi, segnalare le
89
la S toria
didascalie
modalità per liberarsi dagli insetti,
proibire i pascoli sui terreni tutelati e
occuparsi della gestione agricola dei
beni comunali.
I due regolamenti furono rivisitati il
31 maggio 1867 con l’aggiunta
dell’imposizione di ottenere licenza
prima di aprire un qualsiasi esercizio
pubblico, ristabilire l’irrigazione con
nuovi corsi d’acqua a Piandelvino e
Pecè, non alterare alimenti, purgare e
macinare correttamente, correggere
pesi e misure, utilizzare quali utensili
nei negozi solo quelli di rame stagnato,
non abbandonare animali legati sulla
piazza, non servirsi di fontane atte
all’abbeveraggio degli animali per
lavare, non far circolare per la strada
bambini al di sotto dei sette anni,
richiedere entro aprile d’ogni anno
l’autorizzazione per far pascolare su
fondi comunali il proprio bestiame,
istituire regolare registro su cui
annotare il bestiame forestiero,
impedire il pascolo notturno,
sorvegliare i camminamenti dei greggi
sulle strade comunali, occuparsi della
giusta raccolta di legna per il
riscaldamento invernale, recuperare
legna governativa solo in difficoltà
momentanea e fuori dalla propria
frazione, segnalare obbligatoriamente
alla Giunta municipale l’intendimento
di voler vendere legna di un proprio
fondo servendosi della regolare
bolletta, mantenere le strade comunali,
non deteriorare le condotte primarie e
secondarie per l’irrigazione, garantendo
infine le dovute ore d’acqua per ogni
fondo agricolo, senza incorrere in
sottrazioni furtive.
Un altro intervento rilevante lo si
U
ebbe con l’introduzione della legge 20
marzo 1865 che vincolò i comuni ad
occuparsi di strade, e con la successiva
datata 30 agosto 1868 con cui il
Governo sorvegliava e incentivava il
lavoro dei Sindaci a tale proposito.
L’attenzione concessa alla viabilità
era dettata dal fatto che si considerava
impossibile ottenere “civiltà ed
economia” senza occuparsi di
“comunicazione”, oltre ad essere
consapevoli di come “la miseria di un
91
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
luogo aggravasse quella di altri posti
nelle sue vicinanze”.
Così spinti dal fatto che Comuni
posti fuori dalla via del commercio
paralizzavano il naturale sviluppo della
ricchezza nazionale, anche la
Valdidentro fu invitata ad
adempiere ai propri obblighi
e il 15 marzo 1869 il
primo cittadino Rocca
fece stilare l’elenco
LE STRADE COMUNALI
delle strade
NEL 1869
comunali, fra
Compiti primari del Municipio
dopo il 1864 furono il riordino
dell’archivio comunale, l’arruolamento
delle Guardie nazionali e la costruzione o la
manutenzione delle strade comunali.
Strade che dovevano obbligatoriamente avere
“siepi vive” per assicurare che lo sconfinamento degli
animali al pascolo non danneggiasse i coltivi o i prati.
cui comparivano: la strada che
immetteva a Bormio, la strada di
Pedenosso, quella di Semogo, il ponte
di Sughet e la strada dei Dossi.
Attivando le imposizioni ricevute si
procedette inoltre alla progettazione
(del 1 settembre 1871 ad opera
dell’ingegner Antonio Rossati) della
continuazione della strada iniziata nel
1814 che da S. Gallo portava a
Semogo, aggiungendovi il nuovo
tronco Semogo - Foscagno , che doveva
risultare a “forma inclinata verso il mezzo,
con pendenza massima di un trentesimo”
per permettere lo scolo dell’acqua
piovana. Tutto il percorso doveva
inoltre essere sostenuto da un
imponente muro a secco riboccato a
calce.
Non dovevano inoltre mai essere alterate nella forma e
possedere scoli d’acqua a servizio di fondi attigui.
Il trascinamento del legname, che procurava guasti, era a solo carico
del negligente, così come ad esso spettava l’apporre ripari in caso di lavori
da compiersi nelle prossime vicinanze.
92
la S toria
Al Sindaco competeva invece il segnalare annualmente i vari lavori da svolgere
sulle vie vicinali e chiaramente su quelle comunali, che per la Valdidentro furono:
“La strada comunale per Bormio”: con i propri termini al ponte di Cadangola a
Semogo e alla “via dei morti” prima di Bormio. Essa risultava completamente
carreggiabile e transitante per Semogo, Isolaccia, Turripiano e Premadio, e con
lunghezza di 10000 m. e larghezza (allora non più reputata sufficiente) di 2,34 m.
Aveva sul percorso cinque ponti in legno e uno in muro.
“La strada comunale di Pedenosso”: con termini a Isolaccia e alla Madonna di
Pietà.
Essa era totalmente carreggiabile e aveva una lunghezza di 3790 m. e una
larghezza di 2,34 m.
“La strada di Semogo”: con termini alla chiesa parrocchiale di Semogo e alle
seghe e mulini delle Ponti.
Era carreggiabile, con lunghezza pari a 500 metri e larghezza solita di 2,34 m.
“Il ponte di Sughet”: con termini a Sughet e al ponte.
Totalmente carreggiabile, con lunghezza di 50 m. e larghezza di 2,34 m.
e
“La strada dei Dossi”: con termini al lago di Foscagno (confine di Livigno)
e al ponte di Cadangola.
Perfettamente “pedonabile e cavalcabile”, per l’intera lunghezza
corrispondente a 15000 m.
93
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Ancora di tal periodo furono il
progetto del ponte sul torrente
Spigolone, la costruzione del tronco di
strada fra il ponte di Premadio e la
Chiesa di Turripiano (che Giuseppe
Martinelli volle diversa dal progetto
proposto dall’ingegner Rossati, che la
preferiva transitante sui campi di “Isca
Giot”) e il considerevole aumento di
manutenzioni annuali di strade e
ponti, appaltate nel 1882 a Pietro
Martinelli di Isolaccia per 109 lire
complessive.
Anche il contratto per lo sgombero
delle nevi assunse maggior rilievo
rispetto agli inizi del secolo e per
evitare l’inoperosità questo venne
conferito cumulativamente agli stessi
rotteri (stradini) per l’intero periodo
compreso fra il 1881 e il 1893.
didascalia
94
Le inondazioni, violente e
imprevedibili, furono un’ulteriore
causa di ingenti spese straordinarie
sostenute dal Comune, e nel maggio
1899 ben 3000 lire furono impegnate
per ripristinare il ponte di “Pradella ed
altri tre ponti in valle”.
Nel 1867 il nuovo regolamento
N
igienico di Valdidentro prese forma
migliorando il precedente deliberato
soli due anni prima.
In esso furono definite le necessità
d’intervento della popolazione nello
spegnimento degli incendi, il
regolamento di latrine, vasche e
cisterne, la proibizione di gettare dalle
finestre oggetti vari, l’impedimento di
andare nei fienili con candele, la
necessità di denunciare ogni malattia
contagiosa dell’uomo e dell’animale,
l’obbligo di non smerciare alimenti
avariati e la custodia assoluta dei cani
ringhiosi.
la S toria
Anche la condotta ostetrica
(obbligatoria dal 1859) fu sottoposta
all’attenzione del Consiglio comunale e
nel 1863, dopo la rinuncia presentata
da Teresa Martinelli, si giunse a
proporre l’elezione di Domenica
Martinelli di Pedenosso, in possesso
del diploma con sigillo rilasciato il 9
novembre 1857 dalla Regia Scuola
Ostetrica.
Questa venne successivamente
scartata perché sposata e con un figlio
di pochi giorni, nonché maestra
elementare di Pedenosso e soprattutto
non abitante ad Isolaccia, considerata
ormai ad allora il centro della Valle.
Si dovrà attendere fino al 1865 per
veder introdotto definitivamente,
anche nella Valdidentro, un vero
regolamento delle levatrici condotte,
con durata di tre anni rinnovabili,
come richiesto dalla legislazione
corrente, che stabiliva per ogni
incaricata: la residenza nel luogo di
lavoro, l’esposizione di un cartello sulla
propria abitazione su cui erano
segnalati i dati personali, la
disponibilità giorno e notte per recarsi
dalle partorienti site nell’intero
circondario, l’assistenza alle povere con
la sola retribuzione del salario
comunale, la tenuta del registro delle
nascite con l’indicazione dei parti
infelici e la loro causa apparente, il
controllo sulle donne gravide al fine di
evitare aborti o parti furtivi e la
collaborazione con i “chirurghi” se
fosse stato necessario un “sussidio
artificiale o strumentale” o anche solo
una prescrizione medicinale.
Anche la condotta medica
consorziale fu severamente regolata e,
dalla morte di Gaspare Bracchi
avvenuta il 16 dicembre 1866, si venne
all’elezione del dottor Ruggero
Lambertenghi sostituito nel 1869 da
Albino Schena, Fausto Corvi e il 15
settembre 1889 da Ulderico
Giacomoni di Ponte, che vinse
l’incarico su Schiantarelli Eugenio di
Tirano, Vincenti Catullo di Parma,
Perlasca Ferruccio di Como e Natalucci
Giuseppe di Recanati.
didascalia
Ai medici spettava il compito di
sanare la popolazione, garantendo i
sopralluoghi ai cimiteri, la tutela
sanitaria per il controllo di malattie
contagiose sul territorio ( fra cui il
colera asiatico che nel 1884 inquietava
enormemente), l’ispezione ai servizi
igienici (come nel caso della caserma
delle guardia di finanza di Semogo), le
verifica mensile alle carceri, oltre
chiaramente ad effettuare qualsiasi
operazione chirurgica necessaria e, in
caso di avvenuta morte, attivare le
adempienze previste dalla notificazione
governativa del 20 ottobre 1838.
La legge in vigore nel 1859, che non
disapprovava le istruzioni organiche del
12 aprile 1816, prevedeva per ogni
95
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Distretto l’esistenza di un medico detto
appunto “medico chirurgo comunale”,
eletto con concorso pubblico dopo
aver superato il periodo di prova di sei
anni e ottenuto l’attestato
d’autorizzazione ad esercitare.
A lui spettava anche il compito di
garantire la totale igiene territoriale.
I medici distrettuali dal canto loro
sorvegliavano e soprastavano ai medici
comunali, in cambio di uno stipendio,
devoluto da tutti i comuni del
mandamento, di 100-160 fiorini
austriaci a seconda dell’ampiezza del
territorio da sorvegliare.
didascalia
AA seguito della chiusura dei forni di
Premadio e dell’emissione della legge
nazionale 20 giugno 1877, la
Valdidentro fu obbligata a stendere
l’elenco dei propri boschi e dei terreni
che necessariamente avrebbero dovuto
risultare vincolati e, attenendosi
scrupolosamente alle normative, l’anno
seguente procedette senza risultato a
rimboschire i terreni incolti sotto la
strada che da Premadio portava a
Turripiano.
Fu compito di questi ultimi
richiedere l’idoneità dei cimiteri di
Pedenosso e Semogo che il 27 luglio
1889 vennero considerati adeguati
dall’autorità provinciale di Sondrio.
TERRENI
DA VINCOLARSI
IN
VALDIDENTRO NEL 1877
Fra questi terreni da vincolare ( al fine di
permettere la ricrescita dei boschi abbattuti
indiscriminatamente per favorire il lavoro nelle
ferriere o anche solo per porre in scurezza i
territori da imminenti pericoli naturali)
comparvero i mappali siti sulle pendici del monte
S. Colombano, Cardonè, Dosdè, Foscagno,
Ferrarola, Braulio e Fraele.
Ognuna di queste località era legata ad un
proprio raggruppamento, così come di seguito:
* primo sottogruppo: Palancana, Motta,
Costaccia, Corva, Fusinaccia, Pezzel, Prei, Cardonè
* secondo sottogruppo: Belvere e il Bosco del
Conte
* terzo sottogruppo: Predaccio, Minestra e
Stablogimelli
* quarto sottogruppo: Arsure, Arnoga alta,
Arnoga bassa, Presura, Pozzagliera, Rosseggio,
Vezzola, Cadangola, Plator, Clausura
* quinto sottogruppo: Arsiccio
* sesto sottogruppo: Bosco piano, Solena
*settimo sottogruppo: Cornacchia, Piano dei
Muffi, Pontini di Fraele, Scopa, Fraele, Bosco
Grosso, Bosco alla Casina e Bosco al Gallo.
96
la S toria
Diversi accorgimenti furono dettati
dall’Ispettore forestale con l’ausilio di
Evaristo Martinelli per ripristinare i
danni che i forni avevano operato
rendendo il territorio sterile e “quasi
lunare” e soprattutto per conformarsi
alla legge Torelli che non ammetteva
fondi comunali incolti e obbligava al
necessario rimboschimento o alla
dovuta vendita degli stessi.
La nuova povertà che si andò
creando fu uno dei motivi che
ripropose, per la seconda volta nello
stesso secolo, il fenomeno
dell’emigrazione.
didascalia
Emigrazione regolata, questa volta
però, da normative che introdussero
nell’amministrazione l’obbligo della
compilazione dei registri di
popolazione, fino ad allora monopolio
della Chiesa che redigeva invece “stati
d’anime”; su questi nuovi registri,
ordinatamente disposti su fogli divisi
per vie e piazze, dovevano comparire: il
97
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
GLI ESPOSTI
numero delle famiglie esistenti nel
comune o che avevano residenza stabile
in esso, il complesso degli individui
esistenti in “ogni fuoco” (compresi i
domestici, ma non gli esposti che nella
Valdidentro del XIX secolo risultarono
essere solo due), il numero civico, il
nome della strada e chiaramente gli
spostamenti effettuati da ogni singola
persona.
Anche il censimento della
popolazione, effettuato per la prima
volta il 31 dicembre 1861, aiutò a
misurare il flusso migratorio dei
comuni e così nella Valdidentro
si ebbe l’annotazione di molte
persone emigrate nel
Canton Grigione,
Per gli esposti (bimbi
abbandonati) vennero
compilati in Valdidentro il
regolamento comunale del 20
settembre 1882 ed il successivo
del 1897.
In questi si stabiliva di attribuire la
spesa per il mantenimento dei minori ai
bilanci comunali, che ottenevano di seguito
il risarcimento da parte della Prefettura, a cui
competeva l’effettivo obbligo di curarsi dei bimbi
fino all’età di 15 anni.
Per ognuno dei ragazzi veniva quindi staccato un
assegno che poteva risultare: mensile, trimestrale o
semestrale e che variava a seconda dell’età del beneficiari (10
lire per i più piccoli e 2 lire per i più grandi).
come l’agricoltore Cristoforo
Pronfoghel domiciliato a Premadio che
nel 1861, alla veneranda età di 62 anni,
fu costretto a cercar lavoro lontano da
casa, o Romani Agostino di 38 anni,
Tommaso Pradella di Semogo di 29 e
Nicolò Bradanini di 16, che si spinsero
in Svizzera e in Austria per lavorare
come calzolai, o ancora i fratelli
Giuseppe ed Elia Bellotti che, pur
non possedendo un proprio
mestiere, tentavano la fortuna
fuori dal territorio
valtellinese.
Gli esposti venivano inoltre schedati dall’Amministrazione
comunale in “da latte” o “da pane” (a seconda che fossero stati
svezzati oppure no); ad essi veniva inoltre cambiato il nome, assegnata
una nutrice, definito un corredo, applicata una medaglietta al collo su cui
compariva un numero identificativo e l’anno di nascita ( che doveva essere
restituita al Comune in caso di morte del bambino per concludere la
remunerazione prefettizia alla famiglia) e redatto un apposito libretto
chiamato“libro di scorta” su cui venivano annotati i doveri dei nuovi genitori.
Al Sindaco, prima di accettare l’esposto, competeva l’obbligo di utilizzare i registri di
stato civile per cercare d’identificare la famiglia d’origine.
Ogni Comune aveva una Commissione di Patronato (composta dal Sindaco, dal Parroco e
dal medico condotto) per sorvegliare il buon mantenimento e la buona crescita degli esposti.
L’eventuale adozione del bimbo faceva istantaneamente cessare l’ingerenza dell’Amministrazione
provinciale e la somministrazione del corrispettivo economico.
98
la S toria
Ognuno di questi emigranti fu
vincolato a richiedere, prima di lasciare
la propria patria, il passaporto al
Governatore provinciale (e più tardi al
delegato di pubblica sicurezza della
Prefettura di Sondrio), sul quale
compariva: “passaporto rilasciato a… di
professione… nato a…domiciliato
a…per recarsi in…con motivazione di
viaggio per ……” a cui seguiva
l’elencazione dei connotati personali,
ovvero: età, statura media, viso, capelli,
ciglia, occhi, naso, bocca, fronte e segni
particolari (dette “marche visibili”).
Se prima del 1869 si espatriava in
Svizzera e Austria, dopo tale periodo si
aggiunse fra le mete anche l’America,
come ci ricorda il calzolaio di
Pedenosso Giovanni Berbenni, già
vedovo all’età di 26 anni, o ancora la
ricerca effettuata dal Comune di
Valdidentro per ritrovare, a nome dei
parenti, un certo Marco Bellotti,
emigrato il 3 dicembre 1873 in
compagnia di Pietro suo omonimo di
Pedenosso, mai più rintracciato.
Anche l’Argentina divenne un luogo
ambito per trovare lavoro, fatta
eccezione per il solo anno 1885,
99
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
quando risultava essere, su un
dispaccio emesso della Provincia di
Sondrio, in precarie condizioni per
sostenere altre bocche da sfamare.
Fu così che da un 1868
caratterizzato da soli tre emigranti,
calzolai e cantonieri, si passò ad un
1869 con ben undici partenze di sarti,
agricoltori, “legnamai”, fra cui l’intera
famiglia di Gabriele Canclini.
didascalia
Nel 1870 emigrarono in nove, tutti
agricoltori (evidentemente la terra non
bastava più a sostentare la
popolazione); nel 1871 ben
ventiquattro fra domestiche, contadini
e calzolai si allontanarono dal paese
d’origine e nel 1872 trentuno di
diressero in Svizzera.
Disperata si fece la situazione nel
1884 in cui lasciarono la Valle ben
quaranta persone rivolte a Buenos
Aires, Montevideo e nell’America del
nord.
Ognuno dei partenti era agricoltore
e bracciante (allora comunemente
detto giornaliero), e fra questi,
diciannove erano proprietari terrieri,
dodici dei quali , alla disperazione,
ipotecarono ogni loro possedimento
per ottenere i soldi necessari per il
viaggio.
CChi si tratteneva in patria spesso
arrotondava le proprie entrate con il
contrabbando e molti furono per
questo gli interventi della Pretura e
del Tribunale di Sondrio in quel
periodo.
Chi invece evitava di andare
contro la legge doveva trovare nuovi
lavori e, alla ditta Bernina che
gestiva esemplarmente lo
stabilimento balneare dei Bagni
Vecchi e Nuovi (con una licenza
rilasciata il 1 giugno 1869), si
affiancarono a servizio della
popolazione locale, e non solo,
l’osteria di Isolaccia gestita da
Gervasio Martinelli, le due di
Semogo di Eugenia Martinelli e
Antonio Gurini, le quattro di
Premadio di Arcangelo Romani,
Martino Peccedi, Marianna Cola e
Giovanni Bellotti , la III e IV
Cantoniera rispettivamente di
Leonardo Manfredi e Carlo Gobbi e
l’osteria di Fraele di Haffer
Elisabetta, tutte licenziate
nuovamente a far data dal 26 luglio
1868.
Questi furono i primi segni
tangibili di un “rudimentale
100
la S toria
didascalie
turismo” che si consolidò con pienezza
solo a metà del XX secolo.
Negli Hotel di prestigio dei Bagni
furono permessi i giochi d’azzardo, fra i
quali si preferivano il “tresette, i
tarocchi, la briscola, la bazzica, il gioco
delle palle e quello della mora”; tutti
intrattenimenti atti a rendere più
piacevole il soggiorno dell’elegante
clientela che li stanziava.
Necessitava inoltre, per garantire la
quiete del luogo, che gli esercenti nel
tempo massimo di ventiquattro ore
denunciassero gli ospiti che potevano
risultare sgraditi alle autorità di
pubblica sicurezza, presentando idonee
schede di notifica su cui comparivano:
nome e cognome del forestiere, patria,
età, professione, provenienza o
direzione, carte di cui esso era munito
ed eventuali osservazioni in merito.
Sovente infatti la gestione dei luoghi
di ricovero era minacciata da
incursioni di bande armate, come nel
caso del 9 giugno 1870 in cui fu
101
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
richiesta alla Pretura del Mandamento
una maggior protezione per il transito
notturno di alcune losche figure, che
dopo aver percorso il territorio di
Livigno, attraverso la torri di Fraele,
giunsero proprio nella Valdidentro.
AAltro pericolo per la sicurezza
pubblica era rappresentato dalle bestie
feroci fra cui lupi, volpi, avvoltoi,
aquile e orsi, che vivevano indisturbati
in zona; a tale proposito il 13 luglio
1872 la Prefettura di Sondrio autorizzò
il Sindaco di Isolaccia ad effettuare e
dirigere la caccia all’orso sul
I PASCOLI
proprio territorio, caccia che
doveva servire a garantire
E GLI ALPEGGI
ogni pascolo e alpeggio
Consapevoli del fatto
comunale.
che ogni cambiamento
Vennero pertanto incaricati:
Giuseppe Alschenert , Luigi Valgoi e
Engenio Martinelli di Semogo e
Gervasio Martinelli, suo figlio
Giovanni e Pietro Martinelli
d’Isolaccia, quali “scrupolosi custodi
sempre provvisti d’arma da fuoco”.
Già a partire dal 1849 gli animali
pericolosi costituivano però un
problema, tanto che parte del bosco di
Arnoga bruciò per il fuoco acceso da
un pastorello nel tentativo di tener
lontano l’orso dal suo gregge.
amministrativo si basa
inevitabilmente sulla rivisitazione e
la definizione dei propri beni, che
definiscono il patrimonio disponibile di
cui avvalersi per ogni intervento sanitario,
culturale ed edilizio del territorio, anche la
Valdidentro si occupò di locare “a corpo e non a
misura” i propri alpeggi (la montagna doveva cioè venir
“locata entro i confini in cui si trova attualmente nel
Comune”) affidandosi alla divisione introdotta da Leoprando
Sermondi nel 1605 e successivamente, con piccoli
cambiamenti, confermata nel 1613.
Il primo alpeggio ad essere locato nel XIX secolo in
Valdidentro fu quello “pascolivo di Fraele“ (spettante
anticamente ai frazionisti di Premadio, Molina e Turripiano che
potevano beneficiare del pascolo previo pagamento al locatore
di una somma definita dallo stesso) che iniziò il suo affitto con
un “patto informale” ad Andrea Cappelli il 22 agosto 1813.
Ad esso seguì un regolare contratto, per il periodo 18151823, che apportava all’esattoria comunale un fitto annuo di
281 lire e 210 centesimi, da ottenere in monete d’oro e d’argento, come indicava la normativa del 18
aprile 1816.
Altro alpeggio su cui la Valle poteva contare era quello di Verva, che l’asta dell’agosto 1821 (fatta attenendosi
alle norme stabilite dal decreto 1 maggio 1807) attribuì a Giovanni Baggi di Piangaverina nella Provincia di Bergamo
per il novennio 1822-1830, al fitto annuo di 221 lire, vincolate alla modalità contrattuale detta “a rose e spine” ovvero “a
tutto comodo o incomodo del conduttore dell’alpe” che non poteva rivalersi sul Comune, o recedere dal contratto, anche
durante i momenti spiacevoli che esso avrebbe malauguratamente incontrato.
Le locazioni seguenti per tal alpe furono quella del 17 giugno 1830 a Giacomo Scardi di Bergamo, e ancora quelle del 18401848, 1858-1866 , 1867-1868, 1869-1877, 1883-1886, 1886-1888, 1893-1895 e 1896-1898.
102
la S toria
Terzo alpeggio piuttosto remunerativo per il Comune era quello di Resaccio, di cui
si conoscono i soli capitoli del contratto stipulato per il periodo fra 1847 e il 1855,
senza purtroppo conoscere l’indicazione del locatario.
Questo poteva stanziarsi in alpe dopo il deposito di 40 lire di cauzione nelle casse
erariali e l’accettazione da parte della Deputazione comunale di una fidejussione
presentata da chi gli donava sicurtà (garanzia); ad esso spettava obbligatoriamente
anche la discesa a valle entro il 10 di settembre di ogni anno, con tutto il bestiame.
La locazione sopraccitata escludeva però i pascoli del Bosco di Pettino che
spettavano di competenza ai comunisti di Pedenosso.
Il 28 maggio 1861, in riferimento alla supplica rivolta dai vicini di Semogo alla
Giunta municipale di Valdidentro per la scarsità di pascoli appartenenti alla stessa
frazione, si ridefinirono i fitti annui degli alpeggi comunali di Arnoga, Foscagno,
Stablogimelli e Formesana locati, per nove anni consecutivi, a Luigi Valgoi e
Giovanni Rocca in cambio di un fitto annuo di sole 402 lire italiane, anziché le
484 austriache richieste nella precedente affittanza del 14 novembre 1851 allo
stesso Rocca e a Cristoforo Anzi, padre del botanico Martino.
Il 27 febbraio 1878 si ridefinirono i contratti novennali degli alpeggi di Verva,
Resaccio e Fraele e si determinò che l’affittuario dell’alpe Resaccio fosse esentato
dal costruire la cascina come precedentemente gli era stato richiesto.
Con l’alpe Verva s’intendeva affittato anche gran parte del bosco del Conte,
che più volte fu identificato e confuso con la denominazione dell’alpeggio
stesso.
didascalia
103
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Nel 1874 il Ministero
dell’Agricoltura, Industria e
Commercio sovente fu interpellato per
elargire premi in denaro ai valorosi
cacciatori, come nel caso delle 24,70
lire consegnate a Giuseppe Krapacher
per l’uccisione di una piccola orsa.
Ancora il 13 giugno 1875 si
nominarono appositi incaricati per
tutelare le greggi, eleggendo Giacomo
Mazzoni fu Giovanni Maria ed altri da
lui scelti, e concedendo la possibilità di
detenere armi nelle malghe se fossero
state minacciate dall’imminente
pericolo, come avvenne per il pastore
Giovanni Donati.
Ancora Krapacher aiutato da Celso
Pienzi e Domenico Martinelli furono
premiati nel 1875 per l’uccisione di un’
orsa, il 26 gennaio 1876 per una
successiva e il 10 agosto dello stesso
anno “per il buon lavoro su due
maschi adulti”.
La caccia all’orso in Valdidentro si
concluse con l’ultimo segnalato ed
ucciso nel 1913.
Per garantire infine la possibilità
d’esercitarsi con le armi da fuoco, Luigi
Zazzi, presidente della Società
Mandamentale Bormiese del Tiro a
Segno Nazionale, istituì nella località
Fossoir, proprio sul Comune di
Valdidentro, un deposito di cartucce
per l’esercizio del tiro a segno che
ottenne la regolare autorizzazione il 29
maggio 1892.
la S toria
GLI INIZI DEL 1900
Siamo agli inizi del ventesimo
secolo. La Valdidentro come tutti gli
altri Comuni dell’Alta Valtellina, e
come tutti i Comuni d’Italia, si avvia a
diventare il moderno comune di oggi.
Arriva la luce nei paesi e nelle case,
arrivano le prime, sbuffanti,
automobili. Ma due fatti caratterizzano
in modo particolare questo inizio
secolo: la Grande Guerra 1915-1918 e
l’inizio dello strettissimo connubio che
esiste tuttora tra il territorio della
Valdidentro e l’Azienda Energetica di
Milano anzi, come si chiamava allora,
l’Azienda Elettrica Milanese.
Sulla Cima del Monte Scale invece,
a 2.500 metri di quota, era stato
realizzato un Forte, ora restaurato e
visitabile. Esso serviva da integrazione
ed appoggio al Forte di Oga e fu
costruito negli anni 1911-1912.
Per realizzarlo fu portata a termine
in tempi molto brevi l'agevole
mulattiera che si stacca nei pressi delle
Torri di Fraéle, a1.941 metri di quota.
Essa servì pure per trasportare i
cannoni da posizione e le munizioni
pesanti con le quali il Forte Ricovero
Le montagne dell'Alta Valtellina
furono teatro, dal maggio del 1915 al
novembre del 1918, di eccezionali
avvenimenti legati alla I Guerra
Mondiale.
La Guerra Bianca, il fronte della
Prima guerra mondiale che vide come
protagoniste le vette e le nevi di queste
montagne, costringeva i soldati di
entrambe le parti a dover combattere,
prima ancora che col nemico, con
condizioni di vita e atmosferiche ai
limiti dell'impossibile.
La Valdidentro ha dato molto in
termini di territorio e di strategia
militare e sono in particolare tre gli
elementi importanti da ricordare a
questo proposito: lo stabile dei Bagni
Nuovi, la cima del Monte Scale e l’alta
Val Forcola.
Il Grande Albergo Bagni Nuovi,
divenne la sede stabile del Comando
dell’intera area militare dell’alta
Valtellina: tutti gli ordini, contrordini,
tutte le strategie, giuste o errate,
partivano da qui.
105
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Vetta di Monte delle Scale - come era
chiamato - fu man mano equipaggiato.
L'importanza difensiva di questo
Forte, nel caso di un'invasione
austriaca dalla parte dello Stelvio o
dalla parte dei neutrali territori svizzeri
a nord della Valle di Fraéle, sarebbe
stata molto grande. Il 20 luglio 1917 il
re Vittorio Emanuele III in persona, a
confermare la forte considerazione
tattico-militare di cui godeva il Monte
Scale, visitò il suo Forte, percorrendo
su di un camioncino "Itala" detto
Muletta la mulattiera delle Torri di
Fraéle e di lì proseguendo poi a piedi
sino alla vetta.
Anche la zona del Passo della
Forcola fu molto importante
strategicamente, in quanto dominava il
Passo dello Stelvio ove erano attestati
gli austro-ungarici. Lì fu costruita una
grande Caserma militare.
110
Il 1900 è un secolo in cui la storia e
lo sviluppo di una valle si intrecciano
in modo inscindibile con gli impianti
dell’Aem: in Alta Valtellina, è
simboleggiato infatti dalle grandi
costruzioni idroelettriche.
L’Azienda Elettrica Municipale di
Milano nacque l’8 dicembre del 1910
dopo che il 10 aprile dello stesso anno
un referendum popolare aveva sancito
la municipalizzazione dell’energia
elettrica. I votanti furono 16.562 dei
quali ben 15.059 si schierarono in
senso favorevole. L’Azienda iniziò così
la sua attività il 1° gennaio del 1911:
il Comune di Milano trasferì all’AEM
tutti gli impianti costruiti negli anni
precedenti, fra i quali anche la
struttura di Grosotto entrata in
funzione il 16 ottobre del 1910.
La domanda di energia elettrica crebbe
in modo esponenziale nel secondo
decennio del Novecento: le esigenze
della produzione nel periodo della
un salto di 513 metri, l’acqua
raccolta dal canale Viola
raggiungeva le turbine della
centrale ubicata a Rasìn.
guerra, il divario notevole tra le portate
estive e quelle invernali dei fiumi
richiese costanti investimenti
all’Azienda, che non riusciva più, a far
fronte alle richieste. Nel 1922 i tecnici
predisposero un progetto per
immagazzinare l’acqua in quota al fine
di arginare i perenni pericoli di black
out: in programma la costruzione di un
imponente serbatoio, da costruirsi in
val Fraele. Un intervento che alla fine
si concretizzò nella realizzazione di un
invaso di circa 24,5 milioni di metri
cubi, alto ben 43 metri, impianto
ultimato nel 1928. Quest’opera, il
serbatoio soprannominato “Cancano
I”, sancì l’inizio della presenza
dell’Azienda in val Fraele: da qui, con
la S toria
Anche negli anni del fascismo
la presenza dell’Aem si
caratterizzò per un periodo di
crescita. Come obbiettivi
primari, infatti, non solo il
potenziamento degli impianti già
realizzati ma anche la costruzione ex
novo di strutture fondamentali per un
servizio di trasmissione più rapido e
sicuro. Nel 1939 l’Aem iniziò la
costruzione di un secondo grande
invaso a Cancano, la diga di San
Giacomo, ubicata a monte di quella di
Cancano, opera che sarà continuata,
pur con qualche logico ritardo, anche
durante la seconda guerra mondiale.
Proprio la difesa di questi due
sbarramenti, data la loro importanza
strategica ed economica per l’intera
Regione, costituì il principale
obbiettivo delle brigate partigiane della
zona. La distruzione delle dighe
avrebbe infatti comportato anche
111
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalie
l’allagamento di gran parte della valle:
su molte case, in quegli anni, fu
dipinto un segnale per indicare il
livello al quale sarebbe arrivata l’acqua
in caso di cedimento dei laghi
artificiali, oltre all’illustrazione delle
possibili vie di fuga. A Cancano per
molte persone, quali operai, dirigenti
di Aem e partigiani, quelli furono gli
anni di “Digapoli”, il villaggio costruito
ai piedi della diga di San Giacomo
successivamente sommerso dalle acque,
per molto tempo la casa di tanti
lavoratori. Da ricordare che per la
realizzazione della diga di San Giacomo
venne costruita una linea filoviaria di
60 chilometri con pali di cemento
armato caratterizzata dai famosi
“filocar”, che trasportavano i materiali
dalla stazione ferroviaria di Tirano alla
Prima Cantoniera dello Stelvio. Da qui
il cemento proseguiva per ulteriori 7,5
chilometri per via aerea, attraverso una
teleferica, fino a raggiungere quota
1950 metri in val Fraele.
Al termine della II Guerra Mondiale
l’Azienda riprese la propria attività e
portò a termine la costruzione della
diga di San Giacomo. 64 milioni di
metri cubi d’acqua, un’altezza massima
di quasi cento metri, una nuova
struttura che funzionò da subito anche
come centrale di pompaggio: pochi dati
per descrivere l’invaso di San Giacomo,
che all’epoca fu annoverato come il più
grande sbarramento europeo per
volume di calcestruzzo, intervento
inaugurato il 27 agosto del 1950.
All’inizio del 1952 fu inoltre dato avvio
ai lavori per la costruzione della
centrale di Premadio e della nuova diga
di Cancano, la “Cancano II” che,
ultimata nel 1956, andò a sommergere
la preesistente con il suo invaso che
raggiunge una capienza di 123 milioni
di metri cubi.
114
L’acqua, una grande risorsa di cui la
Valdidentro è prodiga. Acqua che
I GHIACCIAI DELLA VALDIDENTRO
d’inverno si trasforma in neve, neve
che si trasforma in ghiaccio. E la
Durante l’ultima grande avanzata dell’era glaciale, la
storia della Valdidentro vuole
glaciazione Wurmiana, le Alpi erano pressoché ricoperte
concludersi così, con un pezzettino
da ghiacci. In particolare l’esteso ghiacciaio dell’Adda, che
di storia di coloro che sono stati
scendeva dalla Valtellina, occupava l’intera area del Comasco
gli artefici della costruzione di
e della Brianza fino a lambire il limite settentrionale della
Pianura
Padana. In seguito al miglioramento delle condizioni
questa bellissima valle: i suoi
climatiche, i ghiacciai alpini iniziarono a ritirarsi. L’intervallo
ghiacciai. Sono loro che per
comprensivo delle ultime fasi dell’ultima glaciazione viene
millenni hanno scolpito i
designato
con il termine "Tardiglaciale". Il ritiro delle masse glaciali
suoi fianchi, dalla Val Viola
e la conseguente colonizzazione della vegetazione delle aree
e dalla Val Dosdè, dalla
deglaciate non procedettero in modo continuo e graduale bensì in
Val Verva alla Cima
modo irregolare, con interruzioni e talora riavanzate glaciali
Piazzi, tuttora regina
momentanee. L’intervallo di tempo nel quale si verificarono i
incotrastata della
miglioramenti climatici responsabili del ritiro dei ghiacci nelle valli più
Valdidentro.
interne, si può datare circa 15.000 anni fa e la sua durata complessiva in
5.000 anni. La fine di tale intervallo è fatta coincidere con il limite
"Pleistocene- Olocene", come lo chiamano gli studiosi del settore, posto a
10.000 anni fa.
Nella Val Viola Bormina all’inizio del Tardiglaciale sussisteva un’unica
grossa massa glaciale che comunicava a Nord (attraverso il Passo del Foscagno e
quello di Trela) con il ghiacciaio di Livigno, verso Ovest (tramite il Passo Viola)
la colata stabiliva un collegamento con il complesso glaciale di Campo, in
Svizzera. In tale epoca il ghiacciaio congiunto Viola-Adda-Frodolfo si estendeva
sino nei pressi di Zola (Valdisotto 1140 m) e lo spessore che presentava lo si può
ricostruire idealmente tracciando una linea che va da S.Pietro alle Motte d’Oga.
L’Olocene sulle Alpi fu caratterizzato da ripetute fasi di avanzata, articolate a loro
volta, in un numero di fluttazioni minori. Il grado di estensione di queste avanzate è
comparabile a quello della Piccola Età Glaciale, la fase di avanzata glaciale culminata tra
il 1600 e il 1850. Ne sono testimonianza la deposizione di caratteristici accumuli di
materiale morenico ancora oggi scarsamente vegetati e ben distinti da quelli più esterni di
età tardiglaciale. Un'avanzata di entità minore è avvenuta anche intorno al 1920; dopo tale
data si assiste ad un accentuato ritiro, interrotto soltanto da una modesta inversione di
tendenza nel decennio 1970-1980 esauritasi già negli anni intorno al 1990.
Merita di essere descritto il fenomeno di deviazione glaciale avvenuta nel bormiese
nell’Olocene e per la prima volta proposta negli anni ’30 del secolo scorso dal Prof. Giuseppe
Nangeroni, emerito studioso di glaciologia dell’Università Cattolica di Milano, come ipotesi e in
seguito consolidata da ritrovamenti rocciosi dal Prof. Italo Bellotti, nativo di Isolaccia, professore
di lettere e poi preside della scuola media Martino Anzi di Bormio e operatore glaciologico dal
1953. Il prof. Nangeroni sosteneva che la colata glaciale alimentata dai ghiacciai del Viola-DosdéPiazzi giunta alle Motte d’Oga non poteva, se non in minima parte, proseguire verso la Valtellina
perché contrastata dalla spinta ben maggiore delle colate provenienti dallo Stelvio e dalla Valfurva. La
maggior parte della massa glaciale rigurgitava indietro innalzando sempre più il ghiacciaio al punto di
farlo tracimare verso la Val Vezzola-Trela-Val Fraele per procedere poi verso la Val del Gallo. Conferma di
quell’ipotesi sono le evidenti striature causate dall’abrasione glaciale tuttora osservabili su un masso
roccioso in Alpe Trela completamente levigato dal passaggio di un antico ghiacciaio le cui direzioni sono
rivolte a Nord verso la Valle di Fraele.
Negli anni successivi il Prof. Bellotti continuò il lavoro di misurazione dei ghiacciai del gruppo Piazzi-
115
la S toria
Dosdè e Campo nel livignasco, iniziato
nel 1932 dal già citato Prof. Nangeroni.
Durante una campagna glaciologica trovò
sulle montagne che coronano la Cima
Piazzi verso la Val Verva numerosi massi
di una roccia di notevole bellezza per la
sua particolare cristallizzazione. Si tratta di
una diorite anfibolica, più dura del
granito. La stessa roccia la rinvenne anni
più tardi in Val Fraele poco sopra la
chiesetta di S. Giacomo, anch’essa appare
completamente levigata ad opera di un
ghiacciaio.
L’appartenenza di una roccia di tale
tipologia alla Val Fraele, zona
geologicamente dominata dalla
formazione calcarea, appare improbabile;
la roccia è quasi sicuramente originaria
del Gruppo Montuoso Piazzi e qui
trasportata nei millenni dall’imponente ghiacciaio, confermando l’ipotesi espressa dal prof.
Nangeroni e poi dal prof. Bellotti.
didascalie
Quest’ultimo ha coltivato per lungo tempo, circa quarant’anni, e con grande cura la sua
passione, tra le altre, inerente lo studio dei ghiacciai e le relative misurazioni. Nel tracciare la
storia recente del ghiacciaio Piazzi e del ghiacciaio Dosdé non si può prescindere dalle
osservazioni e dai dati da lui raccolti con costanza in ogni campagna glaciologica. I rilevamenti,
iniziati nel lontano 1953, si avvalevano di una strumentazione semplice e forse poco precisa se
paragonata ai moderni apparecchi tecnologici. Nello zaino metteva una corda lunga circa 70 metri,
arrotolata su un bastoncino, che serviva per misurare la fronte del ghiacciaio tramite appositi
segnali (contrassegni con vernice al minio, che ha la proprietà di resistere nel tempo agli agenti
atmosferici) collocati su enormi massi stabili che si trovavano lungo il perimetro frontale
dell’apparato stesso. Vi era sempre, poi, la macchina fotografica per documentare lo stato del
ghiacciaio: la ripresa avveniva ogni anno dal medesimo punto identificato da un masso roccioso con
la scritta SF (stazione fotografica) e un taccuino, per segnare i dati e le osservazioni relative alla massa
glaciale compiute sul campo. Le attività principali per lo studio dei ghiacciai sono, infatti, la
misurazione dell’arretramento della fronte, la determinazione della velocità d’avanzamento della colata
e della profondità della colata stessa.
A volte procedeva alla misurazione della velocità di flusso del ghiacciaio, cioè allo studio della
dinamica del suo movimento verso valle. Il metodo utilizzato era molto semplice: vengono fissati due
punti di riferimento ai lati della colata glaciale e viene quindi tesa una corda lungo la quale si introduce
una serie di paline di legno equamente distanziate, che rimangono in loco. L’anno successivo si può
osservare che le paline sistemate in linea retta appaiono disposte a festone, cioè più avanzate quelle centrali
e più arretrate quelle laterali. Non sempre questo metodo di lavoro dava i risultati sperati, perché le paline
spesso da un anno all’altro non si trovavano più e ciò vanificava il lavoro svolto. Tutto era annotato e
registrato su apposite schede, che venivano periodicamente inviate al Comitato Glaciologico a Torino.
I dati raccolti e la relativa documentazione fotografica riferita ad un numero di 53 apparati glaciali, sono
stati raccolti e catalogati dal prof. Belletti in fascicoli che oggi rappresentano una storica documentazione.
Tutto questo rileva una profonda passione per le sue montagne, vissuta in prima persona, condivisa con la
famiglia, raccontata ai suoi alunni e insegnanti per tanti anni e viva e sempre presente nei ricordi delle lunghe
passeggiate per raggiungere la meta, con rientro all’imbrunire.
i Paesi
La cultura e la spiritualità
La Valdidentro, la valle più estesa
dell’alta Valtellina, è formata da paesi e
frazioni, nuclei abitativi che sin da
epoche remote hanno contraddistinto
la valle. Si tratta in molti casi, di un
pugno di case disposte attorno ad una
chiesa, ad una fontana, ad una scuola,
ossia a quegli elementi che
anticamente, a causa di difficoltà
materiali e della penuria diffusa,
costituivano i principi portanti sia della
vita materiale che di quella spirituale,
al fine di rendere la vita meno gravosa.
Soprattutto le chiese testimoniano
fermamente la vita di questi nuclei
abitativi. Le chiese, attraverso il loro
evolversi e modificarsi, ci raccontano la
storia, la cultura, la spiritualità e la
devozione della comunità. Guerre,
epidemie, difficoltà hanno fortemente
lasciato il segno negli abitanti delle
vicinanze, che si rivolgevano alla sfera
del sacro per ottenere sostegno. La
gratitudine di queste vicinanze veniva
poi spesso espressa direttamente nelle
loro chiese di riferimento, che
ancor’oggi ci testimoniano la vita e la
storia di un’intera collettività.
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
120
i Paesi
Le chiese della Valdidentro
SAN GIOVANNI A MOLINA
Lungo la via di transito usata un
tempo per raggiungere il passo
dell’Umbrail si trova la chiesa dedicata
a S. Giovanni Battista. Si tratta di una
piccola chiesetta ad aula unica con
loggiato e pianta rettangolare, attestata
sin dal 1402. La chiesa un tempo era
mantenuta dalla vicinanza di Molina e
faceva capo alla parrocchia di S. Gallo.
La parte esterna, rimaneggiata nel
corso degli anni, conserva sulla facciata
sud i frammenti di un affresco
raffigurante il “grande S. Cristoforo”.
Purtroppo l’aggiunta del campanile nel
1540, di cui era sprovvista la chiesa
primitiva, comportò la mutilazione del
grande santo che regge il bambino
Gesù sulle spalle e alla cui immagine la
credenza popolare antica attribuiva la
capacità di evitare la morte improvvisa.
Il santo raffigurato nel frammento era
molto venerato nel bormiese, tanto cha
la sua immagine gigantesca era effigiata
su facciate e navate di molte chiese del
bormiese. L’affresco, per la limitata
gamma dei colori usati e per la staticità
dei personaggi, sembrerebbe
riconducibile a mano di artista
valtellinese del XV secolo.
La chiesa delle origini era più
piccola dell’attuale; il tetto aveva
spioventi molto più accentuati con
capriate a vista sostituite dall’attuale
volta nel 1553. Il coro era di
dimensioni ridotte ed affrescato; nulla
rimane di queste pitture, andate perse
a seguito del rifacimento della parte
absidale alla fine del XVII secolo.
Elemento di pregio e opera d’arte
significativa della chiesa è la piccola
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
122
ancona lignea che adotta la
forma del Flügelaltar,
rispettando un modello in auge
nella zona tra il 1400 ed il 1500.
La piccola ancona o
“trittico”, riconducibile alla fine
del XVI o inizio del XVII
secolo, è costituita da una parte
centrale dotata di antine
richiudibili su se stesse. La
funzione di questi piccoli altari,
caratteristici di tutte le chiese
locali antiche, era quella di
creare un effetto “scenografico”;
l’altare veniva aperto in
occasione di particolari festività
e conferiva “teatralità” e
significato alla liturgia in essere,
quasi a voler inscenare una
piccola sacra rappresentazione.
L’altare, aperto in occasione di
ricorrenze particolari, quali la
festa dei santi titolari, rimaneva
poi chiuso per la restante parte
dell’anno.
i Paesi
Ad ante chiuse l’ancona della chiesa
di Molina ci mostra le immagini di
santi molto venerati in loco: San Carlo
Borromeo, il santo sostenitore dei
principi della controriforma ed
invocato in aiuto contro la peste, e San
Filippo Neri, patrono dei giovani. Le
figure dei due santi, dipinte su tela,
vennero applicate successivamente sugli
sportelli lignei dell’ancona. Ad ante
aperte l’altare ci mostra al centro
l’immagine della Vergine Maria con il
Bambino in braccio ed ai lati i due
Giovanni: il Battista, come di consueto
vestito di pelli, e l’Evangelista, che
regge il calice contenente la vipera, suo
tipico attributo iconografico. La vipera
vuole ricordare un miracolo che
occorse a S. Giovanni il quale, avendo
bevuto da un calice contente del
veleno, rimase immune e resuscitò
pure le due persone che, avendo
bevuto dallo stesso calice prima di lui,
furono colpite da morte improvvisa.
Sulle ante aperte vi sono le
immagini scolpite a bassorilievo di San
Giacomo Maggiore patrono dei
pellegrini ed un altro santo
comunemente ritenuto San Gallo, pur
se non accompagnato da sufficienti
attributi iconografici tali da poter
confermare la precisa identità dello
stesso.
all’area o ad artista di provenienza
nordica, l’insieme è indubbiamente
apprezzabile per la ricchezza delle
decorazioni e per i particolari dati dai
motivi vegetali e a racemi che decorano
l’insieme, per la buona resa della
doratura e per la genuinità delle figure
realizzate.
Nella chiesa si conservano inoltre tre
interessanti acquasantiere a muro,
testimonianti l’opera di qualificati
lapicidi che operarono nelle nostre
valli. In prossimità della porta di
ingresso la grande acquasantiera è
modellata con motivi a squame,
elemento decorativo raramente
utilizzato nel bormiese, mentre quella
fissata sul loggiato è sagomata a foggia
di elegante e raffinata conchiglia.
Degna di nota è pure la casa di
colore rosato posta di fronte alla chiesa
di S. Giovanni. La casa è conosciuta
come “casa del Monico”. L’edificio, di
pertinenza un tempo della chiesa di
San Giovanni, era tradizionalmente
abitato dal sagrestano addetto alla
custodia della chiesa.
didascalia
L’ancona conserva inoltre nella parte
centrale la testa decollata del Battista
ed al culmine la Crocefissione
raffigurata secondo il canone classico,
dove a lato della croce si trovano la
Madonna e l’apostolo più caro a Gesù,
San Giovanni apostolo.
L’ancona, databile intorno alla fine
del 1500, rappresenta un’opera di
pregio artistico e storico ben radicato
nel territorio locale. Nonostante le
statue siano tozze e rigide nei loro
atteggiamenti, elementi che ci
consentono di avvicinare l’ancona
123
124
i Paesi
SAN GALLO
Isolata nella campagna della piana
che dalla chiesa prende il nome, con
uno svettante campanile che cosí
fortemente caratterizza l’ambiente
circostante, la chiesa di S. Gallo è ricca
di storia e di arte. Le antiche origini
rimangono ancora avvolte nel mistero.
Non ci è dato conoscere la sua esatta
data di fondazione, pur se è uso locale
ricondurre l’esistenza della chiesa ad
un’età remota nella quale si suppone
che si trovava presso la chiesa forse un
fortilizio, oppure un ricovero per
pellegrini o forse ancora un antico
monastero. Di tutte queste congetture,
nulla appare negli antichi documenti.
La prima citazione certa della chiesa
risale al 1243, epoca in cui la chiesa era
diversa rispetto all’attuale. I recenti
restauri e scavi archeologici hanno
permesso di constatare che la chiesa
primitiva si limitava ad una superficie
di poche decine di metri quadrati,
addossati alla parete meridionale
dell’attuale edificio.
l’edificio originario si dimostrò ben
presto insufficiente per le nuove
competenze che il piccolo edificio si
trovava a svolgere. Si rese dunque
necessario adattare la chiesa alle
esigenze che il nuovo titolo implicava,
così che nel 1478 le tre vicinanze
diedero inizio all’ampliamento
dell’edificio. Della costruzione
preesistente fu mantenuta la sola parete
sud mentre i restanti lati furono estesi
e venne aggiunto pure il loggiato
interno che tanto qualifica l’edificio,
grazie anche al gioco di nervature
eseguite sull’arco di sostegno dello
stesso. I lavori procedettero
speditamente tanto da rendere
possibile la consacrazione della chiesa
già nel 1480. Espediente di successo
per l’arredo e la decorazione interna
dell’edificio fu la concessione da parte
del vescovo Branda Castiglioni di
particolari indulgenze a tutti coloro che
avessero devoluto alla chiesa lasciti e
donazioni.
didascalie
Dall’epoca della sua fondazione, S.
Gallo fungeva da chiesa di riferimento
per le contrade di Molina, Turripiano e
Premadio, pur se i sacramenti venivano
impartiti solamente nella chiesa
Collegiata dei santi Gervasio e Protasio
di Bormio. Proprio la lontananza da
Bormio, ed un inverno particolarmente
rigido che rese malagevoli gli
spostamenti verso Bormio stessa,
indussero gli abitanti delle tre vicinanze
a richiedere al capitolo di Bormio la
possibilità di elevare San Gallo a
parrocchia indipendente.
L’autonomia a S. Gallo venne
concessa nel 1467 con soddisfazione
delle tre vicinanze. La nuova dignità di
parrocchiale comportó una maggiore
frequentazione della chiesa, tanto che
125
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
I parrocchiani si dimostrarono
nell’occasione particolarmente solerti,
così che S. Gallo venne adeguatamente
arredata, vennero affrescate le pareti e
fu fatto realizzare il pregevole trittico
attualmente conservato nella chiesa
parrocchiale di Premadio.
Notevole è la qualità artistica degli
affreschi parietali, dei quali ci è ignoto
il nome dell’artista che li realizzó nel
1482. Si tratta di alcune figure di santi
eseguiti a grandezza reale, dai colori
molto vivaci, racchiusi entro cornici
dalle tinte di terra delicate. Entro
queste aree sono dipinte le immagini di
quei santi che tanto cari dovevano
apparire alla popolazione dell’epoca.
Sulla parete di sinistra si trova un
Sant’Antonio dal volto espressivo e
bonario, con abito scuro dal panneggio
morbido; il santo è raffigurato con i
suoi classici attributi: il bastone, il
libro, il campanellino. Ai suoi piedi si
trova uno sgraziato maialino.
Accanto a lui, mutilato da un varco
aperto successivamente, si trova un
santo vescovo non meglio identificato.
Anche questo personaggio, come
Sant’Antonio, ha un’espressione molto
intensa e il viso finemente delineato; in
mano regge un libro ed in testa ha il
pastorale.
Al di sopra di queste figure, sta una
pregevole e raffinata figura femminile
in trono, probabilmente raffigurazione
della Vergine o forse di una santa
incoronata. Purtroppo il restauro ci ha
restituito questa immagine solo in
parte e da quel poco che ci rimane si
percepisce il lavoro di un artista di
rilievo, con sapienti capacità tecniche e
capace ed efficace uso del colore.
didascalia
126
Sempre il lato destro della chiesa
conserva una nicchia
successivamente aperta
con funzione di
battistero. Nella parte
alta si conservano
ancora tracce di un
dipinto raffigurante San
Giovanni che battezza
Gesù (1717); autore di
questi dipinti fu il
Noalino, artista attivo
pure alla chiesa della
Madonna della Pietà di
Turripiano. Pregevole è
pure il battistero a
forma di cupola qui conservato,
risalente al XVIII secolo.
Di grande interesse iconografico
appaiono i dipinti conservati lungo la
parete sinistra della chiesa,
riconducibili anch’essi alla fine del
Quattrocento e racchiusi come quelli
della parete opposta, entro ben
dettagliati spazi.
Accanto ad un frate francescano
non identificabile, ci sorprende la
figura di un bambino ignudo, legato,
steso su una tavolozza di legno, con un
cappio al collo e con spilloni e altri
strumenti di tortura posti accanto al
corpicino. Si tratta di San Simonino
martire, il bambino brutalmente ucciso
nel 1475 e del quale si conobbe nel
bormiese una presta e sentita
venerazione, tant’è che la sua
immagine venne riprodotta pure sulle
pareti della chiesa di S. Spirito e su
quella dei Santi Gervasio e Protasio in
Bormio.
Sull’arco trionfante si conserva la
figura di San Sebastiano, raffigurato
come di consueto nudo con il corpo
trafitto da frecce; il santo veniva
invocato contro il morbo pestilenziale.
La chiesa di San Gallo ha subito
numerose modifiche nel corso della
sua lunga storia; sono ancora
chiaramente percepibili le tracce di
aperture, di tamponamenti e di
modifiche effettuate nel corso dei
secoli per assecondare l’edificio sia alle
esigenze ecclesiastiche che al gusto
architettonico delle diverse epoche.
Un tempo la chiesa era dotata di
due altari laterali dedicati uno alla
Beata Vergine ed uno a San Carlo
Borromeo (sostituito poi con quello
della confraternita del Disciplini). Gli
altari vennero demoliti in seguito
all’ordine ricevuto dal visitatore
apostolico Feliciano Ninguarda (1614 -
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
128
1615). Grandioso doveva essere pure il
ciborio ligneo dorato (XVII secolo)
posto sull’altare maggiore, del quale
rimangono solo poche sbiadite
immagini. Si trattava di un altare di
grande pregio, realizzato a più piani,
arricchito da colonnine, racemi, statue
di santi e terminante con una vistosa
statua del Redentore. Purtroppo la
noncuranza e la trascuratezza che la
chiesa di San Gallo ha conosciuto
dopo il suo abbandono a seguito della
perdita della dignità parrocchiale
(1833), ha fatto sì che questa antica e
preziosa opera d’arte andasse persa.
Quanto non fu rubato venne
purtroppo vandalicamente incendiato
negli anni 1980. Di tutta questa
monumentale opera si conserva ora
solamente la predella che funge da
sostegno per la statua dell’altare
maggiore raffigurante San Gallo
accompagnato dall’orso, suo classico
attributo iconografico.
La parte absidale che ammiriamo
ancor oggi, è frutto di una
ricostruzione assegnabile al 1631. In
quest’anno venne infatti demolito il
preesistente coro a volta e sostituito
con l’attuale, definito nella parte
mediana con un cornicione dentellato,
decorazione caratteristica del gusto
barocco dell’epoca.
Degna di nota è pure la struttura
architettonica esterna della chiesa, con
facciata a capanna, rosone e tetto
fortemente a spiovente. Lo svettante
campanile definito nella parte angolare
da decorazioni geometriche ?????????
i Paesi
SAN CRISTOFORO A PREMADIO
Come tutte le chiese della zona,
anche la chiesa di San Cristoforo ha
conosciuto, nel corso dei secoli, una
lunga storia fatta di rifacimenti e
modifiche sino al totale e definitivo
abbandono dell’edificio avvenuto nel
1972 a seguito della realizzazione della
nuova e più capiente chiesa, che meglio
si prestava ad ospitare la popolazione
di Premadio e frazioni, ormai molto
aumentata di numero, per la quale
l’antica chiesa era ormai totalmente
insufficiente.
La chiesa di San Cristoforo compare
per la prima volta in una citazione del
19 ottobre 1397, secondo cui la chiesa
doveva esistere a quell’epoca già da
alcuni anni. L’edificio era certamente
molto più piccolo dell’attuale ed era
utilizzato dalla sola comunità di
Premadio in occasione di particolari
festività e celebrazioni, essendo chiesa
parrocchiale di riferimento, per
Premadio, dapprima la chiesa dei SS.
Gervasio e Protasio di Bormio e dal
1467 la chiesa di S. Gallo.
molte delle nostre chiese - San
Giovanni a Molina per ricordarne una
- ma grande doveva essere la sua
venerazione se l’immagine del santo è
effigiata pure spesso anche all’interno
di edifici sacri. Cristoforo è un santo
asiatico del III secolo. Reprobo, questo
il suo nome originario, era di statura
molto grande. Suo desiderio era quello
di lavorare per l’essere più potente
della terra: dopo aver prestato servizio
e successivamente abbandonato un
grande re e per il demonio perché non
sufficientemente potenti, si mise a
E’ probabile che la piccola chiesa
delle origini fosse affrescata sia
all’esterno che all’interno, ma di cio’
non ne rimane traccia alcuna. Il
loggiato che ancor oggi corre
tutt’attorno alla chiesa, sebbene rifatto
in muratura agli inizi del 1900 in
sostituzione di quello ligneo,
caratterizzava già la chiesa primitiva. Di
impatto risulta pure il campanile della
chiesa, innalzato nel 1690, terminante
con una bella cuspide slanciata.
Curiosa e interessante è la
dedicazione della chiesa a San
Cristoforo, santo molto venerato in
tutto il bormiese, ed invocato contro la
morte improvvisa. La sua immagine
gigante compariva sulla facciata di
129
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
traghettare dei pellegrini da una parte
all’altra di un grosso fiume. Un giorno,
trasportando in spalla un bambino, si
accorse del suo enorme peso, tanto che
a Reprobo sembrava di trasportare il
mondo intero: il bimbo si rivelò essere
Gesù e da allora Reprobo assunse il
nome di Cristoforo, ossia “Portatore di
Cristo”. Da quel giorno Cristoforo si
mise al servizio di Cristo, predicando la
sua parola.
L’interno della chiesa che si
conserva attualmente è frutto di un
rifacimento ottocentesco. L’edificio si
presenta con un’aula unica, due piccoli
altari laterali e un’ampia abside.
Nella chiesa si trovano parecchie
opere di degno interesse artistico, quali
una piccola acquasantiera realizzata in
marmo bianco sulla quale è finemente
scolpito un grazioso angioletto, l’altare
maggiore composto da marmi colorati
e le due ancone conservate entro gli
altari laterali.
L’altare di destra custodisce
un’elegante opera lignea, proveniente
probabilmente dalla chiesa di S. Maria
Nascente di Isolaccia. L’altare,
riconducibile al 1708, per carattere e
tipologia sembrerebbe opera dello
scultore della Valdidentro Gian Maria
Donati. L’insieme è costituito da un
impianto formato da due colonne
decorate con motivi vegetali che si
innalzano con delle spirali e
terminante con un timpano spezzato,
recante al centro la statua di San
Michele. L’altare, mancante di due
statue che dovevano essere fissate sulle
mensoline rette da angeli cariatidi posti
a lato delle colonne, racchiude una tela
dal forte cromatismo, raffigurante la
Natività della Vergine attorniata da
numerosi personaggi.
Raffinato è pure nel complesso
l’altare di sinistra. L’ancona, opera
130
riconosciuta di Giovan Pietro Rocca,
abile artista del legno originario di
Oga, è costituita da due colonne che
recano delle teste di angeli e
decorazioni laterali a ornamenti ed
angioletti; la parte terminale
dell’anconetta propone motivi
geometrici e termina con due grandi
volute che si riuniscono nella parte
centrale con motivi a racemi.
D’interesse è la tela (XVII secolo)
racchiusa nell’altare. Al centro, entro
raggi dorati, appare la figura della
Vergine con il Bambino in braccio.
Tutt’attorno sono raffigurati i 15
misteri del rosario, mentre in basso vi
sono San Domenico, il santo molto
devoto alla Vergine che tanto si
prodigò per la diffusione della pratica
del rosario, e Santa Rosa, in abito
domenicano.
La chiesa di San Cristoforo, sebbene
inizialmente utilizzata dai penèglia solo
per particolari funzioni religiose,
essendo San Gallo la parrocchiale di
riferimento per Premadio, su
concessione del visitatore apostolico
Federico Borromeo del 1664 venne
usata per le celebrazioni quotidiane
durante i rigidi mesi invernali, quando
gravoso doveva essere spostarsi sino a
San Gallo. Dopo un pressochè totale
rifacimento avvenuto nel 1842,
Premadio ottiene la dignità
parrocchiale nel 1844, con il definitivo
abbandono della chiesa di San Gallo.
Tra le opere d’arte conservate a
Premadio, degna di nota è la piccola
ancona lignea, voluta dalla
confraternita della Beata Vergine Maria
per la chiesa di San Gallo, trasferita poi
nella chiesa di San Cristoforo e
custodita attualmente nella cappella
“invernale” dell’attuale chiesa
parrocchiale. Si tratta ancora una volta
di un trittico, che tanta teatralità
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
conferiva alla liturgia quando, in
occasione di particolari funzioni
religiose, veniva aperto dando vita ad
una rappresentazione sacra, riccamente
scenografica, che il popolo tutto poteva
venerare ed ammirare.
L’ancona in questione, nonostante
la perdita di una statuina e di alcuni
parti decorate che coronavano
l’insieme (perdita subita a seguito di un
furto negli anni settanta del 1900) è
ancora ben conservata. Al centro la
statua della Vergine con il Bambino e
alla destra San Giovanni Battista
vestito di pelli. La parte interna delle
antine presenta da un lato l’allegoria
della fede e dall’altro quella della
Carità, entrambe raffigurate ad alto
rilievo su uno sfondo dorato decorato
da raffinati motivi vegetali. Le ante
esterne riproducono San Martino di
Tours accompagnato dall’oca, suo
attributo, e Sant’Antonio abate,
raffigurato con il maialino ai piedi. Al
centro della predella si trova un
semplice presepe, dove il Bambino
Gesù è adagiato sul velo della Vergine.
Pure la scena della Natività è dotata di
antine richiudibili che presentano nella
parte interna due sante regine e in
quella esterna i dipinti dei santi Rocco
e Sebastiano invocati contro il morbo
pestilenziale. I santi Floriano e Fedele
sono raffigurati nella parte estrema
della predella. Nel complesso sembra
possibile assegnare l’ancona di
Premadio alla metà del XV secolo.
L’opera conserva tratti tipicamente
nordici, da cui si deduce la provenienza
o quantomeno la realizzazione da parte
di artista formatosi nelle regioni di
lingua tedesca. Le statue appaiono
statiche e inespressive, indossano abiti
dai panneggi secchi e duri;
particolarmente raffinato si presenta
invece il fregio di gusto gotico che
decora l’intera anconetta, mentre la
scena del presepe conferisce a tutto
l’insieme un tocco di dolcezza e di
vivace narrazione popolare.
i Paesi
SAN MARTINO AI BAGNI
Sin dal basso medioevo esisteva
nella località conosciuta come i “Bagni
di Bormio” un nucleo abitativo
composto dall’ospizio per i viandanti,
dai bagni, dalle fortezze poste a tutela
dell’intero Contado e dalla chiesetta
dedicata a San Martino, il santo
soldato deputato alla salvaguardia del
luogo. Incerte sono le origini della
chiesa, pur se alcuni storici locali la
ritengono di probabili origini
carolinge, mentre altri ancora fanno
risalire la sua fondazione al 1093,
quando il vescovo Artico in visita a
Bormio dotò una cappella ai Bagni
dedicandola al santo di Tour. In realtà
la prima citazione archivistica che ci
informa dell’esistenza della chiesa risale
al 1201, quando la chiesa è citata
nell’ambito del trattato di pace
stipulato fra Como e Bormio, trattato
che impose a Bormio la demolizione
delle fortezze costruite da poco, ma che
risparmiò la chiesa e gli edifici legati ai
Bagni. Dopo il 1201 i documenti
relativi a San Martino tacciono sino al
XVI secolo, epoca i cui la chiesa venne
parzialmente ricostruita. A quell’epoca
l’edificio disponeva di un porticato
esterno che le correva tutt’attorno, di
ossario e cimitero, elementi tipici
dell’architettura ecclesiastica della
Valdidentro, che furono purtroppo
eliminati a San Martino nel corso di
un pesante rifacimento eseguito nel XX
secolo.
Come ci appare ora San Martino è
un minuto tempio ad aula unica,
arroccato sul pendio e sostenuto nella
parte absidale da una grande arcata.
L’esterno è semplice, la struttura è
aggraziata da un piccolo campanile, da
un giardino-sagrato (l’antico cimitero) e
dispone di due porte d’ingresso, una
che dà sulla navata ed una che dà sul
loggiato interno, utilizzato un tempo,
come consuetudine in loco, dai soli
uomini.
Certamente la facciata nord, dove si
trova la porta d’accesso, doveva essere
affrescata, come testimoniato da alcuni
saggi liberati dall’intonaco sovrastante e
che solamente un restauro non più
rimandabile potrà svelarci.
Pagina a fronte:
Isolaccia a inizio
1900, con la chiesa
del ‘500 abbattuta e
ricostruita con diverso
orientamento nel
1938.
Pure le pareti interne erano
completamente affrescate; di queste
pitture alcune sono ancora
sufficientemente leggibili, mentre altre
sono state ricoperte o sono solo
malamente intuibili. Sulla parete di
destra si conserva un affresco dai colori
di terra e dai tratti molto marcati, che
reca al centro la Vergine con il
Bambino affiancata da S. Barbara con
il calice e l’ostia e da altre tre Sante. Il
dipinto è realizzato usando una gamma
di limitati colori di terra. Il forte
133
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
linearismo, il grafismo accentuato e la
presenza di alcuni elementi ricorrenti
nelle opere dell’artista, hanno
consentito di attribuire il dipinto alla
mano dell’artista conosciuto come
Giovannino da Sondalo (in realtà il
pittore – che forse non si chiamava
nemmeno Giovannino - era originario
di Grosotto), l’artista valtellinese
maggiormente attivo in alta valle a
cavallo fra il XV e il XVI secolo. E’
possibile individuare la mano dello
stesso artista pure a ridosso del
loggiato, sulla parete di sinistra, dove
dei resti di pitture inquadrati entro
spazi definiti da un motivo decorativo a
tortiglione lasciano intuire parte di una
Crocifissione. Pure il catino absidale
era un tempo completamente dipinto.
L’artista che si occupò di questa
decorazione, eseguita nel 1564, fu
Cipiano Valorosa, il longevo pittore di
Grosio che con la sua bottega fu
particolarmente attivo in tutta la
Valtellina. Dell’opera dell’artista
grosino è ora visibile la sola immagine
di San Martino che divide il mantello
con il povero, mentre l’intero catino
absidale è stato ricoperto da scialbature
e la parte bassa è stata rivestita da un
devastante assito di legno.
L’abside custodiva un tempo pure
un’interessante pala d’altare, dipinta
dallo stravagante pittore bormino
Carlo Marni nel 1640. La pala, persa a
seguito di furto nel 1976, raffigurava
San Martino a cavallo in atto di
dividere il mantello con il povero.
Nulla rimane degli arredi della
chiesa che dovevano essere copiosi se
consideriamo che la chiesa era
regolarmente officiata soprattutto nei
mesi estivi. La chiesetta conserva
ancora due acquasantiere infisse nel
muro, una delle quali, quella sul
loggiato, riporta la data 1685.
Nei secoli XVIII e XIX la chiesa ha
subìto danni e devastazioni, pur se le
più pesanti e sconvolgenti
trasformazioni dell’edificio originario
sono da riferirsi al secolo scorso
quando oltre alla demolizione del
porticato esterno fu sostituita l’antica
pavimentazione in lastre di pietra con
quella attuale a piastrelle.
Nonostante questi infelici e recenti
interventi di sistemazione, San
Martino, per la posizione che occupa e
per quanto ancora cela, rimane un vero
gioiello della storia e dell’arte della
Valdidentro che solamente un restauro
cosciente potrà restituirci al meglio.
i Paesi
SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA PIETÀ
Posta a Fiordalpe lungo la via per
Fraele, percorso un tempo molto
trafficato per scambi di merci e di idee,
la chiesa architettonicamente propone
uno stile nuovo per la Valdidentro: si
tratta infatti di uno dei primi esempi di
arte barocca presente in valle. La chiesa
fu costruita a partire dal 1674 in
seguito ad un voto seguito alla peste del
1636. Era, allora, arciprete di Bormio
Cristoforo Peccedi, originario di
Premadio, il quale si attivò per la
costruzione della chiesa e la dotò di un
beneficio. Solamente qualche anno più
tardi ebbe inizio l’effettiva costruzione
della chiesa che venne intitolata alla
Vergine Addolorata. E’ probabile che il
titolo della chiesa sia stato suggerito dal
gesuita Paolo Sfondato, all’epoca
predicatore delle missioni nel
bormiese, grande devoto dei dolori
della Madonna e della Passione di
Cristo.
femminile, visibile poco al di sopra
della sacrestia: si tratta di Barbara
Sgritta, una donna che prestò il suo
servizio alla costruzione della chiesa,
trasportando su e giù dai ponteggi la
malta con la bolgia sulle spalle: la
donna cadde rovinosamente dalle
impalcature, ma ebbe salva la vita e,
forse proprio a ringraziamento di ciò,
didascalia
All’esterno la chiesa appare
architettonicamente equilibrata e ben
proporzionata, l’ingresso è protetto da
una tribuna; il campanile a bulbo,
terminato nel 1733, conserva dei fregi
raffinati, dipinti a tinte calde e delicate;
la facciata, terminata nel 1702, fu
decorata da Giovanni Noale e da suo
figlio conosciuto come “Nolano”,
artisti che si occuparono pure della
decorazione interna della chiesa dove,
sul soffitto entro spazi definiti da
cornici, realizzarono l’immagine
dell’Addolorata trafitta dalle sette
spade che simbolicamente raffigurano i
sette dolori della Madonna, degli
angioletti che recano una corona, di
San Michele arcangelo che sconfisse il
diavolo e della Vergine in gloria.
Tornando all’esterno della chiesa,
curiosità ed interesse suscita una figura
139
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
volle legare la sua immagine alla chiesa
dell’Addolorata.
L’interno, sufficientemente ampio e
luminoso, è definito da una navata
centrale terminante con abside e due
altari laterali. Una piccola sagrestia si
apre a sinistra dell’altare maggiore.
Purtroppo la pavimentazione originale
in lastre di pietra è stata sostituita con
l’attuale di discutibile gusto. Pure il
fregio parietale che corre tutt’attorno la
navata al di sotto delle finestre e delle
finte finestre è stato pesantemente
ridipinto durante un intervento di
restauro dei primi decenni del XX
secolo.
didascalia
Sull’altare maggiore si trova una
grande ancona lignea riportante la data
1706 e la firma dell’artista esecutore
della stessa Gioan Maria Donati. La
famiglia Donati, originaria di Isolaccia,
gestiva una bottega artigiana per la
lavorazione del legno. Il padre Vitale
alla sua morte lasciò il laboratorio nelle
mani dei due figli Bernardo e Giovan
Maria, che si imposero per i pregevoli
lavori ad intaglio che seppero realizzare
per parecchie chiese dell’alta Valtellina.
L’ancona custodita nella chiesa di
Fiordalpe è un’opera raffinata e
monumentale, di grande effetto. Due
colonne finemente intagliate con
motivi vegetali e teste di cherubini
sono congiunte al sommo da un
fastigio spezzato. A lato ed al vertice
dell’ancona si trovano delle statue
lignee che riassumono concettualmente
i dolori della Vergine: la statua di San
Giuseppe ricorda i primi tre dolori,
ossia la Presentazione al Tempio, la
Fuga in Egitto e la Disputa con i
dottori; gli angeli che reggono gli
strumenti della passione ricordano la
salita al Calvario, la crocifissione e la
deposizione. La statua di San Giovanni
ricorda la separazione di Gesù dalla
Madre. L’ancona lignea custodisce una
grande tela raffigurante il Compianto
sul Cristo morto. La scena ritrae Gesù
morto tenuto in grembo dalla Madre,
tutt’attorno le pie donne, Giovanni,
Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Si
tratta di un’opera di grande qualità
artistica, i personaggi riprodotti con
vesti scure, nei volti illuminati e nei
tratti anatomici ben evidenziati
trasmettono tutta la disperazione e il
dolore della scena. Sullo sfondo il
sepolcro e un paesaggio montano
incutono desolazione all’insieme; un
grande angelo dall’alto domina tutta la
scena.
Altro pregevole elemento custodito
sull’altare è il paliotto in scagliola che
140
i Paesi
didascalia
orna la parte anteriore della mensa
d’altare. Il paliotto, a fondo nero molto
lucido, è decorato con motivi vegetali,
fiori e raffinati uccellini.
Dei due altari laterali, quello di
destra è intitolato a Sant’Anna, mentre
quello di sinistra è dedicato a San
Pietro. E’ probabile che l’ancona di
destra si trovasse in origine sull’altare
maggiore. L’altare di Sant’Anna è
costituito da un impianto ligneo
policromato, parzialmente mutilo,
contenente una tela di mediocre
qualità raffigurante il Cristo crocifisso,
la Vergine, San Giovanni e la
Maddalena ai piedi della Croce. Due
angioletti reggono dei cartigli che
recano le parole del vangelo di
Giovanni secondo le quali l’apostolo
più caro di Gesù accoglie Maria come
madre e Maria lo riceve come figlio.
L’altare di sinistra è dedicato a San
Pietro. Fu eseguito da G. Antonio
Fonstoner di Loeg nel 1760. Ai lati
dall’altare ligneo dipinto a finto
marmo ed arricchito da decorazioni si
trovano due tozze statue che
141
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Didascalia
142
raffigurano un probabile Sant’Antonio
da Padova e San Francesco d’Assisi.
L’ancona racchiude un dipinto che
ritrae la Vergine con il volto severo e
brusco che regge un Bambino ormai
grandicello, pure lui delineato con
tratti grossolani e rustici. San Giuseppe
e due paffuti angioletti completano la
scena. La tela reca la firma dell’artista
tirolese G. Giorgio Telser, che la eseguì
nel 1671. Il Telser lavorò molto in tutto
il bormiese nella seconda metà del
Seicento ed in Valdidentro si distinse
per la decorazione della chiesa dei
Santi Martino ed Urbano di
Pedenosso.
E’ opportuno menzionare pure la
bella acquasantiera sostenuta da
colonna che ancora qui si conserva,
quale frutto di tutte quelle abili
maestranze che con sapienza ed abilità
artigiana tanto finemente seppero
lavorare la pietra. L’acquasantiera
riporta la data 1694.
i Paesi
CHIESA DELLA SS. TRINITÀ DI TURRIPIANO
La piccola chiesa passa quasi
inosservata da quanti le transitano
accanto in località Turripiano lungo la
strada statale per Isolaccia: si tratta
infatti di una chiesa semplice e sobria
nell’aspetto, ma intensamente
significativa per quanto riguarda la
storia e l’arte del XVI secolo. Più di
qualsiasi altra chiesa dell’alta valle, la
chiesetta di Turripiano rispetta infatti i
dettami impartiti dal concilio di
Trento, dettami e regole che vennero
letteralmente applicati all’architettura,
ma soprattutto alla decorazione
pittorica della chiesa.
La costruzione dell’edificio è da
ricondurre all’anno 1590. Furono
proprio gli abitanti di Turripiano a
volere fortemente la chiesa al fine di
evitare, almeno nel periodo invernale,
lo scomodo trasferimento sino alla
chiesa madre di San Gallo.
L’esterno dell’edificio è caratterizzato
da un tetto a spiovente rivestito dalla
tipica copertura a scandole di legno e
da un cavaliere dotato di due finestrelle
arcuate che ospitano le campane. La
facciata è spoglia e priva di qualsiasi
decorazione, eccezion fatta per una
piccola nicchia sulla facciata che
custodisce un dipinto a fresco
raffigurante l’Incoronazione della
Vergine Maria.
L’interno ha unica navata, con pareti
spoglie e abside decorata da un ciclo di
affreschi che si attengono fortemente
all’iconografia proposta dai dettami
conciliari, miranti a rafforzare quei
principi cattolici che i vicini protestanti
così duramente contestavano alla
chiesa di Roma.
Le pitture a fresco proposte nel
catino dell’abside sono rappresentate
entro spicchi suddivisi da nervature. I
dipinti, ben proporzionati, furono
realizzati nel 1609 da un probabile
modesto scolaro di Cipriano Valorosa.
Gli spazi ben definiti illustrano
l’Annunciazione, la Nascita di Gesù,
l’Incoronazione della Vergine, il
Battesimo di Gesù e la Trasfigurazione.
L’intento delle immagini proposte è
dunque volutamente didattico in senso
anti-protestante. Il ciclo proposto
annuncia un evidente messaggio
formativo e dottrinale, insistente sulla
divinità di Cristo e sulla figura della
Vergine che svolge qui un ruolo di
prim’ordine. I dipinti si rivelano
dunque quali efficaci strumenti di
comunicazione che rappresentano, per
immagini, importanti contenuti di
fede.
Nel sottarco la chiesa un tempo
riproduceva gli apostoli, mentre le vele
della volta erano completate dalle
immagini degli Evangelisti e da angeli
musicanti. Purtroppo tutti i dipinti da
riferire alla costruzione primitiva della
chiesa ci sono pervenuti in pessime
condizioni. Alcuni dei dipinti furono
addirittura dapprima alienati e solo
successivamente restituiti alla chiesa.
Durante lo stacco alcuni degli affreschi
subirono lacerazioni e gravi perdite,
non più recuperabili.
Alla chiesa primitiva, sobria ed
essenziale in quanto realizzata
seguendo le più rigorose disposizioni
post-tridentine, che vietavano la
riproduzione di immagini lungo le
pareti della chiesa per non distrarre
l’attenzione dei fedeli dalle cerimonie
religiose, nel 1743 venne aggiunto un
altare dedicato a Sant’Antonio: la
cappella venne edificata a seguito di
una malattia del bestiame che in
143
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Didascalia della
foto qui sotto
144
quell’anno colpì la zona. Sant’Antonio
veniva infatti venerato quale protettore
degli animali domestici, e fu dunque
spontaneo per gli abitanti del luogo,
fortemente dipendenti per la loro
sopravvivenza agli animali domestici,
rivolgersi per soccorso a quel santo.
L’altare, realizzato in marmo, custodiva
una tela raffigurante Sant’Antonio
abate con Sant’Antonio da Padova e la
Vergine Maria. L’altare venne poi
abbandonato e l’ancona, attualmente
in cattive condizioni, potrà essere
nuovamente collocata nella chiesa a
seguito di adeguato restauro.
La chiesa è stata recentemente
ristrutturata grazie ai fondi ottenuti
con la legge Valtellina, che ha
consentito di recuperare al meglio
l’edificio sacro; grazie alla sensibilità di
alcuni cultori d’arte e dei proprietari,
gli affreschi un tempo alienati sono
stati nuovamente recuperati ed lameno
in parte ricollocati nella chiesa,
consentendo di valorizzare al meglio ed
integralmente il profondo contenuto
dottrinale che la chiesa della SS.
Trinità ha per anni proposto alla
comunità della Valdidentro.
i Paesi
SANTA MARIA NASCENTE A ISOLACCIA
Grazie ad una breve descrizione
lasciata dallo studioso locale Tullio
Urangia Tazzoli, autore della
quadrilogia “La Contea di Bormio”,
nel volume dedicato all’arte edito nel
1933, abbiamo una illustrazione della
vecchia chiesa di Isolaccia. Questa
chiesa era dedicata a S. Maria Nascente
e ai Santi Rocco e Sebastiano e ci viene
descritta come una “chiesa infelice,
bassa e scura, a volta… ha sulla facciata
un pronao a pilastri… tribuna sulla
porta principale d’entrata… campanile
sul tipo di quello della parrocchiale di
Premadio”. La descrizione ci aiuta a
capire come doveva essere l’antica
chiesa di Isolaccia, opera di cui non ci
sono d’aiuto come al solito i
documenti essendo tutto l’archivio
della parrocchia andato perso durante
il disastroso incendio di Isolaccia che
distrusse, oltre a buona parte del paese,
anche la casa parrocchiale.
custodiva sull’altare maggiore
un’ancona lignea realizzata nel 1708
dallo scultore di Isolaccia Giovanni
Maria Donati: si tratta molto
probabilmente dell’ancona attualmente
Didascalia della
foto qui sotto
La chiesa originaria era stata
edificata su di un terreno, lasciato da
una coppia di Isolaccia, in località
“Closura”. La costruzione ebbe inizio
nel 1521 dopo che una spaventosa
epidemia pestilenziale aveva duramente
colpito il paese. Per questo si stabilì di
dedicare la nuova chiesa a Maria
Nascente ed ai Santi Rocco e
Sebastiano, quale atto di riconoscenza
dei parrocchiani per il soccorso
ottenuto da quei santi nel mettere fine
alla tremenda peste. La chiesa di S.
Maria Nascente in origine dipendeva
dalla parrocchia di Pedenosso e
solamente nel 1754, in seguito ad aspre
e lunghe trattative, Isolaccia ottenne
l’agognata autonomia dalla chiesa
madre.
Le scarse notizie reperite consentono
di affermare che la chiesa delle origini
145
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
conservata sull’altare di destra della
chiesa di S. Cristoforo in Premadio.
Altro elemento di valore religioso ed
artistico che la chiesa primitiva
gelosamente custodiva e che ancor oggi
la chiesa di Isolaccia altrettanto
gelosamente custodisce, è la cosiddetta
statua della “Madonna dell’Acqua”. Si
tratta di una statua raffigurante la
Vergine Maria, di evidente fattura
nordica, particolarmente venerata un
tempo in quanto, per intercessione
della stessa, si otteneva la pioggia
quando la persistente siccità
minacciava i raccolti.
Didascalia della
foto qui sotto
La leggenda relativa alla Madonna
dell’Acqua, accompagnata dalle due
statue dei Santi Rocco e Sebastiano, è
vivacemente narrata per immagini nelle
due vetrate sovrastanti le porte laterali
dell’attuale chiesa di S. Maria
Nascente. Le immagini ci narrano le
vicende del rinvenimento della statua
lignea della Madonna, accanto alla
quale sarebbero state ritrovate pure le
due statue dei Santi Rocco e
Sebastiano. Le vetrate, entro spazi ben
definiti da arcate, con vivacità narrativa
e forte cromatismo raccontano la
sequenza dei fatti che videro testimoni
i membri della famiglia Ponti che, a
causa di una persistente siccità e
conseguente penuria, erano stati
costretti a lasciare la nativa Isolaccia
per recarsi in cerca di fortuna nella
vicina Engadina. Le scene mostrano il
gruppo familiare affiancato dalle due
vacche, la loro unica ricchezza, nell’atto
di individuare le statue accatastate con
la legna nell’abitazione dei contadini
protestanti che avevano accordato loro
ospitalità per la notte. La scena
seguente vede i Ponti inerpicarsi lungo
il cammino dell’Umbrail, avvolti entro
ampi manti sotto i quali tengono
nascoste le statue.
i Paesi
Le vetrate del lato opposto
presentano nella parte alta i protestanti
che buttano le statue nel torrente,
mentre in basso ci sono da un lato la
Vergine che giace tranquilla, ritta al di
sopra delle acque; dall’altra parte sono
raffigurate le statue che entrano
processionalemente in Isolaccia, rette
da devoti e riparate sotto un
baldacchino rosso.
Queste due vetrate, assieme a tutte
quelle che danno luce alla navata, sono
state realizzate recentemente dall’artista
di Meda Alberto Creppi. In un ritmico
susseguirsi, narrano della nascita di
personaggi biblici e illustrano continui
rimandi alla figura di Maria.
La nuova chiesa, costruita a partire
dal 1935 e consacrata nel 1938,
custodisce, oltre alla famosa statua
della Madonna dell’Acqua e dei santi
Rocco e Sebastiano, un interessante
altare posto nella cappella di destra.
L’opera lignea, formata da quattro
colonne riccamente intagliate e
raccordate da un fastigio spezzato,
venne eseguita dall’abile maestro
intagliatore Cesare Rini di Bormio, il
quale creava le sue opere ripetendo con
straordinaria precisione e perfezione
interessanti opere antiche.
Didascalia della
foto qui sotto
La parte absidale, vede sullo sfondo
l’Ascensione al Cielo di Maria Vergine
ed ai lati si trovano al Natività e la
Discesa dello Spirito santo sugli
apostoli, affiancati dalle figure degi
Evangelisti accompaganti dai loro
simboli. Questi dipinti vennero eseguiti
dall’artista Turoldo Conconi nella
prima metà del Novecento.
147
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
148
i Paesi
SANT ABBONDIO A SEMOGO
Al 1328 risalgono le prime notizie
relative alla chiesa delle origini di S.
Abbondio di Semogo, una chiesa che
già dagli inizi risulta essere dotata di
molti beni. Nessuna nota descrive la
chiesa delle origini, che venne
restaurata nel 1490 a seguito molto
probabilmente di un’indulgenza di 40
giorni che il visitatore apostolico
Giacomo de’Mansueti per conto di
Lazzaro Carafino concesse a coloro che
avessero visitato o fatto doni alla chiesa
di S. Abbondio .Consistente dovette
essere pure il rifacimento eseguito a
seguito della raggiunta autonomia e
rifatta in buona parte a seguito della
149
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
del Buon Consiglio. La venerazione
della B.V. del Buon Consiglio ha inizio
nel 1467, quando nei pressi di Roma su
di un’antica chiesa appare
miracolosamente un’immagine della
Madonna che la tradizione afferma
essersi staccata da una chiesa di Scutari
in Albania all’arrivo in quella terra dei
mussulmani. L’immagine a seguito di
questo evento venne fortemente
venerata ed il suo culto si diffuse pure
in Valtellina.
La chiesa di Semogo in un
inventario del 1796 viene descritta
essere “ … in condizioni cattive, di
disegno antico eccetto il coro qual’è
fatto di fresco”.
didascalia
autonomia ottenuta da Pedenosso nel
1624. I lavori di miglioria eseguiti
intorno alla metä del XVII secolo,
provvidero ad innalzare ed intonacare i
muri, a rifare la pavimentazione e
venne pure eseguita la loggia interna.
Molti arredi ed ornamenti eseguiti in
questo periodo provvidero ad arricchire
la chiesa, e fra questi degni di nota
sono i due altari lignei, che ancor oggi
sono custoditi negli altari laterali della
chiesa. L’ancona della Beata Vergine
Maria fu eseguita da Giovan Battista
Scher, artista trentino che realizzo’
l’opera nel 1724. Attualmente l’ancona,
a forma di tempietto, nella nicchia
centrale ospita la statua del Sacro
Cuore ed ai lati su di una mensola
stano le statue di S. Antonio abate e di
S. Luigi Gonzaga.
Al 1765 risale l’ancona della Beata
Vergine del buon Consiglio, opera del
tirolese Mathias Peder ed indorata dal
bormino Fogaroli. L’altare, composto
da pilastri e colonnine tortili, presenta
ornamenti raffinati e al centro
conserva la statua della Beata Vergine
150
La chiesa era inoltre insufficiente ad
ospitare la popolazione di Semogo per
cui si decise di ampliarla. Nel 1832 si
diede inizi alla costruzione della nuova
chiesa mantenendo della vecchia solo il
coro e parte di un muro. L’edificio
completamente rifatto servi’ per pochi
anni. All’inizi nel XX secolo si decise la
costruzione di un nuovo edificio che
doveva essere piu’ ampio del
precedente.
Nel 1930 si diede inizio alla
costruzione della nuova chiesa su
progetto Moioli-Zanchetta di Milano.
Nonostante fosse ferma intenzione dei
Semoghini mantenere il vecchio
campanile, la precaria stabilità ne
decreto la demolizione. Forse fu
proprio questo fatto a dar vita alla
leggenda della sparizione del campanile
di Semogo.
Tra le espressione di devozione a
Semogo è interessante ricordare
cosiddetti “Santi del Sole”. Purtroppo
la venerazione ed il culto degli stessi è
oggigiorno svanita, ma un tempo,
quando l’andamento climatico
determinava la sopravvivenza della
i Paesi
comunità, il culto di questi santi era di
aiuto, quantomeno spirituale.
I “Santi del Sole” sono le reliquie
dei Martiri Urbana, Modesto, Paziente
e Celestino, donati alla parrocchia di
Semogo nel 1736 dal sacerdote Giorgio
di San Bernardo. Le reliquie di questi
santi, custodite in 4 urne di legno
intagliato e dorato, venivano portate in
processione e venerate quando il
persistente maltempo minacciava i
raccolti e la necessità di sole e caldo era
indispensabile per il buon andamento
dell’attività agricola.
Di pertinenza della parrocchia di
Semogo è la chiesa di Maria Assunta
Arnoga, realizzata ad uso del seminario
di Como che ad Arroga dispone di una
casa per le vacanze. Sebbene l’edificio
non presenta caratteri artistici di nota,
è bene ricordare che ü qui custodita
l’ancona proveniente dalla chiesa dei
SS. Martino ed Urbano di Pedenosso.
L’ancona opera dell’artista trentino
Giovan Battista del Piay, collocata nella
chiesa nel 1955, risale alla prima metä
XVIII secolo. ü realizzata in legno,
dorato , realizzato. L’insieme, sia nella
parte decorativa che nelle statue della
Vergine che di S. Antonioe di una
santa, ü armonico e ben
proporzionato.
Didascalia
151
i Paesi
SAN CARLO
La bella chiesa dedicata a San Carlo
Borromeo in località Arnoga venne
costruita a seguito di un voto fatto
dalla popolazione al fine di contrastare
una brutale epidemia di peste che
all’epoca infieriva nella Valdidentro. A
seguito del voto fatto, si diede inizio
alla costruzione dalla chiesa nel 1636,
intitolandola a S. Carlo Borromeo,
santo invocato contro la peste insieme
con S. Rocco e S. Sebastiano, santi
contitolari della chiesa. I tre santi
godettero di grande venerazione in
tutto il bormiese, a motivo di questo
basta pensare alle numerose chiese ed
altari che in tutta l’alta valle troviamo
loro dedicati!
S. Rocco nacque a Mintpellier in
Francia nel XIV secolo. Mentre si
trovava in pellegrinaggio verso Roma
scoppio’ una spaventosa epidemia
pestilenziale. Rocco non si intimori’ e
lungo il suo cammino presto’ soccorso
agli ammalati diffondendo cosi’ la sua
fama di taumaturgo. Egli stesso colpito
dalla peste, venne curato da un angelo
mentre un cane quotidianamente gli
portava del pane. Il santo, raffigurato
tipicamente negli abiti da pellegrino,
con la tipica mantellina che da lui
prende il nome, la sanrocchina, mostra
la piaga pestilenziale sulla gamba, ed è
spesso accompagnato dal cane che
tiene in bocca un pezzo di pane.
S. Carlo Borromeo (1538-1584) fu
arcivescovo di Milano e grande
sostenitore dell’attuazione dei decreti
tridentini. Persona pia e devota,
ricordata per i suoi digiuni, per la
carità verso i poveri, per l’ordine che
riporto’ nella chiesa, fu invocato
soprattutto contro il morbo
pestilenziale. Memorabile fu infatti
l’opera da lui svolta ed il soccorso da
lui prestato in occasione della peste di
Milano degli anni 1576-77, tuttora
detta “peste di S. Carlo”. L’arcivescovo
quotidianamente visitava il lazzaretto e
provvedeva ai bisogni degli appestati.
Rimanendo S. Carlo immune dal
contagio, nonostante la diretta
esposizione al morbo, il Santo venne in
seguito invocato contro la peste.
Originariamente sulla facciata della
chiesa si trovavano le effigi di S. Rocco
e di S. Sebastiano, dei quali dipinti
non si conserva piu’ alcuna traccia.
didascalia
S. Sebastiano visse tra il III e IV
secolo e subi’ il martirio all’epoca di
Diocleziano. Sottoposto al supplizio
delle frecce ne usci’ vivo. La credenza
popolare associo’ le frecce alla peste
invocando il santo che aveva sconfitto
quel male ogniqualvolta un’epidemia
minacciava il popolo.
153
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
I lavori di costruzione della chiesa di
S. Carlo furono piuttosto lunghi e la
chiesa venne ultimata solamente
intorno al 1660; nel 1688 venne
realizzata la sagrestia, mentre l’elegante
torre campanaria venne ultimata
intorno al 1675.
L’esterno della chiesa è semplice, ma
raffinato ed il campanile terminante
con una cupola ottagonale, conferisce
all’edificio un carattere
baroccheggainte.
didascalia
L’interno è ad aula unica e la navata
è delineata al di sotto dei finestroni da
un cornicione in stucco dentellato.
Elemento di pregio di tutta la chiesa è
indubbiamente la grande ancona lignea
che domina l’altare maggiore. L’opera
fu realizzata dall’intagliatore tirolese,
abitante a Bormio, Giovan Battista
Scher attivo all’epoca in vari cantieri
dell’alta valle. Quattro eleganti
colonne, due delle quali tortili, sono
raccordate al sommo da un mensolone
sovrastato da due angioletti tra i quali
si trova la statua della Vergine. Ai lati
delle colonne, su di una mensolina,
sono state recentemente aggiunte le
due statue, di buona qualità artistica,
raffiguranti S. Rocco che mostra il
bubbone pestilenziale, e S. Sebastiano
colpito dalle frecce.
L’ancona custodisce al centro una
pregevole tela raffigurante S. Carlo con
la Vergine, tela che in origine si trovava
nell’altare di S. Antonio della chiesa di
S. Abbondio di Semogo. Il quadro
ritrae S. Carlo come di consueto con la
mantellina cardinalizia rossa. La sua
fisionomia è caratterizzata da un naso
aquilino importante.
Il santo è
inginocchiato e
davanti a se’ ci sono i
tipici attribuiti
iconografici che lo
accompagnano: il
libro per la
meditazione, il
teschio, il crocefisso
quale segno della
devozione che S.
Carlo promosse a
Cristo crocefisso, ed
il pastorale. Al
culmine della tela
un’arcata inquadra la
Vergine che,
poggiando su nubi,
amorosamente regge
il Bambino.
Tutt’attorno
angioletti e testine di
cherubini. Ignoto è il
nome dell’autore
della tela.
i Paesi
SANTI MARTINO E URBANO A PEDENOSSO
Ricca di fascino appare al visitatore
la chiesa dedicata ai santi Martino ed
Urbano di Pedenosso. Il fascino di
questo luogo del sacro è garantito non
soltanto dall’ambiente suggestivo
circostante la chiesa, ma pure dalle
vicende storiche e dalle incognite
relative alle origini dell’edificio. Molti
storici, considerando la particolare
posizione che la chiesa occupa al di
sopra di uno sperone roccioso a
guardia di tutta la valle, hanno
supposto per S. Martino un’origine di
“fortezza militare”. Molte sono le
ipotesi che fanno supporre ad un
originario fortilizio. Innanzitutto la
dedicazione a S. Martino, santo soldato
tanto caro nel medioevo, deputato al
controllo ed alla tutela dell’intera valle.
Pure la presenza della possente cinta
muraria che attornia l’intera chiesa
lascia pensare ad una vera e propria
fortezza. Da ultimo va considerata la
posizione dell’edificio,
significativamente posta a lato di quella
che un tempo era la via per la val
Fraele, ch conduceva verso l’Engadina,
percorso molto trafficato sin dall’epoca
medievale per transiti di merci, di
persone e di idee. Dunque S. Martino
presenta e riassume in sé molti degli
elementi tipici delle fortezze medievali.
tutta la Valdidentro, un tempo detta
“val de Pedenos”. (per grafia dialettale
esatta sentire Marcello) E’ proprio nel
1453 che S. Martino diventa
parrocchia autonoma, staccandosi dalla
chiesa madre dei santi Gervasio e
Protasio. Anche per Pedenosso, come
per altri centri di rilievo della
Valdidentro, l’autonomia da Bormio
appare una richiesta piu’ che legittima
se consideriamo la distanza che separa i
due centri, il clima rigido invernale che
rendeva difficoltosi gli spostamenti, la
penuria di mezzi e tutte quelle
difficoltà materiali che si incontravano
nello spostarsi a quell’epoca sino a
Bormio. Sebbene la prima separazione
avvenne alla metà del XV secolo, il
riconoscimento di autonomia totale fu
confermato nel 1571 e il titolo
definitivo arrivo’ solamente nel 1624.
L’agognata indipendenza da Bormio
si ottiene in un periodo
particolarmente difficile della storia di
S. Martino. I primi anni del XVII
secolo furono infatti sconvolgenti e
didascalia
Comunque siano le origini, i
documenti archivistici dicono che la
prima citazione della chiesa sia da
ricondurre al 1334, quando negli
statuti bormini si accenna al trasporto
della santa Croce. S. Martino è inoltre
citata in alcuni altri documenti
trecenteschi, per poi essere
nuovamente ricordata nel 1453. Questa
data rappresenta una tappa
fondamentale per l’intera comunita’ di
Pedenosso, allora centro principale di
155
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
160
devastanti a seguito delle guerre di
religione che avevano duramente
colpito la Valtellina. Le guerre
Seicentesche, laceranti, unite alle
epidemie pestilenziali, provocarono
immensi danni a cose e persone e non
risparmiarono neppure la chiesa di S.
Martino. Questa venne utilizzata
addirittura quale stalla per il ricovero
dei soldati e dei cavalli! Come consueto
la guerra lasciò dietro di sè distruzione
e penuria di ogni genere tanto che il
parroco Viviani, che resse la parrocchia
di S. Martino a partire dal 1665, si
trovò sconfortato davanti a tanta
devastazione. Fortunatamente in breve
tempo la popolazione di Pedenosso,
con la tenacia e la fermezza che
caratterizza la gente di montagna, si
attivò per la ricostruzione di S.Martino
e per riportare la chiesa al meritato
lustro e decoro. La chiesa tutta venne
consolidata, vennero rifatti il tetto, la
sagrestia, il cimitero; l’antica chiesa fu
quasi completamente rinnovata
conferendo alla nuova un aspetto che
meglio si adattava alle esigenze di culto
e di gusto dell’epoca.
Il frutto di tutti quei lavori è ciò che
noi possiamo ammirare oggigiorno:
grazie soprattutto ad un recente
restauro che ha saputo abilmente e
coscientemente recuperare l’antica
chiesa, godiamo ora a S. Martino di un
insieme armonioso, che invita alla
spiritualità, al raccoglimento. Molte
furono le maestranze attive dopo la
metà del seicento per il recupero della
chiesa. Fra questi è doveroso ricordare i
fratelli Michele e Melchiorre Cogoli,
abili intagliatori del legno, provenienti
dalla Val di Non dove ricevettero la
loro formazione artistica. I due nel
1666 lavorarono all’ancona per l’altare
dedicato alla Vergine del Rosario, la
loro prima opera nota, indorata
sucecssivamente dal bormino Giovan
Pietro Fogarolli. Si tratta di un altare
ligneo riccamente decorato formato da
due colonne tortili con motivi vegetali
che racchiudono una nicchia
all’interno della quale sono custodite le
statue della Vergine con il Bambino, S.
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Caterina che riceve la corona del
rosario da Gesu’, mentre la Madonna
ne porge una a S. Domenico. L’altare
dorato è completato da un pregevole
paliotto in scagliola raffigurante la
Vergine attorniata da due grandi ed
eleganti anfore colme di fiori eseguiti
in modo preciso e raffinato.
Ignoto è il nome degli artisti attivi
all’altare di sinistra, dedicato al Sacro
Cuore, pure se per tratti stilistici e
raffinatezza parrebbe opera degli stessi
Cogoli.
Sulla parete di destra, tra le due
cappelle laterali, si impone l’organo
realizzato a partire dal 1898 (casa
Organaria Mascioni ). La decorazione
fu esegiota del cosiddetto Castrin,
Gervasio Bradanini artiere di
Pedenosso, che con maestria seppe
conferire all’insieme grandiosità e
raffinatezza al tempo stesso.
Altro elemento di pregio che ancora
S. Martino ci preserva è il raffinato
soffitto a cassettoni, risalente al 1678; è
questo un raro esempio di quella che
un tempo era la soffittatura
caratteristica di tutte le chiese della
vallata, cosi’ come tipico era un tempo
il loggiato che ancora si conserva a S.
didascalie
162
i Paesi
Martino, utilizzato allora dai soli
uomini.
Se le navate della chiesa conservano
opere d’arte raffinate e pregevoli, come
la tela raffigurante S. Lucia con un
gruppo di Disciplini, è la parte absidale
che accorda all’insieme un senso di
profonda armonia e pace. La parte
absidale è completamente affrescata
con dipinti dai colori caldi e raffinati.
E’ questa opera di Giovanni Giorgio
Telser di Sluderno, artista molto attivo
in tutta l’alta Valtellina nella seconda
metà del Settecento, autore pure del
dipinto raffigurante S. Martino che
divide il mantello con il povero
raffigurato in facciata. A lui si devono
le pitture absidali che tanto colpiscono
lo spettatore. Il Telser, con le sue
immagini di gusto schietto ed autentico
ci racconta per immagini le vicende dei
santi titolari e tale e tanta è la resa che
il visitatore si sente parte degli eventi
narrati.
Sulle pareti sono ritratti i santi
titolari della chiesa: S. Martino in
agonia e S. Urbano – riconosciuto
quale santo contitolare della chiesa in
dopo il 1624 - in atto di battezzare
Valeriano, marito di S. Cecilia. Sulla
volta sono ritratti S. Urbano, la Trinità,
S. Martino e la visione di S. Martino.
La fronte ed i fianchi absidali
propongono i Padri della chiesa,
l’Annunciazione e la rivelazione
dell’angelo a S. Giuseppe, mentre
sull’arco trionfale da un lato vi è
un’allegoria della Fede a dall’altro
Mosè con le tavole della legge.
quasi desertico dove la pianta con il
serpente avvinghiato occupa il centro
della scena. Sulla destra è ritratta Eva,
con sguardo malizioso, in atto di
assaggiare il frutto proibito, mentre a
sinistra un muscoloso Adamo dai tratti
rustici è colto nell’atto di carpire la
mela dall’albero. L’apprezzabile dipinto,
riconducibile al XVI secolo, è
attribuito all’artista locale Antonio
Canclini.
L’ancona dell’altare maggiore
nasconde completamente allo
spettatore un affresco rinvenuto a
seguito del recente restauro; si tratta di
una raffigurazione di Adamo e d Eva
in atto di cogliere la mela proibita. I
due personaggi, dall’aspetto rustico e
popolare, si trovano in un ambiente
Interessante è pure l’ancona posta
sull’altare maggiore che custodisce una
tela realizzata dal valtellinese
Giambattista Piccioli (1825). Il dipinto
ritrae uno dei miracoli di S. Martino,
ossia l’incendio al trono
dell’imperatore Valentiniano avvenuto
a seguito di un rifiuto dello stesso ad
didascalia
163
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
accogliere in udienza S. Martino. La
sena è ricca di colore e narratività e
ben si integra nel complesso
artistico dell’intera abside.
Se l’interno della chiesa cattura
lo spettatore per la raffinatezza e la
grazia dell’insieme, l’esterno si
presenta come altamente suggestivo:
oltrepassata la scalinata d’accesso il
visitatore si trova di fronte ad un
antico loggiato coperto che domina
l’intera valle, che un tempo fungeva
da cimitero come ancora ci
testimonia l’immagine scheletrica
della morte qui affrescata.
Tutt’attorno la chiesa corrono le
stazioni della via crucis definite da
semplici Croci, sanguinanti in
corrispondenza delle braccia; un
cartiglio specifica il numero della
stazione ed il nome della famiglia
che la fece eseguire.
164
i Paesi
SAN ANTONIO DI SCIANNO, SAN ERASMO,
SAN GIACOMO DI FRAELE
Sin dal XIV secolo la “strada lunga
per Venosta”, ossia quella che verrà poi
designata quale strada regia e più tardi
ancora quale via Imperiale d’Alemagna,
da Bormio raggiungeva la Valdidentro
passando accanto a molti edifici sacri,
per spingersi verso la valle di Fraele e
raggiungere gli insediamenti
transalpini. Lasciata la chiesa
seicentesca dell’Addolorata, la strada
giungeva presso l’antica chiesa dei santi
Martino ed Urbano di Pedenosso per
inerpicarsi verso la valle di Fraele.
costruita la chiesa dedicata a S.
Antonio abate. Si tratta di una
semplice chiesa a navata unica alla
quale è stato aggiunto un corpo
laterale. La chiesa ha il carattere tipico
alpino, con tetto a spiovente, facciata
con portale d’ingresso intagliato,
sovrastato da un finestrone, mentre
altre due finestre affiancano la porta.
La chiesa non ha campanile, ma una
campana è retta da un modesto
Una deviazione del cammino verso
ovest, conduceva alla contrada di
Scianno, dove si trova ancor’oggi la
chiesa dedicata a S. Antonio (XVII
secolo). Secondo la leggenda ricordata
nelle “Memorie per servire alla storia
ecclesistica di Bormio” dello storico
Iganzio Bardea, nel 487 S. Antonio
Levinese provenendo dalla Germania
verso il bormise, passò dalla strada di
Fraele ed in memoria del santo fu
didascalie
165
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
cavaliere. L’interno è semplice, la parte
absidale presenta sulla volta i dipinti
affrescati dei 4 Evangelisti e alcuni
angioletti. Un’ancona di gusto barocco
composta da due colonne tortili
colorate e timpano, predispongono lo
spazio per alloggiare, entro una nicchia,
la statua raffigurante S. Antonio abate.
Tornando verso il cammino per
Freale la strada raggiunge poi le torri
omonime. Anticamente il cammino
saliva dalla vallata in corrispondenza
dei due fortilizi e l’impervio burrone
veniva oltrepassato grazie alle
cosiddette “Scale di Fraele”. Le torri,
massicce ed imponenti guardie della
Valle, vennero erette nel 1391 con
evidente scopo difensivo.
didascalia
Prima di raggiungere il lago di Scale
si trovava sino a pochi decenni or sono
la piccola chiesa costruita all’inizio del
XIX secolo e dedicata a S. Antonio da
Padova. La dedicazione allo stesso S.
Antonio da Padova è stata assegnata
alla nuova chiesa dall’impianto
architettonico di gusto moderno
recentemente realizzata in località
?????????????????.
Oltrepassato il lago di Scale
anticamente lo spettacolo che si
presentava al viandante doveva essere
davvero grandioso: un’estesa vallata
ricca di pascoli, circondata da monti
ricchi di ferro. Questa valle è stata
completamente sommersa dalle due
dighe, quella di S. Giacomo (terminata
nel 1950) e successivamente da quella
di Cancano (1956).
i Paesi
167
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
Anticamente la valle era abitata e
frequentata da viandanti e
commercianti diretti verso la Val
Monastero e l’Engadina, i quali
potevano trovare ristoro e conforto
nell’insediamento di S. Giacomo, dove
si trovavano, oltre alla chiesa,
l’”hospitale” detto anche “Hostaria” ed
un gruppo di abitazioni. L’osteria era
deputata ad accogliere e ristorare i
numerosi viandanti e pellegrini che
preferivano questa via di transito al
cammino dell’Umbrail, piu’ breve, ma
certamente piu’ difficoltoso da
percorrere. Il nucleo risulta esistente
sin dal XIII secolo.
Da antiche fotografie apprendiamo
che la chiesa dedicata a S. Giacomo era
ad aula unica, con tetto fortemente a
spiovente, svettante campanile e
loggiato interno definito nella volta di
sostegno da accentuate nervature,
elemento stilistico che si ritrova pure a
S. Gallo e a S. Giovanni di Molina.
Dell’antica chiesa non rimane nulla, se
non gli scheletrici resti del campanile
che è ancora visibile quando l’invaso di
S. Giacomo è asciutto. L’antica chiesa,
importante fulcro dell’assistenza
spirituale dei viandanti, è stata
sostituita con l’attuale chiesa di S.
Giacomo, edificata negli anni
Cinquanta in prossimità del passo di
Fraele, dall’AEM. La stessa AEM
realizzo’ nel 1934 la prima chiesa
dedicata a S. Erasmo, a sostegno
spirituale di quanti si trovavano
impegnati nei lavori di costruzione
dell’erigenda diga di S. Giacomo. A
seguito della realizzazione della diga di
Cancano la piccola chiesa fu
letteralmente smontata ed esattamente
ricostruita pietra per pietra, in località
Solena. (?) La chiesa si impone allo
spettatore per la ricca cancellata in
ferro battuto, interrotta da gruppi di 4
colonnine tortili. L’unico spiovente
dell’edificio termina al culmine con un
cavaliere che funge da torre
campanaria. L’interno ha unica navata,
con catino absidale impreziosito dal
dipinto raffigurante l’ultima cena,
sovrastata da Cristo Buon Pastore. La
chiesa custodisce il quadro dedicato
alla “Madonna dei Cantieri”,
raffigurante la Vergine con il Bambino
in braccio in atto di benedire, S.
Giuseppe ed una Santa.
Sebbene recentemente realizzate, le
due chiese della val Fraele
rappresentano simbolicamente la
memoria della vallata, ci ricordano le
fiorenti attività che sin dal medioevo
caratterizzavano la valle e sembrano
parlarci di ricchi eventi storici, di
battaglie, di transiti, di attività
artigiane, insomma di tutta un’intera
civiltà che il luogo, nonostante i suoi
quasi 2.000 metri di altitudine, seppe
tenacemente coltivare e mantenere a
beneficio dell’intero Contado di
Bormio.
168
laG ente
Usi e costumi della Valdidentro
Il carattere
Dopo aver attraversato la val di
Campello, confine sovrano del
territorio di Bormio, ci si inoltra nella
Valdidentro e poco a monte dello
svettante campanile della chiesa di san
Gallo, ci si imbatte nel primo piccolo
aggregato della vallata: Molina. I suoi
abitanti sono ancor oggi da qualcuno
nominati i Sg’birài o i Sg’biràglia ossia gli
sbirri. Il termine è secondo il volgo
collegato a un fatto storico. Si racconta
che durante le guerre ottocentesche
d’indipendenza gli stranieri (gli sbirri)
furono subdolamente allietati e
intrattenuti dalle belle fanciulle del
posto. L’espediente servì per vincere la
battaglia e agli abitanti di Molina
rimase accollato lo strano nome
richiamante gli sbirri che furono
gabbati.
Il soprannome che contraddistingue
i premaiotti (quelli di Premadio) è i
penèglia perché si dice fossero abili
lavoratori di zangola (la penèglia),
attrezzo per la produzione del burro.
Premadio è sempre stato considerato il
paese rosso della Valdidentro, per i
suoi atteggiamenti libertini e anche un
po’ anticlericali. Quando c’era
l’occasione di organizzare una festa tra
amici o coscritti ci si ritrovava in
Premadio dove tutto era concesso…
Di più difficile interpretazione e
risalente a chissà quale epoca sono le
denominazioni accollate alle due
piccole frazioni che si incontrano sul
piano dopo aver superato l’ascesa di
Premadio: i grép (i cani) di Turripiano e
i cazét (i mestoli) de Palancàn
(praticamente gli abitanti di Sughét).
Gli abitanti di Pedenosso o
pedenosseri, presentano due diversi
appellativi: Sg’dreción o straccioni e
platòr, toponimo che indica una località
sopra il Sasso di Scianno.
Quelli di Isolaccia sono detti cozìn e
presentano il nomignolo più curioso in
quanto a significato. Secondo alcuni
l’appellativo trarrebbe origini da certi
nomi antichi; la versione del volgo è
certamente più colorita e anche la più
cristallizzata tra le genti della vallata.
Gli avi raccontavano che gli abitanti di
Isolaccia erano negativamente famosi
per possedere vacche che producevano
poco latte ossia vaca cóza, mucche che si
possono mungere da una sola
mammella. Gli abitanti dei
paesi vicini, riscontrando in
più di una donna di Isolaccia
la presenza di un seno poco
prosperoso (fömena plata cóme
sc’càndola, donne piatte come
assicelle per i tetti),
traslarono il termine dagli
Pagina a fronte:
Isolaccia a inizio
1900, con la chiesa
del ‘500 abbattuta e
ricostruita con diverso
orientamento nel
1938.
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
animali alle femmine. La conseguenza
inevitabile fu che il nomignolo fu
accollato a tutti quelli del paese,
indifferentemente dal sesso.
I semoghini sono invece conosciuti
con due soprannomi: i buSgiàdri, i
bugiardi, o i cögliòla o chigliòla.
Quest’ultimo termine trae forse origine
da cöglia o chéglia, supporti tra i pattini
e la base d’appoggio della slitta (la
lölZa); i semoghini erano infatti
orgogliosi di essere tra i migliori
costruttori di slitte di tutta la
Valdidentro.
didasclia
La presenza di tutti gli appellativi
sopra citati, spesso anche con risvolti
offensivi, sono la chiara espressione di
caratteri estremamente diversi e
rivelano la presenza di profonde
divergenze e contrasti tra i vari villaggi.
Mai nessun semoghino avrebbe, fino a
non molti anni fa, sposato una cozìna e
viceversa. Ancor oggi gli abitanti dei
due villaggi si rinfacciano
reciprocamente la frase: I cozìn (o i
semoghìn) i én prèt o asciascìn. Gli
abitanti di Isolaccia (o i semoghini)
sono preti o assassini.
Gli abitanti di Pedenosso
mantengono certi atteggiamenti di
superiorità nei confronti dei cozìn solo
per il fatto che la parrocchiale di san
Martino e Urbano ebbe per più di un
secolo il sopravvento sotto il punto di
vista ecclesiastico sulla chiesa di
Isolaccia. Ancor oggi alcuni anziani
raccontano con orgoglio e una sottile
ironia: I cozìn i vegnìen su ne la géSa de
Pedenòs a tör i sc’tendàrt per fér li
proscisción... Gli abitanti di Isolaccia
venivano su nella chiesa di Pedenosso a
prendere gli stendardi per fare le
processioni...
Il campanilismo esistente tra i vari
villaggi si estrinseca anche in certe
espressioni dialettali che divengono
oggetto di derisione. I cozìn ridono
quando sentono pronunciare dai
semoghini il termine puSgiöl per
indicare il balcone e lo stesso fanno i
semoghini sentendo nominare al pontì
dagli abitanti di Isolaccia. Altri termini
sono causa di sberleffo: al neót, li ghilìna
e al camp sostantivi usati in Isolaccia
diventano al naót, li galìna e al chèmp e
in Semogo. Sotto il punto di vista
dialettale i premaiotti si scostano
parzialmente dalla tipologia della vallata
riflettendo in parte il dialetto di Oga e
della Valdisotto per quel chiglià (che
significa qui) ormai scomparso e che
pochi ancora utilizzano.
174
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
176
La Valdidentro ha conservato, fino a
non molti decenni fa, l’arcaicità del suo
dialetto, caratterizzato da una
pronuncia stretta e dalla presenza di
una ridondante erre rutilante. Il passare
del tempo, il mescolamento delle razze
e la progressiva tendenza
all’italianizzazione sono fattori che
hanno concorso alla perdita progressiva
di queste caratteristiche.
La cristallizzazione dell’antica forma
dialettale si riscontra più facilmente, se
non in qualche anziano, nelle persone
che sono emigrate da parecchi anni in
luoghi lontani dal loro paese natìo.
Colloquiando con loro in occasione di
ritorno ai propri luoghi d’origine
magari per soggiorni vacanzieri, è
possibile riscontrare che il dialetto non
ha subito alcuna corruzione.
la G ente
Il ciclo della vita
La nascita e l’infanzia
Prima della nascita.
P
Le donne della Valdidentro
diventavano e diventano potenziali
madri all’età di 14 o 15 anni, e la
comparsa del primo ciclo era, fino a
qualche decennio fa, un dramma per la
giovane fanciulla. La madre diceva
semplicemente alla figlia spaventata:
Ésa t’ésc fömena. Adesso sei donna.
Sc’tremìscet mìga, che te vedrèsc, al te
sucederè tüc’ i més. Non spaventarti,
perché ti accadrà tutti i mesi. L’evento
veniva di solito nascosto alla madre,
con la quale la figlia non aveva alcun
tipo di confidenza. Rosina d’Isolaccia,
parlando di questa scarsità di dialogo
che intercorreva tra madre e figlia,
diceva: La mìa mama la m’è mài sc’pieghè
gnént, la me diSgéa nóma: Avé al sant
timór de Dìo! Mia madre non mi ha mai
spiegato nulla, mi diceva soltanto:
Abbiate il santo timore di Dio!
La madre raccomandava alle figlie
ormai già cresciute de miga parlèr de quìli
bruta ròba gliè, di non parlare di quelle
brutte cose. Le mestruazioni non
venivano mai chiamate con il loro
nome scientifico, ma si usava un gergo
speciale, formato da sostituti e
eufemismi, per nascondere quell’evento
ritenuto quasi vergognoso: Al gh’é vegnì
li sóa ròba, i séi lór, al marchés, i séi córz, i
séi mesc’téir, i séi afàri, al meSìn. Questo
costume di celare sotto varie locuzioni
un fenomeno naturale e la vergogna
che prendeva le giovani fanciulle nel
constatarlo trova la sua origine nel
concetto di impurità da cui era
circondata la donna mestruante fin dai
tempi biblici. Nel periodo del
catamenio e in quello della gestazione
la donna si riteneva impura e per
questo aveva influssi negativi su molte
cose. Non doveva toccare piante o fiori
perché altrimenti sarebbero rinsecchiti,
non doveva entrare nell’orto a
raccogliere l’insalata perché sarebbe
appassita e non poteva, all’uccisione
del maiale, insaccare e toccare i salamét,
sedenò i diventàan caf, ossia si sarebbero
svuotati all’interno e quindi andati a
male.
didascalia
177
didascalia
178
La fecondità era ritenuta una grazia
della “provvidenza” mentre al
contrario, la sterilità, era simbolo di
punizione. Emblematico il commento
maligno della gente del villaggio di
Semogo, a proposito una donna non
dava alla luce dei figli: Al vòl dir che al
Signór al vòl gnènca laghér la raza.
Significa che Dio non vuole che di
quella famiglia si formi discendenza. In
senso dispregiativo, una donna che
non aveva figli era definita sc’tèrla, ossia
sterile, mentre l’uomo era marchiato
col termine sc’terlùch. L’impossibilità di
avere figli veniva combattuta anche con
la preghiera e la devozione a San
Colombano. Le coppie che avevano
difficoltà a procreare si recavano in
pellegrinaggio fino alla sperduta
chiesetta in cima alla montagna,
dedicata al santo monaco irlandese. Si
racconta che un abitante di Premadio,
per avere figli, si recò pregando e a
piedi scalzi dal suo villaggio alla soglia
di quella chiesa e il suo desiderio fu
talmente esaudito che sua moglie in
seguito portò alla luce ben sei pargoli.
Tra le molte anche una coppia di
Isolaccia che non aveva figli si spinse,
sempre a piedi scalzi, dal piccolo
paesino della Valdidentro fino a San
Colombano per chiedere la grazia.
Un’altra donna di Isolaccia, dopo
essersi recata fino alla chiesa partendo
a piedi scalzi da Sughét (frazione tra
Premadio e Isolaccia), ricevette la grazia
riuscendo a partorire otto figli. Questa
diceva scherzosamente in giro, che era
pronta a ripartire verso la cima della
montagna per chiedere una seconda
grazia, quella che fosse interrotta la
magnanimità di san Colombano.
Varie erano le locuzioni che nella
Valdidentro esprimevano la gravidanza.
A Premadio in base alla presenza di
una certa peluria che cresce sul viso
della donna, correva il detto: Quéla lì la
bùta al pél. A Isolaccia una donna che
diveniva panulénta, lentigginosa,
secondo la credenza popolare faceva
sicuramente trasparire la sua
gravidanza. Quéla fömena l’é in càmpo o
l’é iglieré, si aggira nei pressi, era un
modo di dire dei cozzini (abitanti di
Isolaccia) per indicare una futura
madre. A Pedenosso si diceva l’é iè dré.
La fömena in crómpa, la donna
incinta, era oggetto di particolari
attenzioni e prescrizioni. Tra i vari
accorgimenti i diSgiön a li fömena in
crómpa de mìga de ir su la dìa del fégn cór
che 'l còsc, dicevano alle donne gravide
di non salire sopra la stipa del fieno
mentre questo stava fermentando. Il
fieno in queste condizioni avrebbe
potuto esalare vapori malefici per il
feto. Inoltre si raccomandava de miga
indiér al fégn e de mìga Sg’longhér su i brèc’
a sc’ténder, di non accatastare il fieno
con il tridente nel fienile e di non
allungare le braccia a stendere i panni.
La donna gravida doveva porre
attenzione de miga sc’pazér al còrch de li
béscia, di non introdursi a pulire il
recinto nella stalla riservato alle pecore,
la G ente
didascalia
179
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
180
perché l’odore dello sterco poteva
causare danni al nascituro. La donna
gravida non doveva assolutamente
uscire di casa dopo il suono dell’Ave
Maria della sera. Si diceva che il
nascituro avrebbe subìto l’influsso
malefico delle megere vagolanti
nell’aria e sarebbe potuto diventare
anch’esso, a seconda del sesso, strega o
stregone. La donna non doveva vedere
incendi, perché altrimenti il figlio
sarebbe nato con il viso cosparso di
macchie color fiamma (li vöglia).
Doveva porre particolari attenzioni a
non incontrare persone deformi,
perché tali deformità sarebbero
ricadute sul nascituro. La credenza si
basava sul fatto che se le donne
gravide, qualora fossero state prese da
sc’felént, desiderio di qualcosa, si
fossero toccate, avrebbero potuto
segnare come per riverbero il bambino
che portavano in grembo: questo
sarebbe cioè nato portando sul corpo
una traccia (voglia) che, per il suo
colorito e la sua forma, avrebbe
rappresentato, benché vagamente, la
cosa che la madre aveva desiderato.
Inoltre alle donne gravide era vietato
assistere all’uccisione del maiale per
due motivi: sia per non condividere in
qualche modo l’atto cruento, sia per
non veder scorrere il sangue. Era
vietato alla futura madre vedere
persone o animali deformi dai quali
potesse esserne negativamente
suggestionata. Perciò una donna
incinta non doveva soffrire la vista di
gobbi, storpi, assistere moribondi e
visitare morti, per non rischiare di
partorire un bambino gobbo, mutilato
o affetto da pallore cadaverico. Si
affermava inoltre che, se la donna
gravida avesse portato al collo matasse
di cotone, di fili, di lana annodata,
collane o catenine, avrebbe dato alla
luce un bambino con il cordone
ombelicale attorcigliato intorno al
collo.
Spontaneo nelle donne della
Valdidentro era il desiderio di
conoscere il sesso del nascituro. Le
previsioni del sesso si ricavano ancor
oggi dalla forma del grembo materno:
se la madre presenta il ventre gonfio
verso l’alto e con rotondità omogenea
sarà un maschio, se invece presenta il
ventre «in punta» verso il basso sarà
una femmina. Infatti correva il detto:
BòSgia guza la và miga in guèra. Pancia
aguzza non va in guerra, non sarà
chiamata alle armi. Si diceva anche
che, se la pancia era «pendula»,
cadente, sarebbe nata una femmina, se
era invece compatta, sarebbe stato un
maschio. Anche certi fenomeni
fisiologici erano indici validi per
scoprire il sesso: se la madre era
soggetta a vomiti e nausee si
preannunciava un maschietto. Le
previsioni venivano anche tratte dalle
caratteristiche del viso, che, se
diventava scuro, con macchie marroni
o cosparso di lentiggini (maschera
gravidica), allora si pensava a una
bimba. Se invece il viso conservava il
suo aspetto naturale, significava che la
donna avrebbe dato alla luce un
maschio. Una credenza piuttosto
semplicistica intorno al sesso del
nascituro si riassumeva nel pronostico:
Se la luna l’é blanca l’é ómen, se la luna l’é
néira l’é fömena. Se la luna è bianca sarà
maschio, se nera sarà femmina.
didascalia
181
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Didascalia
182
La nascita.
L
A Isolaccia l’imminenza della nascita di
un nuovo piccolo era annunciata al
padre in questo modo: Van, perché al
cròda la pigna. Va’ in fretta (a casa dalla
moglie), perché sta crollando la stufa.
Un detto ancor più antico era al cròda
l’invòlt, crolla l’involto. Più
grossolanamente a una donna che
rischiava di abortire si diceva: Mét al
cögn, che al salta ó l’invòlt. Metti il
cuneo, che sta cadendo la volta. Si
tratta di una serie di metafore che
collegano tutte queste strutture
aggettanti e rotonde come la pancia di
una mamma in attesa. A Pedenosso si
usava anche ripetere: Quàn che l’é
madùr, al cròda al formént. Quando il
frumento è maturo, casca. In generale
in tutta la Valdidentro quando le
donne partorivano si diceva che li
Sg’vöidàan al sach, svuotavano il sacco.
In questa vallata circolava una
curiosa credenza sul prolungamento
della gravidanza. La donna rimaneva
gravida fino a dieci lune (dieci o undici
mesi) se passava sotto la testa di un
cavallo.
Le madri spaventavano con i loro
racconti le figlie primipare descrivendo
il parto come un evento dolorosissimo.
A Semogo si diceva che alla nascita del
figlio al giràa sèt sc’tùa, giravano sette
stanze. Il parto avveniva sempre
nell’abitazione della gestante e il
medico raramente lo assisteva, se non
in casi di estrema gravità. Per favorire
un buon parto si consigliava di
assumere costantemente l’òli de linóSa.
L’uso di somministrare olio di semi di
lino si ricollega all’antica credenza che
l’azione del liquido emolliente potesse
rimediare a un parto asciutto e che
l’olio facilitasse lo scivolamento del
nascituro. Per accelerare le doglie
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
veniva utilizzato un metodo piuttosto
grossolano. Veniva preparata una
pappa densa di vino e zucchero che si
somministrava a cucchiai alle
partorienti. Spettava all’ostetrica (la
fömena) e ai familiari assistere la donna
e procurare il necessario affinché tutto
si svolgesse senza problemi.
La nascita era legata a una serie di
credenze con carattere magico e
devozionale. Si credeva fosse
particolarmente fortunato quel bimbo
che nasceva avvolto nel velo del liquido
amniotico e si soleva dire: L’é nesciù co
la camìSgia, l’é nesciù visc’tì, l’é nesciù sóta
bóna luna, sóta bóna sc’tèla. È nato con
la camicia, è nato vestito, è nato sotto
buona luna, sotto buona stella. Il velo
amniotico veniva chiamato la capùcia de
la fortùna. A Isolaccia e a Semogo la
placenta veniva bruciata nel fuoco
subito dopo il parto, perché era
ritenuta una cosa santa e,
sotterrandola, poteva diventare preda
dei selvàdich (degli animali selvatici) e,
in tempi passati, delle streghe che la
utilizzavano per comporre i loro
unguenti infernali.
didascalia
Avvenuto il lieto evento, si
aspettavano un paio d’ore (per il
pericolo di emorragie), e poi era
grande festa. A Isolaccia era usanza
portare del marsala o del vino con i
savoiardi o bisc’cotìn per rinvigorire la
puerpera. Tutti i presenti facevano
copiosi spuntini a base di salumi
nostrani e dolci casalinghi. Prima degli
otto giorni di letto raccomandati dalla
levatrice, la puerpera cominciava già ad
attendere alle faccende domestiche, ma
non partecipava mai al battesimo dei
figli e, non appena fosse potuta uscire
di casa, si recava in chiesa a purifichès co
l’àqua santa, secondo il rito cristiano
che si richiama alla purificazione della
Vergine, celebrato per la Candelora e
che, sul piano demologico, sancisce il
legittimo reingresso della donna nel
cerchio della comunità.
IIl battesimo.
Nella Valdidentro come in tutto il
Contado di Bormio la prima
preoccupazione, alla nascita di un
nuovo bambino, era quella di
battezzare il piccolo il più presto
possibile, perché correva l’opinione
che, morendo prima del sacramento
dell’iniziazione (la mortalità infantile a
quei tempi era elevatissima), sarebbe
rimasto luterano o protestante (lùter),
cioè escluso dalla chiesa. Il bambino,
data l’assenza della madre obbligata a
stare a letto per ben otto giorni, veniva
portato al fonte battesimale oltre che
dal padrino (al gudèz), dalla madrina (la
gudèza) e dal padre, anche dalla
levatrice, che in qualche misura si
sostituiva alla mamma. Il battesimo era
un momento pregno di superstizioni:
ai padrini e alle madrine non era
consentito commettere alcun errore
la G ente
nella recita del Crédo, altrimenti la
povera creatura sarebbe stata per tutta
la vita tormentata dalle streghe.
Sempre per proteggere i neonati
dall’influsso malefico delle streghe, si
usava nel nostro Contado appendere al
loro collo un piccolo ciondolo osseo
raffigurante sant’Antonio, segnandoli
sera e mattina con la “croce nera”.
Fino a qualche anno fa vigeva
l’usanza curiosa che la famiglia del
primo battezzato con l’acqua nuova,
benedetta durante la vigilia pasquale,
doveva donare un capretto al parroco
del paese. A Semogo questa usanza era
definita del bechìn. A Pedenosso vigeva
l’usanza curiosa di “agghindare” il
capretto come un bambino: gli
mettevano la berretta e gli
abbottonavano il grembiule senza
maniche sotto il ventre. Poi lo
portavano in chiesa, lasciandolo libero
sul sagrato. A cerimonia conclusa, il
sacerdote si prendeva il capretto.
Quando i neonati morivano prima
d’aver ricevuto il sacramento del
battesimo, si diceva che scendessero al
limbo. Non veniva svolta per loro
alcuna cerimonia funebre e, portato il
cadavere al cimitero, si procedeva a una
fugace benedizione. La cerimonia si
svolgeva la mattina presto o la sera
tardi e il corpicino esanime veniva
inumato in terra sconsacrata.
I giochi.
I
I giochi dei ragazzi di un tempo erano
Didascalia
di una semplicità estrema, anche
perché la povertà non permetteva di
acquistare cose inutili: erano trastulli
fatti con poche cose. I giochi delle
bambine non erano altro che
un’iniziazione ai lavori domestici: cuSìr
e fér calza, cucire e fare la calza. Li
marcìna li fàan su li pópa de pèza. Le
bambine si costruivano da sole delle
rudimentali bambole fatte di stracci. I
padri e i nonni, nei pochi ritagli di
tempo, si ingegnavano a costruire con
pezzetti di legno gli animali domestici
della casa o della stalla: li vàca, li béscia,
i porcéi, i ghèt, le mucche, le pecore, i
maiali, i gatti, eccetera. La mancanza di
denaro aguzzava l’ingegno e i ragazzi
mettendo in moto la loro fantasia
realizzavano giochi alquanto curiosi. In
riva al fiume bastavano due rametti
biforcuti infissi nel terreno e un
legnetto munito di pale di legno
disposto trasversalmente per costruire
dei bellissimi mulini ad acqua. Là, dove
i prati si facevano scoscesi, un’escìna,
una piccola tavola, o una sc’càndola,
assicella di larice utilizzata come tegola
per i tetti, poteva essere sufficiente per
organizzare lunghe e pericolose
185
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Pagina a fronte:
Isolaccia a inizio
1900, con la chiesa
del ‘500 abbattuta e
ricostruita con diverso
orientamento nel
1938.
scivolate lungo il pendio (li Sg’litaròla). I
maschi si divertivano a costruire con le
proprie mani le fionde (i tirasàsc, a
Premadio i tiracùch) e gli archi,
passando magari la giornata intera alla
ricerca del ramo che presentasse la
biforcazione più adatta e quello più
flessibile. I proiettili preferiti
consistevano in temelìn, brumolìn e
fròSula, cioè le bacche rosse del sorbo
degli uccellatori, le piccole prugne
selvatiche e il frutto della rosa canina,
oltre ai comuni sassi, ritenuti
giustamente più pericolosi. In
primavera, quando spuntava la foglia
sui rami e questi erano ricchi di linfa, i
bambini costruivano gli zufoli (i sciblöl)
utilizzando il legno dei piccoli salici di
fiume.
A Isolaccia si giocava alla pòrcola (a
Premadio il gioco veniva chiamato la
còna). I ragazzi dovevano colpire con i
loro bastoni una palla di legno di
betulla e farla entrare in una buca nel
terreno. A ogni concorrente era
assegnata la sua buca, e compito di
ciascuno era anche quello di impedire
con la mazza che la palla entrasse nel
186
buco degli avversari. Vi era un vero e
proprio campo da gioco con buche già
predisposte a Póz de Bèta (zona prativa
sopra Isolaccia prospiciente le baite di
Pézel).
Altro gioco diffuso nella
Valdidentro era quello dei fiori della
bardana che si basava sul fatto che alle
loro estremità presentano dei
microscopici uncini, i quali
conferiscono ai capolini la possibilità
di appiccicarsi a qualsiasi superficie
pelosa. Questi fiori venivano chiamati
a Isolaccia li grignàpola e venivano
utilizzati dai ragazzi per giocare e fare
dispetti. Se ne raccoglievano un buon
numero, tanto da formarne un blocco,
che veniva appiccicato sul petto alla
maglia. I capolini tondeggianti
venivano lanciati a uno a uno
organizzando delle vere e proprie
guerre e cercando di colpire la parte
più vulnerabile del corpo degli
avversari: i capelli. Le bambine dalla
chioma folta erano le più bersagliate.
D’inverno l’arrivo della neve
permetteva una serie di altri giochi
artigianali. La stessa cartella di legno,
foggiata a forma di cassetta, veniva
usata come slittino là dove le scuole dei
villaggi erano abbarbicate sui pendii,
come Semogo e Pedenosso. I bambini
di Pedenosso costruivano rudimentali
pattini di legno, i Sg’lìper, che legavano
alle scarpe con filo di ferro per
discendere velocemente lungo il pendio
che portava a Isolaccia. Quando poi si
andava in bolgésc, ossia sulle bàite di
montagna per trascinare a valle con la
lölZa, la slitta grande, il fieno o la
legna, i ragazzi ne approfittavano
trascinandosi dietro i loro slittini. La
salita costava molto sudore, ma ne
valeva la pena, perché la discesa in
mezzo al bosco non finiva mai e si
trasformava in una prova ufficiale per
saggiare le qualità di provetto guidatore
di slittino.
Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la
chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con
diverso orientamento nel 1938.
la G ente
Il fidanzamento e le nozze
La difficoltà degli incontri.
L
Le prime conoscenze amorose tra i
giovani comportavano una serie di
difficoltà. La paura del peccato, la
rigidità della chiesa, l’impedimento dei
genitori e le poche possibilità di uscire
di casa da sola, portavano la donna a
essere timorosa, schiva, a concedersi
molto poco e a sfuggire in modo
assoluto i rapporti sessuali clandestini.
Chiusa tra le mura domestiche la
fanciulla passava il tempo fra preghiere
e lavoro con vestiti accollati, gonne
lunghissime e i capelli raccolti nel redìn,
retino, tanto da non concedere nulla
allo sguardo maschile.
Al suono dell’Avemaria, quando
cominciava a imbrunire, qualsiasi
fanciulla doveva ritirarsi nella sua
dimora. Il parroco di Semogo, in
relazione alla possibilità degli incontri
che potevano verificarsi tra i pastorelli
dei due sessi, definì la stagione estiva
come “la vendemmia del diavolo”. Gli
incontri avvenivano sempre de sc’fodìgn,
di nascosto, lontano da occhi
indiscreti. La conoscenza tra i giovani
era piuttosto limitata: ci si incontrava
con sguardi sfuggevoli durante il lavoro
sui campi, in chiesa o dopo i vespri. I
primi approcci potevano avvenire in
occasione di certe feste particolari. Una
tra queste feste era il giro della stella
nel periodo natalizio o nel dì
dell’Epifania, che rievoca il leggendario
viaggio dei Magi guidati dalla Cometa
alla grotta di Betlemme per onorare la
nascita di Gesù Bambino. Il giro era
lungo perché tante erano le case da
visitare e perché venivano concesse
molte repliche. In questo lungo
peregrinare di casa in casa dei giovani
vestiti da pastori, gli stellari (così
venivano chiamati) c’era anche
l’occasione di approfondire conoscenze
femminili, cosa piuttosto difficile a
quei tempi. Gli stellari potevano così
dimostrare i loro amori attraverso il
canto soffermandosi più tempo nella
dimora dell’amorosa. Là infatti dove la
ragazza era più simpatica,
l’intrattenimento si prolungava ad arte
intercalandone il nome nel canto. La
chiamata alla leva poteva essere altra
occasione di approccio tra i giovani dei
differenti sessi. Infatti spettava alle
giovani dei villaggi della Valdidentro
confezionare i fiori di carta da donare
ai coscritti da mettere all’occhiello sulla
giacca e come ornamento delle fronde
d’abete che costituivano la volta del
carro utilizzato dai coscritti stessi.
CCaampanilismo e fidanzamento
ufficiale. Un ragazzo che andava ad
amoreggiare con le ragazze di un altro
paese era mal visto e i suoi incontri
con l’amorosa erano spesso osteggiati.
Rarissimi erano i matrimoni tra sposi
dei diversi paesi della Valdidentro. Per
questo gli abitanti di ogni villaggio
mantenevano le loro caratteristiche
fisionomie. De ISolècia a Semòch l’é
mai comparì su ‘na màrcia e l’é pasè
cént ègn prima che un semoghìn l’é gì
a tör una màrcia a ISolècia. Fino a
qualche decennio fa nessuna ragazza
cozzina si sarebbe sposata con un
giovane di Semogo e altrettanto nessun
semoghino avrebbe preso per moglie
una fanciulla di Isolaccia.
La scoperta anticipata di una
relazione, prima del fidanzamento
ufficiale, era oggetto di derisione da
parte dei giovani del paese. Questi
ultimi erano soliti congiungere, nel più
profondo della notte, le case dei due
innamorati, con una striscia di segatura
di legno. La preoccupazione di non
Didascalia della foto
qui sotto
191
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
lasciar trasparire alla gente i propri
sentimenti portava a scoprire il
fidanzamento solamente il giorno del
consenso, quando il parroco esponeva
al popolo le pubblicazioni in chiesa. In
tutta la Valdidentro i futuri sposi
difficilmente si presentavano in chiesa
in occasione delle pubblicazioni, per
sottrarsi alla vergogna di rivelare la loro
relazione in pubblico.
Le dispute nuziali e l’occultamento
L
Didascalia della foto
qui sotto
della sposa. Il giorno delle nozze lo
sposo partiva di buon mattino dalla
sua abitazione, ricevendo la
benedizione con l’acqua santa dai
genitori. Il corteo, con in testa lo
sposo, affiancato dai padrini di
battesimo, si dirigeva verso la casa della
sposa. La sposa, nel frattempo, si
vestiva e poi veniva nascosta
nell’angolo più recondito della casa,
mentre i parenti della fanciulla si
preoccupavano di sbarrare porte e
finestre nel miglior modo possibile, per
segregare quanto più a lungo si fosse
riusciti il loro splendido fiore, che stava
per essere rapito. Nel frattempo allo
sposo, che trovava l’uscio sbarrato,
venivano proposte dalla finestra le
donne più goffe, più vecchie e più
brutte del paese. L’uso di presentare la
“falsa sposa”, non è che un rito di
trapasso, strutturalmente analogo a
quello che si riscontra in altre zone
d’Italia e d’Europa.
la G ente
IIn chiesa e le dispute sul sagrato.
Dopo le dispute e il ritrovamento della
sposa veniva consumata nella casa della
sposa una abbondante colazione: la
culizión. Nell’attesa che giungesse il
tempo di avviarsi alla chiesa, a Isolaccia
e Semogo, la sposa distribuiva a tutti
gli invitati, secondo una gentile usanza,
dei fiori di carta da mettere
all’occhiello. I fiori erano di due colori:
bianchi da consegnare a tutte le
persone illibate (sia maschi, sia
femmine), rossi da donare agli sposati.
Naturalmente agli sposi spettavano i
due fiori bianchi più belli e
voluminosi.
Didascalia della foto
qui sotto
Il corteo normalmente arrivava con
largo anticipo sull’orario stabilito dal
parroco: gli sposi si disponevano nel
banco centrale, appositamente
addobbato per loro, quindi durante la
messa si svolgeva la cerimonia nuziale
secondo il rito romano.
193
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Didascalia della foto
qui sotto
194
FFuori dalla chiesa. All’uscita dalla
chiesa si susseguivano una serie di
festeggiamenti; alcuni amici e parenti
degli sposi si nascondevano tra i vicoli
e gli angoli delle case in attesa del
corteo nuziale, per sorprenderlo con
spari a salve di fucile e pistola. L’uscita
degli sposi dalla chiesa era salutata da
una serie di evìva i sc’pós e dalla
tradizionale richiesta del bacio. I
bambini attendevano con trepidazione
il lancio dei minuscoli confetti che la
sposa stessa era solita lasciar cadere sul
sagrato della chiesa. La sposa, in tempi
più remoti, all’uscita della chiesa,
fingeva di scappare e, invece di seguire
il marito, tentava di ritornare alla
propria casa. Era tutta una scena,
perché inseguita da quelli che già
sapevano della sua falsa fuga, veniva
con dolce violenza ricondotta in testa
al corteo. La scena richiamava antiche
costumanze lombarde che
rappresentavano un ritorno in forma
solenne della sposa nella casa paterna
dopo i primi giorni passati col marito.
IIn casa dello sposo e il pranzo
nuziale. Terminata la scena sul sagrato,
tutto il corteo si avviava verso la casa
paterna dello sposo, dove sarebbe
iniziato il gran pranzo nuziale. Prima
che la sposa varcasse la soglia, si
recitava la significativa scenetta
dell’incontro con la suocera.
Quest’ultima si presentava sulla porta,
tenendo in una mano le chiavi di casa
e nell’altra una cesta di calze da
rammendare e ciò stava a significare
che la nuora sarebbe diventata la nuova
padrona di casa ma che le sarebbero
spettate anche tutte le incombenze
relative alla vita domestica. A Premadio
la suocera dava la chiave alla nuora e il
giorno seguente si recava in chiesa a
insegnèghi al banch, ad assegnarle il
posto dove avrebbe dovuto sedersi
accanto a lei durante tutte le funzioni
religiose. Il pranzo di nozze era
preparato in casa da un cuoco o da una
cuoca e consisteva in poca cosa: risotto
giallo come primo piatto e un poco di
la G ente
carne lessata come
secondo (al bòt o
montone castrato).
Terminato il pranzo,
la sposa girava tra gli
invitati con una grossa
bièla, marmitta di
terracotta o porcellana,
ripiena di benìsc, confetti,
e con un cucchiaio ne
distribuiva tre o cinque
nelle mani degli ospiti
(sempre in numero
dispari). Erano i confetti
più prelibati: quelli
bianchi con le mandorle.
Nozze con riti speciali: la serra.
N
Quando una giovane di un paese della
Valdidentro si sposava con un
forestiero (considerato tale l’abitante di
un qualsiasi altro paese, anche della
vallata), costui era costretto a pagare
alla Gioventù la cosiddetta serra.
Attraverso la via percorsa dalla donna
che si recava agli sponsali, veniva teso
un bel nastro che sbarrava la strada ai
futuri sposi. Il nastro poteva essere
reciso solo se il “forestiero” avesse
pagato la tassa ai giovani del paese. Un
tempo al fianco degli addetti che
tenevano il nastro, si piazzavano due
ragazzi con gli schioppi (scarichi),
pronti a simulare una sparatoria,
qualora lo sposo si fosse rifiutato di
pagare la serra. A Semogo la serra
veniva allestita per tutti, anche per gli
sposi non forestieri. Venivano fatte
delle vere e proprie barricate che
chiudevano la strada, in vicinanza
dell’abitazione della sposa. Spettava ai
parenti dello sposo il liberare la via,
mentre quelli della sposa assistevano
senza muovere un dito. Più la barricata
era imponente, più la sposa era
ritenuta importante e stimata da parte
dei membri della Gioventù.
Se lo sposo non pagava lo scotto
della serra, si sarebbero verificati
dispetti a non finire nei confronti degli
sposi. Per fare un esempio dei soprusi
ai quali potevano andare incontro gli
sposi nel caso di mancato pagamento,
si cita uno degli articoli del codice
della Gioventù di Pedenosso: «Nella
dolorosa, triste, lacrimosa evenientia
che il sopradetto richiedente dia
pertinace rifiuto dopo legale monizione
del Consiglio, li Giovani della
Magnifica Terra, licite et legaliter,
potranno per anni uno e giorni trenta,
con principio dalle nozze, fare
continua, feroce, triste, dolorosa,
tormentosa et dispettosa guerra con
qualsivoglia mezzo, modo, maniera,
forma et macchinazione di nota et
possibile invenzione et in esempio:
irrisioni con accompagnamenti di
animali vari, praesertim cum asino
(specialmente con l’asino), ostacoli,
sbarramenti, seminazioni
escrementizie, sonagliamenti cum tolis
et cornis et similia (scatole, corni et
altri arnesi rumorosi), lavaggi et
sbroffamenti in cinere, pulvino, in
calido et frigido et in extremis etiam in
bagnarola (con cenere, pula, a caldo e a
Didascalia della foto
qui sopra
195
freddo e in casi estremi anche con
immersioni in bagno). E altre simili
segrete, orribili, diaboliche
macchinazioni et invenzioni, secondo
quanto prescritto nell’articolo occulto
del Codex Poenarum dove si dà
specifica et clara (specifica e chiara)
notizia delle pene, penitenze, castighi
contro li ostinati, pertinaci et
contumaci». Si poteva arrivare
addirittura allo scoperchiamento del
tetto della casa degli sposi. Ancor oggi
gli anziani ricordano di uno sposo di
Isolaccia che, non avendo pagato la
serra alla Gioventù di Pedenosso, fu
preceduto da un carretto trainato da
un mulo dal quale i giovani del paese
scaricavano continuamente sterco
accompagnato da segatura che veniva
eruttata da un ventilabro. Oppure
ancora si rammenta la giornata
tormentata di quello sposo di Sughét
che non volle pagare la serra ai giovani
di Premadio. I futuri sposi nel giorno
del loro matrimonio si ritrovarono la
strada cosparsa di letame e accolti da
quelli della Gioventù muniti di
fischietti, trombe e corni. Due latte di
spurgo del pozzo nero furono
rovesciate ad arte proprio davanti agli
sposi e allo stesso modo furono gettate
una dozzina di uove putrefatte. Per
completare l’opera uno dei più
scatenati componenti della Gioventù
calò i calzoni proprio davanti agli sposi
mostrando loro il fondoschiena. Gli
appartenenti a quel gruppo giovanile
scrissero a conclusione della
movimentata giornata: «Passando pel
paese tutti ci acclamarono e ci davano
ragione. Arrivati alla tabacchina ancora
un bicchiere e poi la compagnia si
sfece, contenti di aver sostenuto le
usanze tanto care e tradizioni».
didascalia
La morte
AAgonia e decesso.
La morte ha ben poco di pauroso per
gli abitanti della Valdidentro e viene
accettata con la più serena
rassegnazione. Alla morte di un
bambino commentavano: Ésa che l’é
mòrt m’arè un altro angelìn in cél. Ora
che è morto avremo un altro angioletto
in cielo.
L’agonia veniva annunciata secondo
un rituale che prevedeva venissero
suonati i bòt de l’angonìa. I rintocchi si
differenziavano a seconda
dell’individuo: se il moribondo era una
donna i rintocchi erano quattro, se era
un uomo le campane suonavano per
cinque volte. Anche la morte era
annunciata in modo differente.
Quando moriva un infante, le
campane suonavano a festa (al sonàa
l’alegréza). In morte di un adulto, se
uomo, la campana suonava per
mezzora, se la defunta era femmina il
suono durava solo un quarto d’ora.
la G ente
A morte avvenuta il defunto veniva
composto nel letto con un lungo
camicione bianco e poi, in tempi
successivi, con il suo abito migliore. Il
morto non veniva mai lasciato solo ed
era vegliato giorno e notte da parenti e
vicini di casa. Vi erano delle donne che
avevano il compito di leggere le 70
offerte dei morti e che venivano pagate
venti centesimi per il giorno e venti per
la notte. La sera la gente del paese si
recava in chiesa a scandire le orazioni
del rosario con il parroco. Al termine
della funzione, fuori della porta di
chiesa, due uomini (generalmente
parenti del defunto) con due grossi cesti
o sacchi erano incaricati di distribuire
un’elemosina di pane e di sale.
Poco prima dell’inizio del funerale il
morto veniva deposto nella bara che
era costituita da rozze tavole di legno,
costruita direttamente dai falegnami
del posto.
didascalia
197
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
IIl funerale.
Il corteo funebre in tutti i paesi della
Valdidentro si differenziava a seconda
dell’età del defunto. Se si trattava di un
bambino appena nato, il feretro veniva
portato a braccia dal suo padrino, se
invece era più grandicello veniva
costruita una piccola barella con i
manici in modo che la portassero i
coetanei. Nei funerali degli adulti la
salma era portata dai confratelli del
Santissimo Sacramento vestiti di tunica
bianca. La cassa coperta da un grande
telo nero con iscrizioni e ricami
bianchi, era depositata e trasportata su
una portantina.
IIl lutto.
Grande importanza rivestivano fino a
qualche decennio fa i segni del lutto in
memoria del defunto. Il lutto si
differenziava a seconda del grado di
parentela. In tutta la Valdidentro le
manifestazioni del lutto variavano da
sei mesi fino addirittura a tre anni in
casi eccezionali. I parenti più stretti di
sesso maschile erano coloro i quali
dovevano seguire più scrupolosamente
il tradizionale uso del capòt, ossia
indossare un pesante mantello nero
anche nel periodo estivo; le donne si
coprivano di uno spesso scialle nero. Il
lutto era manifestato anche da certi
comportamenti che vietavano la
partecipazione a qualsiasi
festeggiamento e alla frequentazione di
certi ambienti pubblici.
EElemosine per i morti.
Una delle elemosine più comuni della
Valdidentro era la cosiddetta elemosina
di fieno che consisteva in donazioni
alla chiesa, da parte dei contadini, di
certi quantitativi di foraggio più o
meno cospicui. Questo fieno sarebbe
poi andato all’asta e con il ricavato si
sarebbero celebrate messe e funzioni in
favore delle anime dei defunti. I
deputati alla raccolta del fieno erano
chiamati in Isolaccia i cercòt. Il fieno
veniva raccolto all’interno di un
apposito fienile denominato al taulà di
mòrt e messo all’asta in primavera al
miglior offerente. A Isolaccia accanto ai
cercòt vi erano li menögliéira ossia delle
giovani del paese addette alla raccolta
della segale per i morti. Anche in
questo caso dopo la raccolta si
procedeva a un’asta.
IIl 2 novembre: i morti ritornano
dall’aldilà. Il 2 novembre l’usanza di
rifocillare il morto era comune a molte
zone della Valdidentro. Vi era infatti la
credenza che in quel giorno i morti
ritornassero sulla terra, ciascuno alla
propria casa. Si raccontava che i
defunti, stanchi dal lungo viaggio,
avevano bisogno di riprendersi e per
198
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
questo obbligavano quelli di casa ad
alzarsi prestissimo per lasciare loro il
letto. I casigliani dovevano poi
preparare un secchio d’acqua e
qualcosa da mangiare per rifocillare i
“loro morti” dal lungo viaggio
compiuto dall’aldilà.
Un detto a carattere meteorologico
legato a quel giorno era quello citato in
Semogo: Quàndo i rìven i sant coi pè sciùt
i én cé i mòrt coi pè bagnéi. Quando
arrivano i santi con i piedi asciutti,
giungono i morti con i piedi bagnati,
ossia se il primo novembre farà bel
tempo, sicuramente pioverà il giorno 2.
la G ente
Feste e usanze del ciclo annuale
Gabinèt
Da tempi immemorabili si perpetua
in Valdidentro, come in tutto il
Contado di Bormio, l’antica usanza del
Gabinèt. Dal tocco della campana del
Gloria in Excelsis o dei vespri (in
poche parole verso le tre del
pomeriggio) della vigilia dell’Epifania
(il 5 gennaio) fino alla stessa ora del
giorno seguente, amici, parenti,
conoscenti, in un incrociarsi di saluti e
di sorrisi, cercano di prevenirsi nel
gridare: Gabinèt, Gabinèt e vincere così
dolci o doni a chi s’è lasciato
sorprendere. Il Gabinèt secondo il suo
stesso valore etimologico, cioè Gabe
“dono” e Nacht “notte”, consisterebbe
nella cosiddetta notte dei doni. La
tradizione purtroppo ormai si è ridotta
a poca cosa ed è semplificata ad una
risorsa per i ragazzi, i quali ottengono
di sicuro, in tale occasione, qualche
dono dai parenti o qualche frutto dai
vicini di casa e dai padrini di
battesimo. Bisogna risalire alla metà del
1900 per trovare in vigore le industrie e
gli accorgimenti cui si ricorreva, fra
gente d’ogni età, per riuscire vincitori.
Erano strani e geniali appostamenti,
false malattie, travestimenti nei
pittoreschi costumi delle vallate e
perfino simulati incendi. Si facevano
anche importanti scommesse e si
arrivavano a vincere addirittura
appezzamenti di terreno. Il pagamento
del Gabinèt poteva essere corrisposto
entro e non oltre il giorno di
Sant’Antonio abate, giorno della
benedizione degli animali e inizio del
carnevale.
Per ben caratterizzare l’importanza
che si dava alla tradizione del Gabinèt si
cita un episodio occorso tra due
sacerdoti più di un secolo fa in
Isolaccia e già citato in parte da
Glicerio Longa nella sua raccolta di
tradizioni «Usi e costumi del Bormiese»
del 1912.
didascalia
201
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
«Al g’àra un òlta döi bón prèt: al
Sc’chenìn che l’àra un cozìn e un silighét de
un lór e al Doménich che l’àra un
legnàsc’ch e l’àra anca un gran boldrón. I
àren tüc’ döi béi guz e di gran sc’cherzón. I
sc’tàan aprös de bàita e i àren di gran sòci.
Al dì del séisc de genéir al don Doménich al
s’àra inviè vèrs la géSgia per celebrér la
mésa granda. L’àra amó debòt e al g’àra in
giro gnigùn, ma al don Doménich al
continuàa a voltès perché l’àa pöira che
vergùn al ghe vengés al Gabinèt. Dré a la
vìa Càpole al g’àra nóma un ómen che al
giolö de ónda. L’àa su su li sc’pala un gèrlo
plachè ó de un quèrta. Péna al don
Doménich al gh’àra rivè dré al g’àa oSgè:
- Gabinèt.
- Me l’èt pròpi vengiù… Gh’éi però tót al
témp de paghèfel.
didascalia
Intànt i àren rivéi in plaza a la sc’trinta
di Màrtol indóe al g’àra la pòrta èrta che
la dàa sul segrà e indóe se pasàa int de
sagresc’tìa. L’ómen tót sc’trach, al g’àa dit
al prèt:
- Me dèt ‘na man a sc’carghér al gèrlo?
Ma péna al don Doménich l’àa ciapè su
al gèrlo, la quèrta l’àra saltéda ìa e l’àra
sc’prizè fór la crapa Sg’bèrtola del don
Sc’chenìn che al g’àa oSgè:
- Gabinèt!
- Sc’tòlta te me l’èsc féita, ma te me la
pagherèsc cara e saléda!
Al dì de Gabinèt de l’an aprös al don
Sc’chenìn i l’àan ciamè al léc’ de una
fömena che l’àra in angonìa perché l’àa ù
de li tribulazión cór che al g’àra crodè ó la
pigna. Al Sc’chenìn tót de ónda l’àa ciapè
su i òli sant e l’àra gì a la bàita de la pòra
fömena. Tüc’ i parént i àren intórn del léc’
e al don Sc’chenìn:
- Tirédof ìa e fédom vedér!
Ma de sóta la quèrta tót de cólp l’àra
saltè fór la crapa bèla rósa del don
Doménich che con un gran gusc’t l’àa dit in
dialèt legnàsc’ch:
- Ghibinèt, te l’éi féita…
C’erano una volta due bravi
sacerdoti: un certo Schena di Isolaccia,
un uomo mingherlino e don
Domenico di Livigno che al contrario
era piuttosto corpulento. Erano
entrambi molto furbi e dei
giocherelloni. Abitavano vicino ed
erano grandi amici. Il 6 di gennaio di
quell’anno, don Domenico si era
avviato verso la chiesa per celebrare la
messa grande. Era ancora presto e non
c’era in giro nessuno, ma, nonostante
ciò, don Domenico continuava a
volgersi freneticamente perché aveva
paura che qualcuno gli vincesse il
Gabinèt. La via Càpole era
praticamente deserta all’infuori di un
uomo che camminava speditamente.
Quest’ultimo portava sulle spalle una
gerla celata nella sua sommità da una
coperta. Quando don Domenico
raggiunse l’uomo, gli gridò:
- Gabinèt!
- Me l’avete proprio vinto… Ho però
tutto il tempo per pagarvelo.
Nel frattempo i due erano arrivati in
piazza nella strettoia dei Màrtol dove
c’era l’apertura che dava accesso al
sagrato e indi alla porta della sagrestia.
L’uomo, affaticato, disse al sacerdote:
didascalia
- Mi dareste una mano a scaricare la
gerla?
Ma appena don Domenico afferrò la
gerla, la coperta si scostò facendo
apparire il capo brizzolato del don
Schenino che gridò:
- Gabinèt!
- Questa volta me l’hai fatta, ma me
la pagherai cara e salata!
Il giorno dell’Epifania dell’anno
successivo don Schenino fu chiamato
al capezzale di una donna che era
agonizzante in seguito a difficoltà
occorse durante il parto. Il sacerdote in
fretta e furia prese gli oli santi e si
avviò verso la casa della poveretta. Tutti
i parenti erano intorno al letto. A quel
punto il sacerdote disse:
- Scostatevi e fatemi vedere!
Ma improvvisamente, da sotto la
coperta ecco apparire la faccia colorita
del don Domenico che con grande
soddisfazione disse in dialetto
livignasco:
- Ghibinèt, te l’ho fatta… ».
205
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
Il carnevale
Scriveva il Tazzoli, etnografo e
storico locale, nel 19.... ..... : «Il periodo
della Quaresima che dovrebbe essere
quello del raccoglimento, del lavoro e
del digiuno quasi a preparazione
spirituale delle anime alla celebrazione
religiosa della Risurrezione almeno ne’
suoi primi giorni non è tale nel
Bormiese. Vigono e vigevano
specialmente in passato costumi ed
usanze che non sono punto di
astinenza continuandosi, in certo qual
modo, la allegria tradizionale
carnascialesca cessata e purificata quasi
dai fuochi e dai canti dell’ultimo
giorno di Carnevale».
Era ed è quello che si chiama
Carnevale vecchio o Carnevàl véc’ o végl
che come nel rito ambrosiano si
protrae oltre il mercoledì delle Ceneri.
La differenza da notare è che mentre il
carnevalone milanese termina il sabato
grasso, nella Valdidentro, a Isolaccia e
Semogo, i divertimenti continuano
fino alla prima domenica di
Quaresima.
206
Nei giorni del Carneval vecchio, i
ragazzi bruciavano dei fasci di paglia e
di ramoscelli in modo da costituire un
gran falò. Era questo un rito cruento di
eliminazione con l’augurio di lasciarsi
alle spalle la stagione fredda e auspicare
la produttività della nuova stagione.
Durante il Carnevale vecchio era
usanza cucinare li manZòla, sottili
schiacciate o frittelle di fiore di farina
impastate con uova, burro e liquore
spiritoso e cotte nel burro ed
inzuccherate. L’usanza da parte delle
ragazze di offrire le manZòle ai giovani
loro più simpatici è antichissima. Ciò è
comprovato per esempio dal processo
del 27 febbraio 1624 contro Messer
Gervasio de Leonardo Caligaro di
Molina (Quat....... Inq.......) nella cui
testimonianza dice: «...siando io la sera
avanti il carnaval vecchio la dentro in
Jsolacia ... la moglie di messer Martino
Raglione mi invitò à venir la sera di
Carnaval vecchio à mangiar manzole
con la giovine se mi contentava...».
Il sabato (quello precedente la prima
domenica di quaresima) c’era l’usanza
da parte della gioventù del paese di
festeggiare al sàbet di mat, il sabato dei
matti, giorno dedicato esclusivamente
al divertimento.
L’usanza richiama gli
antichi festeggiamenti
della Compagnia dei
Matti di Bormio che
con il loro Podestà si
recava anche in quella
vallata a costituire un
luogotenente. Si
costituivano bande di
giovani mascherati che
peregrinando di casa in
casa si divertivano a
propinare una serie di
scherzi molesti ai
padroni delle
abitazioni.
La settimana santa e la
Pasqua
Al termine del lungo periodo di
purificazione rappresentato dalla
quaresima, inizia la grande festa della
Pasqua trasmessaci dalla religione
ebraica. I festeggiamenti per la
Risurrezione sono scanditi da classici
riti di purificazione che iniziano con la
domenica delle palme, quando i vecchi
rami d’ulivo benedetti vengono
bruciati nel fuoco e sostituiti con quelli
nuovi. I riti di purificazione si
contemplano anche nelle cosiddette
pulizie di Pasqua caratteristiche della
settimana santa che si verificavano in
chiesa, nelle case e nelle strade.
Durante la settimana santa venivano
simbolicamente legate le campane e i
fanciulli facevano rumore in
sostituzione di queste con li ghèa o i
trich-trach e li taoléta. La ghèa era uno
strumento formato da una stecca di
legno contro un’estremità della quale
una ruota dentata, anch’essa di legno,
girando, emetteva un suono che
richiamava il verso delle raganelle o il
gracchiare delle gazze. Qualcuno
portava con sé anche la taoléta, uno
strumento di legno a forma di cassetta
con foro sottostante, che faceva da
cassa armonica. Sulla parte superiore
battevano due martelli pure di legno,
alternati da due stecche. La taoléta
veniva appesa al collo e azionata
mediante una manovella che faceva
girare una ruota dentata, mettendo in
movimento le stecche e i martelli che
la G ente
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
didascalia
208
producevano un rumore assordante. A
Isolaccia veniva usato anche al tich tòch,
tavola lignea quadrata di circa 20
centimetri, al centro della quale era
innestato un pezzo di legno che nella
sua parte inferiore serviva da
impugnatura, mentre in quella
superiore era praticata una scanalatura
nella quale si inseriva il manico di un
martello ancorato con un chiodo che
veniva fatto ruotare e battere da una
parte all’altra della tavola.
Il Venerdì santo era il giorno della
più grande e imponente processione
dell’anno. A Pedenosso accanto alla
grande Croce del Cristo morto si usa,
fin dalla fine dell’Ottocento, portare in
processione la statua della Madonna
Addolorata ossia la statua della
Madonna con ai piedi il Cristo morto.
A Semogo anticamente veniva portata
in processione fin dai tempi che
furono, una pesante croce con il Cristo
che veniva caricata a turno sulla spalla
dei giovani più robusti del paese. Nel
villaggio di Premadio, durante la
processione, accanto alla statua del
Cristo morto, sfilava un gruppo di
ragazzi ai quali spettava il compito di
portare durante il corteo religioso i
simboli della passione di Cristo. Le
case erano graziosamente decorate e
pendevano tessuti vari a guisa di
paramenti. Curiosamente la
processione del Venerdì santo non era
consuetudine del paese di Isolaccia e fu
istituita solo a partire dagli ultimi
decenni del 1900.
Il Corpus Domini
Fin dall’antichità il Corpus Domini
era considerata sotto il punto di vista
religioso come una delle ricorrenze più
importanti dell’anno. Tutta la
popolazione partecipava con grande
fervore alla preparazione della
processione: le strade venivano
addobbate intrecciando lunghi rami di
betulla, di alno montano, di nocciolo,
d’abete e d’ontano selvatico. Con
quelle fronde si predisponevano
addirittura pergolati e gallerie sotto i
quali passasse il corteo. Ogni balcone,
ogni finestra erano graziosamente
ornati con i drappi e la biancheria
migliore che si possedeva in casa. A
ogni angolo della strada venivano
allestiti piccoli altari nei quali
brillavano lumini ardenti alla base di
simulacri di legno e di quadretti
raffiguranti le immagini dei Santi e
della Madonna. Tutto il paese
partecipava alla processione, chi con la
divisa della confraternita
d’appartenenza, chi con il lungo velo
bianco delle Figlie di Maria, chi
reggendo il baldacchino che proteggeva
il parroco con il Corpo del Signore, chi
portando croci e stendardi.
la G ente
didascalia
C’era, e in parte ancor oggi
sopravvive, l’usanza gentile
dell’infiorata. I prati, gli orti e i
giardini venivano spogliati di tutti i
fiori, per farne morbido tappeto al
Santissimo. Alle bambine biancovestite
che avevano da poco ricevuto la Prima
Comunione, spettava il compito, con
cesti pieni di fiori, di spargere petali
lungo la strada.
209
La Madonna dell’acqua di Isolaccia
A Isolaccia viene tramandata fin da
tempi antichi una bellissima storia in
bilico tra la realtà e la leggenda ma che
rivela la profonda fede e religiosità
degli abitanti del paese. È la leggenda
che avvolge nel mistero l’origine di tre
belle statue lignee che sono conservate
nella parrocchiale di Isolaccia. Si tratta
di Maria Santissima col Bambino fra le
braccia e delle statue di san Rocco e di
san Sebastiano. La statua della
Madonna fu sempre venerata sotto il
titolo di “Madonna dell’acqua”. La
leggenda di quella statua, tramandata
oralmente da padre in figlio, fu
raccontata alcuni anni orsono da
un’anziana del paese. Questo a grandi
linee il suo racconto:
«L’àra ténc’ ègn fè e al g’àra döi ómen
de NiSolècia, séi miga se di Ciósc’ch o di
Barón, ch’i àren di pòr diàol e i àan de
beSögn de un pó de plözer per ir inànz co la
baràca. I àan decidù iglióra de magliér fór
li dóa vaca ch’i àan ó in sc’tala. L’àra tròp
debòt per la féira de Bórm e iscì i àan
decidù de ir int di zuchìn a Santa Marìa
sùbit de lèi de Sc’télvi. Ma intànt ch’i àren
dré a ir dré al tröi, al s’àra metù a plòer che
Dìo al la mandàa e i àren Sg’lózi cóme di
poglìn. I àren rivéi ó in paés mèz mòrt del
la G ente
fréit e de l’àqua. Iglióra i àan domandè in
un bàit se i podön posér un àmen e
sc’caldès viSgìn al föch. Quì del bàit i àren
tanto sài e i gh’èn dit:
- Mangé un bocón e dòpo fermédof a
posér sc’tanöc’.
Un di döi l’àa péna finì de blasér su
l’ùltim cucér de menèsc’tra, che l’àra resc’tè
igliè, a vedér pichè iè nel cantón, inséma a
dei boréi, tré sc’tàtua de sant. Col gómbet
l’è pichè sul fiànch del sòci e al gh’è dit:
- Ma al te par! …‘na profanazión del
géner!
- M’è de fér vergóta! Perché an
desc’càmbia miga li nòsa vaca co li
sc’tàtua?
- Scì me li porterè a NiSolècia e sc’perém
che ‘l Signór al me giuterè…
Quì del bàit i àren bén contént de fér
quél afàre e i gh’èn de ónda déit li tré
sc’tàtua ai döi cozìn. Al dì aprós, péna
l’àra gnu céir i àan saludè e i s’àren inviéi
vèrs bàita. Rivéi su un pónt, un quài lùter
rabiós ch’i àan cé quìli ròba santa, i li àan
ferméi e i li àan oblighéi a Sg’lanzér ó ne
l’àqua li tré sc’tàtua. Ma, miràcol! I tré
töch de légn i s’àren ferméi a gala in mèz a
l’àqua e i àren miga sc’téit tiréi dré in di
sc’flónf. Tré lusc santa i parön gnuda fór de
didascalie
211
didascalia
212
l’àqua. I zuchìn, tót sc’trémi, i àan féit la
fin de quél de li cót. I döi cozìn, recuperéda
li sc’tàtua miracolóSa, i àren tornéi a
NiSolècia. De quél dì la sc’tàtua de la
Madòna de l’àqua (che l’àra sc’téita iscì
ciaméda per quél miràcol), de san Ròch e de
san Basc’tiàn i én sémpre sc’téit veneréi dei
cozìn cóme vergót portè del cél.
violento acquazzone e si ritrovarono
inzuppati come dei pulcini. Arrivarono
alla meta tutti bagnati e mezzi morti
dal freddo. Chiesero ricovero in una
casa del luogo per potersi riposare un
poco e scaldarsi vicino al fuoco. I
padroni di casa erano brave persone e
dissero ai due viandanti:
Molti anni fa due uomini di
Isolaccia, non so se appartenenti alla
famiglia dei Ciósc’ch o dei Barón
(soprannomi relativi alle famiglie
Ponti), necessitavano di denaro per
sobbarcare il lunario essendo caduti in
una situazione di estrema miseria.
Decisero allora di sbarazzarsi delle due
mucche che c’erano in stalla. Era
troppo presto per la fiera degli animali
che si svolgeva in Bormio cosicchè
decisero di recarsi al di là dallo Stelvio
a Santa Maria, in territorio svizzero.
Mentre stavano percorrendo l’impervio
sentiero, furono sorpresi da un
- Mangiate un boccone e fermatevi
pure a riposare questa notte.
Uno dei due aveva appena finito di
gustare l’ultimo cucchiaio di minestra,
quando fu attratto dalla presenza di tre
statue in un angolo della casa,
accatastate confusamente insieme a dei
tronchi. Col gomito urtò il fianco
dell’amico, dicendogli:
- Ma ti pare! …una profanazione del
genere!
- Dobbiamo fare qualcosa! Perché
non barattiamo le nostre mucche con
le statue?
- Sì, le porteremo a Isolaccia e
speriamo che il Signore ci aiuti…
Santa Lucia
Quelli della casa ben contenti di
quello scambio favorevole, si
sbarazzarono ben presto delle statue in
favore dei due viandanti di Isolaccia. Il
giorno seguente, ai primi chiarori, i
due salutarono coloro i quali li avevano
ospitati e si incamminarono verso casa.
Giunti su un ponte, furono fermati da
un gruppo di protestanti che contrari
al fatto che i due viandanti portassero
quelle statue, fecero buttare le stesse
nell’acqua impetuosa del fiume. Ma,
miracolo! I tre pezzi di legno intagliato
si erano fermati in mezzo all’acqua e
non erano stati travolti dai vorticosi
mulinelli della corrente. Tre luci sacre
sembravano ergersi dall’acqua. Gli
svizzeri infedeli, terrorizzati
dall’accaduto, se la diedero a gambe. I
due cozzini, dopo aver recuperato
nell’acqua le statue miracolose,
ritornarono in Isolaccia. Da quel
giorno la statua della Madonna
dell’acqua (così chiamata grazie a
quell’evento prodigioso), di san Rocco
e di san Sebastiano furono sempre
venerate dagli abitanti di Isolaccia
come un qualcosa portato dal cielo».
Nel territorio della Valdidentro che
va da Premadio a Isolaccia i bambini
festeggiano nella serata del 13 dicembre
l’arrivo di Santa Lucia. La santa
impersonificata da personaggi del luogo
gira ancor oggi di casa in casa vestita di
bianco con il suo asinello richiamando
i bambini con un campanello per la
distribuzione dei doni. I marmocchi
usano mettere una scarpa per contenere
i doni fuori dalla porta o dalla finestra,
accanto a un mannello di fieno e di
sale per rifocillare l’asinello. Un tempo
i regali consistevano in poca cosa:
castagne secche, mandarini, arance,
frutta secca e qualche volta anche dei
dolciumi. A Isolaccia la festa era ed è
sentita in modo eguale al Santo Natale.
A Semogo la festività non viene
celebrata e la spiegazione puerile che
viene fornita ai piccini del paese è che
la santa tralasci quel villaggio per
evitare la fatica di raggiungerlo, essendo
questo abbarbicato sul pendio.
la G ente
didascalia
Il fatto miracoloso avvenne in tempi
remoti, non si sa precisamente quando.
La prima processione di cui si ha
documentazione risale al 1852. Da
allora, la popolazione cominciò a
venerare la Madonna che divenne la
“protettrice della pioggia”, per cui in
occasione di periodi di importante
siccità si ricorreva a lei per chiedere la
sospirata acqua dal cielo. Il volgo
racconta che ogni qual volta si estraeva
dalla sua nicchia la Madonna
dell’acqua per portarla in processione
la pioggia come per incanto cominciava
a scendere!
213
Valdidentro
STORIA PAESI GENTE
La stella
Ancor oggi in alcuni villaggi della
Valdidentro (Premadio, Isolaccia e
Semogo) si perpetua l’antica usanza del
giro della stella. Tre giovani (a Isolaccia
i coscritti che hanno compiuto il
diciottesimo anno d’età) vestiti da Re
Magi girano di casa in casa cantando
delle litanie natalizie. Uno di questi
regge un’asta che sostiene una stella
formata da un’armatura sulle cui
sfaccettature sono tese carte di vari
colori, rischiarate dall’interno da una
luce artificiale. La stella è messa in
movimento mediante una cordicella o
più artigianalmente da un solo colpo
dato col palmo della mano. In ogni
abitazione gli stellari raccolgono denari
a favore della chiesa. Con il «giro della
stella» si vuole rievocare il leggendario
viaggio dei Magi guidati dalla Cometa
alla grotta di Betlemme per onorare la
nascita di Gesù Bambino. Così
descrive la stella Lina Rini Lombardini
nel ....... .... : «una volta la Stella dei Re
Magi iniziava il suo viaggio nella Notte
Santa. A tre o cinque punte, alta su
214
alto bastone, portata da uno dei
villerecci Re Magi, fiancheggiata dagli
altri due, si muove ancor oggi
lentissima al ritmo di ninna-nanna,
proprio come un rutilante Ostensorio».
Un tempo il canto all’interno delle
abitazioni seguiva sempre lo stesso
rituale suggestivo: si spegnevano le luci
in modo che solo la stella rischiarasse
l’ambiente, tutta la famiglia si alzava in
piedi e cantava accompagnando le
nenie natalizie mentre il portatore con
lenti colpi faceva rutilare la stella in
modo che si vedessero distintamente
tutti i suoi colori. Molte erano le nenie
natalizie che allietavano le case visitate
dagli stellari; fra queste la più cantata
era quella intitolata Deh! sorgi amica
stella, che qui viene riportata.
Deh! sorgi amica stella,
la pace ad annunziar.
Co’ raggi tuoi lucenti
de' popoli devoti
i pianti, i mesti voti,
deh! sorgi a consolar.
A’ rai del tuo bel lume
il ciel si fa giocondo,
il mar, la terra, il mondo,
ritorna a giubilar.
Dall’isole remote
si pongono in cammino
il Redentor Divino,
tre Magi ad adorar.
Deh! sorgi amica stella,
la pace ad annunziar.
Terminato il canto inizia la questua
che un tempo consisteva in generi
alimentari come segale e uova, che poi
venivano messi all’incanto al maggior
offerente. Il parroco come ricompensa
del lavoro eseguito dagli stellari doveva
pagare loro una abbondante cena. A
proposito dei festeggiamenti degli
stellari di Premadio annota il Longa
nel suo citato indimenticabile lavoro
del lontano 1912: «La sera del 26
dicembre perdura nelle valli (Premadio,
Valfurva, Cepina) l’usanza di portare in
giro su un bastone una stella rischiarata
da un cero... I giovani premajotti, ad
esempio, preparano per questa sera una
gran stella di carta colorata e con essa
vanno nelle case a far la questua... Poi,
scesa la notte, i giovani vanno in cerca
delle giovani e insieme salgono ai vicini
Bagni Nuovi, nel cui salone disoccupato per l’assenza invernale dei
forestieri - improvvisano una gran festa
da ballo, che dura fino all’alba del 27.
Ben presto il sacro cede il posto... al
profano, ben presto i giovani
dimenticano in un canto la stella di
carta per altre stelle... vive; scorre il
vino e da tutti si beve, si ride, si vocia
attorno alle tavole imbandite; le
fisarmoniche non più ora
accompagnano lente nenie liturgiche: i
canti che rompono il bianco e infinito
silenzio alpino son canti d’amore!».
la G ente
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