aldidentro V S TORIA PAESI G ENTE Lorenza Fumagalli Manuela Gasperi Marcello Canclini aldidentro V S TORIA PAESI G ENTE coordinamento editoriale Daniela Gurini fotografie Giovanni Peretti contributi di Beatrice Bellotti, glaciologia Remo Bracchi, toponimi Marco Foppoli, stemma e illustrazioni Alpinia editrice Valdidentro STORIA PAESI GENTE Presentazione Valdidentro, meravigliosa valle dell’alta Valtellina, il comune della Provincia di Sondrio che con i suoi 24.000 ettari è il più grande di tutti. L’azzurro è il colore che la contraddistingue e la fa individuare fra tutti i comuni della Magnifica Terra, ma il verde è il colore che domina, con i suoi estesi boschi ove prevale l’abete ed il pino e con i suoi pascoli, che d’inverno si mescola col bianco della neve, che ammanta tutto e protegge la terra, quasi in modo intimo e materno. Un tempo la Valdidentro faceva parte dell’antico Contado di Bormio, assieme ai territori di Valdisotto, Valfurva e Livigno oltre che, naturalmente, di Bormio stessa. La vita era molto dura, ma la gente della Valdidentro è sempre stata molto tenace ed ingegnosa, ed anche orgogliosa. Oltre al ricco apparato di fotografie che ben ci fanno cogliere l’ampiezza, la bellezza e, si può dire, l’ariosità di questo vasto territorio ed alle numerose ed interessanti iconografie ed immagini d’epoca, questo volume vuole illustrare la storia di questo territorio, dai tempi più antichi agli inizi del XX secolo, e soprattutto vuole approfondire la storia del Comune di Valdidentro, dalla sua nascita sviscerandone tutte le problematiche che esistevano dal passaggio dei tempi autonomi dell’antico Contado ai tempi post-napoleonici, storia che è scaturita dal nostro archivio comunale con attente ed approfondite ricerche. La religiosità ha sempre contraddistinto la vita delle sue frazioni, creando un senso di appartenenza tramite le varie parrocchie, creando legami interni che sono tangibili anche oggi. Ecco allora che viene approfondita la storia delle chiese della Valdidentro, non solo per quel motivo ma anche per il fatto che in esse da sempre la popolazione ha voluto lasciare tangibili segni della propria fede e della propria operosità tramite numerose opere d’arte, spesso uscite dalle mani di abili artisti locali. E, ancora, la gente. Il volume ci dona uno spaccato del carattere della gente di Valdidentro, che affonda le sue radici e si è formato nei secoli passati, ci fa memoria degli usi e costumi della popolazione di questa nostra verde valle. Una memoria che ritengo non solo opportuna, ma necessaria. E tutto il libro vuole avere questo spirito, questo valore di memoria. Per ciò questo libro non è solo dedicato alle persone anziane, per fare rivivere emozioni di tempi andati, e naturalmente a tutti i cittadini e numerosi ospiti, ma soprattutto è dedicato alle giovani generazioni, perché dalle bellezze di questo territorio nel cuore delle Alpi, dalla sua storia antica e recente e dagli usi e costumi della sua gente nasca e si rafforzi un profondo amore per la propria terra, un attaccamento per i propri luoghi e per la propria cultura che è garanzia di continuità e di salvaguardia per il territorio stesso, che è garanzia di futuro. Questo libro, ed il valore che rappresenta, è un dono per tutti noi. Il Sindaco Avv. Ezio Trabucchi 5 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Il territorio e lo Stemma L’attuale comune di Valdidentro fu sin dal primo Medioevo una delle tre Onorate Valli che con il borgo di Bormio, la Terra mastra, componevano il contado bormino. Si può ipotizzare che in taluni momenti anche la Valdidentro, così come le altre vallate sorelle, abbia potuto alzare proprie insegne distinte da quelle del Contado. Documenti settecenteschi ricordavano infatti che nelle processioni religiose potevano partecipare sia gli stendardi delle parrocchie che quelli “laicali” delle vicinie, se ne potrebbe dedurre quindi l’esistenza di particolari insegne tradizionali usate delle Onorate Valli. Purtroppo però negli archivi nulla, al momento, è stato rinvenuto: nessun sigillo o immagine con l’antica insegna della vicinia. Ci limiteremo quindi ad analizzare lo stemma moderno del comune di Valdidentro che, concesso con il D.P.R. del 26 aprile 1983, si allinea agli usuali canoni compositivi degli emblemi civici moderni. Nella prima partizione ritroviamo la raffigurazione delle celebri torri di Fraele, baluardo fortificato settentrionale del Contado di Bormio. Le due torri, poste a ben 1930 m di quota, erano infatti le sentinelle poste sul passo che collegava la Valtellina con la Valmüstair, l’Engadina e il Tirolo; così ne accennava il Tuana nel ‘600: «Da qui verso settentrione con una salita lunga e dura, attraverso massi enormi, scale, rocce asperrime per i cavalieri, si apre la via verso i Reti e Müstair attraverso il passo di Fraele, davvero un baratro e vertiginoso per chi non vi è avvezzo. Presso le gole a mezza montagna e la corona di massi si vedono oggi i ruderi di un’antica fortezza e due torri gemelle: alcuni ritengono che siano state erette dai Galli». Le stelle alludono ai quattro principali nuclei abitati del vasto comune di valle: Isolaccia, Premadio, Pedenosso e Semogo. La raffigurazione della nota chiesa gotica di San Gallo rappresenta un altro importante monumento del patrimonio storicoartistico del comune. BLASONATURA o descrizione tecnica araldica Semitroncato partito: nel 1° d’argento a due torri quadrate diroccate di rosso fondate ciscuna su un monte di verde movente dal fianco dello scudo e formante un avvallamento verso la punta; nel 2° d’azzurro a quattro stelle d’oro a cinque punte ordinate 1,2,1; nel 3° d’oro alla chiesa di S. Gallo terrazzata di verde con il campanile addossato ad una montagna dello stesso. 7 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Indice Presentazione Lo Stemma del Comune la Storia 13 STORIA DELLA VALDIDENTRO 13 La Valdidentro nell’antico regime prima del 1759 13 La Repubblica Cisalpina e quella Italiana dal ....al.... 39 Il periodo francese (dal 1797 al 1804) Il Regno d’Italia (dal 1805 al 1815) APPROFONDIMENTI Il dominio austriaco (dal 1816 al 1859) La nazione (dopo il 1859) Le torri pag 17 I Nomi e i Luoghi alcuni toponimi della Valdidentro 29 Le streghe pag34 Il Palazzo Pretorio 41 I Bagni Nuovi dalla nascita distrettuale alla privatizzazione 49 Il Pio Istituto scolastico 61 La divisione dei beni distrettuali nel 1841 67 Elenco dei beni e delle passività 67 La divisione dei boschi 70 I forni e le ferriere ottocentesche 72 I fabbriceri 82 Le strade comunali nel 1869 92 Terreni da vincolarsi in Valdidentro nel 1877 96 Gli esposti 98 I pascoli e gli alpeggi 102 Il 1900 39 43 47 77 i Paesi 119 LE CHIESE DELLA VALDIDENTRO 121 San Giovanni A Molina 121 San Gallo 125 San Cristoforo a Premadio San Martino ai Bagni 129 133 Santuario della Madonna della Pietà 139 Chiesa della SS. Trinità di Turripiano 143 Isolaccia 145 Semogo 149 San Carlo 153 Santi Martino e Urbano a Pedenosso 155 San Antonio di Scianno, San Erasmo, San Giacomo di Fraele 165 la Gente USI E COSTUMI DELLA VALDIDENTRO Il carattere 173 173 Il ciclo della vita 177 La nascita e l’infanzia 177 Il fidanzamento e le nozze 191 La morte 197 Feste e usanze del ciclo annuale 201 Gabinèt 201 Il carnevale 206 La settimana santa e la Pasqua 207 Il Corpus Domini209 La Madonna dell’acqua di Isolaccia Santa Lucia 211 213 La Stella 9 la S toria Storia della Valdidentro LA VALDIDENTRO NELL’ANTICO REGIME “Vallata a Cruce Toii Intus”. Così alla fine del ’400 veniva chiamata la vallata che si distende a occidente del borgo di Bormio che, con la Valdisotto a meridione, la Valfurva a oriente e Livigno, costituiva l’entità politica e amministrativa denominata negli antichi incartamenti “Communitas Burmii”. Nei secoli che seguiranno si preferirà a questa antica denominazione quella di Valle di Pedenosso o Valdidentro. I suoi confini toccano il Comune di Valdisotto, quello di Grosio, quello di Poschiavo, quello di Livigno, quello di Zernez, quelli di Val Monastero e quello di Bormio. Nell’Antico Regime era compresa nella Valdidentro anche la lontana Trepalle. Sei erano le Vicinanze che la componevano: Semogo, Isolaccia, Pedenosso, dette “Vicinanze di Dentro” e Turripiano, Premadio e Molina, dette “Vicinanze di Fuori”. Ogni Vicinanza amministrava una porzione di territorio (gestione dei boschi e dei pascoli, manutenzione delle strade e dei ponti, ripartizione dell’acqua per l’irrigazione prativa, suddivisione delle spese comuni o “taglie”, ecc.) ed era presieduta da un “anziano d’huomini”, eletto ogni anno dall’assemblea dei vicini, ossia dagli uomini con più di venticinque anni. Egli era il referente del Consiglio Ordinario (anche detto “Seduto”) di Bormio, unitamente ai due consiglieri di valle, uno eletto dalle “Vicinanze di fuori” e l’altro da quelle “di dentro”. Questi ultimi componevano, con quattordici colleghi (quattro delle altre due vallate e dieci di Bormio) l’istituzione appena sopra citata, partecipando però alla sola amministrazione del Contado; erano cioè esclusi, a differenza dei dieci consiglieri di Bormio, dal Tribunale penale. Tale esclusione cessò nel 1555, quando un decreto delle Tre Leghe Grigie estese anche ai sei rappresentanti delle tre Valli (Livigno fu sempre escluso dagli organismi amministrativi e giudiziari) il diritto di farne parte. Il potere legislativo ed ogni provvedimento straordinario erano una prerogativa del Consiglio di Popolo composto, sempre secondo quanto decretato nel 1555, da centoventi uomini, venti dei quali nominati fra i vicini di Valdidentro. Il numero era però discrezionale e le proporzioni mai rispettate rigorosamente. Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con diverso orientamento nel 1938. Valdidentro STORIA PAESI GENTE Croce di Toi 14 NNelle istituzioni ecclesiastiche le sei Vicinanze, fino alla seconda metà del XV secolo, furono parte della Pieve di Bormio, la cui chiesa matrice o plebana era quella dei santi Gervasio e Protasio. A partire dal 1453 si vollero però separare per costituire parrocchie autonome. Fu così che in quell’anno le tre Vicinanze “di dentro” fondarono la cura di S. Martino e Urbano e, pochi anni dopo, nel 1467, quelle “di fuori” istituirono la cura di S. Gallo. Dopo meno di due secoli inizierà il processo di frammentazione della cura di S. Martino e Urbano che si dividerà in quattro distinte parrocchie: nel 1624 si costituirà la parrocchia di S. Abbondio di Semogo, nel 1734, non senza aspri contrasti, quella di Maria Nascente di Isolaccia ed infine nel 1771 verrà istituita la parrocchia di Trepalle. Didascalia didascalia pagina successiva Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalie 16 SSul territorio di Valdidentro correvano le due importanti strade dell’Umbrail e di Fraele, definite nei documenti medievali “regali”, ossia di diritto del re, strade pubbliche per eccellenza che nella seconda metà del Settecento, con la carreggiabile che portava a Serravalle e quindi in Valtellina, si preferirà definire con l’aggettivo di “imperiali”. La prima, detta nel XIV secolo “via curta”, saliva dal ponte sul torrente Campello alla contrada di Molina, quindi ai Bagni, per poi inoltrarsi da Boscopiano in Forcola, scendendo a Santa Maria di Val Monastero dalla Val Muranza. La seconda, detta “via longa”, attraversava Premadio per poi risalire il bosco Arsiccio fino a fiancheggiare la piccola contrada di Degola, raggiungeva, per un tratto mediante scale aggrappate alla roccia, le torri sopra le Scale, percorreva la Val Fraele e poi dalla Val Mora scendeva a Valclava sempre in Val Monastero. LE TORRI Le torri di Fraele, costruite nel periodo visconteo, e precisamente nel 1391, attivando le direttive dei due soprintendenti alla costruzione Tibaldo Marioli e Giovanni Foliani (pagati per il loro lavoro in libbre di sale, ferro, panno e segale), rappresentarono con le Serre dei Bagni e di Serravalle e il Castello di S. Pietro, il sistema difensivo del Contado di Bormio. La posizione delle stesse rendeva piuttosto difficoltoso conquistarle, anche per via delle guardie che le presidiavano come attesta un documento del 1435. Ancora nel 1481 il duca di Milano decise di fortificarle e chi ne beneficiò fu un certo Diodato di Molina che tre anni dopo ottenne il pagamento per l’opera eseguita, dal Consiglio ordinario di Bormio. Pare probabile che nell’antichità le torri fossero molto più slanciate di quanto lo siano oggi, come e invece sicuro che la “serra alle Scale” fu abbattuta il 23 febbraio 1513, per ordine dei Grigioni che, dopo essersi insediati quali dominatori nel Bormiese (1512), videro in questa rocca un possibile impedimento futuro alla discesa delle proprie truppe. la S toria Fra i torrioni avanzava la strada di Fraele, anche detta “delle Scale” per la particolarità d’essere stata costruita con traverse di legno di larice poste orizzontalmente al versante del monte. la S toria Questi piccoli tronchi formavano infatti l’alzata dei gradini della scala, mentre la pedata degli stessi era costituita dalla semplice terra battuta. Il primo intervento manutentivo documentato su tale percorso risale al 1357, quando si avvertì la necessità di transitavi con i cavalli, ma di seguito numerosi furono i ripristini, fra cui ricordiamo quelli del : 16 ottobre 1397, 1495, 14 ottobre 1637, 27 maggio 1659 e il 1720. Didascalie 19 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Il trasporto e il commercio furono fra le più importanti attività praticate nel Contado di Bormio. Per privilegio di Francesco Sforza, dal 1450 i Bormini ebbero infatti il monopolio sui trasporti someggiati per i due valichi e le entrate derivanti da questa attività contribuirono significativamente alla loro ricchezza. Le merci più commerciate erano il vino ed il sale: il primo acquistato senza dazio in Valtellina fino a 1500 plaustri (ogni plaustro corrispondeva a circa 760 l.), il secondo, che permetteva il ritorno con le bestie da soma sempre cariche ma avvantaggiate da gabelle ridotte, veniva acquistato nelle saline di Hall, poco lontano da Innsbruck in Austria. Un’altra risorsa di non poco conto U era quella dei pascoli, che, oltre a permettere di estivare il bestiame locale, consentivano di ottenere rilevanti entrate affittandoli ai pastori detti “tesini” (da Tesin, nome del fiume Ticino, da cui provenivano le greggi e in seguito utilizzato indistintamente per identificare tutti i pastori forestieri). Didascalia Didascalia 20 Alcuni di essi erano gestiti dalla Comunità, mentre altri venivano assegnati alle Vicinanze che affittavano quelli sovrabbondanti, incassando in tal modo parte del denaro necessario per le spese collettive. Essendo una risorsa di non poco conto, la Comunità tendeva a riservarseli per far fronte alle spese generali, divenendo spesso oggetto di rivendicazioni e proteste. Si giunse ad una definitiva soluzione del problema a partire dai primi anni del ’600 quando si assegnarono i pascoli proporzionalmente ai capi di bestiame che si potevano svernare. Fu in questo quadro che si aprì uno la S toria spinoso contrasto in Valdidentro tra le Vicinanze “di dentro” e quelle “di fuori”che si concluse con l’arbitrato presieduto dal notaio Francesco Viviani di Livigno, da mastro Giacomo Romani di Molina e da Antonio Trabucchi detto Cottol di Semogo. Con la conclusione di tale vertenza l’11 gennaio 1619 si definì la cosidetta “divisione Sermondi”, già abbozzata negli anni precedenti, che prese il nome dal notaio Leoprando Sermondi che la stipulò. didascalia didascalia 21 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia IIn Valdidentro, accanto all’agricoltura e alla zootecnia, si coltivarono sin dai primi secoli del millennio appena trascorso le miniere di ferro della val Vezzola, della val Fraele e di Pedenollo. Il primo forno fusorio di cui vi si ha memoria fu quello dell’Al (anticamente detta Val di Semogo), che utilizzava la vena ferrosa proveniente dalla val Vezzosa e precisamente dalla località ormai quasi dimenticata del “Mot dela Fereda” (si ricordi a tal proposito che “Fereda” significa appunto “miniera di ferro”). Resta comunque ad oggi il sentiero dei trasportatori del minerale che dall’Al, per Pozzagliera e Brancon, raggiunge la val Vezzola e quindi costeggia i pascoli sopra Plator fino alla miniera ormai nascosta e sommersa dai detriti. Il forno di Semogo è descritto nel 1272 in un antico repertorio di documenti e percorrendo l’Al sono ancora visibili, anche se trasformati e destinati ad altri usi, edifici che si sviluppano molto in altezza e che furono probabilmente opifici per la trasformazione della ghisa in ferro malleabile. L’antico forno fu abbandonato dopo che si costruirono gli altiforni di Tort in valle di Livigno nel 1332 e, qualche anno di sehuito, il forno di Cazzabella, nella località ancora esistente detta Gras del Forn, oltre il valico di S. Giacomo. Quest’ultimo fu smantellato dopo che una straordinaria figura di imprenditore, Vasino Muggi detto Gratta, costruì nel 1548 il forno in località Presuraccia in val Fraele. la S toria L’attività siderurgica richiedeva un notevole consumo di legna da trasformare in carbone e nei boschi di Valdidentro si incontrano spesso le tracce di questa attività: si tratta di spiazzi circolari del diametro di cinque metri e più, composti da terriccio nero, dove si preparava il “pojat”, ossia la catasta di legna che dopo una lenta combustione generava un carbone che, per essere di qualità, doveva avere riflessi argentei ed un suono, al tocco, quasi metallico. Un altro tipo di attività che richiedeva, oltre al materiale idoneo (rappresentato in questo caso dalla pietra calcarea) anche un notevole consumo di legna, era la produzione di calce. Le fornaci per la cottura delle pietre si trovavano un po’ ovunque, ma particolarmente apprezzata perché didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE priva di “grep”, cioè di parti che non cocevano, era la calce prodotta nella località anticamente detta Ponte di Turriplano ed oggi Sughet: un decreto del Consiglio di Bormio del 1445 autorizzava la costruzione della fornace e stabiliva il prezzo del prodotto, allora venduto a “bena”(piccolo carro a due ruote con cassa di legno), e il “boscatico”, ossia la gabella spettante al fisco per il consumo di legna. SSul territorio di Valdidentro didascalia 24 scaturiscono anche le acque termali che in tempi remoti costituirono la “fama loci” di tutta l’ampia conca che prese il nome di Bormio da un remoto ‘bhor’, nel significato di “caldo”, riferito appunto alle acque che sgorgano dalle rocce sopra le forre del fiume Adda. Esse furono inizialmente utilizzate per fini curativi, ma si associarono anche ad attività ludiche e ricreative tanto da poter dire che i Questa pagiana pagina successiva Valdidentro STORIA PAESI GENTE Bagni di Bormio furono gli antesignani dell’attuale diffusa attività turistica. Altre acque, a cui credenze ancestrali attribuivano poteri medicamentosi e rigenerativi straordinari sgorgano in Valdidentro: sono le fonti dette “di san Carlo” che scaturiscono a Prei, al Bosco del Conte e poco sotto i Bagni Vecchi. Nel corso dei secoli questa valle fu N didascalia molte volte percorsa e devastata da eserciti e soldatesche. Curioso quel che si racconta in una cronaca seicentesca a proposito della località di Camplöng in val Fraele: in quel luogo un esercito ariano pare fu sconfitto dai Cattolici ai tempi di Teodosio (379-395), ed è alquanto singolare la credenza che voleva non potesse più sbocciare nessun fiore in tal luogo, che invece vedeva affiorare le ossa dei soldati che lì persero la vita. Se il racconto appena esposto ha qualcosa di leggendario, è invece certo che, nel 1376, il giorno di S. Andrea, entrarono dalla val Verva, dopo aver risalito la val Grosina, aggirando in tal modo le allora inespugnabili fortificazioni di Serravalle, le milizie di Galeazzo Visconti, guidate da Giovanni Cane, le quali misero a ferro e fuoco tutto il Contado, “tam in montes quam in plano”. Nel quadro della Guerra dei Trentanni, la Valtellina e i Contadi di Bormio e Chiavenna furono campo di battaglia degli eserciti spagnoli, francesi, grigioni e svizzeri. La Valdidentro fu invasa il 2 settembre 1620 dalle truppe svizzere e grigione penetrate da Livigno, le quali sfondarono senza fatica le resistenze che si erano concentrate tra Piandelvino e Sughet (località con nome derivante dalla corruzione dal 28 la S toria Seguirono crudeltà inimmaginabili. Qualche anno dopo la Valdidentro fu di nuovo teatro di orribili massacri, compresi quelli effettuati su donne e bambini, perpetrati il 14 giugno 1635 dalle truppe dal barone di Fernamont. Infine la val Fraele fu campo di battaglia, il 31 ottobre, tra l’esercito imperiale e quello francese guidato dal duca di Rohan che, con geniale strategia, sconfisse miseramente e costrinse ad una umiliante ritirata dalla val Mora i tedeschi che combattevano per la Casa d’Austria. dal soprannome di un certo Francesco Marni detto Sughet di Isolaccia - che nel 1617 ottenne di poter costruire una segheria nella località precedentemente chiamata Ponte di Turripiano) nella “trinciera” che si costruì per fermarne l’avanzata. didascalia I NOMI E I LUOGHI ALCUNI TOPONIMI DELLA VALDIDENTRO di Remo Bracchi Arnoga Il Rohlfs propone, come per Arnate, Arnasco ecc., una derivazione comune dal nome personale celtico *Arn(i)os (DTL 62). Data la sopravvivenza nel nostro territorio dell'ant. cep. àrna «capanna di pastori», è forse da preferirsi la partenza da una base prelat. *arna «concavità, anfratto tra le rocce» (LEI 3.1,1340; Bracchi, Aevum 57,481). Negli Statuti boschivi di Bormio troviamo però la variante Renoga (cap. 57), che si ripete in tutta la documentazione successiva più antica. Sembra perciò da preferirsi una derivazione dal celtico *renos «torrente, corso d’acqua», con un suffisso caratteristico dello stesso sostrato linguistico. 29 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Cancano Come rivelano le grafie antiche, che si presentano ripetutamente nella forma Campcan(o) o simili, il toponimo deriva dal sintagma lat. campus canus «campo bianco». Probabilmente è stato così battezzato in un periodo di innevamento. La valle di Fraele doveva essere percorsa già in tempo molto antico sia per la facilità che offre al valico, sia per la presenza di ferro nei massicci che la circondano. Cardoné Il suffisso -é è caratteristico dei collettivi di nomi di piante, arbusti o erbaggi. Il nome locale deriva dunque da cardoneto «località nella quale abbondano i cardi”, in dial. cardón. Didascalia della foto qui sotto Fraele Il friul. Fraelacco, nelle grafie del sec. XIV Frayelaco, Freyelaco, Fragellaco, nel dial. locale Freelà, viene interpretato come un prediale, un derivato cioè dal nome del primo colono o proprietario romano, che doveva essere un Fricellius o Fircellius o Fregellius. Un appellativo comune fraèl dal lat. fragellum variante tarda di flagellum «correggiato per battere il grano» si riscontra all’intorno, ma non a Bormio. In questo caso si dovrebbe forse presupporre l’intermediazione di un soprannome. Isolaccia Dal lat. tardo *i(n)s?lacea «brutta isola». Il primo nucleo di case è sorto entro la lingua di terra dove il torrente Scianno si incontra con il Viola, e il luogo di insediamento poteva facilmente offrire l'immagine di un segmento di terra ritagliato dalle acque. Pedenosso In territorio di Oga troviamo il toponimo Pedenale, che sembra contenere la stessa base, completata con un suffisso diverso. Nell’inventario dei beni del monastero di Sant’Abbondio in Bormio del 1316 l’appellativo conserva ancora un’accezione comune di «ripa, scarpata»: coheret... in parte pedenale... a sero pedenale seu ripa. Forse dal lat. pes, pvdis «piede», nel senso di «pendio», con un suffisso come in val-éna. Tanto il suffisso -éna quanto -òs sembrano di origine prelatina, ma probabilmente sono rimasti vitali anche nei secoli successivi alla romanizzazione. 30 Piandelvino Tutta la documentazione antica fino almeno al sec. XVII è concorde nel trascrivere il toponimo nella forma Plano Albino o simili. Si deve dunque escludere l’etimologia popolare che vorrebbe collocare nel piccolo nucleo ai piedi delle torri di Fraele fantomatiche cantine per la maturazione del vino. Difficile resta comunque l’interpretazione di Albino, se debba essere raccostato al lat. albus «bianco» o a un (sopran)nome personale. Platòr Un altro Platòr designava una serie di prati a Morignón a est delle case del Mót, spurgati dal petrame di alcune frane staccatesi dalla Val Màla. Come si ricava dagli Statuti boschivi in riferimento alla località della Valdidentro, il nome deriva dalla locuzione latina in sumbo pratorum «alla sommità dei prati». Dopo la perdita dei primi segmenti, c’è stata dissimilazione delle due r-r in l-r. Premadio In origine si tratta di un composto dal sintagma lat. pratum maius «prato maggiore», probabilmente per designare un’estensione erbosa più grande di quelle riscontrabili all’intorno. La d, che non è presente nella forma dialettale Premàio Permài, rappresenta un’epentesi secondaria. Scale Dalla conformazione a «gradinata» di qualche tratto del pendio che sale verso la cima. Dal lat. scala «scala», con specializzazione geonomastica «serie di balze». Semogo Un’antica variante Samòch potrebbe accreditare la derivazione dal celt. *samos «estate», nel senso di «pascolo estivo», riportandosi ai tempi che precedono una colonizzazione permanente del territorio. In direzione della Val Viola incontriamo Altoméira, che potrebbe derivare dal lat. *autumnaria «pascoli d’autunno». Trèla Nome probabilmente risalito dalla Val Grosina. Nel dialetto di Grosio tréla designa il «casello per la conservazione del latte e l’affioramento, costruito in muratura a secco sopra sorgenti o corsi d’acqua sui maggenghi e gli alpeggi», forse da una base prelatina *turra «monticello di terra». Le costruzioni più antiche erano seminterrate e ricoperte di zolle erbose (DEG 914; DTL 546; BSSV 15,100). Val Lia Dalla falsa scomposizione di un appellativo anticamente unitario, derivato da una formazione aggettivale valliva «appartenente alla valle, conformata a valle». La caduta della v intervocalica era un tempo assai più accentuata nel nostro territorio. la S toria Val Viola La grafia antica è costantemente Albiola, termine che ricalca una formazione femminile parallela al lat. alveolus «piccolo alveo», probabilmento in riferimento agli inghiottitoi del fiume. Vezzola In dialetto locale li Esòla. Nel Quaternus alpium dell’anno 1309 leggiamo: usque ad plazum Sexevrum, et inde a dicto plazo ferit ad ayralle quod dicitur ad ymas Assollas. Negli Statuti boschivi e nei documenti successivi il toponimo appare generalmente preceduto dall’articolo femm. la, che potrebbe derivare dalla falsa segmentazione della sillaba iniziale. In tal caso non sarebbe del tutto impensabile partire dal lat. lapideus «di pietra», con l’aggiunta del suffisso dimin. -ola. Il toponimo potrebbe essere nato in relazione a qualche cava di pietra utilizzata nella costruzione di laveggi o anche per altre destinazioni (Bracchi, BSSV 51,52). Didascalia della foto qui sotto e della pagina a fronte Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia AAlle miserie derivanti dalla guerra si aggiunsero in quegli anni efferatezze e atrocità dettate da credenze che avevano le loro radici nella notte dei tempi. Con la peste che incombeva e che aveva infettato le regioni limitrofe, si deliberarono ordini e misure di grande severità per evitare ogni contatto con le popolazioni finitime, ma un giovane di Isolaccia eluse ogni controllo e si recò in Engadina per consultare un maliardo di grande fama, dopo che la moglie si ammalò di “strana infirmità”. La causa fu attribuita alle malie di tre streghe e questa accusa scatenò una delle più feroci cacce che il Contado di Bormio abbia conosciuto. In una prima fase, quella dell’autunno 1630 ci si accanì esclusivamente con gli indiziati di Pedenosso, di Isolaccia e soprattutto di Semogo; le indagini si estesero poi, nei due anni seguenti, a Livigno. LE STREGHE Il Bormiese conobbe la sua prima caccia alle streghe nel 1483, quando le inquisite venivano condannate vive al rogo con “l’imputazione religiosa” d’essere al servizio del diavolo e conseguentemente rinunciatarie a Dio. Questo atteggiamento, che si schierava a favore della liberazione dal male, provocò l’uccisione di ben 41 streghe nel Contado di Bormio, che s’immaginava per credenza si cibassero di cadaveri di bambini preferibilmente non battezzati. Il Tribunale di Bormio richiamò nuovamente gli inquisitori nel 1519 e la seconda caccia alle streghe fu aperta. Molte furono le condannate, tanto che lo scritto di un tedesco le annovera a ben 300. Il loro ultimo viaggio partiva dalla piazza del Kuerc di Bormio, su cui s’affacciava Palazzo Pretorio contenente le carceri (marza), per terminare in località “la giustizia” (fra Premadio e Bormio) dove attendeva un falò che volutamente era pubblico. I Grigioni, divenuti padroni del Bormiese nel 1512, con decreto emanato nel 1557 impedirono l’entrata sui territori Valtellinesi agli ecclesiastici e per questo motivo le seguenti cacce alle streghe non si avvalsero di tribunali ecclesiastici, ma bensì di giudici civili. Ogni carestia, terremoto, frana, alluvione, etc. richiedeva un colpevole e questo portò spesso ad identificarlo “con la strega”; come accadde durante la peste del 1630 che falcidiò la popolazione dell’Italia 34 Valdidentro STORIA PAESI GENTE del nord, risparmiando miracolosamente la Comunità di Bormio, che comunque viveva nell’angoscia e nella paura, costituendo il substrato ideale per far scattare una nuova ondata di stregoneria. La cattura di una presunta strega doveva ottenere la confessione della vittima (che generalmente avveniva sotto tortura) per poter procedere all’uccisione della stessa, previa decapitazione e successiva bruciatura. Spesso questa confessione attivava una cattura a catena; ogni strega ammetteva infatti di aver ballato ai sabba con altre streghe, di aver operato malefici in gruppo, di aver avuto maestre nell’utilizzato di erbe allucinogene o nella pratica della triturazione delle ossa di bambini già morti per comporre unguenti, o ancora d’essere state istruite sui gesti e sulle formule da compiersi o sull’educazione magica per diventare lupi, capre, o altro. I nomi di altre persone erano fatte e con questi s’attivava la procedura della cattura e susseguentemente, quasi per tutte, dell’uccisione. Se fortunatamente le malcapitate riuscivano a fuggire prima dell’arresto, esse venivano bandite a vita dal territorio quali “ree confesse” e mai avrebbero potuto rientrarvi previa uccisione senza processo. Ancora fra il 1645 e il 1650 i roghi furono più volte accesi, ma dopo tale data si assistette all’intervento del Vescovo che tentò di frenare il fenomeno, stabilendo un atteggiamento contrario a quanto era accaduto fino ad allora. Nel 1675 però altre 37 persone furono giustiziate, e su di esse venne cercato il “bollo del diavolo”, corrispondente ad un neo, una cicatrice, una macchia scura o altro, che potesse confermare l’appartenenza della donna, o dell’uomo, al diavolo. didascalia foto grande Dieci anni dopo i Gesuiti istituirono il confortatorio, ovvero un locale sito presso Palazzo Pretorio, dove i predestinati a morte potevano ottenere conforto, la sera precedente all’esecuzione. L’ultima strega del Bormiese condannata a morte fu, nel 1715, Elisabetta di Oga. 36 Se la pestilenza del 1630 lasciò illese le popolazioni del Bormiese, quella iniziata nel 1635 ne decimò invece gli abitanti e, se Semogo vide salire molti suoi abitanti sul patibolo per reati di stregoneria, fu invece preservato dal micidiale contagio, tanto che, per esempio, la riunione del Consiglio Ordinario del 25 agosto 1636 si svolse “nella Valle di Pedenosso, nei campi di Lirun, vicino a Semogo, loco eletto a preposito per essere la Terra di Bormio et quasi tutte le altre Valli intacate di contagione”. In quell’anno si iniziò in località Arsure la costruzione della chiesa intitolata ai santi Rocco, Sebastiano e Carlo per adempimento di un voto a protezione della peste. la S toria didascalia foto piccola la S toria IL PERIODO FRANCESE (DAL 1797 AL 1804) LA REPUBBLICA CISALPINA E QUELLA ITALIANA Sul finire del 1797, dopo la vittoria delle armate repubblicane capitanate da Napoleone Buonaparte, la Communitas Burmii intraprese un’alleanza “emotiva” con i Valtellinesi e, per la prima volta nella storia insieme difesero le rispettive istituzioni democratiche, seppur dissimili fra loro. Nonostante l’intervento illuminato di personaggi colti quali i deputati Crespi e Bruni e il teologo Bardea, chiamati in causa per riottenere la libertà amministrativa, il proclama francese fu comunque redatto, stabilendo l’annessione dell’intera regione valtellinese alla Repubblica Cisalpina. La Valtellina, la Valcamonica, Bormio e Chiavenna divennero così Province, abbandonando statuti, privilegi e normative proprie e accettando di buon grado Sondrio quale capoluogo del Dipartimento dell’Adda e dell’Oglio di cui esse ormai facevano parte (fatta esclusione per Chiavenna che si unì al Dipartimento del Lario). dimenticare la regolamentazione amministrativa e quella giudiziaria. Bormio e le sue Valli, dall’antichità esonerate da gabelle, dazi e bolli, furono così fortemente provate dall’introduzione di una pesante tassazione basata principalmente sul dovuto richiesto per la redazione dei documenti, sulla privativa del sale e dei tabacchi e sul bollo per la formulazione dei contratti. In questo difficile periodo anche gli scontri amministrativi interni agli enti si fecero più duri e fra questi riaffiorò la vertenza, apparentemente sedata alla fine del XVIII secolo, fra le Vicinanze di Premadio, Turripiano e Molina. Esse trovarono un accordo sulla modalità di divisione dei debiti e degli introiti derivanti dall’affitto delle montagne ai pastori, solo dopo l’intervento del parroco Giacomo Silvestri l’11 agosto1800, che stabilì di dida Pagina a fronte L’organizzazione territoriale della Repubblica era allora suddivisa in Dipartimenti, regolati e gestiti da Prefetti, sotto questi stavano i Distretti capitanati dai loro Vice - Prefetti e ancor sotto i Comuni retti dal Podestà o dai Sindaci, affiancati da savi o consiglieri. Il compito primario di questo nuovo governo fu occuparsi dell’ordinamento fiscale per ottenere il massimo del reddito possibile, senza però 39 Valdidentro STORIA PAESI GENTE ripristinare la tradizione, suddividendo benefici e obblighi economici in due parti distinte: una competente alla sola Premadio e l’altra condivisa fra le due restanti Vicinanze. Sempre nell’intento di ricercare finalità economiche vantaggiose, anche le chiese vennero private, e più volte saccheggiate, d’oro, argento, paramenti preziosi e gonfaloni che, dopo essere stati venduti, impinguarono le casse centrali governative milanesi, casse che già si erano indebitamente arricchite con la “Confisca Reta”, sottraendo scorrettamente gli introiti spettanti alla Prefettura di Sondrio. didascalie 40 Per questi abusi e per il sovente mantenimento di ingenti truppe francesi e cisalpine da parte dei Comuni dove essere risiederono, la Costituzione della nuova Repubblica Cisalpina fu subita, più che condivisa, dalle popolazioni dell’Alta Valle. la S toria Il 14 giugno 1800 la vincita di Napoleone sugli Austriaci a Marengo, seguita dalla pace di Lunéville l’anno seguente, determinò l’inizio della seconda fase repubblicana (conclusasi nel 1805) che darà vita al nuovo assetto territoriale italiano. Bisognerà però attendere fino al 21 gennaio 1802 per veder pubblicata, in 128 articoli, la nuova Costituzione della Repubblica Italina che si sostituirà a quella Cisalpina. I territori continueranno comunque ad essere divisi in Comuni, Cantoni o Distretti e Dipartimenti, e il circondario di Bormio acquisirà Sondalo, Grosio e Grosotto. Anche la Valdidentro entrerà nella neonata Vice Prefettura circondariale di Sondrio, portando con se un credito pari a 49215,10 lire, dovutole per l’ affitto non riscosso dell’osteria d’Ombraglio, incendiata e distrutta nel 1800 dalle truppe militari francesi, per l’ affitto dell’osteria e delle case dei Bagni nel periodo compreso fra 1798 e l’inizio dell’800 e per i proventi fiscali quali: dazi, dazi di consumo detti “ bazi” e tassa sulla caccia, di cui la precedente Repubblica Cisalpina si era inopportunamente appropriata. reclute, più volte chiamate a rispondere dell’indisciplinato atteggiamento assunto d’innanzi alla Pretura di Tirano, dove era stato trasferito il Tribunale alla fine del 1803, attivando un decreto sottoscritto da Ragazzi. didascalia IL PALAZZO PRETORIO Una delle maggiori prerogative E’ di questo periodo l’istituzione dell’indipendenza del Contado di del servizio militare obbligatorio, Bormio, sciolto nel 1797, fu l’opportunità di possedere un proprio detto “Coscrizione”, malvisto Tribunale civile e penale, sito all’interno di un po’ ovunque ma con più Palazzo Pretorio, oggi sede della Comunità determinazione nel Montana Alta Valtelllina. Bormiese, che fu costretto ad Questo privilegio svanì con l’entrata di Napoleone negli alti territori Bormiesi, dopo l’emissione del assistere alla regolamento Ragazzi redatto il 29 novembre 1803. diserzione in massa Il Mandamento d’allora risultò sprovvisto di una propria Pretura delle locale a vantaggio di quella Tiranese. sue Fortemente indignati per questo atteggiamento, considerato invadente e restrittivo, un gruppo eletto di undici valenti cittadini Bormiesi inoltrarono alcune suppliche alle autorità competenti, ottenendo soddisfazione solo il 18 gennaio 1804 quando il Segretario centrale Riva, dopo aver brevemente comunicato 41 Valdidentro STORIA PAESI GENTE “le motivazioni che portarono a disfarsi dell’ufficio pretoriale di Bormio negli anni precedenti”, promise “un attento ripensamento sul ripristino della locale giudicatura”, sostituita provvisoriamente in loco dalla sola figura del Conciliatore, come voleva la legge dell’11 luglio 1801. La Pretura tornò quindi ad insediarsi nel fabbricato Pretorio dal 1818 e li rimase fino al 1964. Il ballottaggio fra Distretto e Governo in cui incorse questo palazzo nel XIX secolo, iniziò con la vendita effettuata dal Mandamento di Bormio al Regio Governo nel maggio 1825 (non accettata fino all’anno seguente dalla sola Valdidentro , che trovava inopportuno pagare un contributo pari a 1/5 delle 1203 lire richieste per l’obbligatoria manutenzione precedente la vendita), si accrebbe con l’atto del 16 aprile 1882, che vedeva lo stesso Mandamento di nuovo proprietario di un primo locale all’interno dell’immobile, per concludersi definitivamente con il riacquisto complessivo dell’intera residenza da parte del Circondario Bormiese il 21 agosto 1886. didascalie Quest’ultimo atto, rogato dal notaio Giuseppe Tuana di Grosotto, sottolineò il danno subito dal Mandamento che, fra la vendita al Governo e il successivo riacquisto dello stesso, perse ben 5000 lire. Dopo il 1911, con contratto di locazione stipulato dal Sindaco di Bormio Pietro Rini, oltre alla Pretura, alle Carceri mandamentali e al Genio Civile, vennero introdotti nell’edifico anche l’Ufficio di Registro e l’Agenzia delle Imposte e delle Tasse. 42 la S toria IL REGNO D’ITALIA (DAL 1805 AL 1815) Il 15 aprile 1805 Napoleone I° fu proclamato re d’Italia e i Prefetti ordinarono l’immediata l’eliminazione del titolo di Repubblica e l’attivazione del Codice napoleonico. Questo avvenimento fu celebrato anche a Bormio, centro mandamentale del territorio, con la lettura del manifesto nella piazza principale del paese al suono della bajona. La maggioranza della popolazione non gradì comunque partecipare a tale ricorrenza e i pochi intervenuti ostentarono scarso entusiasmo. Ancora una volta si pensò infatti di rivolgere una supplica al re, confidando di riottenere gli antichi privilegi e la diretta gestione del fisco, come accadeva precedentemente alla Repubblica Cisalpina; sotto quest’ultima infatti il Bormiese incorse nella completa decadenza dei commerci, nella diminuzione della popolazione, soprattutto nelle Valli e fra queste maggiormente nella Valdidentro (che contava allora sole 912 unità), nella devastazione prodotta dalle ricorrenti guerre, e nell’inevitabile povertà dell’intero Distretto, che non potendo beneficiare di entrate proprie, dovute per legge al solo governo centrale, scivolò verso la più misera disperazione. 1804 e il 1805, ben 72 risultarono i calzolai, i cappellai, i negozianti, i cocchieri e gli scodellai che richiesero il visto d’espatrio, concesso indistintamente ad ognuno per uno o due anni consecutivi. Solo tre anni più tardi l’ingegnere Ferranti ottenne l’incaricato dalla Direzione Generale delle Acque e Strade per redigere una relazione sulla transitabilità dei percorsi dell’Alta Valle e fra le strade che ottennero maggior attenzione, quella di Fraele risultò la più studiata, tanto da scomodare lo stesso Prefetto Ticozzi, che la voleva più comoda e ampia sul versante di didascalia Fu proprio in questo periodo povero e buio che alcuni cittadini tentarono la sorte emigrando nel Bresciano, a Chiari, nel Trentino, in Valtellina, a Domaso, a Vienna, a Nizza, in Germania, in Svizzera, nel Tirolo, in Valcamonica ed anche a Roma. Dall’elenco trasmesso alla Vice Prefettura di Sondrio, a cavallo tra il 43 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Valdidentro e meno scoscesa verso la piana di Cancano. Se svanì però la possibilità di ripristinare questa via per mancanza di fondi, molto più grave fu ciò che accadde nello stesso anno all’intera Valtellina. Essa fu più volte coinvolta da tumulti e disordini scatenatisi nelle zone confinanti del Tirolo meridionale, che portarono gli insorti capitanati da Andrea Hofer a combattere (dopo la pace di Presburgo che aveva tolto all’Austria il Veneto e la Dalmazia a vantaggio del Regno italico). dida Caddero sotto le loro armi, una dopo l’altra, le postazioni valtellinesi di Albosaggia, Montagna, Caiolo, Boffetto, Piateda , seguite da Teglio, Villa, Tirano e, nel maggio 1809, anche da Bormio. Più restie furono invece Valdidentro, Valdisotto e Valfurva che determinarono, sostenute dallo scontento Bormio, l’abbandono dei territori da parte dagli insorti, spesso “saccheggiatori ed avvinazzati, resi folli dai facili successi militari ottenuti”. La ritirata dei sovversivi si espanse poi a macchia d’olio per merito delle vittorie ottenute da Eugenio Napoleone e nel luglio 1809 il segno tangibile di ripresa del Regno italico si notò nell’emanazione del sistema tributario del “Dazio – consumo”, che sostituì le antiche licenze coattive con quelle libere, su cui però era imposto il pagamento del diritto fisso. Il Bormiese, nuovamente contrariato si ribellò all’introduzione di questa normativa, stabilendo la chiusura dei propri esercizi in segno di protesta; questo duro atteggiamento ottenne la sospensione del dazio. 44 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Nel 1813 gli austriaci insorsero in Valtellina e nell’aprile 1814 Napoleone abdicò firmando l’armistizio con l’Austria. Bormio e le sue Valli tentarono con caparbia la carta dell’annessione ai Grigioni, augurandosi di poter divenire la IV Lega Grigia; il risultato finale fu invece l’annessione al Veneto e alla Lombardia, che preventivarono per la Valdidentro la suddivisione fra Isolaccia e Semogo da una parte e Premadio, Pedenosso e Fraele dall’altra. Questa ipotesi di frammentarietà territoriale non fu comunque confermata dall’Imperial Regia Delegazione Provinciale, che approvò un unico Comune costituito da Isolaccia, Pedenosso, Molina, Semogo, Premadio e Turripiano, assegnando Trepalle alla vicina Livigno. didascalia 46 la S toria IL DOMINIO AUSTRIACO (DAL 1816 AL 1859) Il primo ventennio che seguì il Congresso di Vienna (che definì sulle valli dell’Adda il dominio austriaco), fu cupo, povero e contrassegnato dalla disoccupazione. Non esistevano ad allora ormai più commerci, sovente le carestie (come quella del 1817) affamavano la popolazione, i nobili erano decaduti e la rigida legislazione austriaca, che pose fine alle numerose diserzioni militari, privando con l’obbligo del servizio di leva, la “terra” e l’agricoltura di robuste e giovani braccia, insinuò inevitabilmente in questi luoghi: ozio, ubriachezza, corruzione e vagabondaggio. Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia didascalia 48 AAnche i Bagni Vecchi, detti di San Martino, risentirono di questo negativo atteggiamento diventando un luogo “frivolo, licenzioso” e altamente dispendioso per le casse comunali; quest’ultima fu la motivazione principale che indusse il Comune di Valdidentro prima e l’intero Distretto poi a deliberarne la vendita nel 1820; vendita che venne riproposta sei anni dopo per la mancanza di acquirenti che mal si rapportavano all’esagerata richiesta economica, alla sopraccitata dequalifica dello stabile e soprattutto all’incertezza derivante dalla scomparsa dell’acqua calda del “bagno superiore” fra il gennaio e l’aprile del 1822 (fatto che si ripresentò identico nel 1843). Si pensò quindi di ricorrere alla locazione dello stabile per ottenere almeno un’entrata sicura, attivando una lunga serie di contratti triennali e novennali, controfirmati per accettazione dall’affittuario Antonio Helzer. Nel 1828 si decise inoltre di costruire l’imponente complesso dei Bagni Nuovi, sperando in tal modo di risanare gli ammanchi delle “vecchio terme”. L’ atto d’inizio lavori, per problemi logistici, scivolò però all’anno successivo e lo stabile fu ultimato nel 1836. L’anno seguente si procedette all’edificazione di un nuovo “braccio di fabbricato” che conteneva l’oratorio, le vasche marmoree e la stufa per asciugare velocemente la biancheria, ma il Distretto schiacciato da ulteriori e gravosi debiti, fu costretto a proporre quale unica soluzione possibile l’approvazione del “progetto di libera vendita o di contratto livellario” sull’intero edificio, garantendo quale scelta conclusiva quella che si fosse rivelata maggiormente remunerativa. la S toria Il problema, non ancora risolto, si ripropose con più determinazione nel 1839, con l’affitto di entrambi gli immobili ad Helzer (verso cui il Distretto aveva intentato una causa per la mancata manutenzione di alcuni tubi di piombo), che locò gli stessi fino al 1858, quando I BAGNI NUOVI definitivamente si concluse la DALLA NASCITA sofferta vendita alla Società DISTRETTUALE ALLA Le Prese. PRIVATIZZAZIONE I BAGNI DISTRETTUALI Nel 1828 si propose la costruzione dello stabilimento termale dei Bagni Nuovi in aggiunta a quello esistente dei Bagni Vecchi, che venne risparmiato dalla demolizione del 1205 (unitamente alla “chiesa di S. Martino e alle case vicine”), per volere di un articolo introdotto nella pace fra Comaschi e Bormiesi. Il progetto di questo nuovo complesso impose da subito tre difficoltà, la prima consisteva nell’identificare il territorio su cui posizionarlo (problema risolto nel 1829), la seconda fu lo stabilire come far giungere le acque fino in quel luogo e la terza il capire come aggirare l’impossibilità di servirsi di una vera strada (che fu costruita e successivamente collaudata nel 1836). 49 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalie Chi si contese il diritto di progettare l’opera grandiosa dei Bagni furono gli ingegneri Ferranti e Donegani e nel 1832 (dopo la vincita di quest’ultimo), l’appaltatore della costruzione Luigi Lambertenghi riuscì ad accumulare una cauzione ipotecaria sufficiente per permettere l’inizio degli scavi. Molti furono i disboscamenti effettuati dal Distretto di Bormio per recuperare i fondi necessari alla fabbricazione e non è da sottovalutare neppure il prestito concesso dall’amministrazione distrettuale dal Pio Istituto scolastico di Bormio. Nel 1835 si completarono i rustici di servizio attigui al corpo centrale e nel 1836 si provvide al collaudo definitivo dello stabile e alla sua inaugurazione. Nel frattempo i Bagni Vecchi continuavano ad essere locati seguendo le linee guida dei contratti triennali e novennali del 1801, 1821, 1829, etc. e al locatario, che per lungo tempo fu Antonio Helzer , spettò l’onere di procedere alla manutenzione del vecchio complesso termale. Anche l’antica chiesetta di S. Martino fu motivo di contenzioso fra l’amministrazione distrettuale e la fabbriceria di Bormio al fine di definirne l’effettivo possesso, che risultò essere mandamentale. 50 la S toria Dal canto loro i Bagni Nuovi stentavano a partire per le spese occorse nella costruzione, spese che si triplicarono rispetto al preventivo iniziale presunto; fu questo il motivo per cui ottennero l’abolizione della tassa di consumo. Anche questo non bastò a sollevare la soffocante situazione debitoria venutasi a creare, tanto che si pensò di richiedere l’intervento del Re, almeno per quietare le rimostranze intentate da scalpellini, pittori e imbianchini, che dopo aver magnificamente operato non ottennero alcuna retribuzione. Sua Maestà non venne interpellata, ma già nel 1837, nonostante la vendita di parte del bosco del Gallo per far fronte alle spese, si iniziò a vociferare sulla necessaria vendita dello stabilimento termale. Le cose non andavano meglio ai Bagni Vecchi che trovarono Helzer sfavorevole al rinnovo della locazione, per la richiesta di un fitto troppo alto; fitto che abbassatogli lo incentivò a divenire unico locatario, per Bagni Vecchi e Nuovi, nel 1838. Nello stesso anno l’Imperatore a cui pochi anni prima si pensava di appellarsi per la rinascita degli stabilimenti, fu ospite d’onore delle terme e questo non poté che contribuire ad accrescere l’ormai smisurato debito distrettuale. Nel 1840 la preannunciata vendita sembrava imminente, ma ancora nel 1843 – 1844 Helzer ottenne un contratto a lui più favorevole per l’assenza di acque calde in loco e per l’appostamento di una caserma ai Bagni Vecchi che svilirono i locali non occupati a semplice osteria. didascalie Nel 1848 fu Giuseppe Negri ad affittare gli immobili e a lui toccò risolvere i problemi legati alle requisizioni effettuate dai militari; l’anno seguente i Bagni ridivennero osteria e nel 1850 di nuovo furono occupate dai militari. Otto anni più tardi Nicolò Negri, figlio di Giuseppe, s’insediò quale nuovo locatario assistendo a ben cinque esperimenti d’asta intentati per la vendita dei prestigiosi quanto costosi stabili. I Bagni privati La “Società Le Prese”, con l’importo di 79150,40 lire austriache, vinse l’appalto iniziando il 3 novembre 1858 la sua “rappresentanza di possesso” sugli immobili. “Ad essa subingresse poco appresso la Società Bernina dietro l’apporto di 28005 fiorini”, sborsati dall’allora rappresentante Stefano Ragazzi. Il primo documento stilato, a proposito della vendita in oggetto, fu la convenzione del 2 aprile 1859, a questa seguì l’accordo fra le rappresentanze dei Comuni distrettuali e quelle dalla società acquirente (redatta dall’ingegner Ulisse Salis, lo stesso dicembre) e ancora l’intendimento d’acquisto di Ragazzi nel gennaio 1861, che porterà alla stesura del rogito Bonomo Carbonera ( 13 ottobre 1862) con cui i Comuni sociali si privarono dell’immobile a favore della società svizzera. 51 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Nacquero però alcune discrepanze dettate dal fatto che la ditta acquirente considerava le fonti termali dell’intero circondario di propria spettanza, anche se esterne al territorio realmente acquistato, mentre il Distretto combatteva questa tesi, attribuendo alla ditta Bernina solo ciò che realmente aveva acquistato.. Nel 1867 bisognò richiedere l’intervento dell’ingegnere censuario Sioli per definirne i corretti termini del territorio alienato, ma nonostante il parere illuminato dello stesso, venne attivata una causa. Questa fu intentata per volere del consigliere nazionale delle Confederazione Svizzera Andrea Rodolfo Planta, quale presidente della società Bernina, e l’avvocato che se ne occupò fu Antonio Songoni , residente a Sondrio. Il 1 dicembre 1873 con altro atto a rogito Banzi, gli abitanti della contrada di Molina concessero ai Bagni la terza parte dell’acqua di loro proprietà, che defluiva nella Vicinanza passando attraverso i pascoli della società (la sorgente era poco sopra la strada dello Stelvio), in cambio della costruzione di una vasca con quattro aperture, due delle quali spettanti alla contrada e due ai predetti Bagni. Quest’atto confermava che il Distretto aveva ragione nel sostenere che le sole sorgenti all’interno del territorio acquistato fossero della ditta Svizzera e la stessa fu quindi costretta a stipulare un contratto con i vicini di Molina per ottenere le acque tanto vicine, ma sicuramente non sue. Nel 1879 i Bagni chiesero ancora d’acquistare una porzione di terreno, adibito a ghiaione e denominato Castellanella, rimasto sbadatamente escluso nell’atto d’acquisto a rogito Carbonera. Nel 1903 s’inaugurò la “Spa Bagni Nuovi”. Nell’ultimo dopoguerra venne aggiunta , sul lato nord della costruzione dei Bagni Nuovi un’ala per le cure inalatorie e per le piscine termali, fra cui ancora si ricorda la “piscina dei coscritti”. 52 Valdidentro STORIA PAESI GENTE La luce elettrica ai Bagni Nel 1887 dinnanzi a notaio Luigi Torelli di Bormio, comparve Luigi Motta segretario di Valdidentro per richiedere la custodia di un atto stilato il 18 settembre dello stesso anno, su cui risultava la concessione fatta alla ditta Bernina (allora rappresentata dall’avvocato Giovanni Salis) di una porzione di territorio con finalità di pascolo comunale, unitamente alla servitù di passaggio dello stesso, per permettere agli stabilimenti dei Bagni Nuovi e Vecchi d’ottenere la luce elettrica, mediante il posizionamento di “una sega circolare ed opifici simili…, nonché l’uso del corso o canale irrigatorio … detto di Semigliore”, che traeva la sua acqua dal fiume Adda in prossimità del ponte del forno e della ferriera; definendo inoltre che, non potendo bastare la portata d’acqua allora esistente per il corretto funzionamento dell’impianto, necessitava con urgenza l’ampliamento del canale. La ditta s’accollò su questo progetto ogni spesa governativa. Nel settembre 1894 ancora i fratelli Planta di Samaden, allora proprietari, mossero istanza ai Comuni sociali per ottenere l’aumento della concessione di derivazione d’acqua dal fiume Adda, sul territorio di Premadio, per ottenere la potenza di 60 cavalli ( anziché i 40 esistenti) idonei alla produzione di energia elettrica da utilizzarsi per l’illuminazione degli stabili ( così come previsto dalla legge 10 agosto 1884 n. 2644). Nel 1895 venne quindi fatto il sopralluogo necessario da Epifanio Tosco ingegnere del Genio civile di Sondrio e, servendosi del progetto di Giacomo Orsatti, fu stabilito di concedere l’acquisizione di acqua richiesta in cambio del diritto esclusivo per i Comuni sociali dell’uso di tre sorgenti di acqua calda esistenti sulla sponda sinistra del fiume I Planta ottennero inoltre che, una volta aperto il nuovo complesso termale di Bormio, (approvvigionato con le tre sorgenti calde) su questo gravasse la concessione del bagno gratuito ai residenti , fino ad allora di spettanza dei Bagni. didascalia La prima concessione d’acqua risaliva al 24 gennaio 1868 ed era “stata stipulata a favore della ditta Luigi Cornelliani proprietaria delle officine per la lavorazione del ferro di Premadio”. Nell’ultimo dopoguerra venne aggiunta , sul lato nord della costruzione dei Bagni Nuovi un’ala per cure inalatorie e per piscine termali, fra cui si trovava anche quella detta “dei coscritti” e nel giardino chiuso fra un’arroccata cinta di mura era posizionata, fino al 1970, la fontana detta “dei fanciulli”. 54 la S toria La costruzione della strada dello L Stelvio avvenuta, per volere del governo fra il 1820 e il ‘25, per primari fini militari oltre che per incentivare il ripristino dei commerci e la conseguente ripresa dell’Alta Valtellina, peccò però in scorrevolezza se confrontata con i nuovi valichi dello Spluga e dell’Aprica e con l’antico percorso, allora fortemente migliorato, del Tonale. Questo fatto non permise d’ottenere la sperata ripresa dell’attività economica in Valle, aggravando maggiormente, per le innumerevoli spese sostenute, il bilancio distrettuale. L’imponente lavoro di costruzione rappresentò comunque un’eccezionale opportunità per combattere la disoccupazione; opportunità che la popolazione locale, ormai svogliata e soggiogata dall’ozio, utilizzò solo in parte, a vantaggio dei 1500 braccianti, stradini, muratori e minatori (700 dei quali impegnati sul solo versante italiano), provenienti dal Piemonte, da Milano, e dalla Bergamasca . didascalia L’immigrazione in massa che ne derivò, creò ulteriori disordini e nuova criminalità, soprattutto fra coloro che spinti dalla disperazione e dalla fame avevano intrapreso lunghi viaggi senza ottenere l’ambito lavoro. Se la direzione di questa imponente strada fu affidata a Carlo Donegani, a suo fio figlio Giovanni spettò lo studio del progetto dello splendido stabilimento termale dei Bagni Nuovi, completamente finanziato dal Distretto che, come già si è detto, per lungo tempo pagò i danni economici scaturiti dalla stesura di un errato e superficiale preventivo di spesa, addirittura triplicatisi al momento dell’inaugurazione dello stesso. 55 Valdidentro STORIA PAESI GENTE frizzante acqua acidula, su cui era stata imposta una tassa, sull’esempio di ciò che accadeva nello stabilimento di Sampellegrino. Sempre in quell’anno venne stabilita la costruzione del tratto viabile fra Bormio e Semogo, che avrebbe dovuto sapientemente ricalcare l’antico tratto bisognoso di manutenzione e d’innovazione. L’intera circoscrizione arricciò il naso, ma il Distretto per garantire gli imminenti lavori, si avvalse della clausola che se i Comuni avessero negato il concorso alla spesa, essi avrebbero dovuto obbligatoriamente restituire i fondi elargiti dalla Valdidentro durante la costruzione della propria “carrozzabile” che percorreva la Valfurva. ( abbandonata nel 1847 perché poco frequentata, fatta esclusione per il solo tratto Bormio - S. Antonio che d’allora divenne di competenza dei due territori su cui scorreva). didascalia Le strade, da sempre sinonimo di L possibile guadagno, anche nell’Ottocento ottennero la loro attenzione, tanto che il Distretto già nel 1818 chiedeva l’intervento di miglioria sull’intero tronco stradale Bormio - Tirano, in modo da poter permettere ai Bormiesi di recarsi alla fiera annuale di S. Michele per contrattare od effettuare la vendita del proprio bestiame. Ancora nel 1840 il Distretto deliberò l’istituzione di un pedaggio, mai comunque applicato, da pagarsi per l’utilizzo della strada di S.ta Caterina (costruita a partire dal 1839 con fondi del Pio Istituto scolastico) nel momento in cui ci si recava alla località omonima per sorseggiare la 56 Anche se non ci è dato di sapere con esattezza se pesò più il ricatto o la paura di dover sostenere successivamente ogni lavoro senza l’aiuto economico del Distretto, è certo che la Valdidentro ottenne la costruzione della propria strada con contributo condiviso. Ma se alcune strade nacquero distrettuali, altre lo divennero rompendo antiche tradizioni, come accadde nel 1830 alle scale di Fraele che, da sempre spettanti nella manutenzione ai vicini di Pedenosso, divennero circoscrizionali privando i valligiani della tassa ottenuta per il transito dei pecorai con le loro 3300 pecore annuali, quando si recavano verso le vicine montagne Grigione. Bisognerà però attendere fino al 1853 per vedere stilata la scrittura privata con cui si stabilì di applicare ad ogni capo di bestiame transitato il corrispondente unitario di quattro centesimi. Il 1859 introdusse inoltre la normativa sulla viabilità che obbligava la costruzione delle siepi di protezione alfine d’evitare lo sconfinamento del bestiame transumante sui pascoli di Pedenosso. Le siepi e i muretti in sasso a secco divennero d’allora un obbligo su tutto il territorio nazionale. TTutte queste spese (bagni, acque, strade, manutenzioni, etc.), volute e sostenute dalla Casa d’Austria, abituata a “pensare in grande”, impegnarono senza possibilità di rinuncia, ingenti la S toria quantità di soldi distrettuali e comunali. Questa fu la prima causa d’indebitamento a cui si aggiunse, nella Valdidentro, l’obbligatoria costruzione del cimitero in conformità alle vigenti discipline sanitarie, atte ad impedire gli abusi nel seppellimento dei cadaveri. Il fatto portò a concludere al temine del 1817 che, essendo il Comune composto da quattro cure parrocchiali, oltre che sprovvisto di fondi necessari da investire, la soluzione migliore sarebbe stata da ricercare nell’edificazione di una maggior quantità di immobili con dimensioni più ridotte, utilizzando la sola manodopera locale, parzialmente gratuita. didascalia 57 la S toria Fra il 1834 e il 1837 si fabbricarono così tre dei quattro cimiteri di Valle, dislocati: nella Parrocchia di S. Gallo ( per Premadio, Molina e Turripiano), in quella di S. Martino ( per Pedenosso), in quella di S. Abbondio (per Semogo) e, nel 1818 con un impegno economico di 180 lire, nella Parrocchia di Maria Nascente ad Isolaccia. Anche la procedura per il seppellimento dei defunti che, fino al 13 ottobre 1836, spettava per competenza ai sacrestani remunerati dai parenti del defunto, divenne da quel momento un impiego salariato a garanzia di un maggior controllo sulla tumulazione. Nacquero pertanto le figure dei seppellitori per ognuna delle parrocchie di Valdidentro. Ad essi spettava un salario prelevato delle casse comunali, pari a tre lire per ogni defunto in età adulta e a una lira per ogni bambino sino all’età di sei anni. L’atteggiamento introdotto L didascalia ’ dall’autorità sovrana, che si basava sulla condivisione distrettuale dei vantaggi e degli svantaggi e sulla gestione univoca dei beni, spesso si confondeva nel Bormiese con l’antica consuetudine amministrativa dell’ex Contado. Non fu quindi difficile attivare casi di partecipazione nel Distretto, fra cui si ritrovano il medico condotto e la levatrice, entrambe figure di rilievo e garanti di una sanità tutelata e preventiva, spesso minacciata da preoccupanti epidemie o anche solo da semplici malattie quali: il gozzo, la scrofola e il rachitismo; segnali certi della mancanza di sale, igiene e luce. Fu inoltre merito della Valdidentro, seguita dall’intero circondario, l’immissione della clausola nel contratto stipulato con il medico consorziale Francesco Picchi (nel 1826), con cui si impose ai “chirurghi” seguenti l’obbligo di curare, gratuitamente e senza distinzione, sia ricchi che poveri. 59 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Questo cavillo, inserito contro le superiori prescrizioni austriache che non gradivano implementare la retribuzione dei medici consorziali di nuova nomina, divenne comunque attivo. Sempre in campo sanitario è del 31 marzo 1829 la supplica rivolta dal veterinario Francesco Rotta al Distretto per ottenere un salario in cambio delle proprie prestazioni, attivando in tal modo le corrette prescrizioni regolamentari governative; ed è dello stesso giorno la risposta negativa fattagli pervenire, noncurante delle imposizioni superiori. Si dovrà attendere fino al 1836 per assistere alla copertura di tale incarico da parte di Antonio Berbenni, con il quale verrà istituita convenzionalmente la figura del veterinario comunale salariato nella Valdidentro, che ancora nel 1856 verrà destituita da “uomini pratici abbastanza esperti”. didascalia L’anno seguente con il sussidio mensile “alla miserabile” (o nullatenente) L. M. e all’inferma D. F. (entrambe di Semogo) s’istituirà il primo servizio assistenziale comunale. SSe rigida era la direttiva che imponeva la condivisione delle scelte all’interno dell’intero Distretto, si tollerava comunque fra gli austriaci, per decisioni poco complesse e non dispendiose, anche l’attivazione diretta dei singoli Comuni, come accadde nel 1823 per la condotta, nella sola Isolaccia, della levatrice Francesca Peccedi stipendiata con 100 lire annue. L’anno seguente, ancora in autonomia, “il comizio” di Isolaccia a cui appartenevano il commissario distrettuale, i tre deputati, l’agente comunale e tutti gli uomini della frazione con più di 14 anni, si riunirono nella chiesa parrocchiale per eleggere Giovanni Battista Zini di Livigno, di soli 27 anni, quale parroco della cura di Maria Nascente, disponendo contemporaneamente che questo avvenimento ottenesse la sanzione del Vescovo e che solo dopo tale adempimento potesse essere formulata la bolla di canonica istituzione. Anche la scolarizzazione operava singolarmente rispetto al Distretto, fatta eccezione per il ginnasio circondariale che, con sede a Bormio, ottenne in eredità i beni e il patrimonio dei Gesuiti, oltre alla donazione della nobildonna Caterina 60 Alberti del 1611; questi beni, furono venduti in più riprese per sanare le ingenti difficoltà economiche distrettuali (nel 1833 si dilapidò l’intero patrimonio che i Gesuiti possedevano a Bianzone e nel 1839 tutti i restanti beni, fatta esclusione degli orti e dei caseggiati siti in Bormio, che tuttora sono dai quattro comuni sociali). la S toria IL PIO ISTITUTO SCOLASTICO Il Pio Istituto scolastico rappresentò un fondo sicuro da cui l’Amministrazione distrettuale, quella mandamentale e di seguito i Comuni sociali, ottennero più volte una degna copertura economica. Chiamato in tal modo dai primi anni del 1800, esso divenne depositario dei beni confiscati ai Gesuiti dal Governatore di Valtellina Riedi nel 1775. A dare l’avvio all’ingente patrimonio accumulatosi nei tempi fu Caterina Alberti nel 1611, mediante la donazione dello stabile di sua proprietà al Contado, su cui però pendeva il vincolo “culturale” dell’attivazione di una scuola pubblica. Per rispettare l’impegno assunto con l’accettazione della donazione, la Comunità di Bormio invitò i Gesuiti ad insediarsi nel Contado per svolgere l’azione educativa richiesta. D’allora agli stessi furono donati dalla popolazione i fabbricati di casa Foliani, Sermondi, due mulini sull’agualar (corso d’acqua per l’irrigazione), oltre ai molti lasciti in denaro elargiti quali elemosine. Il patrimonio s’implementò ulteriormente per gli acquisti operati in prima persona dagli stessi Gesuiti che disposero di bilanci sempre attivi. Il 21 luglio 1773 fu soppressa da Papa Clemente XIV la Compagnia di Gesù e venne rimandata al Governatore di Valtellina Pietro Antonio De Riedi la scelta “sull’impero economico” gesuita. Tale scelta si attivò nella confisca dei beni per assegnarli alla Comunità di Bormio, mantenendo però inalterato il vincolo scolastico. Nacque in tal mondo il Pio Istituto di Bormio che non modificò l’istituzione iniziale del XVII secolo, facendo però susseguire all’amministrazione della “Communitas Burmii”, quella del Distretto di Bormio ( rappresentato dai cinque comuni di Bormio, Valdidentro, Valfurva, Valdisotto e Livigno) e, dopo il 1841, quella dei Comuni sociali che in virtù dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1859 divennero anche enti morali. 61 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Le restanti scuole elementari minori L di Valdidentro, erano invece localizzate nelle diverse parrocchie e venivano aperte grazie al contributo elargito dagli stessi studenti; nel caso di nullità dei concorsi comunali l’elezione dei maestri avveniva d’ufficio, come si verificò nel 1824 per: Lanfranchi Carlo Giuseppe nella contrada di Semogo, Lorenzo Schena in quella di Isolaccia, il curato Nicola Schena a Pedenosso e il cappellano Pietro Giacomo Vitale nella frazione di Premadio. Ad essi spettava il compito di provvedere al riscaldamento a legna delle aule, oltre a garantire il funzionamento delle scuole da dicembre a maggio, percependo uno stipendio di 300 lire a Pedenosso e Premadio , e 390 a Semogo. Nell’istruzione, nonostante i pessimi momenti che si stavano attraversando e le energie spese per reprimere l’ormai chiara intolleranza verso gli austriaci, si introdusse il concetto, oggi tanto attuale, di “pari opportunità” per volere del parroco di Isolaccia, che in 62 una missiva del 3 agosto 1846 chiedeva al Consiglio di valle l’autorizzazione per attivare nella sua contrada una scuola femminile, separata dalla maschile, sotto la direzione della maestra Barbara Marni. La scuola fu aperta seguendo l’esempio di quella di Pedenosso inaugurata il 30 maggio 1846 e fu d’esempio per quella di Semogo che s’insediò nel novembre 1848. Tanta apertura mentale non la si ritrovò però nella supplica rivolta dai vicini della frazione di Premadio all’Ispettore della scuola elementare del Distretto di Bormio; essi infatti asserirono, screditando l’insegnamento femminile, che mai avrebbero potuto accettare un unico insegnante per classi femminili e maschili, o anche solo un insegnante maschio che potesse cimentarsi “nel far di sarto… non meno che di calzetta”. Precedentemente il 1866 la scuola era pressoché facoltativa, ma dopo tale data, ai padri di famiglia o a coloro che ne facevano le veci, spettò l’obbligo legislativo di provvedere affinché i figli, compresi fra i sei e i dodici anni, frequentassero almeno le prime due classi elementari. Solo dopo il 1867 l’istruzione pubblica divenne di completa spettanza di Province e Comuni. Ogni lavoro deliberato, sia O la S toria comunale che distrettuale, intrapreso in questa prima metà dell’Ottocento, doveva brutalmente scontrarsi con la grave povertà dei bilanci, che s’indebolirono ulteriormente dopo l’eliminazione della stesura degli estimi di Vicinanza. La redazione di questi volumi, spettava da sempre agli anziani di Valle, che con l’aiuto di scrupolosi e qualificati estimatori, redigevano le liste dei beni posseduti da ogni capo famiglia, su cui correttamente, di seguito, veniva applicata la tassa proporzionale. Venendo a mancare, per cambiamento amministrativo, l’istituzionalità di questi rappresentanti dell’Antico Regime, cadde conseguentemente anche la validità dei loro scritti e i deputati di Valle, preoccupati per l’assenza di introiti allora tanto necessari, si trovarono costretti a richiedere l’intervento del Commissario Distrettuale di Bormio al fine di ottenere la nomina di figure professionali complementari. Queste non vennero elette e gli estimi della Valdidentro furono destinati a divenire incartamenti del passato, come quelli di tutto l’ex Contado, terminando la loro esistenza fra il 1826 e il ’27, fatta eccezione per 63 Valdidentro STORIA PAESI GENTE la sola Livigno, ultima fra le valli a rassegnarsi, che ancora stese un suo registro nel 1834. L’assenza di questo strumento definì l’impossibilità di una corretta regolamentazione fiscale fintanto che la seguente burocrazia nazionale non ideò l’imposta sulla ricchezza mobile e quella sui fabbricati agli inizi degli anni ’60. Fino a tale momento fu devoluta alla sola redazione del nuovo catasto, attivo dal 1826, ogni possibile controllo tributario, utilizzando la rappresentazione grafica dell’intero territorio quale unico strumento per stabilire la rendita di ogni immobile e di ogni appezzamento terriero. La gravosa condizione economica L didascalie 64 d’inizio XIX secolo non permise neppure di accogliere degnamente il passaggio di Sua Maestà in Valdidentro, il 30 marzo 1825. Per tale motivo la Valle si era rivolta anche al Distretto, costretto a negarle ogni possibilità d’aiuto, perché non all’altezza economica neppure per sostenere il salario di un’assistente ostetrica ( Marianna Appolini di Sondrio) allora tanto necessaria all’Ospizio e Luogo Pio di Santa Caterina. la S toria Questa povertà fu aggravata dalla scelta effettuata il 22 dicembre 1842 di concorrere alla spesa per la costruzione dei padiglioni dello stabilimento dell’acqua ferruginosa di Santa Caterina, che già nel 1849 si decise di alienare allo Stato (unitamente al complesso dei Bagni), utilizzando il progetto di vendita redatto da Domenico Paganoni. Nel 1850 la Valle era tanto indebitata da impedirle di ottenere il prestito volontario statale, possibile grazie alla vendita dei “viglietti del Tesoro” introdotti in forma legale con la notificazione del 16 aprile 1850. Il comune di Valdidentro si trovò infatti costretto a deliberare la propria impossibilità ad accettare, esprimendo tali parole: “spiace grandemente al Consiglio, a cui è noto quali vantaggi ne proverebbero nel concorrere a detto prestito, il non potervi aderire, essendovi inabilitato per assoluta mancanza di mezzi, non essendo ignota alla stessa Superiorità la triste posizione economica di questo sgraziato paese...forse il più sgraziato di ogni altro di questo Regno,…i cui fondi servono necessariamente e tutti per far fronte alle spese d’amministrazione ed a quelle ingenti che si sostengono pei militari qui acquartierati”. 65 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Nel 1841 infatti la guerra N d’indipendenza, allora detta “Guerra italiana”, gettò l’intero Distretto nel caos. Alle prime avvisaglie dei moti di Milano, l’intera Valtellina si distinse per coraggio attivando un forte controllo sui passi e Bormio, il 23 marzo, nominò una Commissione di Pubblica Sicurezza e istituì la propria Guardia civica o nazionale, a cui distribuì 100 fucili acquistati a prezzo vantaggioso. La milizia I militari, quasi tutti volontari, riuscirono in condizioni disperate a bloccare il passaggio sulla strada dello Se il Contado possedeva un proprio esercito con capitano eletto da un Consiglio di popolo costituito da più di 400 persone (spesso oriundo della Vicinanza di Valdidentro), la Repubblica Cisalpina si avvalse invece nel Bormiese di una “milizia mercenaria” formata da reclute che sovente disertavano. Stelvio (sul versante tirolese), strada che gli Austriaci avevano realizzato per poter raggiungere con minor difficoltà i territori dell’Alta Valle. Ma mentre il 5 agosto si concluse con l’armistizio fra l’armata sarda e quella austriaca il ritorno di Milano all’Austria, sullo Stelvio noncuranti di ciò che stava avvenendo si continuò a combattere vittoriosamente, ancora per altri sei giorni. Di seguito ai patrioti Bormiesi delusi non restò che guardare al Piemonte quale unica possibilità per liberarsi dalla opprimente dominazione austriaca. Questa insofferenza era tanto evidente, che più volte costrinse in Tribunale soggetti offesi dall’insulto di spie austriache, come successe a Pietro De Gaspari di Premadio beffeggiato da Domenico Martinelli detto Macchè di Pedenosso. Dopo il 1816 la leva, detta “Coscrizione”, divenne obbligatoria e greve per il popolo, che la subì come soggiaceva al sovrano che l’aveva introdotta e che si preferiva disconoscere. Durante il Regno d’Italia (con il decreto del 4 marzo 1848) s’istituì un Corpo nazionale formato da battaglioni e legioni finanziate dall’Intendente, dai Prefetti e in primis dal Ministero dell’Interno, mentre susseguentemente alla costituzione del Mandamento, ovvero dopo il 1859, spettò ai Sottoprefetti il compito di corrispondere un contributo economico proporzionale al numero degli uomini che costituivano la Guardia nazionale dei Comuni, oltre che garantire la copertura di tutte le spese straordinarie sostenute per il corretto incarico degli stessi. Ai Sindaci ne era invece devoluta la sola, ma continua, sorveglianza. 66 la S toria In questo caldo e turbolento periodo storico, a complicare maggiormente le già pessime condizioni Bormiesi, intervenne anche la divisione dei beni sociali (voluta con ordinanza dell’8 gennaio 1840). LA DIVISIONE DEI BENI DISTRETTUALI NEL 1841 ELENCO DEI BENI I beni sociali posseduti dai cinque comuni componenti il Distretto, consistevano “nelle alpi di Federia, del Gallo, del Braulio, nel Portico sociale (o Kuerc) e nella campana della parrocchiale di Bormio, nel vecchio stabilimento balneare di S. Martino, del nuovo stabilimento pure balneario, nella cascina e praderia di Santa Caterina, nella sorgente d’acqua acidula, nella decima o prestazioni annuali parte in segale, parte in denaro cioè staia 22,7, dovute dai proprietari delle tenute di Canisa, Clausura, Bugliolo, Tresenda ed Areite sul territorio di Bormio, di staia 44 dovute dai possessori di Fumarogo, Cepina, Santa Maria Maddalena sul territorio di Valdisotto, staia 29,3… quest’ultime tutte estinte per far fronte alle spese sostenute per la strada di Santa Caterina e lo stabilimento dei Bagni…” didascalie E DELLE PASSIVITÀ “Redatte pure le passività sociali che contano nel debito di lire 71581,87 verso l’Istituto scolastico sociale, lire 4117 verso l’Ospitale di Bormio…e ancora quelle per la manutenzione della strada distrettuale che mette al nuovo stabilimento dei Bagni sul territorio di Valdidentro e di quella di Santa Caterina ( parte sul territorio di Bormio e parte su quello di Valfurva) , la prima per annue lire 463,86 con durata fino al 1845 e la seconda di lire 985 con durata fino al 1847 e ancora di lire 77 annue… per la tratta di strada che porta da Semogo a Livigno, oltre che una quota da pagarsi nel 1841 all’affittuario degli stabilimenti balneari a prima tacitazione dei compensi accordati nella seduta del 6 giugno 1840”. 67 Valdidentro STORIA PAESI GENTE A seguito della quale nell’agosto 1841 ci si rivolse al Consiglio distrettuale per definire la corretta suddivisione dei beni e delle decime dei Comuni, utilizzando gli smessi estimi e l’antica divisione Sermondi. La realizzazione di questo progetto consisteva nel fatto che i beni concessi in uso ai diversi Comuni, sul documento sopracitato, avrebbero potuto divenire di loro proprietà, se essi in cambio avessero garantito la copertura dei debiti già contratti dal Distretto per l’edificazione dei Bagni e per la costruzione della strada di Santa Caterina. Livigno rifiutò questa proposta perdendo istantaneamente ogni diritto sui beni sociali, che vennero divisi con decreto dell’11 ottobre 1843, non senza difficoltà (soprattutto per le decime), fra i rimanenti quattro comuni. didascalie 68 la S toria II boschi rappresentarono, fra tanta anche Dosso della Baita), pagando per questo 3075 lire. Fu così che al legname utilizzato per il solo riscaldamento invernale, o impiegato nell’edilizia, o ancora adoperato nei forni di Fraele, si aggiunse nel 1823 quello dovuto dal Commissario distrettuale alla ditta “Belf e Compari”, che con una scrittura privata aveva acquistato il quantitativo di materiale legnoso necessario per ottenere 3000 bisacce di carbone di “otto quarte” ognuna, impegnandosi a disboscare i soli appezzamenti di Motta e Solena ( detto A tutela dei boschi, allora tanto ambiti, il 23 maggio 1830 si elesse una guardia forestale aggiuntiva e, dieci anni dopo, si acquistò una macchina idraulica per soffocare numerosi incendi. povertà, l’unica entrata sicura ma il loro disboscamento, pur essendo considerevole e utile, mai avrebbe dovuto contrastare con il regolamento introdotto il 27 maggio 1811. didascalie Il legname sarebbe servito ad alimentare e ripristinare la fucina dello stabilimento delle ferriere di Premadio, carente di materia prima già nel febbraio 1822, quando bisognò ridurre in ferro malleabile la ghisa preparata ed esistente nell’allora forno di Fraele. S’istituì parallelamente anche una “quadriglia volante” di sicurezza che doveva operare su tutta la Valdidentro 69 Valdidentro STORIA PAESI GENTE e venne redatto il prospetto del patrimonio boschivo indiviso dei “p Comuni sociali di Bormio, Furva, Valdisotto e Valdidentro”, approvato il 13 settembre 1840. Di questo periodo fu anche la rivalutazione dei confini territoriali comunali che si accostavano agli appezzamenti privati; questa portò a ripristinare gli antichi limiti posti sul territorio; limiti segnalati da “termini” che spesso erano sassi su cui era scolpita una croce. LA DIVISIONE DEI BOSCHI L’atto ottocentesco di maggior rilevanza per la divisione delle foreste dell’Alta Valle fu il “prospetto sinottico di stima dei boschi di proprietà promiscua dei Comuni sociali” redatto dal Sotto Ispettore ai boschi Stefanoni, per incarico del Distretto il 3 agosto 1852. Da questa prima divisione, ultimata il 24 settembre 1853, Bormio usciva beneficiata di un importo di stima pari a 9700,92 lire, Valdidentro di sole 997, 51 lire, Valfurva di 745, 51 lire e Valdisotto invece era privata di ben 11448,94 lire. La difficoltà d’accettazione di questo frazionamento soprattutto da parte della Valdisotto, danneggiata gravemente, e dalla Valfurva che si riteneva proprietaria del bosco dei Curti a lei non assegnato, portò il 18 agosto 1901 a riformulare la divisione che divenne attivata tre anni dopo, assegnando alla Valdidentro: 1) “ il Bosco di Cornaccia: dalla val Cancano alla valle Paolaccia, 2) il bosco Pontin: da Fraele ( bosco Scala) alla val Petin e val Pisella , 3) il bosco Arsicio: da Ferrarola al monte Scala in Fraele soprappassando Premadio , 4) il bosco Morzaglia e Rezzolungo: dalla valle di S. Martino alla val Foscagno , 5) il bosco Brettina e Arnoga: dal val Foscagno a val Satterona, 6) il bosco Campo: da val Satterona ai confini con Poschiavo in val Viola, la S toria 7) il bosco Peccedaccio: da valle Dosdè alla val Verva , didascalia 8) il bosco Belvedere: dal bosco del Conte alla val Vallia , 9) il bosco Pezzel: dalla val Vallia alla val Bociana , 10) il bosco Colombina: dalla val Bociana al confine territoriale con Valdisotto”. I lotti così composti furono trasmessi al catasto e condivisi da tutti i Comuni. Si lasciarono inoltre inalterate le servitù attive e passive pendenti su ognuno d’essi e si stabilì che eventuali sorgenti d’acqua termale o miniere, successivamente scoperte, continuassero ad essere di proprietà mandamentale. Per i boschi assegnati a Bormio, ma siti nel comune di Valdidentro, il diritto di pascolo dei residenti fu mantenuto, così come furono mantenuti quelli per gli affittuari dell’alpe Casina in Fraele e per Solena. Quello che sembrava un problema risolto si ripropose nuovamente nel 1907, per via di una convenzione stipulata il 2 settembre 1904 e approvata con deliberazioni dei diversi Consigli comunali, oltre che dalla Giunta provinciale, nel 1906. Il 13 luglio 1911 ancora si delimitarono le zone boscate in val Fraele, stralciando dalla zona comunale al di là di val Paolaccia e Valpisella il quantitativo di bosco assegnato con atto 12 febbraio 1907 al Comune di Bormio. Nel 1916 si riposizionarono alcuni termini di confine tra la Valdidentro e la Valdisotto che risultavano essere stati strappati dopo la verifica del 12 e 13 agosto 1902. Questo lavoro fu fatto soprattutto sui terreni che dalle Motte di Oga portavano a S. Colombano, servendosi degli antichi termini ancora in loco, uno dei quali era il “sasso Maro”, più conosciuto in valle come “crap del Marn” e l’altro posto più in alto (segnalato su una pietra con un’evidente croce) e distante 10, 60 m. dal “Sas del Martol”. Con l’atto Fay del 1 giugno 1926 la divisione dei boschi fu definitivamente conclusa. 71 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Il 6 febbraio 1843 sempre per problemi territoriali nacque la vertenza fra Valdidentro e i fratelli Molinari che avevano trovato una vena ferrosa a Fraele, su un terreno comunale, e se ne erano impossessati. Lo scavo fu confiscato e il materiale trovato divenne di diritto comunale. Premadio intanto si stava preparando a subentrare, sostituendosi definitivamente nel 1853, agli antichi forni della val Fraele. didascalia Nel 1857 il lavoro della nuova fucina divenne tanto intenso da compromettere la stabilità del ponte attiguo alla ferriera, provato dal continuo transito di una quindicina di “carratori” che quotidianamente conducevano allo stabilimento il carbone. Per evitare disordini si stabilì l’assunzione immediata della guardia boschiva Bartolomeo Ponti, che vinse la gara d’appalto su Pietro De Gasperi di Premadio e Martino Giacomelli. Da questo momento, e per lungo tempo a venire, le foreste della valle, provate nel 1840 dalla vendita delle “ultime piante deperenti a Massaniga, sopra Monte e nei pressi dei prati di Zandilla” (fatta esclusione del bosco di Pezzel, già gravemente compromesso) , furono decimate con cadenza regolare, fino alla chiusura della stessa ferriera nel 1875. L’increscioso problema della suddivisione dei boschi si protrasse comunque per tutto l’Ottocento e solo con i due atti rogati dal notaio Ulisse Fay, il 12 febbraio 1907 e il primo I FORNI giugno 1926, si giunse alla ripartizione E LE FERRIERE tuttora vigente. OTTOCENTESCHE Si sciolse a S. Martino del 1834 la società costituita fra Bartolomeo Bels figlio di un certo Pietro morto in Francia, presumibilmente abitante a Parigi, e la ditta Pellegrino e Bonsignore costituitasi dopo che lo stesso ottenne il 12 maggio 1818, con atto notarile Moreschi Codelli rogato a Milano, “l’andamento dello stabilimento ferrarezza” . Questo atto lo vincolava al vitalizio di 2000 lire annue da elargire a Giuseppe David per la manodopera apportata alla manutenzione degli stabili e delle strade. Nacque così del tutto ingenuamente il debito che portò alla chiusura delle ferriere alla metà degli anni ‘50. Il 26 giugno 1835 Bels subaffittò il complesso per tre anni all’ingegner Francesco Mariani, abitante nella contrada di S. Antonio, il quale considerato il grave degrado in cui ancora si presentavano gli stabili decise, nel 1836, di sciogliere l’impegno assunto con il suo locatario, a beneficio di una scelta più idonea 72 la S toria didascalia in grado di risarcirlo delle 20000 lire utilizzate per il ripristino e l’ammodernamento dello stabile. Fu così che il 4 luglio dello stesso anno stipulò un contratto di subaffitto con Agostino Mari, il quale non riuscendo a sostenere le spese di riparazione dello stabile e non avendo fondi neppure per ripristinare le compromesse fucine, rese inoperoso il forno fino alla fine del 1837, data in cui sciolse l’impegno di locazione. Mariani riottenendo suo malgrado la locazione diretta della fucina, chiese ed ottenne dal Bels una locazione gratuita degli stabili per la durata di cinque anni, in virtù delle anticipazioni elargite per le riparazioni degli edifici, di cui ancora era creditore e contemporaneamente ottenendo la garanzia che lo stesso Bels avrebbe pagato entro gli anni suddetti il capitale mancante aumentato dell’ interesse del 5 % principiando dal 1835. A cauzione del detto debito sottopose inoltre ad ipoteca speciale l’intero complesso ferrifero. Dall’ispezione fatta agli stabili e ai relativi possedimenti annessi in occasione della stipula di tale ipoteca si dedusse come gli stessi ammontassero a: “cava del ferro nel monte Pedenoletto oltre le altre cave tutte aperte pei monti della Val Bruna e Val Pisella, … baita del pastore con i diritti derivanti dall’autorizzazione prefettizia del 14 ottobre 1809…, le strade carreggiabili da esso David formate che conducono dalle fornelle al forno di fusione, e ancora ripostigli, le fornelle di torrefazione e le casette de mineranti e torrefatori. Oltre al forno di fusione in Fraele nel comune di Premaglio, …con casa d’abitazione, carbonili, ripostigli, magazzeni diritti d’acqua delle sorgenti e del lago di Cornacchia. D’una fucina in Premaglio suddetta e tre fuochi a due magli con diritto d’acqua e rispettivi condotti, due carbonili, magazzini e casa d’abitazione, uniti al beneficio in privativa del taglio e godimento dei boschi comunali acquistati con investitura 3 novembre 1809 stipulata col comune di Bormio con superiore approvazione per la durata d’anni 25, con diritto di prelazione nel tempo successivo e per la quantità attualmente bastevole di legname… 73 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Ed infine l’intera proprietà del monte Ramelino e Temelina, prativo e boschivo, popolato di più gembri, pini e larici, chiamato il bosco del Conte nelle adiacenze di Semogo” . Con atto rogato dal notaio Pietro Buzio Brambilla il 21 aprile 1838 si assistì però all’apertura del contenzioso fra l’affittuario e il subaffittuario, per la mancata parola del Bels sul pagamento delle 20000 lire dovute a Francesco Mariani e alla signora Antonia Sangiorgio vedova Carnelli, che fidandosi dello stesso ingegner Mariani, aveva contribuito elargendo la metà del dovuto per le necessarie riparazioni. Nel 1847 la ricerca di soluzione si ripresentò nuovamente, per la richiesta di restituzione dei liquidi (di complessive 3500 lire) fatta della vedova Carnelli che si trovava gravemente indebitata con Marietta Caffulli, figlia di Francesco Binaschi e domiciliata a Cordusio . Sprovvista di liquidi la vedova decise di cederle una parte di ciò che doveva riscuotere dal Bels. Si stipulò così l’atto del 17 novembre 1847 a rogito del notaio Francesco Triaca, per la cessione di una parte dei crediti dell’ormai defunto Bartolomeo Bels, acquisiti completamente dall’ingegner Francesco, a favore di questa nuova intervenuta. La cessione dei crediti, essendo crediti non garantiti, fu fatta in modo che la Cafulli ottenesse dalla Carnelli un impegno economico maggiore rispetto a ciò che realmente avrebbe dovuto ottenere. Fu in questo periodo che l’ingegner Francesco Mariani conobbe l’interdizione. La continuazione delle pratiche spettò quindi a Carlo Zanchi in qualità di suo curatore e egli subito richiese la “rinnovazione dell’ispezione ipotecaria”, originariamente assunta per Giuseppe David il 9 luglio 1818 e rinnovata poi, come già si è detto l’11 maggio 1839, per Francesco Mariani, a garanzia del pagamento delle 2000 lire austriache annuali dovute dal Bels prima a Giuseppe David e dopo la sua morte al fratello Pietro, per una somma che complessivamente nel 1847 raggiungeva ormai le 25000 lire italiane esclusi gli interessi. 74 Valdidentro STORIA PAESI GENTE La vicenda si complicò ulteriormente e si definì solo con l’alienazione del bosco del Conte “in asta giudiziaria a favore di Faustino Piani pel prezzo di 14150 lire austriache” depositate al Tribunale di Milano e con l’annullamento di alcune pretese rogate il 27 giugno 1850 sull’atto dagli avvocati Ferdinando Taure e Quadrio. Si era alla metà del 1800 e Mariani e Bels erano ormai entrambi deceduti. Come per un triste gioco del destino negli anni in cui si chiudeva tragicamente la “storia Bels”, nacque quella di un’altra figura molto importante per le ferriere di Premadio. Il 15 aprile 1848 infatti Luigi Cornelliani di Milano, orefice gioielliere, presentò domanda per ottenere l’investitura cinquantennale di quattro miniere del ferro esistenti sul comune di Valdidentro, situate due nella Val Fraele, la terza nel piano di Pedenolo vicino alla casa dei pastori e l’ultima sul monte Pedenoletto. Gli alti forni di Premadio videro la luce nel 1853. La siderurgia della valle stava per conoscere un periodo di altissimo sviluppo, interi boschi privati delle loro piante più deboli, delle radici, di tutto ciò che bruciava e che non era severamente sorvegliato, utilizzato quale combustibile per garantire il continuo lavoro dei forni che spesso richiedeva concessioni d’acqua ricavate dall’Adda. Tutto ciò si concluse nel fallimento del 1875, che chiuse definitivamente il tema del ferro nella Valdidentro. didascalia 76 la S toria LA NAZIONE (DOPO IL 1859) Dopo la seconda guerra d’indipendenza combattuta dai Garibaldini nel 1859, il 24 giugno 1866 iniziarono le ostilità fra Italia e Austria, che videro il Giogo dello Stelvio protagonista dell’occupazione austriaca. Allora la sola Guardia nazionale, armata con fucili di seconda mano ed equipaggiata con divise di panno blu ricamate in argento (acquistate nel numero di 120 per la Valdidentro dalla ditta Carlo Betti), fu lasciata, e quasi abbandonata, a difesa del passo; così come accadde anche alla IV Cantoniera al gruppo comandato dal luogotenente, nonché segretario comunale, Pietro Pedranzini. Gli Austriaci, senza troppa fatica, giunsero pertanto a Bormio il 2 luglio, mentre un’altra colonna di militi s’insediava, valicando il Tonale, a Ponte di Legno. D’allora si può dire che il Bormiese “rimase mobilitato in permanenza”, fino alla conclusione del conflitto militare che sfociò nella costituzione dello Stato italiano. Solo a quel tempo la Guardia nazionale, che seppe dare indubbie prove di sacrificio e di patriottismo, divenne un’istituzione pacifica, servendo Sindaci, Prefetti e Sotto Prefetti, nelle rappresentazioni solenni, spesso ufficiate nel capoluogo del Mandamento (termine nato per didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE definire giuridicamente il territorio distrettuale, che geograficamente veniva invece detto Circoscrizione). IIl nuovo sistema metrico decimale dei pesi e delle misure, introdotto nel 1860, sostituì le oltre trenta misure applicate in Provincia in favore di una sola unità di misura riconosciuta dall’intero Stato. didascalie 78 Esso venne pubblicato sui libri scolastici per una più veloce conoscenza, oltre che inciso obbligatoriamente, nelle sue misure principali, su lastre di marmo bianco che venivano esposte visibilmente nella piazza principale del capoluogo. Questo cambiamento nelle misurazione segnò inevitabilmente, anche nella provinciale Valdidentro , un nuovo tassello di confine fra l’individualità antica e la nuova visione statale. In Valle il 23 luglio 1861 furono soggetti al cambiamento di tali misure e alla loro vidimazione periodica: i dispensatori di sali e tabacchi di Isolaccia, il forno delle fucine del ferro a Premadio ( a cui spetterà una vidimazione quinquennale ad iniziare dal 1870), i pizzicagnoli (due di Semogo e uno d’Isolaccia ) , gli albergatori dei Bagni, i cinque venditori di vino al minuto e i mugnai di cui due di Premadio, due di Semogo, uno d’Isolaccia e l’ultimo di Turripiano. A onor di cronaca si segnala inoltre che da dodici che risultavano i soggetti obbligati alla vidimazione nell’anno soprascritto, trentuno divennero gli esercizi nel 1874; segnale questo di un rallentato ma effettivo incremento commerciale ed economico. Da un mercuriale della Valdidentro di quegli anni si può desumere ancora come i generi coltivati e venduti maggiormente allora fossero: il frumento, la segale, l’orzo, il fieno, la legna, il formaggio, il burro, il lino, le patate, le uova, il carbone, la paglia e la carne. didascalie Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalie E se il prezzo al chilo del ferro si mantenne stabile nel tempo, il frumento, la segale e l’orzo ebbero un notevole incremento nel 1874, la legna subì una minor contribuzione fra il 1879 e il 1888 e il lino, dopo essere calato di prezzo nel 1887, scomparve dai calmieri successivamente al 1902, concludendo il monopolio del tessuto su tutti gli indumenti intimi e la biancheria di casa a favore del cotone. Per le fornaci di calce esistenti in Valdidentro ( di cui è rimasta la sola di Turripiano), i dati statistici del 1877 riportano l’impiego di otto lavoranti per 60 giorni lavorativi cadauno, con stipendio variabile fra le 450 e le 475 lire annuali. La produzione complessiva di calce forte ottenuta dagli stessi nel 1870 corrispose a 66 metri cubi e a 300 metri cubi quella prodotta nei cinque anni successivi il 1866. Ma seppur le ferriere davano lavoro M a molti, l’agricoltura e la pastorizia restarono gli unici veri sostentamenti per l’intera popolazione montana e quindi il Consiglio comunale si vide più volte costretto a rivedere i propri confini di boschi e pascoli, che quotidianamente subivano l’attacco di chi gradiva possedere più terreno di quello effettivamente avuto, o anche solo riottenere quello che ingiustamente gli era stato tolto, come successe a Fraele, a Giacomo e Margherita Martinelli che supplicarono le autorità per la restituzione di un terreno a loro appartenente secondo l’atto originale d’acquisto del 1795. Ancora il 20 luglio 1860 si deliberò di acquistare 140 piante, prelevate dai boschi di Fraele e di Muraglia, per costruire “le cornici” necessarie alla fabbrica della fontana di Turripiano, tanto bramata dai comunisti che ne assunsero la manutenzione. Spesso si trovarono a discutere fra loro anche i Comuni limitrofi, impegnati a determinare correttamente i legittimi confini, come accadde per il pascolo Dosdé, di ragione comunale della Valdisotto, confinante a mezzogiorno con il bosco di Peccedaccio (detto anche Orsa) al cui interno esisteva un lotto di terreno usufruito dai vicini di Semogo. Il 7 novembre 1862 per stabilire la corretta segnatura dei termini dello stesso, fu incaricato il perito agrimensore Eugenio Martinelli che, con il Sindaco e l’Assessore, Antonio e Gian Francesco Martinelli, stabilirono 80 la giusta dimensione del pascolo correggendo le mappe esistenti, al fine di poter locare la montagna senza incorrere nell’usurpazione di terreno altrui. L’imminente pericolo di caduta della spalla settentrionale del ponte di Premadio invece portò a deliberare la necessaria manutenzione dello stesso, e con seduta straordinaria del 30 maggio 1861 si impegnò una somma provvisoria in attesa di nominare una “persona dell’arte”, ovvero da un esperto in grado di preventivare correttamente l’impegno d’assumere. Nello stesso giorno si approvarono le spese per la sistemazione delle casine delle alpi di S. Colombano e Fraele, con importi corrispondenti a 112,34 e 158,50 lire, di cui la seconda cifra più alta perché comprensiva del dovuto per l’ampliamento della costruzione ad opera di Giacomo Bradanini. la S toria IIl 30 maggio 1862 si stimarono in Consiglio comunale per la prima volta, i conti della fabbriceria di Isolaccia e quelli della chiesa parrocchiale di Premadio, riferiti al periodo fra il 1855 e il 1860. Essi ottennero un astenuto nella votazione, nella persona dell’assessore Romani, contrariato per l’assenza delle pezze giustificative sui pagamenti elargiti. Fra le carte di quest’ultimo conto è evidente la scarsezza economica vigente in quegli anni, che costrinse il Distretto a vendere al Governo parte delle piante mature e deperenti del bosco di S. Gallo sotto le Motte, per sanare un debito di cassa di ben 3000 lire austriache, contratto fra il 1834 e il 1855, dopo aver provveduto alla sistemazione dei tetti delle case e delle chiese di Molina, S. Gallo, Maria Addolorata di Turripiano e S. Giacomo di Fraele, in virtù di un didascalie 81 Valdidentro STORIA PAESI GENTE ordine impartito del Vescovo di Como in visita pastorale nel luglio 1834. Oltre all’approvazione dei bilanci parrocchiali, secondo la circolare didascalie ministeriale di Grazia, Giustizia e Culto (del 1 novembre 1861) alla Giunta comunale spettava anche il compito d’eleggere ogni cinque anni i fabbriceri delle chiese esistenti sul proprio circondario, atti a garantire e redigere i sopraccitati conti economici ecclesiastici. I FABBRICERI Con il termine fabbricere s’intende il magistrato che soprintende a tutto ciò che riguarda la costruzione delle chiese, la loro conservazione, l’amministrazione delle loro rendite e i necessari provvedimenti d’assumere, siano questi ordinari quanto straordinari. I primi fabbriceri della Valdidentro, che si sostituirono agli anziani di Vicinanza dell’Antico Regime, furono quelli eletti nel 1808. Ventinove anni dopo la fabbriceria divenne un organo governativo e con il decreto reale n. 27 del 16 ottobre 1861 venne di nuovo ridefinita. Secondo quest’ultima normativa il Comune non poteva intervenire sul regolamento della stessa in merito alle chiese parrocchiali, né assumere il ripristino di queste senza il consenso del Consiglio di fabbriceria; ma poteva in caso di nuove costruzioni “assegnare banchi” a chi aveva concorso economicamente alla fabbrica, sospendere il rilascio dei mandati di pagamento in favore di fabbriceri reputati non idonei e doveva obbligatoriamente vistare i bilanci parrocchiali. I primi fabbriceri eletti dal Consiglio comunale del 14 dicembre 1861, dopo l’avvenuta costituzione dello Stato nazionale, furono: per Isolaccia: Donati Pietro, Giacomelli Antonio, Illini Pietro, Trameri Lorenzo, Viviani Rocco, Ponti Giuseppe, Giacomelli Pietro, Gurini Giovanni; per Pedenosso: Bradanini Giuseppe, Bradanini Gervasio, Bradanini Giovanni, Romani Antonio, Bradanini Gian Pietro, Romani Giuseppe; per Semogo: Sosio Gervasio, Martinelli Pietro, Sosio Benedetto; per Premadio: Battista Franchi, Trabucchi Giuseppe e Degaspari Martino (fra cui gli ultimi due solo confermati, perché già eletti nel 1860). 82 Grazie a questi bilanci oggi si sa con certezza che fu proprio in quegli anni che si rese necessario ripristinare parte del muro caduto davanti al coro della Chiesa parrocchiale d’Isolaccia, sistemare il “tabbiato e la circonferenza della casa di residenza del parroco”, oltre ad inargentare alcuni oggetti bisognosi di restauro e aggiustarne i paramenti sacri. la S toria 83 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE Si deliberarono inoltre le spese per riparare la casa parrocchiale di Molina e per evitare il logoramento esagerato dei “voltapiano alle due piccole sacrestie laterali al coro”, ancora una volta utilizzando gli introiti riscossi dagli esagerati tagli effettuati nel bosco di S. Gallo. segnalarono sole uscite ordinarie dettate dalla necessità dell’acquisto di cera o di olio per le lampade e per i pagamenti di premi assicurativi obbligatori sugli stabili parrocchiali; poche cose che però non compromisero il positivo bilancio conclusivo. Per la fabbriceria di Pedenosso i conti dal 1854 al 1861 furono approvati e venne stilato l’inventario dei mobili che si depositò presso l’archivio della stessa; per Semogo si SSe le fabbricerie elette per la prima volta dal Comune di Valdidentro fra il 1861 e il 1863 brillarono per conti economici positivi, non così favorevoli furono i bilanci comunali che per scarsezza di liquidi aumentarono le già salate multe sulle vendite abusive operate da un popolo affamato che vendeva legname raccolto su fondi comunali e quindi non solo suo. Per impedire che ciò continuasse si formulò la deliberazione del 4 novembre 1862, che impediva l’esportazione fuori dal territorio comunale di legna da riscaldamento, a garanzia del pregiato materiale che avrebbe dovuto bastare nei lunghi inverni ai 1470 cittadini residenti. Per evitare scorrettezze s’impose la vidimazione delle piante recise da parte di una guardia boschiva accompagnata da un membro della Giunta municipale e per i commercianti locali nacque l’obbligo di emettere ad ogni vendita effettuata, la rispettiva bolletta controfirmata da due membri della Giunta comunale e certificata dall’apposizione del timbro del Comune. Questo provvedimento disturbò chi del legname faceva 88 la S toria combustibile per fucine, e il signor Cornelliani, rappresentato da Carlo Berti, che dal lontano 1853 (anno dell’ apertura della ferriera di Premadio), non aveva mai trovato ostacoli alla fornitura di legname, si prodigò per ottenere dal Comune, e ancora senza grossi problemi vi riuscì, una vendita di “zembro…per formarvi depositi di materia presso la propria fucina ferriera”. A garanzia dell’incolumità A della popolazione di Valdidentro, aderendo alla circolare prefettizia del 12.12.1860, nacque anche il servizio di polizia urbana che ottenne il regolare visto d’approvazione con decreto reale nel 1864. Sul regolamento si stabilirono le norme per garantire la corretta igiene alimentare, attivando gli adempimenti a cui dovevano sottostare i panettieri, i fornai, i “vermicelli”, i mugnai e i macellai, senza però limitarne il numero; definendo inoltre gli spazi pubblici idonei da occupare con il mercato. A questo organo di vigilanza spettava l’obbligo di provvedere alla pulizia dell’abitato, allo sgombero delle immondizie, alla pulizia di strade e piazze e alla loro lavatura, alla rimozione delle nevi, allo spurgo dei canali, alla mondezza delle fontane e d’ogni acqua destinata ad uso pubblico, oltre che impegnarsi ad ordinare ai privati cittadini la manutenzione delle proprie case “minaccianti rovina e la costruzione o la compensazione dei selciati e dei canali di spurgo” limitrofi alle proprie abitazioni, controllando che questi non fossero danneggiati dalla circolazione dei carichi ingombranti o dai “bisogni impellenti di bestie nocive”. Alla polizia rurale invece, istituita con la stessa delibera consigliare, toccava il compito di impedire i passaggi abusivi nei campi o sulla proprietà privata, prevenire i furti nelle campagne, garantire il corretto uso dell’acqua ai Consorzi, segnalare le 89 la S toria didascalie modalità per liberarsi dagli insetti, proibire i pascoli sui terreni tutelati e occuparsi della gestione agricola dei beni comunali. I due regolamenti furono rivisitati il 31 maggio 1867 con l’aggiunta dell’imposizione di ottenere licenza prima di aprire un qualsiasi esercizio pubblico, ristabilire l’irrigazione con nuovi corsi d’acqua a Piandelvino e Pecè, non alterare alimenti, purgare e macinare correttamente, correggere pesi e misure, utilizzare quali utensili nei negozi solo quelli di rame stagnato, non abbandonare animali legati sulla piazza, non servirsi di fontane atte all’abbeveraggio degli animali per lavare, non far circolare per la strada bambini al di sotto dei sette anni, richiedere entro aprile d’ogni anno l’autorizzazione per far pascolare su fondi comunali il proprio bestiame, istituire regolare registro su cui annotare il bestiame forestiero, impedire il pascolo notturno, sorvegliare i camminamenti dei greggi sulle strade comunali, occuparsi della giusta raccolta di legna per il riscaldamento invernale, recuperare legna governativa solo in difficoltà momentanea e fuori dalla propria frazione, segnalare obbligatoriamente alla Giunta municipale l’intendimento di voler vendere legna di un proprio fondo servendosi della regolare bolletta, mantenere le strade comunali, non deteriorare le condotte primarie e secondarie per l’irrigazione, garantendo infine le dovute ore d’acqua per ogni fondo agricolo, senza incorrere in sottrazioni furtive. Un altro intervento rilevante lo si U ebbe con l’introduzione della legge 20 marzo 1865 che vincolò i comuni ad occuparsi di strade, e con la successiva datata 30 agosto 1868 con cui il Governo sorvegliava e incentivava il lavoro dei Sindaci a tale proposito. L’attenzione concessa alla viabilità era dettata dal fatto che si considerava impossibile ottenere “civiltà ed economia” senza occuparsi di “comunicazione”, oltre ad essere consapevoli di come “la miseria di un 91 Valdidentro STORIA PAESI GENTE luogo aggravasse quella di altri posti nelle sue vicinanze”. Così spinti dal fatto che Comuni posti fuori dalla via del commercio paralizzavano il naturale sviluppo della ricchezza nazionale, anche la Valdidentro fu invitata ad adempiere ai propri obblighi e il 15 marzo 1869 il primo cittadino Rocca fece stilare l’elenco LE STRADE COMUNALI delle strade NEL 1869 comunali, fra Compiti primari del Municipio dopo il 1864 furono il riordino dell’archivio comunale, l’arruolamento delle Guardie nazionali e la costruzione o la manutenzione delle strade comunali. Strade che dovevano obbligatoriamente avere “siepi vive” per assicurare che lo sconfinamento degli animali al pascolo non danneggiasse i coltivi o i prati. cui comparivano: la strada che immetteva a Bormio, la strada di Pedenosso, quella di Semogo, il ponte di Sughet e la strada dei Dossi. Attivando le imposizioni ricevute si procedette inoltre alla progettazione (del 1 settembre 1871 ad opera dell’ingegner Antonio Rossati) della continuazione della strada iniziata nel 1814 che da S. Gallo portava a Semogo, aggiungendovi il nuovo tronco Semogo - Foscagno , che doveva risultare a “forma inclinata verso il mezzo, con pendenza massima di un trentesimo” per permettere lo scolo dell’acqua piovana. Tutto il percorso doveva inoltre essere sostenuto da un imponente muro a secco riboccato a calce. Non dovevano inoltre mai essere alterate nella forma e possedere scoli d’acqua a servizio di fondi attigui. Il trascinamento del legname, che procurava guasti, era a solo carico del negligente, così come ad esso spettava l’apporre ripari in caso di lavori da compiersi nelle prossime vicinanze. 92 la S toria Al Sindaco competeva invece il segnalare annualmente i vari lavori da svolgere sulle vie vicinali e chiaramente su quelle comunali, che per la Valdidentro furono: “La strada comunale per Bormio”: con i propri termini al ponte di Cadangola a Semogo e alla “via dei morti” prima di Bormio. Essa risultava completamente carreggiabile e transitante per Semogo, Isolaccia, Turripiano e Premadio, e con lunghezza di 10000 m. e larghezza (allora non più reputata sufficiente) di 2,34 m. Aveva sul percorso cinque ponti in legno e uno in muro. “La strada comunale di Pedenosso”: con termini a Isolaccia e alla Madonna di Pietà. Essa era totalmente carreggiabile e aveva una lunghezza di 3790 m. e una larghezza di 2,34 m. “La strada di Semogo”: con termini alla chiesa parrocchiale di Semogo e alle seghe e mulini delle Ponti. Era carreggiabile, con lunghezza pari a 500 metri e larghezza solita di 2,34 m. “Il ponte di Sughet”: con termini a Sughet e al ponte. Totalmente carreggiabile, con lunghezza di 50 m. e larghezza di 2,34 m. e “La strada dei Dossi”: con termini al lago di Foscagno (confine di Livigno) e al ponte di Cadangola. Perfettamente “pedonabile e cavalcabile”, per l’intera lunghezza corrispondente a 15000 m. 93 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Ancora di tal periodo furono il progetto del ponte sul torrente Spigolone, la costruzione del tronco di strada fra il ponte di Premadio e la Chiesa di Turripiano (che Giuseppe Martinelli volle diversa dal progetto proposto dall’ingegner Rossati, che la preferiva transitante sui campi di “Isca Giot”) e il considerevole aumento di manutenzioni annuali di strade e ponti, appaltate nel 1882 a Pietro Martinelli di Isolaccia per 109 lire complessive. Anche il contratto per lo sgombero delle nevi assunse maggior rilievo rispetto agli inizi del secolo e per evitare l’inoperosità questo venne conferito cumulativamente agli stessi rotteri (stradini) per l’intero periodo compreso fra il 1881 e il 1893. didascalia 94 Le inondazioni, violente e imprevedibili, furono un’ulteriore causa di ingenti spese straordinarie sostenute dal Comune, e nel maggio 1899 ben 3000 lire furono impegnate per ripristinare il ponte di “Pradella ed altri tre ponti in valle”. Nel 1867 il nuovo regolamento N igienico di Valdidentro prese forma migliorando il precedente deliberato soli due anni prima. In esso furono definite le necessità d’intervento della popolazione nello spegnimento degli incendi, il regolamento di latrine, vasche e cisterne, la proibizione di gettare dalle finestre oggetti vari, l’impedimento di andare nei fienili con candele, la necessità di denunciare ogni malattia contagiosa dell’uomo e dell’animale, l’obbligo di non smerciare alimenti avariati e la custodia assoluta dei cani ringhiosi. la S toria Anche la condotta ostetrica (obbligatoria dal 1859) fu sottoposta all’attenzione del Consiglio comunale e nel 1863, dopo la rinuncia presentata da Teresa Martinelli, si giunse a proporre l’elezione di Domenica Martinelli di Pedenosso, in possesso del diploma con sigillo rilasciato il 9 novembre 1857 dalla Regia Scuola Ostetrica. Questa venne successivamente scartata perché sposata e con un figlio di pochi giorni, nonché maestra elementare di Pedenosso e soprattutto non abitante ad Isolaccia, considerata ormai ad allora il centro della Valle. Si dovrà attendere fino al 1865 per veder introdotto definitivamente, anche nella Valdidentro, un vero regolamento delle levatrici condotte, con durata di tre anni rinnovabili, come richiesto dalla legislazione corrente, che stabiliva per ogni incaricata: la residenza nel luogo di lavoro, l’esposizione di un cartello sulla propria abitazione su cui erano segnalati i dati personali, la disponibilità giorno e notte per recarsi dalle partorienti site nell’intero circondario, l’assistenza alle povere con la sola retribuzione del salario comunale, la tenuta del registro delle nascite con l’indicazione dei parti infelici e la loro causa apparente, il controllo sulle donne gravide al fine di evitare aborti o parti furtivi e la collaborazione con i “chirurghi” se fosse stato necessario un “sussidio artificiale o strumentale” o anche solo una prescrizione medicinale. Anche la condotta medica consorziale fu severamente regolata e, dalla morte di Gaspare Bracchi avvenuta il 16 dicembre 1866, si venne all’elezione del dottor Ruggero Lambertenghi sostituito nel 1869 da Albino Schena, Fausto Corvi e il 15 settembre 1889 da Ulderico Giacomoni di Ponte, che vinse l’incarico su Schiantarelli Eugenio di Tirano, Vincenti Catullo di Parma, Perlasca Ferruccio di Como e Natalucci Giuseppe di Recanati. didascalia Ai medici spettava il compito di sanare la popolazione, garantendo i sopralluoghi ai cimiteri, la tutela sanitaria per il controllo di malattie contagiose sul territorio ( fra cui il colera asiatico che nel 1884 inquietava enormemente), l’ispezione ai servizi igienici (come nel caso della caserma delle guardia di finanza di Semogo), le verifica mensile alle carceri, oltre chiaramente ad effettuare qualsiasi operazione chirurgica necessaria e, in caso di avvenuta morte, attivare le adempienze previste dalla notificazione governativa del 20 ottobre 1838. La legge in vigore nel 1859, che non disapprovava le istruzioni organiche del 12 aprile 1816, prevedeva per ogni 95 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Distretto l’esistenza di un medico detto appunto “medico chirurgo comunale”, eletto con concorso pubblico dopo aver superato il periodo di prova di sei anni e ottenuto l’attestato d’autorizzazione ad esercitare. A lui spettava anche il compito di garantire la totale igiene territoriale. I medici distrettuali dal canto loro sorvegliavano e soprastavano ai medici comunali, in cambio di uno stipendio, devoluto da tutti i comuni del mandamento, di 100-160 fiorini austriaci a seconda dell’ampiezza del territorio da sorvegliare. didascalia AA seguito della chiusura dei forni di Premadio e dell’emissione della legge nazionale 20 giugno 1877, la Valdidentro fu obbligata a stendere l’elenco dei propri boschi e dei terreni che necessariamente avrebbero dovuto risultare vincolati e, attenendosi scrupolosamente alle normative, l’anno seguente procedette senza risultato a rimboschire i terreni incolti sotto la strada che da Premadio portava a Turripiano. Fu compito di questi ultimi richiedere l’idoneità dei cimiteri di Pedenosso e Semogo che il 27 luglio 1889 vennero considerati adeguati dall’autorità provinciale di Sondrio. TERRENI DA VINCOLARSI IN VALDIDENTRO NEL 1877 Fra questi terreni da vincolare ( al fine di permettere la ricrescita dei boschi abbattuti indiscriminatamente per favorire il lavoro nelle ferriere o anche solo per porre in scurezza i territori da imminenti pericoli naturali) comparvero i mappali siti sulle pendici del monte S. Colombano, Cardonè, Dosdè, Foscagno, Ferrarola, Braulio e Fraele. Ognuna di queste località era legata ad un proprio raggruppamento, così come di seguito: * primo sottogruppo: Palancana, Motta, Costaccia, Corva, Fusinaccia, Pezzel, Prei, Cardonè * secondo sottogruppo: Belvere e il Bosco del Conte * terzo sottogruppo: Predaccio, Minestra e Stablogimelli * quarto sottogruppo: Arsure, Arnoga alta, Arnoga bassa, Presura, Pozzagliera, Rosseggio, Vezzola, Cadangola, Plator, Clausura * quinto sottogruppo: Arsiccio * sesto sottogruppo: Bosco piano, Solena *settimo sottogruppo: Cornacchia, Piano dei Muffi, Pontini di Fraele, Scopa, Fraele, Bosco Grosso, Bosco alla Casina e Bosco al Gallo. 96 la S toria Diversi accorgimenti furono dettati dall’Ispettore forestale con l’ausilio di Evaristo Martinelli per ripristinare i danni che i forni avevano operato rendendo il territorio sterile e “quasi lunare” e soprattutto per conformarsi alla legge Torelli che non ammetteva fondi comunali incolti e obbligava al necessario rimboschimento o alla dovuta vendita degli stessi. La nuova povertà che si andò creando fu uno dei motivi che ripropose, per la seconda volta nello stesso secolo, il fenomeno dell’emigrazione. didascalia Emigrazione regolata, questa volta però, da normative che introdussero nell’amministrazione l’obbligo della compilazione dei registri di popolazione, fino ad allora monopolio della Chiesa che redigeva invece “stati d’anime”; su questi nuovi registri, ordinatamente disposti su fogli divisi per vie e piazze, dovevano comparire: il 97 Valdidentro STORIA PAESI GENTE GLI ESPOSTI numero delle famiglie esistenti nel comune o che avevano residenza stabile in esso, il complesso degli individui esistenti in “ogni fuoco” (compresi i domestici, ma non gli esposti che nella Valdidentro del XIX secolo risultarono essere solo due), il numero civico, il nome della strada e chiaramente gli spostamenti effettuati da ogni singola persona. Anche il censimento della popolazione, effettuato per la prima volta il 31 dicembre 1861, aiutò a misurare il flusso migratorio dei comuni e così nella Valdidentro si ebbe l’annotazione di molte persone emigrate nel Canton Grigione, Per gli esposti (bimbi abbandonati) vennero compilati in Valdidentro il regolamento comunale del 20 settembre 1882 ed il successivo del 1897. In questi si stabiliva di attribuire la spesa per il mantenimento dei minori ai bilanci comunali, che ottenevano di seguito il risarcimento da parte della Prefettura, a cui competeva l’effettivo obbligo di curarsi dei bimbi fino all’età di 15 anni. Per ognuno dei ragazzi veniva quindi staccato un assegno che poteva risultare: mensile, trimestrale o semestrale e che variava a seconda dell’età del beneficiari (10 lire per i più piccoli e 2 lire per i più grandi). come l’agricoltore Cristoforo Pronfoghel domiciliato a Premadio che nel 1861, alla veneranda età di 62 anni, fu costretto a cercar lavoro lontano da casa, o Romani Agostino di 38 anni, Tommaso Pradella di Semogo di 29 e Nicolò Bradanini di 16, che si spinsero in Svizzera e in Austria per lavorare come calzolai, o ancora i fratelli Giuseppe ed Elia Bellotti che, pur non possedendo un proprio mestiere, tentavano la fortuna fuori dal territorio valtellinese. Gli esposti venivano inoltre schedati dall’Amministrazione comunale in “da latte” o “da pane” (a seconda che fossero stati svezzati oppure no); ad essi veniva inoltre cambiato il nome, assegnata una nutrice, definito un corredo, applicata una medaglietta al collo su cui compariva un numero identificativo e l’anno di nascita ( che doveva essere restituita al Comune in caso di morte del bambino per concludere la remunerazione prefettizia alla famiglia) e redatto un apposito libretto chiamato“libro di scorta” su cui venivano annotati i doveri dei nuovi genitori. Al Sindaco, prima di accettare l’esposto, competeva l’obbligo di utilizzare i registri di stato civile per cercare d’identificare la famiglia d’origine. Ogni Comune aveva una Commissione di Patronato (composta dal Sindaco, dal Parroco e dal medico condotto) per sorvegliare il buon mantenimento e la buona crescita degli esposti. L’eventuale adozione del bimbo faceva istantaneamente cessare l’ingerenza dell’Amministrazione provinciale e la somministrazione del corrispettivo economico. 98 la S toria Ognuno di questi emigranti fu vincolato a richiedere, prima di lasciare la propria patria, il passaporto al Governatore provinciale (e più tardi al delegato di pubblica sicurezza della Prefettura di Sondrio), sul quale compariva: “passaporto rilasciato a… di professione… nato a…domiciliato a…per recarsi in…con motivazione di viaggio per ……” a cui seguiva l’elencazione dei connotati personali, ovvero: età, statura media, viso, capelli, ciglia, occhi, naso, bocca, fronte e segni particolari (dette “marche visibili”). Se prima del 1869 si espatriava in Svizzera e Austria, dopo tale periodo si aggiunse fra le mete anche l’America, come ci ricorda il calzolaio di Pedenosso Giovanni Berbenni, già vedovo all’età di 26 anni, o ancora la ricerca effettuata dal Comune di Valdidentro per ritrovare, a nome dei parenti, un certo Marco Bellotti, emigrato il 3 dicembre 1873 in compagnia di Pietro suo omonimo di Pedenosso, mai più rintracciato. Anche l’Argentina divenne un luogo ambito per trovare lavoro, fatta eccezione per il solo anno 1885, 99 Valdidentro STORIA PAESI GENTE quando risultava essere, su un dispaccio emesso della Provincia di Sondrio, in precarie condizioni per sostenere altre bocche da sfamare. Fu così che da un 1868 caratterizzato da soli tre emigranti, calzolai e cantonieri, si passò ad un 1869 con ben undici partenze di sarti, agricoltori, “legnamai”, fra cui l’intera famiglia di Gabriele Canclini. didascalia Nel 1870 emigrarono in nove, tutti agricoltori (evidentemente la terra non bastava più a sostentare la popolazione); nel 1871 ben ventiquattro fra domestiche, contadini e calzolai si allontanarono dal paese d’origine e nel 1872 trentuno di diressero in Svizzera. Disperata si fece la situazione nel 1884 in cui lasciarono la Valle ben quaranta persone rivolte a Buenos Aires, Montevideo e nell’America del nord. Ognuno dei partenti era agricoltore e bracciante (allora comunemente detto giornaliero), e fra questi, diciannove erano proprietari terrieri, dodici dei quali , alla disperazione, ipotecarono ogni loro possedimento per ottenere i soldi necessari per il viaggio. CChi si tratteneva in patria spesso arrotondava le proprie entrate con il contrabbando e molti furono per questo gli interventi della Pretura e del Tribunale di Sondrio in quel periodo. Chi invece evitava di andare contro la legge doveva trovare nuovi lavori e, alla ditta Bernina che gestiva esemplarmente lo stabilimento balneare dei Bagni Vecchi e Nuovi (con una licenza rilasciata il 1 giugno 1869), si affiancarono a servizio della popolazione locale, e non solo, l’osteria di Isolaccia gestita da Gervasio Martinelli, le due di Semogo di Eugenia Martinelli e Antonio Gurini, le quattro di Premadio di Arcangelo Romani, Martino Peccedi, Marianna Cola e Giovanni Bellotti , la III e IV Cantoniera rispettivamente di Leonardo Manfredi e Carlo Gobbi e l’osteria di Fraele di Haffer Elisabetta, tutte licenziate nuovamente a far data dal 26 luglio 1868. Questi furono i primi segni tangibili di un “rudimentale 100 la S toria didascalie turismo” che si consolidò con pienezza solo a metà del XX secolo. Negli Hotel di prestigio dei Bagni furono permessi i giochi d’azzardo, fra i quali si preferivano il “tresette, i tarocchi, la briscola, la bazzica, il gioco delle palle e quello della mora”; tutti intrattenimenti atti a rendere più piacevole il soggiorno dell’elegante clientela che li stanziava. Necessitava inoltre, per garantire la quiete del luogo, che gli esercenti nel tempo massimo di ventiquattro ore denunciassero gli ospiti che potevano risultare sgraditi alle autorità di pubblica sicurezza, presentando idonee schede di notifica su cui comparivano: nome e cognome del forestiere, patria, età, professione, provenienza o direzione, carte di cui esso era munito ed eventuali osservazioni in merito. Sovente infatti la gestione dei luoghi di ricovero era minacciata da incursioni di bande armate, come nel caso del 9 giugno 1870 in cui fu 101 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia richiesta alla Pretura del Mandamento una maggior protezione per il transito notturno di alcune losche figure, che dopo aver percorso il territorio di Livigno, attraverso la torri di Fraele, giunsero proprio nella Valdidentro. AAltro pericolo per la sicurezza pubblica era rappresentato dalle bestie feroci fra cui lupi, volpi, avvoltoi, aquile e orsi, che vivevano indisturbati in zona; a tale proposito il 13 luglio 1872 la Prefettura di Sondrio autorizzò il Sindaco di Isolaccia ad effettuare e dirigere la caccia all’orso sul I PASCOLI proprio territorio, caccia che doveva servire a garantire E GLI ALPEGGI ogni pascolo e alpeggio Consapevoli del fatto comunale. che ogni cambiamento Vennero pertanto incaricati: Giuseppe Alschenert , Luigi Valgoi e Engenio Martinelli di Semogo e Gervasio Martinelli, suo figlio Giovanni e Pietro Martinelli d’Isolaccia, quali “scrupolosi custodi sempre provvisti d’arma da fuoco”. Già a partire dal 1849 gli animali pericolosi costituivano però un problema, tanto che parte del bosco di Arnoga bruciò per il fuoco acceso da un pastorello nel tentativo di tener lontano l’orso dal suo gregge. amministrativo si basa inevitabilmente sulla rivisitazione e la definizione dei propri beni, che definiscono il patrimonio disponibile di cui avvalersi per ogni intervento sanitario, culturale ed edilizio del territorio, anche la Valdidentro si occupò di locare “a corpo e non a misura” i propri alpeggi (la montagna doveva cioè venir “locata entro i confini in cui si trova attualmente nel Comune”) affidandosi alla divisione introdotta da Leoprando Sermondi nel 1605 e successivamente, con piccoli cambiamenti, confermata nel 1613. Il primo alpeggio ad essere locato nel XIX secolo in Valdidentro fu quello “pascolivo di Fraele“ (spettante anticamente ai frazionisti di Premadio, Molina e Turripiano che potevano beneficiare del pascolo previo pagamento al locatore di una somma definita dallo stesso) che iniziò il suo affitto con un “patto informale” ad Andrea Cappelli il 22 agosto 1813. Ad esso seguì un regolare contratto, per il periodo 18151823, che apportava all’esattoria comunale un fitto annuo di 281 lire e 210 centesimi, da ottenere in monete d’oro e d’argento, come indicava la normativa del 18 aprile 1816. Altro alpeggio su cui la Valle poteva contare era quello di Verva, che l’asta dell’agosto 1821 (fatta attenendosi alle norme stabilite dal decreto 1 maggio 1807) attribuì a Giovanni Baggi di Piangaverina nella Provincia di Bergamo per il novennio 1822-1830, al fitto annuo di 221 lire, vincolate alla modalità contrattuale detta “a rose e spine” ovvero “a tutto comodo o incomodo del conduttore dell’alpe” che non poteva rivalersi sul Comune, o recedere dal contratto, anche durante i momenti spiacevoli che esso avrebbe malauguratamente incontrato. Le locazioni seguenti per tal alpe furono quella del 17 giugno 1830 a Giacomo Scardi di Bergamo, e ancora quelle del 18401848, 1858-1866 , 1867-1868, 1869-1877, 1883-1886, 1886-1888, 1893-1895 e 1896-1898. 102 la S toria Terzo alpeggio piuttosto remunerativo per il Comune era quello di Resaccio, di cui si conoscono i soli capitoli del contratto stipulato per il periodo fra 1847 e il 1855, senza purtroppo conoscere l’indicazione del locatario. Questo poteva stanziarsi in alpe dopo il deposito di 40 lire di cauzione nelle casse erariali e l’accettazione da parte della Deputazione comunale di una fidejussione presentata da chi gli donava sicurtà (garanzia); ad esso spettava obbligatoriamente anche la discesa a valle entro il 10 di settembre di ogni anno, con tutto il bestiame. La locazione sopraccitata escludeva però i pascoli del Bosco di Pettino che spettavano di competenza ai comunisti di Pedenosso. Il 28 maggio 1861, in riferimento alla supplica rivolta dai vicini di Semogo alla Giunta municipale di Valdidentro per la scarsità di pascoli appartenenti alla stessa frazione, si ridefinirono i fitti annui degli alpeggi comunali di Arnoga, Foscagno, Stablogimelli e Formesana locati, per nove anni consecutivi, a Luigi Valgoi e Giovanni Rocca in cambio di un fitto annuo di sole 402 lire italiane, anziché le 484 austriache richieste nella precedente affittanza del 14 novembre 1851 allo stesso Rocca e a Cristoforo Anzi, padre del botanico Martino. Il 27 febbraio 1878 si ridefinirono i contratti novennali degli alpeggi di Verva, Resaccio e Fraele e si determinò che l’affittuario dell’alpe Resaccio fosse esentato dal costruire la cascina come precedentemente gli era stato richiesto. Con l’alpe Verva s’intendeva affittato anche gran parte del bosco del Conte, che più volte fu identificato e confuso con la denominazione dell’alpeggio stesso. didascalia 103 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Nel 1874 il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio sovente fu interpellato per elargire premi in denaro ai valorosi cacciatori, come nel caso delle 24,70 lire consegnate a Giuseppe Krapacher per l’uccisione di una piccola orsa. Ancora il 13 giugno 1875 si nominarono appositi incaricati per tutelare le greggi, eleggendo Giacomo Mazzoni fu Giovanni Maria ed altri da lui scelti, e concedendo la possibilità di detenere armi nelle malghe se fossero state minacciate dall’imminente pericolo, come avvenne per il pastore Giovanni Donati. Ancora Krapacher aiutato da Celso Pienzi e Domenico Martinelli furono premiati nel 1875 per l’uccisione di un’ orsa, il 26 gennaio 1876 per una successiva e il 10 agosto dello stesso anno “per il buon lavoro su due maschi adulti”. La caccia all’orso in Valdidentro si concluse con l’ultimo segnalato ed ucciso nel 1913. Per garantire infine la possibilità d’esercitarsi con le armi da fuoco, Luigi Zazzi, presidente della Società Mandamentale Bormiese del Tiro a Segno Nazionale, istituì nella località Fossoir, proprio sul Comune di Valdidentro, un deposito di cartucce per l’esercizio del tiro a segno che ottenne la regolare autorizzazione il 29 maggio 1892. la S toria GLI INIZI DEL 1900 Siamo agli inizi del ventesimo secolo. La Valdidentro come tutti gli altri Comuni dell’Alta Valtellina, e come tutti i Comuni d’Italia, si avvia a diventare il moderno comune di oggi. Arriva la luce nei paesi e nelle case, arrivano le prime, sbuffanti, automobili. Ma due fatti caratterizzano in modo particolare questo inizio secolo: la Grande Guerra 1915-1918 e l’inizio dello strettissimo connubio che esiste tuttora tra il territorio della Valdidentro e l’Azienda Energetica di Milano anzi, come si chiamava allora, l’Azienda Elettrica Milanese. Sulla Cima del Monte Scale invece, a 2.500 metri di quota, era stato realizzato un Forte, ora restaurato e visitabile. Esso serviva da integrazione ed appoggio al Forte di Oga e fu costruito negli anni 1911-1912. Per realizzarlo fu portata a termine in tempi molto brevi l'agevole mulattiera che si stacca nei pressi delle Torri di Fraéle, a1.941 metri di quota. Essa servì pure per trasportare i cannoni da posizione e le munizioni pesanti con le quali il Forte Ricovero Le montagne dell'Alta Valtellina furono teatro, dal maggio del 1915 al novembre del 1918, di eccezionali avvenimenti legati alla I Guerra Mondiale. La Guerra Bianca, il fronte della Prima guerra mondiale che vide come protagoniste le vette e le nevi di queste montagne, costringeva i soldati di entrambe le parti a dover combattere, prima ancora che col nemico, con condizioni di vita e atmosferiche ai limiti dell'impossibile. La Valdidentro ha dato molto in termini di territorio e di strategia militare e sono in particolare tre gli elementi importanti da ricordare a questo proposito: lo stabile dei Bagni Nuovi, la cima del Monte Scale e l’alta Val Forcola. Il Grande Albergo Bagni Nuovi, divenne la sede stabile del Comando dell’intera area militare dell’alta Valtellina: tutti gli ordini, contrordini, tutte le strategie, giuste o errate, partivano da qui. 105 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE Vetta di Monte delle Scale - come era chiamato - fu man mano equipaggiato. L'importanza difensiva di questo Forte, nel caso di un'invasione austriaca dalla parte dello Stelvio o dalla parte dei neutrali territori svizzeri a nord della Valle di Fraéle, sarebbe stata molto grande. Il 20 luglio 1917 il re Vittorio Emanuele III in persona, a confermare la forte considerazione tattico-militare di cui godeva il Monte Scale, visitò il suo Forte, percorrendo su di un camioncino "Itala" detto Muletta la mulattiera delle Torri di Fraéle e di lì proseguendo poi a piedi sino alla vetta. Anche la zona del Passo della Forcola fu molto importante strategicamente, in quanto dominava il Passo dello Stelvio ove erano attestati gli austro-ungarici. Lì fu costruita una grande Caserma militare. 110 Il 1900 è un secolo in cui la storia e lo sviluppo di una valle si intrecciano in modo inscindibile con gli impianti dell’Aem: in Alta Valtellina, è simboleggiato infatti dalle grandi costruzioni idroelettriche. L’Azienda Elettrica Municipale di Milano nacque l’8 dicembre del 1910 dopo che il 10 aprile dello stesso anno un referendum popolare aveva sancito la municipalizzazione dell’energia elettrica. I votanti furono 16.562 dei quali ben 15.059 si schierarono in senso favorevole. L’Azienda iniziò così la sua attività il 1° gennaio del 1911: il Comune di Milano trasferì all’AEM tutti gli impianti costruiti negli anni precedenti, fra i quali anche la struttura di Grosotto entrata in funzione il 16 ottobre del 1910. La domanda di energia elettrica crebbe in modo esponenziale nel secondo decennio del Novecento: le esigenze della produzione nel periodo della un salto di 513 metri, l’acqua raccolta dal canale Viola raggiungeva le turbine della centrale ubicata a Rasìn. guerra, il divario notevole tra le portate estive e quelle invernali dei fiumi richiese costanti investimenti all’Azienda, che non riusciva più, a far fronte alle richieste. Nel 1922 i tecnici predisposero un progetto per immagazzinare l’acqua in quota al fine di arginare i perenni pericoli di black out: in programma la costruzione di un imponente serbatoio, da costruirsi in val Fraele. Un intervento che alla fine si concretizzò nella realizzazione di un invaso di circa 24,5 milioni di metri cubi, alto ben 43 metri, impianto ultimato nel 1928. Quest’opera, il serbatoio soprannominato “Cancano I”, sancì l’inizio della presenza dell’Azienda in val Fraele: da qui, con la S toria Anche negli anni del fascismo la presenza dell’Aem si caratterizzò per un periodo di crescita. Come obbiettivi primari, infatti, non solo il potenziamento degli impianti già realizzati ma anche la costruzione ex novo di strutture fondamentali per un servizio di trasmissione più rapido e sicuro. Nel 1939 l’Aem iniziò la costruzione di un secondo grande invaso a Cancano, la diga di San Giacomo, ubicata a monte di quella di Cancano, opera che sarà continuata, pur con qualche logico ritardo, anche durante la seconda guerra mondiale. Proprio la difesa di questi due sbarramenti, data la loro importanza strategica ed economica per l’intera Regione, costituì il principale obbiettivo delle brigate partigiane della zona. La distruzione delle dighe avrebbe infatti comportato anche 111 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalie l’allagamento di gran parte della valle: su molte case, in quegli anni, fu dipinto un segnale per indicare il livello al quale sarebbe arrivata l’acqua in caso di cedimento dei laghi artificiali, oltre all’illustrazione delle possibili vie di fuga. A Cancano per molte persone, quali operai, dirigenti di Aem e partigiani, quelli furono gli anni di “Digapoli”, il villaggio costruito ai piedi della diga di San Giacomo successivamente sommerso dalle acque, per molto tempo la casa di tanti lavoratori. Da ricordare che per la realizzazione della diga di San Giacomo venne costruita una linea filoviaria di 60 chilometri con pali di cemento armato caratterizzata dai famosi “filocar”, che trasportavano i materiali dalla stazione ferroviaria di Tirano alla Prima Cantoniera dello Stelvio. Da qui il cemento proseguiva per ulteriori 7,5 chilometri per via aerea, attraverso una teleferica, fino a raggiungere quota 1950 metri in val Fraele. Al termine della II Guerra Mondiale l’Azienda riprese la propria attività e portò a termine la costruzione della diga di San Giacomo. 64 milioni di metri cubi d’acqua, un’altezza massima di quasi cento metri, una nuova struttura che funzionò da subito anche come centrale di pompaggio: pochi dati per descrivere l’invaso di San Giacomo, che all’epoca fu annoverato come il più grande sbarramento europeo per volume di calcestruzzo, intervento inaugurato il 27 agosto del 1950. All’inizio del 1952 fu inoltre dato avvio ai lavori per la costruzione della centrale di Premadio e della nuova diga di Cancano, la “Cancano II” che, ultimata nel 1956, andò a sommergere la preesistente con il suo invaso che raggiunge una capienza di 123 milioni di metri cubi. 114 L’acqua, una grande risorsa di cui la Valdidentro è prodiga. Acqua che I GHIACCIAI DELLA VALDIDENTRO d’inverno si trasforma in neve, neve che si trasforma in ghiaccio. E la Durante l’ultima grande avanzata dell’era glaciale, la storia della Valdidentro vuole glaciazione Wurmiana, le Alpi erano pressoché ricoperte concludersi così, con un pezzettino da ghiacci. In particolare l’esteso ghiacciaio dell’Adda, che di storia di coloro che sono stati scendeva dalla Valtellina, occupava l’intera area del Comasco gli artefici della costruzione di e della Brianza fino a lambire il limite settentrionale della Pianura Padana. In seguito al miglioramento delle condizioni questa bellissima valle: i suoi climatiche, i ghiacciai alpini iniziarono a ritirarsi. L’intervallo ghiacciai. Sono loro che per comprensivo delle ultime fasi dell’ultima glaciazione viene millenni hanno scolpito i designato con il termine "Tardiglaciale". Il ritiro delle masse glaciali suoi fianchi, dalla Val Viola e la conseguente colonizzazione della vegetazione delle aree e dalla Val Dosdè, dalla deglaciate non procedettero in modo continuo e graduale bensì in Val Verva alla Cima modo irregolare, con interruzioni e talora riavanzate glaciali Piazzi, tuttora regina momentanee. L’intervallo di tempo nel quale si verificarono i incotrastata della miglioramenti climatici responsabili del ritiro dei ghiacci nelle valli più Valdidentro. interne, si può datare circa 15.000 anni fa e la sua durata complessiva in 5.000 anni. La fine di tale intervallo è fatta coincidere con il limite "Pleistocene- Olocene", come lo chiamano gli studiosi del settore, posto a 10.000 anni fa. Nella Val Viola Bormina all’inizio del Tardiglaciale sussisteva un’unica grossa massa glaciale che comunicava a Nord (attraverso il Passo del Foscagno e quello di Trela) con il ghiacciaio di Livigno, verso Ovest (tramite il Passo Viola) la colata stabiliva un collegamento con il complesso glaciale di Campo, in Svizzera. In tale epoca il ghiacciaio congiunto Viola-Adda-Frodolfo si estendeva sino nei pressi di Zola (Valdisotto 1140 m) e lo spessore che presentava lo si può ricostruire idealmente tracciando una linea che va da S.Pietro alle Motte d’Oga. L’Olocene sulle Alpi fu caratterizzato da ripetute fasi di avanzata, articolate a loro volta, in un numero di fluttazioni minori. Il grado di estensione di queste avanzate è comparabile a quello della Piccola Età Glaciale, la fase di avanzata glaciale culminata tra il 1600 e il 1850. Ne sono testimonianza la deposizione di caratteristici accumuli di materiale morenico ancora oggi scarsamente vegetati e ben distinti da quelli più esterni di età tardiglaciale. Un'avanzata di entità minore è avvenuta anche intorno al 1920; dopo tale data si assiste ad un accentuato ritiro, interrotto soltanto da una modesta inversione di tendenza nel decennio 1970-1980 esauritasi già negli anni intorno al 1990. Merita di essere descritto il fenomeno di deviazione glaciale avvenuta nel bormiese nell’Olocene e per la prima volta proposta negli anni ’30 del secolo scorso dal Prof. Giuseppe Nangeroni, emerito studioso di glaciologia dell’Università Cattolica di Milano, come ipotesi e in seguito consolidata da ritrovamenti rocciosi dal Prof. Italo Bellotti, nativo di Isolaccia, professore di lettere e poi preside della scuola media Martino Anzi di Bormio e operatore glaciologico dal 1953. Il prof. Nangeroni sosteneva che la colata glaciale alimentata dai ghiacciai del Viola-DosdéPiazzi giunta alle Motte d’Oga non poteva, se non in minima parte, proseguire verso la Valtellina perché contrastata dalla spinta ben maggiore delle colate provenienti dallo Stelvio e dalla Valfurva. La maggior parte della massa glaciale rigurgitava indietro innalzando sempre più il ghiacciaio al punto di farlo tracimare verso la Val Vezzola-Trela-Val Fraele per procedere poi verso la Val del Gallo. Conferma di quell’ipotesi sono le evidenti striature causate dall’abrasione glaciale tuttora osservabili su un masso roccioso in Alpe Trela completamente levigato dal passaggio di un antico ghiacciaio le cui direzioni sono rivolte a Nord verso la Valle di Fraele. Negli anni successivi il Prof. Bellotti continuò il lavoro di misurazione dei ghiacciai del gruppo Piazzi- 115 la S toria Dosdè e Campo nel livignasco, iniziato nel 1932 dal già citato Prof. Nangeroni. Durante una campagna glaciologica trovò sulle montagne che coronano la Cima Piazzi verso la Val Verva numerosi massi di una roccia di notevole bellezza per la sua particolare cristallizzazione. Si tratta di una diorite anfibolica, più dura del granito. La stessa roccia la rinvenne anni più tardi in Val Fraele poco sopra la chiesetta di S. Giacomo, anch’essa appare completamente levigata ad opera di un ghiacciaio. L’appartenenza di una roccia di tale tipologia alla Val Fraele, zona geologicamente dominata dalla formazione calcarea, appare improbabile; la roccia è quasi sicuramente originaria del Gruppo Montuoso Piazzi e qui trasportata nei millenni dall’imponente ghiacciaio, confermando l’ipotesi espressa dal prof. Nangeroni e poi dal prof. Bellotti. didascalie Quest’ultimo ha coltivato per lungo tempo, circa quarant’anni, e con grande cura la sua passione, tra le altre, inerente lo studio dei ghiacciai e le relative misurazioni. Nel tracciare la storia recente del ghiacciaio Piazzi e del ghiacciaio Dosdé non si può prescindere dalle osservazioni e dai dati da lui raccolti con costanza in ogni campagna glaciologica. I rilevamenti, iniziati nel lontano 1953, si avvalevano di una strumentazione semplice e forse poco precisa se paragonata ai moderni apparecchi tecnologici. Nello zaino metteva una corda lunga circa 70 metri, arrotolata su un bastoncino, che serviva per misurare la fronte del ghiacciaio tramite appositi segnali (contrassegni con vernice al minio, che ha la proprietà di resistere nel tempo agli agenti atmosferici) collocati su enormi massi stabili che si trovavano lungo il perimetro frontale dell’apparato stesso. Vi era sempre, poi, la macchina fotografica per documentare lo stato del ghiacciaio: la ripresa avveniva ogni anno dal medesimo punto identificato da un masso roccioso con la scritta SF (stazione fotografica) e un taccuino, per segnare i dati e le osservazioni relative alla massa glaciale compiute sul campo. Le attività principali per lo studio dei ghiacciai sono, infatti, la misurazione dell’arretramento della fronte, la determinazione della velocità d’avanzamento della colata e della profondità della colata stessa. A volte procedeva alla misurazione della velocità di flusso del ghiacciaio, cioè allo studio della dinamica del suo movimento verso valle. Il metodo utilizzato era molto semplice: vengono fissati due punti di riferimento ai lati della colata glaciale e viene quindi tesa una corda lungo la quale si introduce una serie di paline di legno equamente distanziate, che rimangono in loco. L’anno successivo si può osservare che le paline sistemate in linea retta appaiono disposte a festone, cioè più avanzate quelle centrali e più arretrate quelle laterali. Non sempre questo metodo di lavoro dava i risultati sperati, perché le paline spesso da un anno all’altro non si trovavano più e ciò vanificava il lavoro svolto. Tutto era annotato e registrato su apposite schede, che venivano periodicamente inviate al Comitato Glaciologico a Torino. I dati raccolti e la relativa documentazione fotografica riferita ad un numero di 53 apparati glaciali, sono stati raccolti e catalogati dal prof. Belletti in fascicoli che oggi rappresentano una storica documentazione. Tutto questo rileva una profonda passione per le sue montagne, vissuta in prima persona, condivisa con la famiglia, raccontata ai suoi alunni e insegnanti per tanti anni e viva e sempre presente nei ricordi delle lunghe passeggiate per raggiungere la meta, con rientro all’imbrunire. i Paesi La cultura e la spiritualità La Valdidentro, la valle più estesa dell’alta Valtellina, è formata da paesi e frazioni, nuclei abitativi che sin da epoche remote hanno contraddistinto la valle. Si tratta in molti casi, di un pugno di case disposte attorno ad una chiesa, ad una fontana, ad una scuola, ossia a quegli elementi che anticamente, a causa di difficoltà materiali e della penuria diffusa, costituivano i principi portanti sia della vita materiale che di quella spirituale, al fine di rendere la vita meno gravosa. Soprattutto le chiese testimoniano fermamente la vita di questi nuclei abitativi. Le chiese, attraverso il loro evolversi e modificarsi, ci raccontano la storia, la cultura, la spiritualità e la devozione della comunità. Guerre, epidemie, difficoltà hanno fortemente lasciato il segno negli abitanti delle vicinanze, che si rivolgevano alla sfera del sacro per ottenere sostegno. La gratitudine di queste vicinanze veniva poi spesso espressa direttamente nelle loro chiese di riferimento, che ancor’oggi ci testimoniano la vita e la storia di un’intera collettività. Valdidentro STORIA PAESI GENTE 120 i Paesi Le chiese della Valdidentro SAN GIOVANNI A MOLINA Lungo la via di transito usata un tempo per raggiungere il passo dell’Umbrail si trova la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista. Si tratta di una piccola chiesetta ad aula unica con loggiato e pianta rettangolare, attestata sin dal 1402. La chiesa un tempo era mantenuta dalla vicinanza di Molina e faceva capo alla parrocchia di S. Gallo. La parte esterna, rimaneggiata nel corso degli anni, conserva sulla facciata sud i frammenti di un affresco raffigurante il “grande S. Cristoforo”. Purtroppo l’aggiunta del campanile nel 1540, di cui era sprovvista la chiesa primitiva, comportò la mutilazione del grande santo che regge il bambino Gesù sulle spalle e alla cui immagine la credenza popolare antica attribuiva la capacità di evitare la morte improvvisa. Il santo raffigurato nel frammento era molto venerato nel bormiese, tanto cha la sua immagine gigantesca era effigiata su facciate e navate di molte chiese del bormiese. L’affresco, per la limitata gamma dei colori usati e per la staticità dei personaggi, sembrerebbe riconducibile a mano di artista valtellinese del XV secolo. La chiesa delle origini era più piccola dell’attuale; il tetto aveva spioventi molto più accentuati con capriate a vista sostituite dall’attuale volta nel 1553. Il coro era di dimensioni ridotte ed affrescato; nulla rimane di queste pitture, andate perse a seguito del rifacimento della parte absidale alla fine del XVII secolo. Elemento di pregio e opera d’arte significativa della chiesa è la piccola Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 122 ancona lignea che adotta la forma del Flügelaltar, rispettando un modello in auge nella zona tra il 1400 ed il 1500. La piccola ancona o “trittico”, riconducibile alla fine del XVI o inizio del XVII secolo, è costituita da una parte centrale dotata di antine richiudibili su se stesse. La funzione di questi piccoli altari, caratteristici di tutte le chiese locali antiche, era quella di creare un effetto “scenografico”; l’altare veniva aperto in occasione di particolari festività e conferiva “teatralità” e significato alla liturgia in essere, quasi a voler inscenare una piccola sacra rappresentazione. L’altare, aperto in occasione di ricorrenze particolari, quali la festa dei santi titolari, rimaneva poi chiuso per la restante parte dell’anno. i Paesi Ad ante chiuse l’ancona della chiesa di Molina ci mostra le immagini di santi molto venerati in loco: San Carlo Borromeo, il santo sostenitore dei principi della controriforma ed invocato in aiuto contro la peste, e San Filippo Neri, patrono dei giovani. Le figure dei due santi, dipinte su tela, vennero applicate successivamente sugli sportelli lignei dell’ancona. Ad ante aperte l’altare ci mostra al centro l’immagine della Vergine Maria con il Bambino in braccio ed ai lati i due Giovanni: il Battista, come di consueto vestito di pelli, e l’Evangelista, che regge il calice contenente la vipera, suo tipico attributo iconografico. La vipera vuole ricordare un miracolo che occorse a S. Giovanni il quale, avendo bevuto da un calice contente del veleno, rimase immune e resuscitò pure le due persone che, avendo bevuto dallo stesso calice prima di lui, furono colpite da morte improvvisa. Sulle ante aperte vi sono le immagini scolpite a bassorilievo di San Giacomo Maggiore patrono dei pellegrini ed un altro santo comunemente ritenuto San Gallo, pur se non accompagnato da sufficienti attributi iconografici tali da poter confermare la precisa identità dello stesso. all’area o ad artista di provenienza nordica, l’insieme è indubbiamente apprezzabile per la ricchezza delle decorazioni e per i particolari dati dai motivi vegetali e a racemi che decorano l’insieme, per la buona resa della doratura e per la genuinità delle figure realizzate. Nella chiesa si conservano inoltre tre interessanti acquasantiere a muro, testimonianti l’opera di qualificati lapicidi che operarono nelle nostre valli. In prossimità della porta di ingresso la grande acquasantiera è modellata con motivi a squame, elemento decorativo raramente utilizzato nel bormiese, mentre quella fissata sul loggiato è sagomata a foggia di elegante e raffinata conchiglia. Degna di nota è pure la casa di colore rosato posta di fronte alla chiesa di S. Giovanni. La casa è conosciuta come “casa del Monico”. L’edificio, di pertinenza un tempo della chiesa di San Giovanni, era tradizionalmente abitato dal sagrestano addetto alla custodia della chiesa. didascalia L’ancona conserva inoltre nella parte centrale la testa decollata del Battista ed al culmine la Crocefissione raffigurata secondo il canone classico, dove a lato della croce si trovano la Madonna e l’apostolo più caro a Gesù, San Giovanni apostolo. L’ancona, databile intorno alla fine del 1500, rappresenta un’opera di pregio artistico e storico ben radicato nel territorio locale. Nonostante le statue siano tozze e rigide nei loro atteggiamenti, elementi che ci consentono di avvicinare l’ancona 123 124 i Paesi SAN GALLO Isolata nella campagna della piana che dalla chiesa prende il nome, con uno svettante campanile che cosí fortemente caratterizza l’ambiente circostante, la chiesa di S. Gallo è ricca di storia e di arte. Le antiche origini rimangono ancora avvolte nel mistero. Non ci è dato conoscere la sua esatta data di fondazione, pur se è uso locale ricondurre l’esistenza della chiesa ad un’età remota nella quale si suppone che si trovava presso la chiesa forse un fortilizio, oppure un ricovero per pellegrini o forse ancora un antico monastero. Di tutte queste congetture, nulla appare negli antichi documenti. La prima citazione certa della chiesa risale al 1243, epoca in cui la chiesa era diversa rispetto all’attuale. I recenti restauri e scavi archeologici hanno permesso di constatare che la chiesa primitiva si limitava ad una superficie di poche decine di metri quadrati, addossati alla parete meridionale dell’attuale edificio. l’edificio originario si dimostrò ben presto insufficiente per le nuove competenze che il piccolo edificio si trovava a svolgere. Si rese dunque necessario adattare la chiesa alle esigenze che il nuovo titolo implicava, così che nel 1478 le tre vicinanze diedero inizio all’ampliamento dell’edificio. Della costruzione preesistente fu mantenuta la sola parete sud mentre i restanti lati furono estesi e venne aggiunto pure il loggiato interno che tanto qualifica l’edificio, grazie anche al gioco di nervature eseguite sull’arco di sostegno dello stesso. I lavori procedettero speditamente tanto da rendere possibile la consacrazione della chiesa già nel 1480. Espediente di successo per l’arredo e la decorazione interna dell’edificio fu la concessione da parte del vescovo Branda Castiglioni di particolari indulgenze a tutti coloro che avessero devoluto alla chiesa lasciti e donazioni. didascalie Dall’epoca della sua fondazione, S. Gallo fungeva da chiesa di riferimento per le contrade di Molina, Turripiano e Premadio, pur se i sacramenti venivano impartiti solamente nella chiesa Collegiata dei santi Gervasio e Protasio di Bormio. Proprio la lontananza da Bormio, ed un inverno particolarmente rigido che rese malagevoli gli spostamenti verso Bormio stessa, indussero gli abitanti delle tre vicinanze a richiedere al capitolo di Bormio la possibilità di elevare San Gallo a parrocchia indipendente. L’autonomia a S. Gallo venne concessa nel 1467 con soddisfazione delle tre vicinanze. La nuova dignità di parrocchiale comportó una maggiore frequentazione della chiesa, tanto che 125 Valdidentro STORIA PAESI GENTE I parrocchiani si dimostrarono nell’occasione particolarmente solerti, così che S. Gallo venne adeguatamente arredata, vennero affrescate le pareti e fu fatto realizzare il pregevole trittico attualmente conservato nella chiesa parrocchiale di Premadio. Notevole è la qualità artistica degli affreschi parietali, dei quali ci è ignoto il nome dell’artista che li realizzó nel 1482. Si tratta di alcune figure di santi eseguiti a grandezza reale, dai colori molto vivaci, racchiusi entro cornici dalle tinte di terra delicate. Entro queste aree sono dipinte le immagini di quei santi che tanto cari dovevano apparire alla popolazione dell’epoca. Sulla parete di sinistra si trova un Sant’Antonio dal volto espressivo e bonario, con abito scuro dal panneggio morbido; il santo è raffigurato con i suoi classici attributi: il bastone, il libro, il campanellino. Ai suoi piedi si trova uno sgraziato maialino. Accanto a lui, mutilato da un varco aperto successivamente, si trova un santo vescovo non meglio identificato. Anche questo personaggio, come Sant’Antonio, ha un’espressione molto intensa e il viso finemente delineato; in mano regge un libro ed in testa ha il pastorale. Al di sopra di queste figure, sta una pregevole e raffinata figura femminile in trono, probabilmente raffigurazione della Vergine o forse di una santa incoronata. Purtroppo il restauro ci ha restituito questa immagine solo in parte e da quel poco che ci rimane si percepisce il lavoro di un artista di rilievo, con sapienti capacità tecniche e capace ed efficace uso del colore. didascalia 126 Sempre il lato destro della chiesa conserva una nicchia successivamente aperta con funzione di battistero. Nella parte alta si conservano ancora tracce di un dipinto raffigurante San Giovanni che battezza Gesù (1717); autore di questi dipinti fu il Noalino, artista attivo pure alla chiesa della Madonna della Pietà di Turripiano. Pregevole è pure il battistero a forma di cupola qui conservato, risalente al XVIII secolo. Di grande interesse iconografico appaiono i dipinti conservati lungo la parete sinistra della chiesa, riconducibili anch’essi alla fine del Quattrocento e racchiusi come quelli della parete opposta, entro ben dettagliati spazi. Accanto ad un frate francescano non identificabile, ci sorprende la figura di un bambino ignudo, legato, steso su una tavolozza di legno, con un cappio al collo e con spilloni e altri strumenti di tortura posti accanto al corpicino. Si tratta di San Simonino martire, il bambino brutalmente ucciso nel 1475 e del quale si conobbe nel bormiese una presta e sentita venerazione, tant’è che la sua immagine venne riprodotta pure sulle pareti della chiesa di S. Spirito e su quella dei Santi Gervasio e Protasio in Bormio. Sull’arco trionfante si conserva la figura di San Sebastiano, raffigurato come di consueto nudo con il corpo trafitto da frecce; il santo veniva invocato contro il morbo pestilenziale. La chiesa di San Gallo ha subito numerose modifiche nel corso della sua lunga storia; sono ancora chiaramente percepibili le tracce di aperture, di tamponamenti e di modifiche effettuate nel corso dei secoli per assecondare l’edificio sia alle esigenze ecclesiastiche che al gusto architettonico delle diverse epoche. Un tempo la chiesa era dotata di due altari laterali dedicati uno alla Beata Vergine ed uno a San Carlo Borromeo (sostituito poi con quello della confraternita del Disciplini). Gli altari vennero demoliti in seguito all’ordine ricevuto dal visitatore apostolico Feliciano Ninguarda (1614 - Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 128 1615). Grandioso doveva essere pure il ciborio ligneo dorato (XVII secolo) posto sull’altare maggiore, del quale rimangono solo poche sbiadite immagini. Si trattava di un altare di grande pregio, realizzato a più piani, arricchito da colonnine, racemi, statue di santi e terminante con una vistosa statua del Redentore. Purtroppo la noncuranza e la trascuratezza che la chiesa di San Gallo ha conosciuto dopo il suo abbandono a seguito della perdita della dignità parrocchiale (1833), ha fatto sì che questa antica e preziosa opera d’arte andasse persa. Quanto non fu rubato venne purtroppo vandalicamente incendiato negli anni 1980. Di tutta questa monumentale opera si conserva ora solamente la predella che funge da sostegno per la statua dell’altare maggiore raffigurante San Gallo accompagnato dall’orso, suo classico attributo iconografico. La parte absidale che ammiriamo ancor oggi, è frutto di una ricostruzione assegnabile al 1631. In quest’anno venne infatti demolito il preesistente coro a volta e sostituito con l’attuale, definito nella parte mediana con un cornicione dentellato, decorazione caratteristica del gusto barocco dell’epoca. Degna di nota è pure la struttura architettonica esterna della chiesa, con facciata a capanna, rosone e tetto fortemente a spiovente. Lo svettante campanile definito nella parte angolare da decorazioni geometriche ????????? i Paesi SAN CRISTOFORO A PREMADIO Come tutte le chiese della zona, anche la chiesa di San Cristoforo ha conosciuto, nel corso dei secoli, una lunga storia fatta di rifacimenti e modifiche sino al totale e definitivo abbandono dell’edificio avvenuto nel 1972 a seguito della realizzazione della nuova e più capiente chiesa, che meglio si prestava ad ospitare la popolazione di Premadio e frazioni, ormai molto aumentata di numero, per la quale l’antica chiesa era ormai totalmente insufficiente. La chiesa di San Cristoforo compare per la prima volta in una citazione del 19 ottobre 1397, secondo cui la chiesa doveva esistere a quell’epoca già da alcuni anni. L’edificio era certamente molto più piccolo dell’attuale ed era utilizzato dalla sola comunità di Premadio in occasione di particolari festività e celebrazioni, essendo chiesa parrocchiale di riferimento, per Premadio, dapprima la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio di Bormio e dal 1467 la chiesa di S. Gallo. molte delle nostre chiese - San Giovanni a Molina per ricordarne una - ma grande doveva essere la sua venerazione se l’immagine del santo è effigiata pure spesso anche all’interno di edifici sacri. Cristoforo è un santo asiatico del III secolo. Reprobo, questo il suo nome originario, era di statura molto grande. Suo desiderio era quello di lavorare per l’essere più potente della terra: dopo aver prestato servizio e successivamente abbandonato un grande re e per il demonio perché non sufficientemente potenti, si mise a E’ probabile che la piccola chiesa delle origini fosse affrescata sia all’esterno che all’interno, ma di cio’ non ne rimane traccia alcuna. Il loggiato che ancor oggi corre tutt’attorno alla chiesa, sebbene rifatto in muratura agli inizi del 1900 in sostituzione di quello ligneo, caratterizzava già la chiesa primitiva. Di impatto risulta pure il campanile della chiesa, innalzato nel 1690, terminante con una bella cuspide slanciata. Curiosa e interessante è la dedicazione della chiesa a San Cristoforo, santo molto venerato in tutto il bormiese, ed invocato contro la morte improvvisa. La sua immagine gigante compariva sulla facciata di 129 Valdidentro STORIA PAESI GENTE traghettare dei pellegrini da una parte all’altra di un grosso fiume. Un giorno, trasportando in spalla un bambino, si accorse del suo enorme peso, tanto che a Reprobo sembrava di trasportare il mondo intero: il bimbo si rivelò essere Gesù e da allora Reprobo assunse il nome di Cristoforo, ossia “Portatore di Cristo”. Da quel giorno Cristoforo si mise al servizio di Cristo, predicando la sua parola. L’interno della chiesa che si conserva attualmente è frutto di un rifacimento ottocentesco. L’edificio si presenta con un’aula unica, due piccoli altari laterali e un’ampia abside. Nella chiesa si trovano parecchie opere di degno interesse artistico, quali una piccola acquasantiera realizzata in marmo bianco sulla quale è finemente scolpito un grazioso angioletto, l’altare maggiore composto da marmi colorati e le due ancone conservate entro gli altari laterali. L’altare di destra custodisce un’elegante opera lignea, proveniente probabilmente dalla chiesa di S. Maria Nascente di Isolaccia. L’altare, riconducibile al 1708, per carattere e tipologia sembrerebbe opera dello scultore della Valdidentro Gian Maria Donati. L’insieme è costituito da un impianto formato da due colonne decorate con motivi vegetali che si innalzano con delle spirali e terminante con un timpano spezzato, recante al centro la statua di San Michele. L’altare, mancante di due statue che dovevano essere fissate sulle mensoline rette da angeli cariatidi posti a lato delle colonne, racchiude una tela dal forte cromatismo, raffigurante la Natività della Vergine attorniata da numerosi personaggi. Raffinato è pure nel complesso l’altare di sinistra. L’ancona, opera 130 riconosciuta di Giovan Pietro Rocca, abile artista del legno originario di Oga, è costituita da due colonne che recano delle teste di angeli e decorazioni laterali a ornamenti ed angioletti; la parte terminale dell’anconetta propone motivi geometrici e termina con due grandi volute che si riuniscono nella parte centrale con motivi a racemi. D’interesse è la tela (XVII secolo) racchiusa nell’altare. Al centro, entro raggi dorati, appare la figura della Vergine con il Bambino in braccio. Tutt’attorno sono raffigurati i 15 misteri del rosario, mentre in basso vi sono San Domenico, il santo molto devoto alla Vergine che tanto si prodigò per la diffusione della pratica del rosario, e Santa Rosa, in abito domenicano. La chiesa di San Cristoforo, sebbene inizialmente utilizzata dai penèglia solo per particolari funzioni religiose, essendo San Gallo la parrocchiale di riferimento per Premadio, su concessione del visitatore apostolico Federico Borromeo del 1664 venne usata per le celebrazioni quotidiane durante i rigidi mesi invernali, quando gravoso doveva essere spostarsi sino a San Gallo. Dopo un pressochè totale rifacimento avvenuto nel 1842, Premadio ottiene la dignità parrocchiale nel 1844, con il definitivo abbandono della chiesa di San Gallo. Tra le opere d’arte conservate a Premadio, degna di nota è la piccola ancona lignea, voluta dalla confraternita della Beata Vergine Maria per la chiesa di San Gallo, trasferita poi nella chiesa di San Cristoforo e custodita attualmente nella cappella “invernale” dell’attuale chiesa parrocchiale. Si tratta ancora una volta di un trittico, che tanta teatralità Valdidentro STORIA PAESI GENTE conferiva alla liturgia quando, in occasione di particolari funzioni religiose, veniva aperto dando vita ad una rappresentazione sacra, riccamente scenografica, che il popolo tutto poteva venerare ed ammirare. L’ancona in questione, nonostante la perdita di una statuina e di alcuni parti decorate che coronavano l’insieme (perdita subita a seguito di un furto negli anni settanta del 1900) è ancora ben conservata. Al centro la statua della Vergine con il Bambino e alla destra San Giovanni Battista vestito di pelli. La parte interna delle antine presenta da un lato l’allegoria della fede e dall’altro quella della Carità, entrambe raffigurate ad alto rilievo su uno sfondo dorato decorato da raffinati motivi vegetali. Le ante esterne riproducono San Martino di Tours accompagnato dall’oca, suo attributo, e Sant’Antonio abate, raffigurato con il maialino ai piedi. Al centro della predella si trova un semplice presepe, dove il Bambino Gesù è adagiato sul velo della Vergine. Pure la scena della Natività è dotata di antine richiudibili che presentano nella parte interna due sante regine e in quella esterna i dipinti dei santi Rocco e Sebastiano invocati contro il morbo pestilenziale. I santi Floriano e Fedele sono raffigurati nella parte estrema della predella. Nel complesso sembra possibile assegnare l’ancona di Premadio alla metà del XV secolo. L’opera conserva tratti tipicamente nordici, da cui si deduce la provenienza o quantomeno la realizzazione da parte di artista formatosi nelle regioni di lingua tedesca. Le statue appaiono statiche e inespressive, indossano abiti dai panneggi secchi e duri; particolarmente raffinato si presenta invece il fregio di gusto gotico che decora l’intera anconetta, mentre la scena del presepe conferisce a tutto l’insieme un tocco di dolcezza e di vivace narrazione popolare. i Paesi SAN MARTINO AI BAGNI Sin dal basso medioevo esisteva nella località conosciuta come i “Bagni di Bormio” un nucleo abitativo composto dall’ospizio per i viandanti, dai bagni, dalle fortezze poste a tutela dell’intero Contado e dalla chiesetta dedicata a San Martino, il santo soldato deputato alla salvaguardia del luogo. Incerte sono le origini della chiesa, pur se alcuni storici locali la ritengono di probabili origini carolinge, mentre altri ancora fanno risalire la sua fondazione al 1093, quando il vescovo Artico in visita a Bormio dotò una cappella ai Bagni dedicandola al santo di Tour. In realtà la prima citazione archivistica che ci informa dell’esistenza della chiesa risale al 1201, quando la chiesa è citata nell’ambito del trattato di pace stipulato fra Como e Bormio, trattato che impose a Bormio la demolizione delle fortezze costruite da poco, ma che risparmiò la chiesa e gli edifici legati ai Bagni. Dopo il 1201 i documenti relativi a San Martino tacciono sino al XVI secolo, epoca i cui la chiesa venne parzialmente ricostruita. A quell’epoca l’edificio disponeva di un porticato esterno che le correva tutt’attorno, di ossario e cimitero, elementi tipici dell’architettura ecclesiastica della Valdidentro, che furono purtroppo eliminati a San Martino nel corso di un pesante rifacimento eseguito nel XX secolo. Come ci appare ora San Martino è un minuto tempio ad aula unica, arroccato sul pendio e sostenuto nella parte absidale da una grande arcata. L’esterno è semplice, la struttura è aggraziata da un piccolo campanile, da un giardino-sagrato (l’antico cimitero) e dispone di due porte d’ingresso, una che dà sulla navata ed una che dà sul loggiato interno, utilizzato un tempo, come consuetudine in loco, dai soli uomini. Certamente la facciata nord, dove si trova la porta d’accesso, doveva essere affrescata, come testimoniato da alcuni saggi liberati dall’intonaco sovrastante e che solamente un restauro non più rimandabile potrà svelarci. Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con diverso orientamento nel 1938. Pure le pareti interne erano completamente affrescate; di queste pitture alcune sono ancora sufficientemente leggibili, mentre altre sono state ricoperte o sono solo malamente intuibili. Sulla parete di destra si conserva un affresco dai colori di terra e dai tratti molto marcati, che reca al centro la Vergine con il Bambino affiancata da S. Barbara con il calice e l’ostia e da altre tre Sante. Il dipinto è realizzato usando una gamma di limitati colori di terra. Il forte 133 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia linearismo, il grafismo accentuato e la presenza di alcuni elementi ricorrenti nelle opere dell’artista, hanno consentito di attribuire il dipinto alla mano dell’artista conosciuto come Giovannino da Sondalo (in realtà il pittore – che forse non si chiamava nemmeno Giovannino - era originario di Grosotto), l’artista valtellinese maggiormente attivo in alta valle a cavallo fra il XV e il XVI secolo. E’ possibile individuare la mano dello stesso artista pure a ridosso del loggiato, sulla parete di sinistra, dove dei resti di pitture inquadrati entro spazi definiti da un motivo decorativo a tortiglione lasciano intuire parte di una Crocifissione. Pure il catino absidale era un tempo completamente dipinto. L’artista che si occupò di questa decorazione, eseguita nel 1564, fu Cipiano Valorosa, il longevo pittore di Grosio che con la sua bottega fu particolarmente attivo in tutta la Valtellina. Dell’opera dell’artista grosino è ora visibile la sola immagine di San Martino che divide il mantello con il povero, mentre l’intero catino absidale è stato ricoperto da scialbature e la parte bassa è stata rivestita da un devastante assito di legno. L’abside custodiva un tempo pure un’interessante pala d’altare, dipinta dallo stravagante pittore bormino Carlo Marni nel 1640. La pala, persa a seguito di furto nel 1976, raffigurava San Martino a cavallo in atto di dividere il mantello con il povero. Nulla rimane degli arredi della chiesa che dovevano essere copiosi se consideriamo che la chiesa era regolarmente officiata soprattutto nei mesi estivi. La chiesetta conserva ancora due acquasantiere infisse nel muro, una delle quali, quella sul loggiato, riporta la data 1685. Nei secoli XVIII e XIX la chiesa ha subìto danni e devastazioni, pur se le più pesanti e sconvolgenti trasformazioni dell’edificio originario sono da riferirsi al secolo scorso quando oltre alla demolizione del porticato esterno fu sostituita l’antica pavimentazione in lastre di pietra con quella attuale a piastrelle. Nonostante questi infelici e recenti interventi di sistemazione, San Martino, per la posizione che occupa e per quanto ancora cela, rimane un vero gioiello della storia e dell’arte della Valdidentro che solamente un restauro cosciente potrà restituirci al meglio. i Paesi SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA PIETÀ Posta a Fiordalpe lungo la via per Fraele, percorso un tempo molto trafficato per scambi di merci e di idee, la chiesa architettonicamente propone uno stile nuovo per la Valdidentro: si tratta infatti di uno dei primi esempi di arte barocca presente in valle. La chiesa fu costruita a partire dal 1674 in seguito ad un voto seguito alla peste del 1636. Era, allora, arciprete di Bormio Cristoforo Peccedi, originario di Premadio, il quale si attivò per la costruzione della chiesa e la dotò di un beneficio. Solamente qualche anno più tardi ebbe inizio l’effettiva costruzione della chiesa che venne intitolata alla Vergine Addolorata. E’ probabile che il titolo della chiesa sia stato suggerito dal gesuita Paolo Sfondato, all’epoca predicatore delle missioni nel bormiese, grande devoto dei dolori della Madonna e della Passione di Cristo. femminile, visibile poco al di sopra della sacrestia: si tratta di Barbara Sgritta, una donna che prestò il suo servizio alla costruzione della chiesa, trasportando su e giù dai ponteggi la malta con la bolgia sulle spalle: la donna cadde rovinosamente dalle impalcature, ma ebbe salva la vita e, forse proprio a ringraziamento di ciò, didascalia All’esterno la chiesa appare architettonicamente equilibrata e ben proporzionata, l’ingresso è protetto da una tribuna; il campanile a bulbo, terminato nel 1733, conserva dei fregi raffinati, dipinti a tinte calde e delicate; la facciata, terminata nel 1702, fu decorata da Giovanni Noale e da suo figlio conosciuto come “Nolano”, artisti che si occuparono pure della decorazione interna della chiesa dove, sul soffitto entro spazi definiti da cornici, realizzarono l’immagine dell’Addolorata trafitta dalle sette spade che simbolicamente raffigurano i sette dolori della Madonna, degli angioletti che recano una corona, di San Michele arcangelo che sconfisse il diavolo e della Vergine in gloria. Tornando all’esterno della chiesa, curiosità ed interesse suscita una figura 139 Valdidentro STORIA PAESI GENTE volle legare la sua immagine alla chiesa dell’Addolorata. L’interno, sufficientemente ampio e luminoso, è definito da una navata centrale terminante con abside e due altari laterali. Una piccola sagrestia si apre a sinistra dell’altare maggiore. Purtroppo la pavimentazione originale in lastre di pietra è stata sostituita con l’attuale di discutibile gusto. Pure il fregio parietale che corre tutt’attorno la navata al di sotto delle finestre e delle finte finestre è stato pesantemente ridipinto durante un intervento di restauro dei primi decenni del XX secolo. didascalia Sull’altare maggiore si trova una grande ancona lignea riportante la data 1706 e la firma dell’artista esecutore della stessa Gioan Maria Donati. La famiglia Donati, originaria di Isolaccia, gestiva una bottega artigiana per la lavorazione del legno. Il padre Vitale alla sua morte lasciò il laboratorio nelle mani dei due figli Bernardo e Giovan Maria, che si imposero per i pregevoli lavori ad intaglio che seppero realizzare per parecchie chiese dell’alta Valtellina. L’ancona custodita nella chiesa di Fiordalpe è un’opera raffinata e monumentale, di grande effetto. Due colonne finemente intagliate con motivi vegetali e teste di cherubini sono congiunte al sommo da un fastigio spezzato. A lato ed al vertice dell’ancona si trovano delle statue lignee che riassumono concettualmente i dolori della Vergine: la statua di San Giuseppe ricorda i primi tre dolori, ossia la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e la Disputa con i dottori; gli angeli che reggono gli strumenti della passione ricordano la salita al Calvario, la crocifissione e la deposizione. La statua di San Giovanni ricorda la separazione di Gesù dalla Madre. L’ancona lignea custodisce una grande tela raffigurante il Compianto sul Cristo morto. La scena ritrae Gesù morto tenuto in grembo dalla Madre, tutt’attorno le pie donne, Giovanni, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Si tratta di un’opera di grande qualità artistica, i personaggi riprodotti con vesti scure, nei volti illuminati e nei tratti anatomici ben evidenziati trasmettono tutta la disperazione e il dolore della scena. Sullo sfondo il sepolcro e un paesaggio montano incutono desolazione all’insieme; un grande angelo dall’alto domina tutta la scena. Altro pregevole elemento custodito sull’altare è il paliotto in scagliola che 140 i Paesi didascalia orna la parte anteriore della mensa d’altare. Il paliotto, a fondo nero molto lucido, è decorato con motivi vegetali, fiori e raffinati uccellini. Dei due altari laterali, quello di destra è intitolato a Sant’Anna, mentre quello di sinistra è dedicato a San Pietro. E’ probabile che l’ancona di destra si trovasse in origine sull’altare maggiore. L’altare di Sant’Anna è costituito da un impianto ligneo policromato, parzialmente mutilo, contenente una tela di mediocre qualità raffigurante il Cristo crocifisso, la Vergine, San Giovanni e la Maddalena ai piedi della Croce. Due angioletti reggono dei cartigli che recano le parole del vangelo di Giovanni secondo le quali l’apostolo più caro di Gesù accoglie Maria come madre e Maria lo riceve come figlio. L’altare di sinistra è dedicato a San Pietro. Fu eseguito da G. Antonio Fonstoner di Loeg nel 1760. Ai lati dall’altare ligneo dipinto a finto marmo ed arricchito da decorazioni si trovano due tozze statue che 141 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Didascalia 142 raffigurano un probabile Sant’Antonio da Padova e San Francesco d’Assisi. L’ancona racchiude un dipinto che ritrae la Vergine con il volto severo e brusco che regge un Bambino ormai grandicello, pure lui delineato con tratti grossolani e rustici. San Giuseppe e due paffuti angioletti completano la scena. La tela reca la firma dell’artista tirolese G. Giorgio Telser, che la eseguì nel 1671. Il Telser lavorò molto in tutto il bormiese nella seconda metà del Seicento ed in Valdidentro si distinse per la decorazione della chiesa dei Santi Martino ed Urbano di Pedenosso. E’ opportuno menzionare pure la bella acquasantiera sostenuta da colonna che ancora qui si conserva, quale frutto di tutte quelle abili maestranze che con sapienza ed abilità artigiana tanto finemente seppero lavorare la pietra. L’acquasantiera riporta la data 1694. i Paesi CHIESA DELLA SS. TRINITÀ DI TURRIPIANO La piccola chiesa passa quasi inosservata da quanti le transitano accanto in località Turripiano lungo la strada statale per Isolaccia: si tratta infatti di una chiesa semplice e sobria nell’aspetto, ma intensamente significativa per quanto riguarda la storia e l’arte del XVI secolo. Più di qualsiasi altra chiesa dell’alta valle, la chiesetta di Turripiano rispetta infatti i dettami impartiti dal concilio di Trento, dettami e regole che vennero letteralmente applicati all’architettura, ma soprattutto alla decorazione pittorica della chiesa. La costruzione dell’edificio è da ricondurre all’anno 1590. Furono proprio gli abitanti di Turripiano a volere fortemente la chiesa al fine di evitare, almeno nel periodo invernale, lo scomodo trasferimento sino alla chiesa madre di San Gallo. L’esterno dell’edificio è caratterizzato da un tetto a spiovente rivestito dalla tipica copertura a scandole di legno e da un cavaliere dotato di due finestrelle arcuate che ospitano le campane. La facciata è spoglia e priva di qualsiasi decorazione, eccezion fatta per una piccola nicchia sulla facciata che custodisce un dipinto a fresco raffigurante l’Incoronazione della Vergine Maria. L’interno ha unica navata, con pareti spoglie e abside decorata da un ciclo di affreschi che si attengono fortemente all’iconografia proposta dai dettami conciliari, miranti a rafforzare quei principi cattolici che i vicini protestanti così duramente contestavano alla chiesa di Roma. Le pitture a fresco proposte nel catino dell’abside sono rappresentate entro spicchi suddivisi da nervature. I dipinti, ben proporzionati, furono realizzati nel 1609 da un probabile modesto scolaro di Cipriano Valorosa. Gli spazi ben definiti illustrano l’Annunciazione, la Nascita di Gesù, l’Incoronazione della Vergine, il Battesimo di Gesù e la Trasfigurazione. L’intento delle immagini proposte è dunque volutamente didattico in senso anti-protestante. Il ciclo proposto annuncia un evidente messaggio formativo e dottrinale, insistente sulla divinità di Cristo e sulla figura della Vergine che svolge qui un ruolo di prim’ordine. I dipinti si rivelano dunque quali efficaci strumenti di comunicazione che rappresentano, per immagini, importanti contenuti di fede. Nel sottarco la chiesa un tempo riproduceva gli apostoli, mentre le vele della volta erano completate dalle immagini degli Evangelisti e da angeli musicanti. Purtroppo tutti i dipinti da riferire alla costruzione primitiva della chiesa ci sono pervenuti in pessime condizioni. Alcuni dei dipinti furono addirittura dapprima alienati e solo successivamente restituiti alla chiesa. Durante lo stacco alcuni degli affreschi subirono lacerazioni e gravi perdite, non più recuperabili. Alla chiesa primitiva, sobria ed essenziale in quanto realizzata seguendo le più rigorose disposizioni post-tridentine, che vietavano la riproduzione di immagini lungo le pareti della chiesa per non distrarre l’attenzione dei fedeli dalle cerimonie religiose, nel 1743 venne aggiunto un altare dedicato a Sant’Antonio: la cappella venne edificata a seguito di una malattia del bestiame che in 143 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Didascalia della foto qui sotto 144 quell’anno colpì la zona. Sant’Antonio veniva infatti venerato quale protettore degli animali domestici, e fu dunque spontaneo per gli abitanti del luogo, fortemente dipendenti per la loro sopravvivenza agli animali domestici, rivolgersi per soccorso a quel santo. L’altare, realizzato in marmo, custodiva una tela raffigurante Sant’Antonio abate con Sant’Antonio da Padova e la Vergine Maria. L’altare venne poi abbandonato e l’ancona, attualmente in cattive condizioni, potrà essere nuovamente collocata nella chiesa a seguito di adeguato restauro. La chiesa è stata recentemente ristrutturata grazie ai fondi ottenuti con la legge Valtellina, che ha consentito di recuperare al meglio l’edificio sacro; grazie alla sensibilità di alcuni cultori d’arte e dei proprietari, gli affreschi un tempo alienati sono stati nuovamente recuperati ed lameno in parte ricollocati nella chiesa, consentendo di valorizzare al meglio ed integralmente il profondo contenuto dottrinale che la chiesa della SS. Trinità ha per anni proposto alla comunità della Valdidentro. i Paesi SANTA MARIA NASCENTE A ISOLACCIA Grazie ad una breve descrizione lasciata dallo studioso locale Tullio Urangia Tazzoli, autore della quadrilogia “La Contea di Bormio”, nel volume dedicato all’arte edito nel 1933, abbiamo una illustrazione della vecchia chiesa di Isolaccia. Questa chiesa era dedicata a S. Maria Nascente e ai Santi Rocco e Sebastiano e ci viene descritta come una “chiesa infelice, bassa e scura, a volta… ha sulla facciata un pronao a pilastri… tribuna sulla porta principale d’entrata… campanile sul tipo di quello della parrocchiale di Premadio”. La descrizione ci aiuta a capire come doveva essere l’antica chiesa di Isolaccia, opera di cui non ci sono d’aiuto come al solito i documenti essendo tutto l’archivio della parrocchia andato perso durante il disastroso incendio di Isolaccia che distrusse, oltre a buona parte del paese, anche la casa parrocchiale. custodiva sull’altare maggiore un’ancona lignea realizzata nel 1708 dallo scultore di Isolaccia Giovanni Maria Donati: si tratta molto probabilmente dell’ancona attualmente Didascalia della foto qui sotto La chiesa originaria era stata edificata su di un terreno, lasciato da una coppia di Isolaccia, in località “Closura”. La costruzione ebbe inizio nel 1521 dopo che una spaventosa epidemia pestilenziale aveva duramente colpito il paese. Per questo si stabilì di dedicare la nuova chiesa a Maria Nascente ed ai Santi Rocco e Sebastiano, quale atto di riconoscenza dei parrocchiani per il soccorso ottenuto da quei santi nel mettere fine alla tremenda peste. La chiesa di S. Maria Nascente in origine dipendeva dalla parrocchia di Pedenosso e solamente nel 1754, in seguito ad aspre e lunghe trattative, Isolaccia ottenne l’agognata autonomia dalla chiesa madre. Le scarse notizie reperite consentono di affermare che la chiesa delle origini 145 Valdidentro STORIA PAESI GENTE conservata sull’altare di destra della chiesa di S. Cristoforo in Premadio. Altro elemento di valore religioso ed artistico che la chiesa primitiva gelosamente custodiva e che ancor oggi la chiesa di Isolaccia altrettanto gelosamente custodisce, è la cosiddetta statua della “Madonna dell’Acqua”. Si tratta di una statua raffigurante la Vergine Maria, di evidente fattura nordica, particolarmente venerata un tempo in quanto, per intercessione della stessa, si otteneva la pioggia quando la persistente siccità minacciava i raccolti. Didascalia della foto qui sotto La leggenda relativa alla Madonna dell’Acqua, accompagnata dalle due statue dei Santi Rocco e Sebastiano, è vivacemente narrata per immagini nelle due vetrate sovrastanti le porte laterali dell’attuale chiesa di S. Maria Nascente. Le immagini ci narrano le vicende del rinvenimento della statua lignea della Madonna, accanto alla quale sarebbero state ritrovate pure le due statue dei Santi Rocco e Sebastiano. Le vetrate, entro spazi ben definiti da arcate, con vivacità narrativa e forte cromatismo raccontano la sequenza dei fatti che videro testimoni i membri della famiglia Ponti che, a causa di una persistente siccità e conseguente penuria, erano stati costretti a lasciare la nativa Isolaccia per recarsi in cerca di fortuna nella vicina Engadina. Le scene mostrano il gruppo familiare affiancato dalle due vacche, la loro unica ricchezza, nell’atto di individuare le statue accatastate con la legna nell’abitazione dei contadini protestanti che avevano accordato loro ospitalità per la notte. La scena seguente vede i Ponti inerpicarsi lungo il cammino dell’Umbrail, avvolti entro ampi manti sotto i quali tengono nascoste le statue. i Paesi Le vetrate del lato opposto presentano nella parte alta i protestanti che buttano le statue nel torrente, mentre in basso ci sono da un lato la Vergine che giace tranquilla, ritta al di sopra delle acque; dall’altra parte sono raffigurate le statue che entrano processionalemente in Isolaccia, rette da devoti e riparate sotto un baldacchino rosso. Queste due vetrate, assieme a tutte quelle che danno luce alla navata, sono state realizzate recentemente dall’artista di Meda Alberto Creppi. In un ritmico susseguirsi, narrano della nascita di personaggi biblici e illustrano continui rimandi alla figura di Maria. La nuova chiesa, costruita a partire dal 1935 e consacrata nel 1938, custodisce, oltre alla famosa statua della Madonna dell’Acqua e dei santi Rocco e Sebastiano, un interessante altare posto nella cappella di destra. L’opera lignea, formata da quattro colonne riccamente intagliate e raccordate da un fastigio spezzato, venne eseguita dall’abile maestro intagliatore Cesare Rini di Bormio, il quale creava le sue opere ripetendo con straordinaria precisione e perfezione interessanti opere antiche. Didascalia della foto qui sotto La parte absidale, vede sullo sfondo l’Ascensione al Cielo di Maria Vergine ed ai lati si trovano al Natività e la Discesa dello Spirito santo sugli apostoli, affiancati dalle figure degi Evangelisti accompaganti dai loro simboli. Questi dipinti vennero eseguiti dall’artista Turoldo Conconi nella prima metà del Novecento. 147 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 148 i Paesi SANT ABBONDIO A SEMOGO Al 1328 risalgono le prime notizie relative alla chiesa delle origini di S. Abbondio di Semogo, una chiesa che già dagli inizi risulta essere dotata di molti beni. Nessuna nota descrive la chiesa delle origini, che venne restaurata nel 1490 a seguito molto probabilmente di un’indulgenza di 40 giorni che il visitatore apostolico Giacomo de’Mansueti per conto di Lazzaro Carafino concesse a coloro che avessero visitato o fatto doni alla chiesa di S. Abbondio .Consistente dovette essere pure il rifacimento eseguito a seguito della raggiunta autonomia e rifatta in buona parte a seguito della 149 Valdidentro STORIA PAESI GENTE del Buon Consiglio. La venerazione della B.V. del Buon Consiglio ha inizio nel 1467, quando nei pressi di Roma su di un’antica chiesa appare miracolosamente un’immagine della Madonna che la tradizione afferma essersi staccata da una chiesa di Scutari in Albania all’arrivo in quella terra dei mussulmani. L’immagine a seguito di questo evento venne fortemente venerata ed il suo culto si diffuse pure in Valtellina. La chiesa di Semogo in un inventario del 1796 viene descritta essere “ … in condizioni cattive, di disegno antico eccetto il coro qual’è fatto di fresco”. didascalia autonomia ottenuta da Pedenosso nel 1624. I lavori di miglioria eseguiti intorno alla metä del XVII secolo, provvidero ad innalzare ed intonacare i muri, a rifare la pavimentazione e venne pure eseguita la loggia interna. Molti arredi ed ornamenti eseguiti in questo periodo provvidero ad arricchire la chiesa, e fra questi degni di nota sono i due altari lignei, che ancor oggi sono custoditi negli altari laterali della chiesa. L’ancona della Beata Vergine Maria fu eseguita da Giovan Battista Scher, artista trentino che realizzo’ l’opera nel 1724. Attualmente l’ancona, a forma di tempietto, nella nicchia centrale ospita la statua del Sacro Cuore ed ai lati su di una mensola stano le statue di S. Antonio abate e di S. Luigi Gonzaga. Al 1765 risale l’ancona della Beata Vergine del buon Consiglio, opera del tirolese Mathias Peder ed indorata dal bormino Fogaroli. L’altare, composto da pilastri e colonnine tortili, presenta ornamenti raffinati e al centro conserva la statua della Beata Vergine 150 La chiesa era inoltre insufficiente ad ospitare la popolazione di Semogo per cui si decise di ampliarla. Nel 1832 si diede inizi alla costruzione della nuova chiesa mantenendo della vecchia solo il coro e parte di un muro. L’edificio completamente rifatto servi’ per pochi anni. All’inizi nel XX secolo si decise la costruzione di un nuovo edificio che doveva essere piu’ ampio del precedente. Nel 1930 si diede inizio alla costruzione della nuova chiesa su progetto Moioli-Zanchetta di Milano. Nonostante fosse ferma intenzione dei Semoghini mantenere il vecchio campanile, la precaria stabilità ne decreto la demolizione. Forse fu proprio questo fatto a dar vita alla leggenda della sparizione del campanile di Semogo. Tra le espressione di devozione a Semogo è interessante ricordare cosiddetti “Santi del Sole”. Purtroppo la venerazione ed il culto degli stessi è oggigiorno svanita, ma un tempo, quando l’andamento climatico determinava la sopravvivenza della i Paesi comunità, il culto di questi santi era di aiuto, quantomeno spirituale. I “Santi del Sole” sono le reliquie dei Martiri Urbana, Modesto, Paziente e Celestino, donati alla parrocchia di Semogo nel 1736 dal sacerdote Giorgio di San Bernardo. Le reliquie di questi santi, custodite in 4 urne di legno intagliato e dorato, venivano portate in processione e venerate quando il persistente maltempo minacciava i raccolti e la necessità di sole e caldo era indispensabile per il buon andamento dell’attività agricola. Di pertinenza della parrocchia di Semogo è la chiesa di Maria Assunta Arnoga, realizzata ad uso del seminario di Como che ad Arroga dispone di una casa per le vacanze. Sebbene l’edificio non presenta caratteri artistici di nota, è bene ricordare che ü qui custodita l’ancona proveniente dalla chiesa dei SS. Martino ed Urbano di Pedenosso. L’ancona opera dell’artista trentino Giovan Battista del Piay, collocata nella chiesa nel 1955, risale alla prima metä XVIII secolo. ü realizzata in legno, dorato , realizzato. L’insieme, sia nella parte decorativa che nelle statue della Vergine che di S. Antonioe di una santa, ü armonico e ben proporzionato. Didascalia 151 i Paesi SAN CARLO La bella chiesa dedicata a San Carlo Borromeo in località Arnoga venne costruita a seguito di un voto fatto dalla popolazione al fine di contrastare una brutale epidemia di peste che all’epoca infieriva nella Valdidentro. A seguito del voto fatto, si diede inizio alla costruzione dalla chiesa nel 1636, intitolandola a S. Carlo Borromeo, santo invocato contro la peste insieme con S. Rocco e S. Sebastiano, santi contitolari della chiesa. I tre santi godettero di grande venerazione in tutto il bormiese, a motivo di questo basta pensare alle numerose chiese ed altari che in tutta l’alta valle troviamo loro dedicati! S. Rocco nacque a Mintpellier in Francia nel XIV secolo. Mentre si trovava in pellegrinaggio verso Roma scoppio’ una spaventosa epidemia pestilenziale. Rocco non si intimori’ e lungo il suo cammino presto’ soccorso agli ammalati diffondendo cosi’ la sua fama di taumaturgo. Egli stesso colpito dalla peste, venne curato da un angelo mentre un cane quotidianamente gli portava del pane. Il santo, raffigurato tipicamente negli abiti da pellegrino, con la tipica mantellina che da lui prende il nome, la sanrocchina, mostra la piaga pestilenziale sulla gamba, ed è spesso accompagnato dal cane che tiene in bocca un pezzo di pane. S. Carlo Borromeo (1538-1584) fu arcivescovo di Milano e grande sostenitore dell’attuazione dei decreti tridentini. Persona pia e devota, ricordata per i suoi digiuni, per la carità verso i poveri, per l’ordine che riporto’ nella chiesa, fu invocato soprattutto contro il morbo pestilenziale. Memorabile fu infatti l’opera da lui svolta ed il soccorso da lui prestato in occasione della peste di Milano degli anni 1576-77, tuttora detta “peste di S. Carlo”. L’arcivescovo quotidianamente visitava il lazzaretto e provvedeva ai bisogni degli appestati. Rimanendo S. Carlo immune dal contagio, nonostante la diretta esposizione al morbo, il Santo venne in seguito invocato contro la peste. Originariamente sulla facciata della chiesa si trovavano le effigi di S. Rocco e di S. Sebastiano, dei quali dipinti non si conserva piu’ alcuna traccia. didascalia S. Sebastiano visse tra il III e IV secolo e subi’ il martirio all’epoca di Diocleziano. Sottoposto al supplizio delle frecce ne usci’ vivo. La credenza popolare associo’ le frecce alla peste invocando il santo che aveva sconfitto quel male ogniqualvolta un’epidemia minacciava il popolo. 153 Valdidentro STORIA PAESI GENTE I lavori di costruzione della chiesa di S. Carlo furono piuttosto lunghi e la chiesa venne ultimata solamente intorno al 1660; nel 1688 venne realizzata la sagrestia, mentre l’elegante torre campanaria venne ultimata intorno al 1675. L’esterno della chiesa è semplice, ma raffinato ed il campanile terminante con una cupola ottagonale, conferisce all’edificio un carattere baroccheggainte. didascalia L’interno è ad aula unica e la navata è delineata al di sotto dei finestroni da un cornicione in stucco dentellato. Elemento di pregio di tutta la chiesa è indubbiamente la grande ancona lignea che domina l’altare maggiore. L’opera fu realizzata dall’intagliatore tirolese, abitante a Bormio, Giovan Battista Scher attivo all’epoca in vari cantieri dell’alta valle. Quattro eleganti colonne, due delle quali tortili, sono raccordate al sommo da un mensolone sovrastato da due angioletti tra i quali si trova la statua della Vergine. Ai lati delle colonne, su di una mensolina, sono state recentemente aggiunte le due statue, di buona qualità artistica, raffiguranti S. Rocco che mostra il bubbone pestilenziale, e S. Sebastiano colpito dalle frecce. L’ancona custodisce al centro una pregevole tela raffigurante S. Carlo con la Vergine, tela che in origine si trovava nell’altare di S. Antonio della chiesa di S. Abbondio di Semogo. Il quadro ritrae S. Carlo come di consueto con la mantellina cardinalizia rossa. La sua fisionomia è caratterizzata da un naso aquilino importante. Il santo è inginocchiato e davanti a se’ ci sono i tipici attribuiti iconografici che lo accompagnano: il libro per la meditazione, il teschio, il crocefisso quale segno della devozione che S. Carlo promosse a Cristo crocefisso, ed il pastorale. Al culmine della tela un’arcata inquadra la Vergine che, poggiando su nubi, amorosamente regge il Bambino. Tutt’attorno angioletti e testine di cherubini. Ignoto è il nome dell’autore della tela. i Paesi SANTI MARTINO E URBANO A PEDENOSSO Ricca di fascino appare al visitatore la chiesa dedicata ai santi Martino ed Urbano di Pedenosso. Il fascino di questo luogo del sacro è garantito non soltanto dall’ambiente suggestivo circostante la chiesa, ma pure dalle vicende storiche e dalle incognite relative alle origini dell’edificio. Molti storici, considerando la particolare posizione che la chiesa occupa al di sopra di uno sperone roccioso a guardia di tutta la valle, hanno supposto per S. Martino un’origine di “fortezza militare”. Molte sono le ipotesi che fanno supporre ad un originario fortilizio. Innanzitutto la dedicazione a S. Martino, santo soldato tanto caro nel medioevo, deputato al controllo ed alla tutela dell’intera valle. Pure la presenza della possente cinta muraria che attornia l’intera chiesa lascia pensare ad una vera e propria fortezza. Da ultimo va considerata la posizione dell’edificio, significativamente posta a lato di quella che un tempo era la via per la val Fraele, ch conduceva verso l’Engadina, percorso molto trafficato sin dall’epoca medievale per transiti di merci, di persone e di idee. Dunque S. Martino presenta e riassume in sé molti degli elementi tipici delle fortezze medievali. tutta la Valdidentro, un tempo detta “val de Pedenos”. (per grafia dialettale esatta sentire Marcello) E’ proprio nel 1453 che S. Martino diventa parrocchia autonoma, staccandosi dalla chiesa madre dei santi Gervasio e Protasio. Anche per Pedenosso, come per altri centri di rilievo della Valdidentro, l’autonomia da Bormio appare una richiesta piu’ che legittima se consideriamo la distanza che separa i due centri, il clima rigido invernale che rendeva difficoltosi gli spostamenti, la penuria di mezzi e tutte quelle difficoltà materiali che si incontravano nello spostarsi a quell’epoca sino a Bormio. Sebbene la prima separazione avvenne alla metà del XV secolo, il riconoscimento di autonomia totale fu confermato nel 1571 e il titolo definitivo arrivo’ solamente nel 1624. L’agognata indipendenza da Bormio si ottiene in un periodo particolarmente difficile della storia di S. Martino. I primi anni del XVII secolo furono infatti sconvolgenti e didascalia Comunque siano le origini, i documenti archivistici dicono che la prima citazione della chiesa sia da ricondurre al 1334, quando negli statuti bormini si accenna al trasporto della santa Croce. S. Martino è inoltre citata in alcuni altri documenti trecenteschi, per poi essere nuovamente ricordata nel 1453. Questa data rappresenta una tappa fondamentale per l’intera comunita’ di Pedenosso, allora centro principale di 155 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia Valdidentro STORIA PAESI GENTE 160 devastanti a seguito delle guerre di religione che avevano duramente colpito la Valtellina. Le guerre Seicentesche, laceranti, unite alle epidemie pestilenziali, provocarono immensi danni a cose e persone e non risparmiarono neppure la chiesa di S. Martino. Questa venne utilizzata addirittura quale stalla per il ricovero dei soldati e dei cavalli! Come consueto la guerra lasciò dietro di sè distruzione e penuria di ogni genere tanto che il parroco Viviani, che resse la parrocchia di S. Martino a partire dal 1665, si trovò sconfortato davanti a tanta devastazione. Fortunatamente in breve tempo la popolazione di Pedenosso, con la tenacia e la fermezza che caratterizza la gente di montagna, si attivò per la ricostruzione di S.Martino e per riportare la chiesa al meritato lustro e decoro. La chiesa tutta venne consolidata, vennero rifatti il tetto, la sagrestia, il cimitero; l’antica chiesa fu quasi completamente rinnovata conferendo alla nuova un aspetto che meglio si adattava alle esigenze di culto e di gusto dell’epoca. Il frutto di tutti quei lavori è ciò che noi possiamo ammirare oggigiorno: grazie soprattutto ad un recente restauro che ha saputo abilmente e coscientemente recuperare l’antica chiesa, godiamo ora a S. Martino di un insieme armonioso, che invita alla spiritualità, al raccoglimento. Molte furono le maestranze attive dopo la metà del seicento per il recupero della chiesa. Fra questi è doveroso ricordare i fratelli Michele e Melchiorre Cogoli, abili intagliatori del legno, provenienti dalla Val di Non dove ricevettero la loro formazione artistica. I due nel 1666 lavorarono all’ancona per l’altare dedicato alla Vergine del Rosario, la loro prima opera nota, indorata sucecssivamente dal bormino Giovan Pietro Fogarolli. Si tratta di un altare ligneo riccamente decorato formato da due colonne tortili con motivi vegetali che racchiudono una nicchia all’interno della quale sono custodite le statue della Vergine con il Bambino, S. Valdidentro STORIA PAESI GENTE Caterina che riceve la corona del rosario da Gesu’, mentre la Madonna ne porge una a S. Domenico. L’altare dorato è completato da un pregevole paliotto in scagliola raffigurante la Vergine attorniata da due grandi ed eleganti anfore colme di fiori eseguiti in modo preciso e raffinato. Ignoto è il nome degli artisti attivi all’altare di sinistra, dedicato al Sacro Cuore, pure se per tratti stilistici e raffinatezza parrebbe opera degli stessi Cogoli. Sulla parete di destra, tra le due cappelle laterali, si impone l’organo realizzato a partire dal 1898 (casa Organaria Mascioni ). La decorazione fu esegiota del cosiddetto Castrin, Gervasio Bradanini artiere di Pedenosso, che con maestria seppe conferire all’insieme grandiosità e raffinatezza al tempo stesso. Altro elemento di pregio che ancora S. Martino ci preserva è il raffinato soffitto a cassettoni, risalente al 1678; è questo un raro esempio di quella che un tempo era la soffittatura caratteristica di tutte le chiese della vallata, cosi’ come tipico era un tempo il loggiato che ancora si conserva a S. didascalie 162 i Paesi Martino, utilizzato allora dai soli uomini. Se le navate della chiesa conservano opere d’arte raffinate e pregevoli, come la tela raffigurante S. Lucia con un gruppo di Disciplini, è la parte absidale che accorda all’insieme un senso di profonda armonia e pace. La parte absidale è completamente affrescata con dipinti dai colori caldi e raffinati. E’ questa opera di Giovanni Giorgio Telser di Sluderno, artista molto attivo in tutta l’alta Valtellina nella seconda metà del Settecento, autore pure del dipinto raffigurante S. Martino che divide il mantello con il povero raffigurato in facciata. A lui si devono le pitture absidali che tanto colpiscono lo spettatore. Il Telser, con le sue immagini di gusto schietto ed autentico ci racconta per immagini le vicende dei santi titolari e tale e tanta è la resa che il visitatore si sente parte degli eventi narrati. Sulle pareti sono ritratti i santi titolari della chiesa: S. Martino in agonia e S. Urbano – riconosciuto quale santo contitolare della chiesa in dopo il 1624 - in atto di battezzare Valeriano, marito di S. Cecilia. Sulla volta sono ritratti S. Urbano, la Trinità, S. Martino e la visione di S. Martino. La fronte ed i fianchi absidali propongono i Padri della chiesa, l’Annunciazione e la rivelazione dell’angelo a S. Giuseppe, mentre sull’arco trionfale da un lato vi è un’allegoria della Fede a dall’altro Mosè con le tavole della legge. quasi desertico dove la pianta con il serpente avvinghiato occupa il centro della scena. Sulla destra è ritratta Eva, con sguardo malizioso, in atto di assaggiare il frutto proibito, mentre a sinistra un muscoloso Adamo dai tratti rustici è colto nell’atto di carpire la mela dall’albero. L’apprezzabile dipinto, riconducibile al XVI secolo, è attribuito all’artista locale Antonio Canclini. L’ancona dell’altare maggiore nasconde completamente allo spettatore un affresco rinvenuto a seguito del recente restauro; si tratta di una raffigurazione di Adamo e d Eva in atto di cogliere la mela proibita. I due personaggi, dall’aspetto rustico e popolare, si trovano in un ambiente Interessante è pure l’ancona posta sull’altare maggiore che custodisce una tela realizzata dal valtellinese Giambattista Piccioli (1825). Il dipinto ritrae uno dei miracoli di S. Martino, ossia l’incendio al trono dell’imperatore Valentiniano avvenuto a seguito di un rifiuto dello stesso ad didascalia 163 Valdidentro STORIA PAESI GENTE accogliere in udienza S. Martino. La sena è ricca di colore e narratività e ben si integra nel complesso artistico dell’intera abside. Se l’interno della chiesa cattura lo spettatore per la raffinatezza e la grazia dell’insieme, l’esterno si presenta come altamente suggestivo: oltrepassata la scalinata d’accesso il visitatore si trova di fronte ad un antico loggiato coperto che domina l’intera valle, che un tempo fungeva da cimitero come ancora ci testimonia l’immagine scheletrica della morte qui affrescata. Tutt’attorno la chiesa corrono le stazioni della via crucis definite da semplici Croci, sanguinanti in corrispondenza delle braccia; un cartiglio specifica il numero della stazione ed il nome della famiglia che la fece eseguire. 164 i Paesi SAN ANTONIO DI SCIANNO, SAN ERASMO, SAN GIACOMO DI FRAELE Sin dal XIV secolo la “strada lunga per Venosta”, ossia quella che verrà poi designata quale strada regia e più tardi ancora quale via Imperiale d’Alemagna, da Bormio raggiungeva la Valdidentro passando accanto a molti edifici sacri, per spingersi verso la valle di Fraele e raggiungere gli insediamenti transalpini. Lasciata la chiesa seicentesca dell’Addolorata, la strada giungeva presso l’antica chiesa dei santi Martino ed Urbano di Pedenosso per inerpicarsi verso la valle di Fraele. costruita la chiesa dedicata a S. Antonio abate. Si tratta di una semplice chiesa a navata unica alla quale è stato aggiunto un corpo laterale. La chiesa ha il carattere tipico alpino, con tetto a spiovente, facciata con portale d’ingresso intagliato, sovrastato da un finestrone, mentre altre due finestre affiancano la porta. La chiesa non ha campanile, ma una campana è retta da un modesto Una deviazione del cammino verso ovest, conduceva alla contrada di Scianno, dove si trova ancor’oggi la chiesa dedicata a S. Antonio (XVII secolo). Secondo la leggenda ricordata nelle “Memorie per servire alla storia ecclesistica di Bormio” dello storico Iganzio Bardea, nel 487 S. Antonio Levinese provenendo dalla Germania verso il bormise, passò dalla strada di Fraele ed in memoria del santo fu didascalie 165 Valdidentro STORIA PAESI GENTE cavaliere. L’interno è semplice, la parte absidale presenta sulla volta i dipinti affrescati dei 4 Evangelisti e alcuni angioletti. Un’ancona di gusto barocco composta da due colonne tortili colorate e timpano, predispongono lo spazio per alloggiare, entro una nicchia, la statua raffigurante S. Antonio abate. Tornando verso il cammino per Freale la strada raggiunge poi le torri omonime. Anticamente il cammino saliva dalla vallata in corrispondenza dei due fortilizi e l’impervio burrone veniva oltrepassato grazie alle cosiddette “Scale di Fraele”. Le torri, massicce ed imponenti guardie della Valle, vennero erette nel 1391 con evidente scopo difensivo. didascalia Prima di raggiungere il lago di Scale si trovava sino a pochi decenni or sono la piccola chiesa costruita all’inizio del XIX secolo e dedicata a S. Antonio da Padova. La dedicazione allo stesso S. Antonio da Padova è stata assegnata alla nuova chiesa dall’impianto architettonico di gusto moderno recentemente realizzata in località ?????????????????. Oltrepassato il lago di Scale anticamente lo spettacolo che si presentava al viandante doveva essere davvero grandioso: un’estesa vallata ricca di pascoli, circondata da monti ricchi di ferro. Questa valle è stata completamente sommersa dalle due dighe, quella di S. Giacomo (terminata nel 1950) e successivamente da quella di Cancano (1956). i Paesi 167 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia Anticamente la valle era abitata e frequentata da viandanti e commercianti diretti verso la Val Monastero e l’Engadina, i quali potevano trovare ristoro e conforto nell’insediamento di S. Giacomo, dove si trovavano, oltre alla chiesa, l’”hospitale” detto anche “Hostaria” ed un gruppo di abitazioni. L’osteria era deputata ad accogliere e ristorare i numerosi viandanti e pellegrini che preferivano questa via di transito al cammino dell’Umbrail, piu’ breve, ma certamente piu’ difficoltoso da percorrere. Il nucleo risulta esistente sin dal XIII secolo. Da antiche fotografie apprendiamo che la chiesa dedicata a S. Giacomo era ad aula unica, con tetto fortemente a spiovente, svettante campanile e loggiato interno definito nella volta di sostegno da accentuate nervature, elemento stilistico che si ritrova pure a S. Gallo e a S. Giovanni di Molina. Dell’antica chiesa non rimane nulla, se non gli scheletrici resti del campanile che è ancora visibile quando l’invaso di S. Giacomo è asciutto. L’antica chiesa, importante fulcro dell’assistenza spirituale dei viandanti, è stata sostituita con l’attuale chiesa di S. Giacomo, edificata negli anni Cinquanta in prossimità del passo di Fraele, dall’AEM. La stessa AEM realizzo’ nel 1934 la prima chiesa dedicata a S. Erasmo, a sostegno spirituale di quanti si trovavano impegnati nei lavori di costruzione dell’erigenda diga di S. Giacomo. A seguito della realizzazione della diga di Cancano la piccola chiesa fu letteralmente smontata ed esattamente ricostruita pietra per pietra, in località Solena. (?) La chiesa si impone allo spettatore per la ricca cancellata in ferro battuto, interrotta da gruppi di 4 colonnine tortili. L’unico spiovente dell’edificio termina al culmine con un cavaliere che funge da torre campanaria. L’interno ha unica navata, con catino absidale impreziosito dal dipinto raffigurante l’ultima cena, sovrastata da Cristo Buon Pastore. La chiesa custodisce il quadro dedicato alla “Madonna dei Cantieri”, raffigurante la Vergine con il Bambino in braccio in atto di benedire, S. Giuseppe ed una Santa. Sebbene recentemente realizzate, le due chiese della val Fraele rappresentano simbolicamente la memoria della vallata, ci ricordano le fiorenti attività che sin dal medioevo caratterizzavano la valle e sembrano parlarci di ricchi eventi storici, di battaglie, di transiti, di attività artigiane, insomma di tutta un’intera civiltà che il luogo, nonostante i suoi quasi 2.000 metri di altitudine, seppe tenacemente coltivare e mantenere a beneficio dell’intero Contado di Bormio. 168 laG ente Usi e costumi della Valdidentro Il carattere Dopo aver attraversato la val di Campello, confine sovrano del territorio di Bormio, ci si inoltra nella Valdidentro e poco a monte dello svettante campanile della chiesa di san Gallo, ci si imbatte nel primo piccolo aggregato della vallata: Molina. I suoi abitanti sono ancor oggi da qualcuno nominati i Sg’birài o i Sg’biràglia ossia gli sbirri. Il termine è secondo il volgo collegato a un fatto storico. Si racconta che durante le guerre ottocentesche d’indipendenza gli stranieri (gli sbirri) furono subdolamente allietati e intrattenuti dalle belle fanciulle del posto. L’espediente servì per vincere la battaglia e agli abitanti di Molina rimase accollato lo strano nome richiamante gli sbirri che furono gabbati. Il soprannome che contraddistingue i premaiotti (quelli di Premadio) è i penèglia perché si dice fossero abili lavoratori di zangola (la penèglia), attrezzo per la produzione del burro. Premadio è sempre stato considerato il paese rosso della Valdidentro, per i suoi atteggiamenti libertini e anche un po’ anticlericali. Quando c’era l’occasione di organizzare una festa tra amici o coscritti ci si ritrovava in Premadio dove tutto era concesso… Di più difficile interpretazione e risalente a chissà quale epoca sono le denominazioni accollate alle due piccole frazioni che si incontrano sul piano dopo aver superato l’ascesa di Premadio: i grép (i cani) di Turripiano e i cazét (i mestoli) de Palancàn (praticamente gli abitanti di Sughét). Gli abitanti di Pedenosso o pedenosseri, presentano due diversi appellativi: Sg’dreción o straccioni e platòr, toponimo che indica una località sopra il Sasso di Scianno. Quelli di Isolaccia sono detti cozìn e presentano il nomignolo più curioso in quanto a significato. Secondo alcuni l’appellativo trarrebbe origini da certi nomi antichi; la versione del volgo è certamente più colorita e anche la più cristallizzata tra le genti della vallata. Gli avi raccontavano che gli abitanti di Isolaccia erano negativamente famosi per possedere vacche che producevano poco latte ossia vaca cóza, mucche che si possono mungere da una sola mammella. Gli abitanti dei paesi vicini, riscontrando in più di una donna di Isolaccia la presenza di un seno poco prosperoso (fömena plata cóme sc’càndola, donne piatte come assicelle per i tetti), traslarono il termine dagli Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con diverso orientamento nel 1938. Valdidentro STORIA PAESI GENTE animali alle femmine. La conseguenza inevitabile fu che il nomignolo fu accollato a tutti quelli del paese, indifferentemente dal sesso. I semoghini sono invece conosciuti con due soprannomi: i buSgiàdri, i bugiardi, o i cögliòla o chigliòla. Quest’ultimo termine trae forse origine da cöglia o chéglia, supporti tra i pattini e la base d’appoggio della slitta (la lölZa); i semoghini erano infatti orgogliosi di essere tra i migliori costruttori di slitte di tutta la Valdidentro. didasclia La presenza di tutti gli appellativi sopra citati, spesso anche con risvolti offensivi, sono la chiara espressione di caratteri estremamente diversi e rivelano la presenza di profonde divergenze e contrasti tra i vari villaggi. Mai nessun semoghino avrebbe, fino a non molti anni fa, sposato una cozìna e viceversa. Ancor oggi gli abitanti dei due villaggi si rinfacciano reciprocamente la frase: I cozìn (o i semoghìn) i én prèt o asciascìn. Gli abitanti di Isolaccia (o i semoghini) sono preti o assassini. Gli abitanti di Pedenosso mantengono certi atteggiamenti di superiorità nei confronti dei cozìn solo per il fatto che la parrocchiale di san Martino e Urbano ebbe per più di un secolo il sopravvento sotto il punto di vista ecclesiastico sulla chiesa di Isolaccia. Ancor oggi alcuni anziani raccontano con orgoglio e una sottile ironia: I cozìn i vegnìen su ne la géSa de Pedenòs a tör i sc’tendàrt per fér li proscisción... Gli abitanti di Isolaccia venivano su nella chiesa di Pedenosso a prendere gli stendardi per fare le processioni... Il campanilismo esistente tra i vari villaggi si estrinseca anche in certe espressioni dialettali che divengono oggetto di derisione. I cozìn ridono quando sentono pronunciare dai semoghini il termine puSgiöl per indicare il balcone e lo stesso fanno i semoghini sentendo nominare al pontì dagli abitanti di Isolaccia. Altri termini sono causa di sberleffo: al neót, li ghilìna e al camp sostantivi usati in Isolaccia diventano al naót, li galìna e al chèmp e in Semogo. Sotto il punto di vista dialettale i premaiotti si scostano parzialmente dalla tipologia della vallata riflettendo in parte il dialetto di Oga e della Valdisotto per quel chiglià (che significa qui) ormai scomparso e che pochi ancora utilizzano. 174 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 176 La Valdidentro ha conservato, fino a non molti decenni fa, l’arcaicità del suo dialetto, caratterizzato da una pronuncia stretta e dalla presenza di una ridondante erre rutilante. Il passare del tempo, il mescolamento delle razze e la progressiva tendenza all’italianizzazione sono fattori che hanno concorso alla perdita progressiva di queste caratteristiche. La cristallizzazione dell’antica forma dialettale si riscontra più facilmente, se non in qualche anziano, nelle persone che sono emigrate da parecchi anni in luoghi lontani dal loro paese natìo. Colloquiando con loro in occasione di ritorno ai propri luoghi d’origine magari per soggiorni vacanzieri, è possibile riscontrare che il dialetto non ha subito alcuna corruzione. la G ente Il ciclo della vita La nascita e l’infanzia Prima della nascita. P Le donne della Valdidentro diventavano e diventano potenziali madri all’età di 14 o 15 anni, e la comparsa del primo ciclo era, fino a qualche decennio fa, un dramma per la giovane fanciulla. La madre diceva semplicemente alla figlia spaventata: Ésa t’ésc fömena. Adesso sei donna. Sc’tremìscet mìga, che te vedrèsc, al te sucederè tüc’ i més. Non spaventarti, perché ti accadrà tutti i mesi. L’evento veniva di solito nascosto alla madre, con la quale la figlia non aveva alcun tipo di confidenza. Rosina d’Isolaccia, parlando di questa scarsità di dialogo che intercorreva tra madre e figlia, diceva: La mìa mama la m’è mài sc’pieghè gnént, la me diSgéa nóma: Avé al sant timór de Dìo! Mia madre non mi ha mai spiegato nulla, mi diceva soltanto: Abbiate il santo timore di Dio! La madre raccomandava alle figlie ormai già cresciute de miga parlèr de quìli bruta ròba gliè, di non parlare di quelle brutte cose. Le mestruazioni non venivano mai chiamate con il loro nome scientifico, ma si usava un gergo speciale, formato da sostituti e eufemismi, per nascondere quell’evento ritenuto quasi vergognoso: Al gh’é vegnì li sóa ròba, i séi lór, al marchés, i séi córz, i séi mesc’téir, i séi afàri, al meSìn. Questo costume di celare sotto varie locuzioni un fenomeno naturale e la vergogna che prendeva le giovani fanciulle nel constatarlo trova la sua origine nel concetto di impurità da cui era circondata la donna mestruante fin dai tempi biblici. Nel periodo del catamenio e in quello della gestazione la donna si riteneva impura e per questo aveva influssi negativi su molte cose. Non doveva toccare piante o fiori perché altrimenti sarebbero rinsecchiti, non doveva entrare nell’orto a raccogliere l’insalata perché sarebbe appassita e non poteva, all’uccisione del maiale, insaccare e toccare i salamét, sedenò i diventàan caf, ossia si sarebbero svuotati all’interno e quindi andati a male. didascalia 177 didascalia 178 La fecondità era ritenuta una grazia della “provvidenza” mentre al contrario, la sterilità, era simbolo di punizione. Emblematico il commento maligno della gente del villaggio di Semogo, a proposito una donna non dava alla luce dei figli: Al vòl dir che al Signór al vòl gnènca laghér la raza. Significa che Dio non vuole che di quella famiglia si formi discendenza. In senso dispregiativo, una donna che non aveva figli era definita sc’tèrla, ossia sterile, mentre l’uomo era marchiato col termine sc’terlùch. L’impossibilità di avere figli veniva combattuta anche con la preghiera e la devozione a San Colombano. Le coppie che avevano difficoltà a procreare si recavano in pellegrinaggio fino alla sperduta chiesetta in cima alla montagna, dedicata al santo monaco irlandese. Si racconta che un abitante di Premadio, per avere figli, si recò pregando e a piedi scalzi dal suo villaggio alla soglia di quella chiesa e il suo desiderio fu talmente esaudito che sua moglie in seguito portò alla luce ben sei pargoli. Tra le molte anche una coppia di Isolaccia che non aveva figli si spinse, sempre a piedi scalzi, dal piccolo paesino della Valdidentro fino a San Colombano per chiedere la grazia. Un’altra donna di Isolaccia, dopo essersi recata fino alla chiesa partendo a piedi scalzi da Sughét (frazione tra Premadio e Isolaccia), ricevette la grazia riuscendo a partorire otto figli. Questa diceva scherzosamente in giro, che era pronta a ripartire verso la cima della montagna per chiedere una seconda grazia, quella che fosse interrotta la magnanimità di san Colombano. Varie erano le locuzioni che nella Valdidentro esprimevano la gravidanza. A Premadio in base alla presenza di una certa peluria che cresce sul viso della donna, correva il detto: Quéla lì la bùta al pél. A Isolaccia una donna che diveniva panulénta, lentigginosa, secondo la credenza popolare faceva sicuramente trasparire la sua gravidanza. Quéla fömena l’é in càmpo o l’é iglieré, si aggira nei pressi, era un modo di dire dei cozzini (abitanti di Isolaccia) per indicare una futura madre. A Pedenosso si diceva l’é iè dré. La fömena in crómpa, la donna incinta, era oggetto di particolari attenzioni e prescrizioni. Tra i vari accorgimenti i diSgiön a li fömena in crómpa de mìga de ir su la dìa del fégn cór che 'l còsc, dicevano alle donne gravide di non salire sopra la stipa del fieno mentre questo stava fermentando. Il fieno in queste condizioni avrebbe potuto esalare vapori malefici per il feto. Inoltre si raccomandava de miga indiér al fégn e de mìga Sg’longhér su i brèc’ a sc’ténder, di non accatastare il fieno con il tridente nel fienile e di non allungare le braccia a stendere i panni. La donna gravida doveva porre attenzione de miga sc’pazér al còrch de li béscia, di non introdursi a pulire il recinto nella stalla riservato alle pecore, la G ente didascalia 179 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 180 perché l’odore dello sterco poteva causare danni al nascituro. La donna gravida non doveva assolutamente uscire di casa dopo il suono dell’Ave Maria della sera. Si diceva che il nascituro avrebbe subìto l’influsso malefico delle megere vagolanti nell’aria e sarebbe potuto diventare anch’esso, a seconda del sesso, strega o stregone. La donna non doveva vedere incendi, perché altrimenti il figlio sarebbe nato con il viso cosparso di macchie color fiamma (li vöglia). Doveva porre particolari attenzioni a non incontrare persone deformi, perché tali deformità sarebbero ricadute sul nascituro. La credenza si basava sul fatto che se le donne gravide, qualora fossero state prese da sc’felént, desiderio di qualcosa, si fossero toccate, avrebbero potuto segnare come per riverbero il bambino che portavano in grembo: questo sarebbe cioè nato portando sul corpo una traccia (voglia) che, per il suo colorito e la sua forma, avrebbe rappresentato, benché vagamente, la cosa che la madre aveva desiderato. Inoltre alle donne gravide era vietato assistere all’uccisione del maiale per due motivi: sia per non condividere in qualche modo l’atto cruento, sia per non veder scorrere il sangue. Era vietato alla futura madre vedere persone o animali deformi dai quali potesse esserne negativamente suggestionata. Perciò una donna incinta non doveva soffrire la vista di gobbi, storpi, assistere moribondi e visitare morti, per non rischiare di partorire un bambino gobbo, mutilato o affetto da pallore cadaverico. Si affermava inoltre che, se la donna gravida avesse portato al collo matasse di cotone, di fili, di lana annodata, collane o catenine, avrebbe dato alla luce un bambino con il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. Spontaneo nelle donne della Valdidentro era il desiderio di conoscere il sesso del nascituro. Le previsioni del sesso si ricavano ancor oggi dalla forma del grembo materno: se la madre presenta il ventre gonfio verso l’alto e con rotondità omogenea sarà un maschio, se invece presenta il ventre «in punta» verso il basso sarà una femmina. Infatti correva il detto: BòSgia guza la và miga in guèra. Pancia aguzza non va in guerra, non sarà chiamata alle armi. Si diceva anche che, se la pancia era «pendula», cadente, sarebbe nata una femmina, se era invece compatta, sarebbe stato un maschio. Anche certi fenomeni fisiologici erano indici validi per scoprire il sesso: se la madre era soggetta a vomiti e nausee si preannunciava un maschietto. Le previsioni venivano anche tratte dalle caratteristiche del viso, che, se diventava scuro, con macchie marroni o cosparso di lentiggini (maschera gravidica), allora si pensava a una bimba. Se invece il viso conservava il suo aspetto naturale, significava che la donna avrebbe dato alla luce un maschio. Una credenza piuttosto semplicistica intorno al sesso del nascituro si riassumeva nel pronostico: Se la luna l’é blanca l’é ómen, se la luna l’é néira l’é fömena. Se la luna è bianca sarà maschio, se nera sarà femmina. didascalia 181 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Didascalia 182 La nascita. L A Isolaccia l’imminenza della nascita di un nuovo piccolo era annunciata al padre in questo modo: Van, perché al cròda la pigna. Va’ in fretta (a casa dalla moglie), perché sta crollando la stufa. Un detto ancor più antico era al cròda l’invòlt, crolla l’involto. Più grossolanamente a una donna che rischiava di abortire si diceva: Mét al cögn, che al salta ó l’invòlt. Metti il cuneo, che sta cadendo la volta. Si tratta di una serie di metafore che collegano tutte queste strutture aggettanti e rotonde come la pancia di una mamma in attesa. A Pedenosso si usava anche ripetere: Quàn che l’é madùr, al cròda al formént. Quando il frumento è maturo, casca. In generale in tutta la Valdidentro quando le donne partorivano si diceva che li Sg’vöidàan al sach, svuotavano il sacco. In questa vallata circolava una curiosa credenza sul prolungamento della gravidanza. La donna rimaneva gravida fino a dieci lune (dieci o undici mesi) se passava sotto la testa di un cavallo. Le madri spaventavano con i loro racconti le figlie primipare descrivendo il parto come un evento dolorosissimo. A Semogo si diceva che alla nascita del figlio al giràa sèt sc’tùa, giravano sette stanze. Il parto avveniva sempre nell’abitazione della gestante e il medico raramente lo assisteva, se non in casi di estrema gravità. Per favorire un buon parto si consigliava di assumere costantemente l’òli de linóSa. L’uso di somministrare olio di semi di lino si ricollega all’antica credenza che l’azione del liquido emolliente potesse rimediare a un parto asciutto e che l’olio facilitasse lo scivolamento del nascituro. Per accelerare le doglie Valdidentro STORIA PAESI GENTE veniva utilizzato un metodo piuttosto grossolano. Veniva preparata una pappa densa di vino e zucchero che si somministrava a cucchiai alle partorienti. Spettava all’ostetrica (la fömena) e ai familiari assistere la donna e procurare il necessario affinché tutto si svolgesse senza problemi. La nascita era legata a una serie di credenze con carattere magico e devozionale. Si credeva fosse particolarmente fortunato quel bimbo che nasceva avvolto nel velo del liquido amniotico e si soleva dire: L’é nesciù co la camìSgia, l’é nesciù visc’tì, l’é nesciù sóta bóna luna, sóta bóna sc’tèla. È nato con la camicia, è nato vestito, è nato sotto buona luna, sotto buona stella. Il velo amniotico veniva chiamato la capùcia de la fortùna. A Isolaccia e a Semogo la placenta veniva bruciata nel fuoco subito dopo il parto, perché era ritenuta una cosa santa e, sotterrandola, poteva diventare preda dei selvàdich (degli animali selvatici) e, in tempi passati, delle streghe che la utilizzavano per comporre i loro unguenti infernali. didascalia Avvenuto il lieto evento, si aspettavano un paio d’ore (per il pericolo di emorragie), e poi era grande festa. A Isolaccia era usanza portare del marsala o del vino con i savoiardi o bisc’cotìn per rinvigorire la puerpera. Tutti i presenti facevano copiosi spuntini a base di salumi nostrani e dolci casalinghi. Prima degli otto giorni di letto raccomandati dalla levatrice, la puerpera cominciava già ad attendere alle faccende domestiche, ma non partecipava mai al battesimo dei figli e, non appena fosse potuta uscire di casa, si recava in chiesa a purifichès co l’àqua santa, secondo il rito cristiano che si richiama alla purificazione della Vergine, celebrato per la Candelora e che, sul piano demologico, sancisce il legittimo reingresso della donna nel cerchio della comunità. IIl battesimo. Nella Valdidentro come in tutto il Contado di Bormio la prima preoccupazione, alla nascita di un nuovo bambino, era quella di battezzare il piccolo il più presto possibile, perché correva l’opinione che, morendo prima del sacramento dell’iniziazione (la mortalità infantile a quei tempi era elevatissima), sarebbe rimasto luterano o protestante (lùter), cioè escluso dalla chiesa. Il bambino, data l’assenza della madre obbligata a stare a letto per ben otto giorni, veniva portato al fonte battesimale oltre che dal padrino (al gudèz), dalla madrina (la gudèza) e dal padre, anche dalla levatrice, che in qualche misura si sostituiva alla mamma. Il battesimo era un momento pregno di superstizioni: ai padrini e alle madrine non era consentito commettere alcun errore la G ente nella recita del Crédo, altrimenti la povera creatura sarebbe stata per tutta la vita tormentata dalle streghe. Sempre per proteggere i neonati dall’influsso malefico delle streghe, si usava nel nostro Contado appendere al loro collo un piccolo ciondolo osseo raffigurante sant’Antonio, segnandoli sera e mattina con la “croce nera”. Fino a qualche anno fa vigeva l’usanza curiosa che la famiglia del primo battezzato con l’acqua nuova, benedetta durante la vigilia pasquale, doveva donare un capretto al parroco del paese. A Semogo questa usanza era definita del bechìn. A Pedenosso vigeva l’usanza curiosa di “agghindare” il capretto come un bambino: gli mettevano la berretta e gli abbottonavano il grembiule senza maniche sotto il ventre. Poi lo portavano in chiesa, lasciandolo libero sul sagrato. A cerimonia conclusa, il sacerdote si prendeva il capretto. Quando i neonati morivano prima d’aver ricevuto il sacramento del battesimo, si diceva che scendessero al limbo. Non veniva svolta per loro alcuna cerimonia funebre e, portato il cadavere al cimitero, si procedeva a una fugace benedizione. La cerimonia si svolgeva la mattina presto o la sera tardi e il corpicino esanime veniva inumato in terra sconsacrata. I giochi. I I giochi dei ragazzi di un tempo erano Didascalia di una semplicità estrema, anche perché la povertà non permetteva di acquistare cose inutili: erano trastulli fatti con poche cose. I giochi delle bambine non erano altro che un’iniziazione ai lavori domestici: cuSìr e fér calza, cucire e fare la calza. Li marcìna li fàan su li pópa de pèza. Le bambine si costruivano da sole delle rudimentali bambole fatte di stracci. I padri e i nonni, nei pochi ritagli di tempo, si ingegnavano a costruire con pezzetti di legno gli animali domestici della casa o della stalla: li vàca, li béscia, i porcéi, i ghèt, le mucche, le pecore, i maiali, i gatti, eccetera. La mancanza di denaro aguzzava l’ingegno e i ragazzi mettendo in moto la loro fantasia realizzavano giochi alquanto curiosi. In riva al fiume bastavano due rametti biforcuti infissi nel terreno e un legnetto munito di pale di legno disposto trasversalmente per costruire dei bellissimi mulini ad acqua. Là, dove i prati si facevano scoscesi, un’escìna, una piccola tavola, o una sc’càndola, assicella di larice utilizzata come tegola per i tetti, poteva essere sufficiente per organizzare lunghe e pericolose 185 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con diverso orientamento nel 1938. scivolate lungo il pendio (li Sg’litaròla). I maschi si divertivano a costruire con le proprie mani le fionde (i tirasàsc, a Premadio i tiracùch) e gli archi, passando magari la giornata intera alla ricerca del ramo che presentasse la biforcazione più adatta e quello più flessibile. I proiettili preferiti consistevano in temelìn, brumolìn e fròSula, cioè le bacche rosse del sorbo degli uccellatori, le piccole prugne selvatiche e il frutto della rosa canina, oltre ai comuni sassi, ritenuti giustamente più pericolosi. In primavera, quando spuntava la foglia sui rami e questi erano ricchi di linfa, i bambini costruivano gli zufoli (i sciblöl) utilizzando il legno dei piccoli salici di fiume. A Isolaccia si giocava alla pòrcola (a Premadio il gioco veniva chiamato la còna). I ragazzi dovevano colpire con i loro bastoni una palla di legno di betulla e farla entrare in una buca nel terreno. A ogni concorrente era assegnata la sua buca, e compito di ciascuno era anche quello di impedire con la mazza che la palla entrasse nel 186 buco degli avversari. Vi era un vero e proprio campo da gioco con buche già predisposte a Póz de Bèta (zona prativa sopra Isolaccia prospiciente le baite di Pézel). Altro gioco diffuso nella Valdidentro era quello dei fiori della bardana che si basava sul fatto che alle loro estremità presentano dei microscopici uncini, i quali conferiscono ai capolini la possibilità di appiccicarsi a qualsiasi superficie pelosa. Questi fiori venivano chiamati a Isolaccia li grignàpola e venivano utilizzati dai ragazzi per giocare e fare dispetti. Se ne raccoglievano un buon numero, tanto da formarne un blocco, che veniva appiccicato sul petto alla maglia. I capolini tondeggianti venivano lanciati a uno a uno organizzando delle vere e proprie guerre e cercando di colpire la parte più vulnerabile del corpo degli avversari: i capelli. Le bambine dalla chioma folta erano le più bersagliate. D’inverno l’arrivo della neve permetteva una serie di altri giochi artigianali. La stessa cartella di legno, foggiata a forma di cassetta, veniva usata come slittino là dove le scuole dei villaggi erano abbarbicate sui pendii, come Semogo e Pedenosso. I bambini di Pedenosso costruivano rudimentali pattini di legno, i Sg’lìper, che legavano alle scarpe con filo di ferro per discendere velocemente lungo il pendio che portava a Isolaccia. Quando poi si andava in bolgésc, ossia sulle bàite di montagna per trascinare a valle con la lölZa, la slitta grande, il fieno o la legna, i ragazzi ne approfittavano trascinandosi dietro i loro slittini. La salita costava molto sudore, ma ne valeva la pena, perché la discesa in mezzo al bosco non finiva mai e si trasformava in una prova ufficiale per saggiare le qualità di provetto guidatore di slittino. Pagina a fronte: Isolaccia a inizio 1900, con la chiesa del ‘500 abbattuta e ricostruita con diverso orientamento nel 1938. la G ente Il fidanzamento e le nozze La difficoltà degli incontri. L Le prime conoscenze amorose tra i giovani comportavano una serie di difficoltà. La paura del peccato, la rigidità della chiesa, l’impedimento dei genitori e le poche possibilità di uscire di casa da sola, portavano la donna a essere timorosa, schiva, a concedersi molto poco e a sfuggire in modo assoluto i rapporti sessuali clandestini. Chiusa tra le mura domestiche la fanciulla passava il tempo fra preghiere e lavoro con vestiti accollati, gonne lunghissime e i capelli raccolti nel redìn, retino, tanto da non concedere nulla allo sguardo maschile. Al suono dell’Avemaria, quando cominciava a imbrunire, qualsiasi fanciulla doveva ritirarsi nella sua dimora. Il parroco di Semogo, in relazione alla possibilità degli incontri che potevano verificarsi tra i pastorelli dei due sessi, definì la stagione estiva come “la vendemmia del diavolo”. Gli incontri avvenivano sempre de sc’fodìgn, di nascosto, lontano da occhi indiscreti. La conoscenza tra i giovani era piuttosto limitata: ci si incontrava con sguardi sfuggevoli durante il lavoro sui campi, in chiesa o dopo i vespri. I primi approcci potevano avvenire in occasione di certe feste particolari. Una tra queste feste era il giro della stella nel periodo natalizio o nel dì dell’Epifania, che rievoca il leggendario viaggio dei Magi guidati dalla Cometa alla grotta di Betlemme per onorare la nascita di Gesù Bambino. Il giro era lungo perché tante erano le case da visitare e perché venivano concesse molte repliche. In questo lungo peregrinare di casa in casa dei giovani vestiti da pastori, gli stellari (così venivano chiamati) c’era anche l’occasione di approfondire conoscenze femminili, cosa piuttosto difficile a quei tempi. Gli stellari potevano così dimostrare i loro amori attraverso il canto soffermandosi più tempo nella dimora dell’amorosa. Là infatti dove la ragazza era più simpatica, l’intrattenimento si prolungava ad arte intercalandone il nome nel canto. La chiamata alla leva poteva essere altra occasione di approccio tra i giovani dei differenti sessi. Infatti spettava alle giovani dei villaggi della Valdidentro confezionare i fiori di carta da donare ai coscritti da mettere all’occhiello sulla giacca e come ornamento delle fronde d’abete che costituivano la volta del carro utilizzato dai coscritti stessi. CCaampanilismo e fidanzamento ufficiale. Un ragazzo che andava ad amoreggiare con le ragazze di un altro paese era mal visto e i suoi incontri con l’amorosa erano spesso osteggiati. Rarissimi erano i matrimoni tra sposi dei diversi paesi della Valdidentro. Per questo gli abitanti di ogni villaggio mantenevano le loro caratteristiche fisionomie. De ISolècia a Semòch l’é mai comparì su ‘na màrcia e l’é pasè cént ègn prima che un semoghìn l’é gì a tör una màrcia a ISolècia. Fino a qualche decennio fa nessuna ragazza cozzina si sarebbe sposata con un giovane di Semogo e altrettanto nessun semoghino avrebbe preso per moglie una fanciulla di Isolaccia. La scoperta anticipata di una relazione, prima del fidanzamento ufficiale, era oggetto di derisione da parte dei giovani del paese. Questi ultimi erano soliti congiungere, nel più profondo della notte, le case dei due innamorati, con una striscia di segatura di legno. La preoccupazione di non Didascalia della foto qui sotto 191 Valdidentro STORIA PAESI GENTE lasciar trasparire alla gente i propri sentimenti portava a scoprire il fidanzamento solamente il giorno del consenso, quando il parroco esponeva al popolo le pubblicazioni in chiesa. In tutta la Valdidentro i futuri sposi difficilmente si presentavano in chiesa in occasione delle pubblicazioni, per sottrarsi alla vergogna di rivelare la loro relazione in pubblico. Le dispute nuziali e l’occultamento L Didascalia della foto qui sotto della sposa. Il giorno delle nozze lo sposo partiva di buon mattino dalla sua abitazione, ricevendo la benedizione con l’acqua santa dai genitori. Il corteo, con in testa lo sposo, affiancato dai padrini di battesimo, si dirigeva verso la casa della sposa. La sposa, nel frattempo, si vestiva e poi veniva nascosta nell’angolo più recondito della casa, mentre i parenti della fanciulla si preoccupavano di sbarrare porte e finestre nel miglior modo possibile, per segregare quanto più a lungo si fosse riusciti il loro splendido fiore, che stava per essere rapito. Nel frattempo allo sposo, che trovava l’uscio sbarrato, venivano proposte dalla finestra le donne più goffe, più vecchie e più brutte del paese. L’uso di presentare la “falsa sposa”, non è che un rito di trapasso, strutturalmente analogo a quello che si riscontra in altre zone d’Italia e d’Europa. la G ente IIn chiesa e le dispute sul sagrato. Dopo le dispute e il ritrovamento della sposa veniva consumata nella casa della sposa una abbondante colazione: la culizión. Nell’attesa che giungesse il tempo di avviarsi alla chiesa, a Isolaccia e Semogo, la sposa distribuiva a tutti gli invitati, secondo una gentile usanza, dei fiori di carta da mettere all’occhiello. I fiori erano di due colori: bianchi da consegnare a tutte le persone illibate (sia maschi, sia femmine), rossi da donare agli sposati. Naturalmente agli sposi spettavano i due fiori bianchi più belli e voluminosi. Didascalia della foto qui sotto Il corteo normalmente arrivava con largo anticipo sull’orario stabilito dal parroco: gli sposi si disponevano nel banco centrale, appositamente addobbato per loro, quindi durante la messa si svolgeva la cerimonia nuziale secondo il rito romano. 193 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Didascalia della foto qui sotto 194 FFuori dalla chiesa. All’uscita dalla chiesa si susseguivano una serie di festeggiamenti; alcuni amici e parenti degli sposi si nascondevano tra i vicoli e gli angoli delle case in attesa del corteo nuziale, per sorprenderlo con spari a salve di fucile e pistola. L’uscita degli sposi dalla chiesa era salutata da una serie di evìva i sc’pós e dalla tradizionale richiesta del bacio. I bambini attendevano con trepidazione il lancio dei minuscoli confetti che la sposa stessa era solita lasciar cadere sul sagrato della chiesa. La sposa, in tempi più remoti, all’uscita della chiesa, fingeva di scappare e, invece di seguire il marito, tentava di ritornare alla propria casa. Era tutta una scena, perché inseguita da quelli che già sapevano della sua falsa fuga, veniva con dolce violenza ricondotta in testa al corteo. La scena richiamava antiche costumanze lombarde che rappresentavano un ritorno in forma solenne della sposa nella casa paterna dopo i primi giorni passati col marito. IIn casa dello sposo e il pranzo nuziale. Terminata la scena sul sagrato, tutto il corteo si avviava verso la casa paterna dello sposo, dove sarebbe iniziato il gran pranzo nuziale. Prima che la sposa varcasse la soglia, si recitava la significativa scenetta dell’incontro con la suocera. Quest’ultima si presentava sulla porta, tenendo in una mano le chiavi di casa e nell’altra una cesta di calze da rammendare e ciò stava a significare che la nuora sarebbe diventata la nuova padrona di casa ma che le sarebbero spettate anche tutte le incombenze relative alla vita domestica. A Premadio la suocera dava la chiave alla nuora e il giorno seguente si recava in chiesa a insegnèghi al banch, ad assegnarle il posto dove avrebbe dovuto sedersi accanto a lei durante tutte le funzioni religiose. Il pranzo di nozze era preparato in casa da un cuoco o da una cuoca e consisteva in poca cosa: risotto giallo come primo piatto e un poco di la G ente carne lessata come secondo (al bòt o montone castrato). Terminato il pranzo, la sposa girava tra gli invitati con una grossa bièla, marmitta di terracotta o porcellana, ripiena di benìsc, confetti, e con un cucchiaio ne distribuiva tre o cinque nelle mani degli ospiti (sempre in numero dispari). Erano i confetti più prelibati: quelli bianchi con le mandorle. Nozze con riti speciali: la serra. N Quando una giovane di un paese della Valdidentro si sposava con un forestiero (considerato tale l’abitante di un qualsiasi altro paese, anche della vallata), costui era costretto a pagare alla Gioventù la cosiddetta serra. Attraverso la via percorsa dalla donna che si recava agli sponsali, veniva teso un bel nastro che sbarrava la strada ai futuri sposi. Il nastro poteva essere reciso solo se il “forestiero” avesse pagato la tassa ai giovani del paese. Un tempo al fianco degli addetti che tenevano il nastro, si piazzavano due ragazzi con gli schioppi (scarichi), pronti a simulare una sparatoria, qualora lo sposo si fosse rifiutato di pagare la serra. A Semogo la serra veniva allestita per tutti, anche per gli sposi non forestieri. Venivano fatte delle vere e proprie barricate che chiudevano la strada, in vicinanza dell’abitazione della sposa. Spettava ai parenti dello sposo il liberare la via, mentre quelli della sposa assistevano senza muovere un dito. Più la barricata era imponente, più la sposa era ritenuta importante e stimata da parte dei membri della Gioventù. Se lo sposo non pagava lo scotto della serra, si sarebbero verificati dispetti a non finire nei confronti degli sposi. Per fare un esempio dei soprusi ai quali potevano andare incontro gli sposi nel caso di mancato pagamento, si cita uno degli articoli del codice della Gioventù di Pedenosso: «Nella dolorosa, triste, lacrimosa evenientia che il sopradetto richiedente dia pertinace rifiuto dopo legale monizione del Consiglio, li Giovani della Magnifica Terra, licite et legaliter, potranno per anni uno e giorni trenta, con principio dalle nozze, fare continua, feroce, triste, dolorosa, tormentosa et dispettosa guerra con qualsivoglia mezzo, modo, maniera, forma et macchinazione di nota et possibile invenzione et in esempio: irrisioni con accompagnamenti di animali vari, praesertim cum asino (specialmente con l’asino), ostacoli, sbarramenti, seminazioni escrementizie, sonagliamenti cum tolis et cornis et similia (scatole, corni et altri arnesi rumorosi), lavaggi et sbroffamenti in cinere, pulvino, in calido et frigido et in extremis etiam in bagnarola (con cenere, pula, a caldo e a Didascalia della foto qui sopra 195 freddo e in casi estremi anche con immersioni in bagno). E altre simili segrete, orribili, diaboliche macchinazioni et invenzioni, secondo quanto prescritto nell’articolo occulto del Codex Poenarum dove si dà specifica et clara (specifica e chiara) notizia delle pene, penitenze, castighi contro li ostinati, pertinaci et contumaci». Si poteva arrivare addirittura allo scoperchiamento del tetto della casa degli sposi. Ancor oggi gli anziani ricordano di uno sposo di Isolaccia che, non avendo pagato la serra alla Gioventù di Pedenosso, fu preceduto da un carretto trainato da un mulo dal quale i giovani del paese scaricavano continuamente sterco accompagnato da segatura che veniva eruttata da un ventilabro. Oppure ancora si rammenta la giornata tormentata di quello sposo di Sughét che non volle pagare la serra ai giovani di Premadio. I futuri sposi nel giorno del loro matrimonio si ritrovarono la strada cosparsa di letame e accolti da quelli della Gioventù muniti di fischietti, trombe e corni. Due latte di spurgo del pozzo nero furono rovesciate ad arte proprio davanti agli sposi e allo stesso modo furono gettate una dozzina di uove putrefatte. Per completare l’opera uno dei più scatenati componenti della Gioventù calò i calzoni proprio davanti agli sposi mostrando loro il fondoschiena. Gli appartenenti a quel gruppo giovanile scrissero a conclusione della movimentata giornata: «Passando pel paese tutti ci acclamarono e ci davano ragione. Arrivati alla tabacchina ancora un bicchiere e poi la compagnia si sfece, contenti di aver sostenuto le usanze tanto care e tradizioni». didascalia La morte AAgonia e decesso. La morte ha ben poco di pauroso per gli abitanti della Valdidentro e viene accettata con la più serena rassegnazione. Alla morte di un bambino commentavano: Ésa che l’é mòrt m’arè un altro angelìn in cél. Ora che è morto avremo un altro angioletto in cielo. L’agonia veniva annunciata secondo un rituale che prevedeva venissero suonati i bòt de l’angonìa. I rintocchi si differenziavano a seconda dell’individuo: se il moribondo era una donna i rintocchi erano quattro, se era un uomo le campane suonavano per cinque volte. Anche la morte era annunciata in modo differente. Quando moriva un infante, le campane suonavano a festa (al sonàa l’alegréza). In morte di un adulto, se uomo, la campana suonava per mezzora, se la defunta era femmina il suono durava solo un quarto d’ora. la G ente A morte avvenuta il defunto veniva composto nel letto con un lungo camicione bianco e poi, in tempi successivi, con il suo abito migliore. Il morto non veniva mai lasciato solo ed era vegliato giorno e notte da parenti e vicini di casa. Vi erano delle donne che avevano il compito di leggere le 70 offerte dei morti e che venivano pagate venti centesimi per il giorno e venti per la notte. La sera la gente del paese si recava in chiesa a scandire le orazioni del rosario con il parroco. Al termine della funzione, fuori della porta di chiesa, due uomini (generalmente parenti del defunto) con due grossi cesti o sacchi erano incaricati di distribuire un’elemosina di pane e di sale. Poco prima dell’inizio del funerale il morto veniva deposto nella bara che era costituita da rozze tavole di legno, costruita direttamente dai falegnami del posto. didascalia 197 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia IIl funerale. Il corteo funebre in tutti i paesi della Valdidentro si differenziava a seconda dell’età del defunto. Se si trattava di un bambino appena nato, il feretro veniva portato a braccia dal suo padrino, se invece era più grandicello veniva costruita una piccola barella con i manici in modo che la portassero i coetanei. Nei funerali degli adulti la salma era portata dai confratelli del Santissimo Sacramento vestiti di tunica bianca. La cassa coperta da un grande telo nero con iscrizioni e ricami bianchi, era depositata e trasportata su una portantina. IIl lutto. Grande importanza rivestivano fino a qualche decennio fa i segni del lutto in memoria del defunto. Il lutto si differenziava a seconda del grado di parentela. In tutta la Valdidentro le manifestazioni del lutto variavano da sei mesi fino addirittura a tre anni in casi eccezionali. I parenti più stretti di sesso maschile erano coloro i quali dovevano seguire più scrupolosamente il tradizionale uso del capòt, ossia indossare un pesante mantello nero anche nel periodo estivo; le donne si coprivano di uno spesso scialle nero. Il lutto era manifestato anche da certi comportamenti che vietavano la partecipazione a qualsiasi festeggiamento e alla frequentazione di certi ambienti pubblici. EElemosine per i morti. Una delle elemosine più comuni della Valdidentro era la cosiddetta elemosina di fieno che consisteva in donazioni alla chiesa, da parte dei contadini, di certi quantitativi di foraggio più o meno cospicui. Questo fieno sarebbe poi andato all’asta e con il ricavato si sarebbero celebrate messe e funzioni in favore delle anime dei defunti. I deputati alla raccolta del fieno erano chiamati in Isolaccia i cercòt. Il fieno veniva raccolto all’interno di un apposito fienile denominato al taulà di mòrt e messo all’asta in primavera al miglior offerente. A Isolaccia accanto ai cercòt vi erano li menögliéira ossia delle giovani del paese addette alla raccolta della segale per i morti. Anche in questo caso dopo la raccolta si procedeva a un’asta. IIl 2 novembre: i morti ritornano dall’aldilà. Il 2 novembre l’usanza di rifocillare il morto era comune a molte zone della Valdidentro. Vi era infatti la credenza che in quel giorno i morti ritornassero sulla terra, ciascuno alla propria casa. Si raccontava che i defunti, stanchi dal lungo viaggio, avevano bisogno di riprendersi e per 198 Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia questo obbligavano quelli di casa ad alzarsi prestissimo per lasciare loro il letto. I casigliani dovevano poi preparare un secchio d’acqua e qualcosa da mangiare per rifocillare i “loro morti” dal lungo viaggio compiuto dall’aldilà. Un detto a carattere meteorologico legato a quel giorno era quello citato in Semogo: Quàndo i rìven i sant coi pè sciùt i én cé i mòrt coi pè bagnéi. Quando arrivano i santi con i piedi asciutti, giungono i morti con i piedi bagnati, ossia se il primo novembre farà bel tempo, sicuramente pioverà il giorno 2. la G ente Feste e usanze del ciclo annuale Gabinèt Da tempi immemorabili si perpetua in Valdidentro, come in tutto il Contado di Bormio, l’antica usanza del Gabinèt. Dal tocco della campana del Gloria in Excelsis o dei vespri (in poche parole verso le tre del pomeriggio) della vigilia dell’Epifania (il 5 gennaio) fino alla stessa ora del giorno seguente, amici, parenti, conoscenti, in un incrociarsi di saluti e di sorrisi, cercano di prevenirsi nel gridare: Gabinèt, Gabinèt e vincere così dolci o doni a chi s’è lasciato sorprendere. Il Gabinèt secondo il suo stesso valore etimologico, cioè Gabe “dono” e Nacht “notte”, consisterebbe nella cosiddetta notte dei doni. La tradizione purtroppo ormai si è ridotta a poca cosa ed è semplificata ad una risorsa per i ragazzi, i quali ottengono di sicuro, in tale occasione, qualche dono dai parenti o qualche frutto dai vicini di casa e dai padrini di battesimo. Bisogna risalire alla metà del 1900 per trovare in vigore le industrie e gli accorgimenti cui si ricorreva, fra gente d’ogni età, per riuscire vincitori. Erano strani e geniali appostamenti, false malattie, travestimenti nei pittoreschi costumi delle vallate e perfino simulati incendi. Si facevano anche importanti scommesse e si arrivavano a vincere addirittura appezzamenti di terreno. Il pagamento del Gabinèt poteva essere corrisposto entro e non oltre il giorno di Sant’Antonio abate, giorno della benedizione degli animali e inizio del carnevale. Per ben caratterizzare l’importanza che si dava alla tradizione del Gabinèt si cita un episodio occorso tra due sacerdoti più di un secolo fa in Isolaccia e già citato in parte da Glicerio Longa nella sua raccolta di tradizioni «Usi e costumi del Bormiese» del 1912. didascalia 201 Valdidentro STORIA PAESI GENTE «Al g’àra un òlta döi bón prèt: al Sc’chenìn che l’àra un cozìn e un silighét de un lór e al Doménich che l’àra un legnàsc’ch e l’àra anca un gran boldrón. I àren tüc’ döi béi guz e di gran sc’cherzón. I sc’tàan aprös de bàita e i àren di gran sòci. Al dì del séisc de genéir al don Doménich al s’àra inviè vèrs la géSgia per celebrér la mésa granda. L’àra amó debòt e al g’àra in giro gnigùn, ma al don Doménich al continuàa a voltès perché l’àa pöira che vergùn al ghe vengés al Gabinèt. Dré a la vìa Càpole al g’àra nóma un ómen che al giolö de ónda. L’àa su su li sc’pala un gèrlo plachè ó de un quèrta. Péna al don Doménich al gh’àra rivè dré al g’àa oSgè: - Gabinèt. - Me l’èt pròpi vengiù… Gh’éi però tót al témp de paghèfel. didascalia Intànt i àren rivéi in plaza a la sc’trinta di Màrtol indóe al g’àra la pòrta èrta che la dàa sul segrà e indóe se pasàa int de sagresc’tìa. L’ómen tót sc’trach, al g’àa dit al prèt: - Me dèt ‘na man a sc’carghér al gèrlo? Ma péna al don Doménich l’àa ciapè su al gèrlo, la quèrta l’àra saltéda ìa e l’àra sc’prizè fór la crapa Sg’bèrtola del don Sc’chenìn che al g’àa oSgè: - Gabinèt! - Sc’tòlta te me l’èsc féita, ma te me la pagherèsc cara e saléda! Al dì de Gabinèt de l’an aprös al don Sc’chenìn i l’àan ciamè al léc’ de una fömena che l’àra in angonìa perché l’àa ù de li tribulazión cór che al g’àra crodè ó la pigna. Al Sc’chenìn tót de ónda l’àa ciapè su i òli sant e l’àra gì a la bàita de la pòra fömena. Tüc’ i parént i àren intórn del léc’ e al don Sc’chenìn: - Tirédof ìa e fédom vedér! Ma de sóta la quèrta tót de cólp l’àra saltè fór la crapa bèla rósa del don Doménich che con un gran gusc’t l’àa dit in dialèt legnàsc’ch: - Ghibinèt, te l’éi féita… C’erano una volta due bravi sacerdoti: un certo Schena di Isolaccia, un uomo mingherlino e don Domenico di Livigno che al contrario era piuttosto corpulento. Erano entrambi molto furbi e dei giocherelloni. Abitavano vicino ed erano grandi amici. Il 6 di gennaio di quell’anno, don Domenico si era avviato verso la chiesa per celebrare la messa grande. Era ancora presto e non c’era in giro nessuno, ma, nonostante ciò, don Domenico continuava a volgersi freneticamente perché aveva paura che qualcuno gli vincesse il Gabinèt. La via Càpole era praticamente deserta all’infuori di un uomo che camminava speditamente. Quest’ultimo portava sulle spalle una gerla celata nella sua sommità da una coperta. Quando don Domenico raggiunse l’uomo, gli gridò: - Gabinèt! - Me l’avete proprio vinto… Ho però tutto il tempo per pagarvelo. Nel frattempo i due erano arrivati in piazza nella strettoia dei Màrtol dove c’era l’apertura che dava accesso al sagrato e indi alla porta della sagrestia. L’uomo, affaticato, disse al sacerdote: didascalia - Mi dareste una mano a scaricare la gerla? Ma appena don Domenico afferrò la gerla, la coperta si scostò facendo apparire il capo brizzolato del don Schenino che gridò: - Gabinèt! - Questa volta me l’hai fatta, ma me la pagherai cara e salata! Il giorno dell’Epifania dell’anno successivo don Schenino fu chiamato al capezzale di una donna che era agonizzante in seguito a difficoltà occorse durante il parto. Il sacerdote in fretta e furia prese gli oli santi e si avviò verso la casa della poveretta. Tutti i parenti erano intorno al letto. A quel punto il sacerdote disse: - Scostatevi e fatemi vedere! Ma improvvisamente, da sotto la coperta ecco apparire la faccia colorita del don Domenico che con grande soddisfazione disse in dialetto livignasco: - Ghibinèt, te l’ho fatta… ». 205 Valdidentro STORIA PAESI GENTE Il carnevale Scriveva il Tazzoli, etnografo e storico locale, nel 19.... ..... : «Il periodo della Quaresima che dovrebbe essere quello del raccoglimento, del lavoro e del digiuno quasi a preparazione spirituale delle anime alla celebrazione religiosa della Risurrezione almeno ne’ suoi primi giorni non è tale nel Bormiese. Vigono e vigevano specialmente in passato costumi ed usanze che non sono punto di astinenza continuandosi, in certo qual modo, la allegria tradizionale carnascialesca cessata e purificata quasi dai fuochi e dai canti dell’ultimo giorno di Carnevale». Era ed è quello che si chiama Carnevale vecchio o Carnevàl véc’ o végl che come nel rito ambrosiano si protrae oltre il mercoledì delle Ceneri. La differenza da notare è che mentre il carnevalone milanese termina il sabato grasso, nella Valdidentro, a Isolaccia e Semogo, i divertimenti continuano fino alla prima domenica di Quaresima. 206 Nei giorni del Carneval vecchio, i ragazzi bruciavano dei fasci di paglia e di ramoscelli in modo da costituire un gran falò. Era questo un rito cruento di eliminazione con l’augurio di lasciarsi alle spalle la stagione fredda e auspicare la produttività della nuova stagione. Durante il Carnevale vecchio era usanza cucinare li manZòla, sottili schiacciate o frittelle di fiore di farina impastate con uova, burro e liquore spiritoso e cotte nel burro ed inzuccherate. L’usanza da parte delle ragazze di offrire le manZòle ai giovani loro più simpatici è antichissima. Ciò è comprovato per esempio dal processo del 27 febbraio 1624 contro Messer Gervasio de Leonardo Caligaro di Molina (Quat....... Inq.......) nella cui testimonianza dice: «...siando io la sera avanti il carnaval vecchio la dentro in Jsolacia ... la moglie di messer Martino Raglione mi invitò à venir la sera di Carnaval vecchio à mangiar manzole con la giovine se mi contentava...». Il sabato (quello precedente la prima domenica di quaresima) c’era l’usanza da parte della gioventù del paese di festeggiare al sàbet di mat, il sabato dei matti, giorno dedicato esclusivamente al divertimento. L’usanza richiama gli antichi festeggiamenti della Compagnia dei Matti di Bormio che con il loro Podestà si recava anche in quella vallata a costituire un luogotenente. Si costituivano bande di giovani mascherati che peregrinando di casa in casa si divertivano a propinare una serie di scherzi molesti ai padroni delle abitazioni. La settimana santa e la Pasqua Al termine del lungo periodo di purificazione rappresentato dalla quaresima, inizia la grande festa della Pasqua trasmessaci dalla religione ebraica. I festeggiamenti per la Risurrezione sono scanditi da classici riti di purificazione che iniziano con la domenica delle palme, quando i vecchi rami d’ulivo benedetti vengono bruciati nel fuoco e sostituiti con quelli nuovi. I riti di purificazione si contemplano anche nelle cosiddette pulizie di Pasqua caratteristiche della settimana santa che si verificavano in chiesa, nelle case e nelle strade. Durante la settimana santa venivano simbolicamente legate le campane e i fanciulli facevano rumore in sostituzione di queste con li ghèa o i trich-trach e li taoléta. La ghèa era uno strumento formato da una stecca di legno contro un’estremità della quale una ruota dentata, anch’essa di legno, girando, emetteva un suono che richiamava il verso delle raganelle o il gracchiare delle gazze. Qualcuno portava con sé anche la taoléta, uno strumento di legno a forma di cassetta con foro sottostante, che faceva da cassa armonica. Sulla parte superiore battevano due martelli pure di legno, alternati da due stecche. La taoléta veniva appesa al collo e azionata mediante una manovella che faceva girare una ruota dentata, mettendo in movimento le stecche e i martelli che la G ente Valdidentro STORIA PAESI GENTE didascalia 208 producevano un rumore assordante. A Isolaccia veniva usato anche al tich tòch, tavola lignea quadrata di circa 20 centimetri, al centro della quale era innestato un pezzo di legno che nella sua parte inferiore serviva da impugnatura, mentre in quella superiore era praticata una scanalatura nella quale si inseriva il manico di un martello ancorato con un chiodo che veniva fatto ruotare e battere da una parte all’altra della tavola. Il Venerdì santo era il giorno della più grande e imponente processione dell’anno. A Pedenosso accanto alla grande Croce del Cristo morto si usa, fin dalla fine dell’Ottocento, portare in processione la statua della Madonna Addolorata ossia la statua della Madonna con ai piedi il Cristo morto. A Semogo anticamente veniva portata in processione fin dai tempi che furono, una pesante croce con il Cristo che veniva caricata a turno sulla spalla dei giovani più robusti del paese. Nel villaggio di Premadio, durante la processione, accanto alla statua del Cristo morto, sfilava un gruppo di ragazzi ai quali spettava il compito di portare durante il corteo religioso i simboli della passione di Cristo. Le case erano graziosamente decorate e pendevano tessuti vari a guisa di paramenti. Curiosamente la processione del Venerdì santo non era consuetudine del paese di Isolaccia e fu istituita solo a partire dagli ultimi decenni del 1900. Il Corpus Domini Fin dall’antichità il Corpus Domini era considerata sotto il punto di vista religioso come una delle ricorrenze più importanti dell’anno. Tutta la popolazione partecipava con grande fervore alla preparazione della processione: le strade venivano addobbate intrecciando lunghi rami di betulla, di alno montano, di nocciolo, d’abete e d’ontano selvatico. Con quelle fronde si predisponevano addirittura pergolati e gallerie sotto i quali passasse il corteo. Ogni balcone, ogni finestra erano graziosamente ornati con i drappi e la biancheria migliore che si possedeva in casa. A ogni angolo della strada venivano allestiti piccoli altari nei quali brillavano lumini ardenti alla base di simulacri di legno e di quadretti raffiguranti le immagini dei Santi e della Madonna. Tutto il paese partecipava alla processione, chi con la divisa della confraternita d’appartenenza, chi con il lungo velo bianco delle Figlie di Maria, chi reggendo il baldacchino che proteggeva il parroco con il Corpo del Signore, chi portando croci e stendardi. la G ente didascalia C’era, e in parte ancor oggi sopravvive, l’usanza gentile dell’infiorata. I prati, gli orti e i giardini venivano spogliati di tutti i fiori, per farne morbido tappeto al Santissimo. Alle bambine biancovestite che avevano da poco ricevuto la Prima Comunione, spettava il compito, con cesti pieni di fiori, di spargere petali lungo la strada. 209 La Madonna dell’acqua di Isolaccia A Isolaccia viene tramandata fin da tempi antichi una bellissima storia in bilico tra la realtà e la leggenda ma che rivela la profonda fede e religiosità degli abitanti del paese. È la leggenda che avvolge nel mistero l’origine di tre belle statue lignee che sono conservate nella parrocchiale di Isolaccia. Si tratta di Maria Santissima col Bambino fra le braccia e delle statue di san Rocco e di san Sebastiano. La statua della Madonna fu sempre venerata sotto il titolo di “Madonna dell’acqua”. La leggenda di quella statua, tramandata oralmente da padre in figlio, fu raccontata alcuni anni orsono da un’anziana del paese. Questo a grandi linee il suo racconto: «L’àra ténc’ ègn fè e al g’àra döi ómen de NiSolècia, séi miga se di Ciósc’ch o di Barón, ch’i àren di pòr diàol e i àan de beSögn de un pó de plözer per ir inànz co la baràca. I àan decidù iglióra de magliér fór li dóa vaca ch’i àan ó in sc’tala. L’àra tròp debòt per la féira de Bórm e iscì i àan decidù de ir int di zuchìn a Santa Marìa sùbit de lèi de Sc’télvi. Ma intànt ch’i àren dré a ir dré al tröi, al s’àra metù a plòer che Dìo al la mandàa e i àren Sg’lózi cóme di poglìn. I àren rivéi ó in paés mèz mòrt del la G ente fréit e de l’àqua. Iglióra i àan domandè in un bàit se i podön posér un àmen e sc’caldès viSgìn al föch. Quì del bàit i àren tanto sài e i gh’èn dit: - Mangé un bocón e dòpo fermédof a posér sc’tanöc’. Un di döi l’àa péna finì de blasér su l’ùltim cucér de menèsc’tra, che l’àra resc’tè igliè, a vedér pichè iè nel cantón, inséma a dei boréi, tré sc’tàtua de sant. Col gómbet l’è pichè sul fiànch del sòci e al gh’è dit: - Ma al te par! …‘na profanazión del géner! - M’è de fér vergóta! Perché an desc’càmbia miga li nòsa vaca co li sc’tàtua? - Scì me li porterè a NiSolècia e sc’perém che ‘l Signór al me giuterè… Quì del bàit i àren bén contént de fér quél afàre e i gh’èn de ónda déit li tré sc’tàtua ai döi cozìn. Al dì aprós, péna l’àra gnu céir i àan saludè e i s’àren inviéi vèrs bàita. Rivéi su un pónt, un quài lùter rabiós ch’i àan cé quìli ròba santa, i li àan ferméi e i li àan oblighéi a Sg’lanzér ó ne l’àqua li tré sc’tàtua. Ma, miràcol! I tré töch de légn i s’àren ferméi a gala in mèz a l’àqua e i àren miga sc’téit tiréi dré in di sc’flónf. Tré lusc santa i parön gnuda fór de didascalie 211 didascalia 212 l’àqua. I zuchìn, tót sc’trémi, i àan féit la fin de quél de li cót. I döi cozìn, recuperéda li sc’tàtua miracolóSa, i àren tornéi a NiSolècia. De quél dì la sc’tàtua de la Madòna de l’àqua (che l’àra sc’téita iscì ciaméda per quél miràcol), de san Ròch e de san Basc’tiàn i én sémpre sc’téit veneréi dei cozìn cóme vergót portè del cél. violento acquazzone e si ritrovarono inzuppati come dei pulcini. Arrivarono alla meta tutti bagnati e mezzi morti dal freddo. Chiesero ricovero in una casa del luogo per potersi riposare un poco e scaldarsi vicino al fuoco. I padroni di casa erano brave persone e dissero ai due viandanti: Molti anni fa due uomini di Isolaccia, non so se appartenenti alla famiglia dei Ciósc’ch o dei Barón (soprannomi relativi alle famiglie Ponti), necessitavano di denaro per sobbarcare il lunario essendo caduti in una situazione di estrema miseria. Decisero allora di sbarazzarsi delle due mucche che c’erano in stalla. Era troppo presto per la fiera degli animali che si svolgeva in Bormio cosicchè decisero di recarsi al di là dallo Stelvio a Santa Maria, in territorio svizzero. Mentre stavano percorrendo l’impervio sentiero, furono sorpresi da un - Mangiate un boccone e fermatevi pure a riposare questa notte. Uno dei due aveva appena finito di gustare l’ultimo cucchiaio di minestra, quando fu attratto dalla presenza di tre statue in un angolo della casa, accatastate confusamente insieme a dei tronchi. Col gomito urtò il fianco dell’amico, dicendogli: - Ma ti pare! …una profanazione del genere! - Dobbiamo fare qualcosa! Perché non barattiamo le nostre mucche con le statue? - Sì, le porteremo a Isolaccia e speriamo che il Signore ci aiuti… Santa Lucia Quelli della casa ben contenti di quello scambio favorevole, si sbarazzarono ben presto delle statue in favore dei due viandanti di Isolaccia. Il giorno seguente, ai primi chiarori, i due salutarono coloro i quali li avevano ospitati e si incamminarono verso casa. Giunti su un ponte, furono fermati da un gruppo di protestanti che contrari al fatto che i due viandanti portassero quelle statue, fecero buttare le stesse nell’acqua impetuosa del fiume. Ma, miracolo! I tre pezzi di legno intagliato si erano fermati in mezzo all’acqua e non erano stati travolti dai vorticosi mulinelli della corrente. Tre luci sacre sembravano ergersi dall’acqua. Gli svizzeri infedeli, terrorizzati dall’accaduto, se la diedero a gambe. I due cozzini, dopo aver recuperato nell’acqua le statue miracolose, ritornarono in Isolaccia. Da quel giorno la statua della Madonna dell’acqua (così chiamata grazie a quell’evento prodigioso), di san Rocco e di san Sebastiano furono sempre venerate dagli abitanti di Isolaccia come un qualcosa portato dal cielo». Nel territorio della Valdidentro che va da Premadio a Isolaccia i bambini festeggiano nella serata del 13 dicembre l’arrivo di Santa Lucia. La santa impersonificata da personaggi del luogo gira ancor oggi di casa in casa vestita di bianco con il suo asinello richiamando i bambini con un campanello per la distribuzione dei doni. I marmocchi usano mettere una scarpa per contenere i doni fuori dalla porta o dalla finestra, accanto a un mannello di fieno e di sale per rifocillare l’asinello. Un tempo i regali consistevano in poca cosa: castagne secche, mandarini, arance, frutta secca e qualche volta anche dei dolciumi. A Isolaccia la festa era ed è sentita in modo eguale al Santo Natale. A Semogo la festività non viene celebrata e la spiegazione puerile che viene fornita ai piccini del paese è che la santa tralasci quel villaggio per evitare la fatica di raggiungerlo, essendo questo abbarbicato sul pendio. la G ente didascalia Il fatto miracoloso avvenne in tempi remoti, non si sa precisamente quando. La prima processione di cui si ha documentazione risale al 1852. Da allora, la popolazione cominciò a venerare la Madonna che divenne la “protettrice della pioggia”, per cui in occasione di periodi di importante siccità si ricorreva a lei per chiedere la sospirata acqua dal cielo. Il volgo racconta che ogni qual volta si estraeva dalla sua nicchia la Madonna dell’acqua per portarla in processione la pioggia come per incanto cominciava a scendere! 213 Valdidentro STORIA PAESI GENTE La stella Ancor oggi in alcuni villaggi della Valdidentro (Premadio, Isolaccia e Semogo) si perpetua l’antica usanza del giro della stella. Tre giovani (a Isolaccia i coscritti che hanno compiuto il diciottesimo anno d’età) vestiti da Re Magi girano di casa in casa cantando delle litanie natalizie. Uno di questi regge un’asta che sostiene una stella formata da un’armatura sulle cui sfaccettature sono tese carte di vari colori, rischiarate dall’interno da una luce artificiale. La stella è messa in movimento mediante una cordicella o più artigianalmente da un solo colpo dato col palmo della mano. In ogni abitazione gli stellari raccolgono denari a favore della chiesa. Con il «giro della stella» si vuole rievocare il leggendario viaggio dei Magi guidati dalla Cometa alla grotta di Betlemme per onorare la nascita di Gesù Bambino. Così descrive la stella Lina Rini Lombardini nel ....... .... : «una volta la Stella dei Re Magi iniziava il suo viaggio nella Notte Santa. A tre o cinque punte, alta su 214 alto bastone, portata da uno dei villerecci Re Magi, fiancheggiata dagli altri due, si muove ancor oggi lentissima al ritmo di ninna-nanna, proprio come un rutilante Ostensorio». Un tempo il canto all’interno delle abitazioni seguiva sempre lo stesso rituale suggestivo: si spegnevano le luci in modo che solo la stella rischiarasse l’ambiente, tutta la famiglia si alzava in piedi e cantava accompagnando le nenie natalizie mentre il portatore con lenti colpi faceva rutilare la stella in modo che si vedessero distintamente tutti i suoi colori. Molte erano le nenie natalizie che allietavano le case visitate dagli stellari; fra queste la più cantata era quella intitolata Deh! sorgi amica stella, che qui viene riportata. Deh! sorgi amica stella, la pace ad annunziar. Co’ raggi tuoi lucenti de' popoli devoti i pianti, i mesti voti, deh! sorgi a consolar. A’ rai del tuo bel lume il ciel si fa giocondo, il mar, la terra, il mondo, ritorna a giubilar. Dall’isole remote si pongono in cammino il Redentor Divino, tre Magi ad adorar. Deh! sorgi amica stella, la pace ad annunziar. Terminato il canto inizia la questua che un tempo consisteva in generi alimentari come segale e uova, che poi venivano messi all’incanto al maggior offerente. Il parroco come ricompensa del lavoro eseguito dagli stellari doveva pagare loro una abbondante cena. A proposito dei festeggiamenti degli stellari di Premadio annota il Longa nel suo citato indimenticabile lavoro del lontano 1912: «La sera del 26 dicembre perdura nelle valli (Premadio, Valfurva, Cepina) l’usanza di portare in giro su un bastone una stella rischiarata da un cero... I giovani premajotti, ad esempio, preparano per questa sera una gran stella di carta colorata e con essa vanno nelle case a far la questua... Poi, scesa la notte, i giovani vanno in cerca delle giovani e insieme salgono ai vicini Bagni Nuovi, nel cui salone disoccupato per l’assenza invernale dei forestieri - improvvisano una gran festa da ballo, che dura fino all’alba del 27. Ben presto il sacro cede il posto... al profano, ben presto i giovani dimenticano in un canto la stella di carta per altre stelle... vive; scorre il vino e da tutti si beve, si ride, si vocia attorno alle tavole imbandite; le fisarmoniche non più ora accompagnano lente nenie liturgiche: i canti che rompono il bianco e infinito silenzio alpino son canti d’amore!». la G ente 215
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