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RIVAROL
MASSIME DI UN CONSERVATORE
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Titolo originale:
Rivarol
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ERNST JÙNGER RIVAROL MASSIME DI UN CONSERVATORE
Traduzioni di Brunello Lotti e Marcello Monaldi
ISBN 88·7746·'09·)
© Ernst Klett, Stuttgart 1978
© 1992 Ugo Guanda Editore S.p.A., Strada della Repubblica '6, Parma
UGO GUANDA EDITORE
IN PARMA
LA VITA E L'OPERA
DI RIVAROL
Nota
Ernst Jiinger ha non solo scelto e prefato, ma anche tradotto nella
propria lingua le massime di Rivarol. Nell'edizione italiana, i testi di
Rivarol sono stati direttamente tradotti dal francese da Brunello Lot­
ti. I testi di Junger sono stati tradotti da Marcello Monaldi.
1
L'impresa di tradurre un autore scomparso da oltre cen­
tocinquant'/lnni/ per quanto attiene al traduttore, quasi
non abbisogna di giustificazioni. Resta questione del
tempo libero e del piacere che vi ha trovato. In questo
senso, la traduzione appartiene da sempre alle forme più
alte di passatempo. Ma la passione del traduttore si
esprimerà comunque in una materia e in un autore per i
quali egli nutre una predilezione. Perciò, non è casuale
né la scelta dell'autore né la selezione della sua opera.
Entrambe saranno precedute da simpatia, da attrazione.
Alla traduzione conduce allora il desiderio di giungere
alla più profonda penetrazione di un'opera, alla lettura
più intensa che sia possibile. Essa insegue uno spirito fin
nei capillari, fin nei sentieri a precipizio e in quelli più
sotterranei. Come in pittura la riproduzione dei maestri
del passato, cosl, nella lingua la traduzione può essere
considerata uno dei migliori esercizi, un duro corso con
un maestro di scherma.
Per contro, la pubblicazione presuppone ulteriori
considerazioni: essa oltrepassa il quadro dell'inclinazio­
ne personale e il traduttore deve chiedersi quale rappor­
to con il presente possieda il suo progetto. Nel caso di
Rivarol e della sua opera, tutto ciò andrà brevemente
discusso.
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2
Antoine conte di RivaroI, come egli si definiva, nacque il
26 giugno 1753 a Bagnols in Linguadoca, primogenito
di sedici fratelli; la famiglia viveva in una ristretta cer­
chia di relazioni. II padre, ]ean-Baptiste Rivarol, eserci­
tava diverse professioni, tra cui quelle di insegnante,
esattore e albergatore.
Già Sainte-Beuve definiva l'origine di Rivarol « inex­
tricable », e con ciò si riferiva anzitutto alla pretesa del
titolo nobiliare di conte, che non era suffragata dal regi­
stro dei battesimi. Può essere che Rivarol si attribuisse
queste qualità allo stesso modo in cui lo Chevalier de
Seingalt, richiesto di giustificare il suo stato di cavaliere,
si richiamò al fatto che egli era il signore delle ventiquat­
tro lettere dell'alfabeto. Può anche essere, però, che la
sua famiglia, come afferma Rivarol, dovesse le proprie
origini a un ramo separato di un antico casato genovese.
In ogni caso, Rivarol non è vissuto a spese del suo nome,
come hanno fatto molti altri, ma lo ha invece portato
agli onori. Tutto ciò è molto più raro. Intorno alla fine
del XVIII sec., quando la nobiltà aveva un così grande
ruolo, si era più tolleranti che in seguito dinanzi a simili
correzioni sul biglietto da visita, e persino rispetto ad
oggi. Ciò conferiva alla società quella sciolta e leggera
eleganza che mai più doveva essere raggiunta e che, da
un lato, si può considerare come uno dei segni del suo
tramonto, dall'altro come un allentamento dei vincoli so­
ciali, che non spiritualizzò soltanto i rapporti personali
ma arrecò anche all'arte un notevole profitto.
In questa società, la fama di essere una mente sottile
o di avere un talento brillante dava, immancabilmente,
non solo un accesso ma anche un buon posto nei salotti.
Si ha addirittura l'impressione che spesso bastasse la fa­
ma; e a simili osservazioni può riferirsi il motto di Riva­
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rol, che non avere prodotto alcunché è un enorme van­
taggio, purché non se ne faccia cattivo uso.
Accanto ai grandi del giorno, a filibustieri e avventu­
rieri che si presentavano con la loro parte di brillantez­
za, in questa società prerivoluzionaria si incontravano
anche nomi che ancor oggi conservano la loro fama. Tra
questi rientra anche quello di Rivaro!. Visto nel suo tem­
po, egli non è un caso isolato ma una delle manifestazio­
ni tipiche.
Non meno tipica è la sua storia precedente la com­
parsa a Parigi, dove egli trovò subito considerazione.
Come accadeva a molti figli di talento di famiglie prive
di mezzi, di lui si prese cura la Chiesa. Dopo aver fre­
quentato diversi istituti religiosi, distinguendosi ovun­
que come un allievo brillante, concluse i suoi studi sot­
to la protezione del vescovo di Uzès nel seminario di
Saint-Gard ad Avignone, che lasciò come Abbé. Con
ciò egli si muoveva, come già detto, lungo una delle
strade abituali, quella dello scolaro povero che si distin­
gue precocemente in virtù del suo talento. È questa una
razza in cui il clero cerca di fare proseliti, anche se deve
mettere in conto che alcuni dei suoi borsisti, come fece
Rivarol e certo non poteva non fare, passano poi alla vi­
ta del mondo. Tanto per citare un esempio, allo stesso
modo debuttò Chamfort, che viene spesso nominato ac­
canto a Rivarol e al quale viene anche comparato. Di
qui Stendhal ha ricavato un modello romantico: i suoi
eroi soffrono e maturano nell'ascesi e negli intrighi delle
scuole d'apprendistato religioso, prima di darsi alla car­
riera militare, alla politica o alla letteratura. La rigorosa
disciplina, connessa a una forza elementare, produce ef­
fetti esplosivi.
Di Rivarol, almeno, non si può dire, come invece di
qualche altro, che abbia ripagato questo sostegno con
l'irriconoscenza: in lui, quindi, si cercherà invano anche
11
Il
quel cinismo nei confronti dei suoi mecenati, che si tro­
va in Chamfort. Dietro ai suoi pensieri, per quanto ven­
gano espressi con libertà e leggerezza, si nasconde una
solida formazione, sia nella lingua, sia nelle conoscenze
generali. Ad essa egli deve la sua familiarità con la lette­
ratura, la storia e la mitologia classiche, le sue inclinazio­
ni grammaticali ed etimologiche, la sua predilezione per
spiriti come Dante, Pascal e Agostino.
Su questa base si fondava l'esatta visione della condi­
zione letteraria, sociale e politica della sua epoca. È da
supporre che Rivarolla conseguisse nei suoi primi anni
parigini, sui quali possediamo solo sparute notizie. In
questa capitale, in cui, secondo le sue parole, « la prov­
videnza opera più intensamente che in ogni altro luo­
go », e in mezzo alla sua vita febbrile, gli anni di appren­
distato furono per lui proficui. Per poter giudicare uno
stato di cose, occorrono sempre dei criteri che sono stati
acquisiti andando oltre i limiti di quello stesso stato, e
che Rivarol si guadagnò attraverso la disciplina spiritua­
le. Al contrario, il tentativo di venire a capo di un'epoca
con i soli mezzi offerti da questa, si consuma nel girare a
vuoto intorno ai suoi luoghi comuni: non può riuscire. È
questo il motivo per cui si vedono fallire spiriti volitivi
ma limitati.
Non ci inganneremo se supponiamo che questi anni
furono riempiti anzitutto da due grandi occupazioni spi­
rituali: la lettura e la conversazione. Per quel che attiene
alla lettura, già i suoi primi lavori mostrano che Rivarol
aveva un'esatta opinione di quegli autori che noi ancor
oggi apprezziamo, ma anche della schiera di coloro i cui
nomi sono da lungo tempo dimenticati. Una tale familia­
rità presuppone una lettura pressoché ininterrotta, un
avido divorare libri giorno e notte. Vi sono dei periodi,
mesi e anni, nella vita dei giovani, in cui essi sono posse­
duti da questa furia di leggere come da una malattia, da
In questo ambito occorre riservare un'attenzione parti­
colare alla conversazione. Per il forestiero privo di mez­
zi, essa rappresenta in ogni caso uno dei primi rimedi e
spesso l'unico, poiché fa le veci in c~po spirituale non
solo della moneta sonante ma anche delle armi. Il novi­
zio viene considerato avvincente, attraente, pronto, se­
ducente in sommo grado, smagliante, incantevole nel
suo fascino. Certo, trionfi simili presuppongono la me­
diazione di una civiltà colta, in cui siano altamente svi­
luppati tanto l'espressione quanto l'intesa.
Senz'altro era questo il caso nell'epoca in cui nacque
Rivaro!. Se allora lo si celebrava come un maestro, ciò
va considerato come un giudizio che fa riferimento a un
livello già elevato. L'intesa si era così straordinariamente
raffinata da venir suscitata attraverso il più lieve accen­
no, attraverso l'ombra e il battito più leggeri di una pa­
rola. Di qui uno stile peculiare nell'allusione, nell'im­
provvisazione e nella frase epigrammatica. Così come
prima di certi temporali quasi tutto diventa elettrico,
tanto che i fuochi di Sant'Elmo sfavillano da ogni estre­
mità, vi è anche un clima sociale in cui la conversazione
affascina e congiunge come un fluido spirituale imme­
diato, iniflesso. In effetti, vi è qui un che di elementare,
un ritorno alla natura su un piano più alto. Come i sel­
vaggi sanno indovinare dal silenzio, così anche qui vige
un'intesa nell'inespresso: la parola è simbolo che bre­
vemente riluce. La battuta non è preparata; è pronta,
sprizzante come da bottiglie di Leida che vengano toc­
cate.
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un vizio: e così deve essere stato anche in Rue de Riche­
lieu, dove allora abitava Rivaro!.
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Dove tutto si fa pieno di spirito, vi è anche il rischio
che tutto diventi gioco e che estenui lo spirito, che lo
esaurisca nell'allusione. Lo avvertiamo subito alla lettura
di una quantità di bonmot, anche eccellenti. Ai tempi di
Rivarol vi erano dei veri illusionisti, che dalla parola
estraevano l'inatteso. A costoro apparteneva il Marquis
Le Bièvre, che era ufficiale della Guardia e possidente.
La fama della sua prontezza lo condusse sino al re, che
lo convocò e lo mise alla prova:
« Sire, datemi un soggetto ».
« Ebbene, trovatene uno sul mio conto. »
« Sire, il re non è un soggetto. »
Questo è uno degli innumerevoli Bièvriana, che van­
no presi solo a piccole dosi. Ne vengono tramandati di
simili da parte deI principe di Ligne e di molti altri e il
valore che veniva riposto nel gioco di parole in senso la­
to, lo si ricava al meglio dal fatto che gli stessi Enciclo­
pedisti chiusero la serie dei loro volumi in quarto con
una raccolta di bonmot, trovate, zibaldoni, che degene­
rano nell'insensato e nell'insulso.
È probabile, ed è anche attestato, che nell'intratteni­
mento Rivarol non abbia scansato del tutto lo scoglio deI
calembour. Tuttavia, quanto a potenza spirituale, egli era
infinitamente più dotato di un Bièvre e anche di questo
vi sono testimonianze. Tanto per fare un esempio, vi è
differenza tra il gioco di parole di cui sopra e il motto di
Rivarol: «Un libro che viene sostenuto è un libro che
cade »? Certamente si, e alquanto significativa. La rispo­
sta di Bièvre al re e il suo fattore di sorpresa si limitano a
un gioco di parole, poiché con soggetto si può intendere
tanto un tema quanto un sottoposto. L'effetto risiede nel
vocabolo e nel suo contenuto cangiante. AI contrario,
quando Rivarol osserva che un libro che viene sostenuto
è un libro che cade, che dunque non possiede alcuna ca­
rica spirituale e ispiratrice, egli oltrepassa di gran lunga
la sfera dei riecheggiamenti e delle associazioni. Come
un lampo, la parola rischiara l'abisso che si apre tra un
autentico lavoro e una pretenziosa propaganda: è perti­
nente non solo sul momento ma in ogni tempo e anche
oggi, poiché tocca uno degli eterni punti deboli della ti­
rannide. 2 Qui non vi è più ambiguità. Leggero, e tuttavia
demolitore, è il colpo che viene inferto.
La finezza, cui era pervenuto lo spirito francese alla
fine dell'Ancien régime, doveva sprofondare con il suo
depositario, la vecchia società. Essa riluce ancora negli
scherzi che venivano osati davanti alla ghigliottina. Di
Rivarol bisogna dire che, quanto alla forma, egli parteci­
pava si di questa eredità e tuttavia andava più a fondo.
Per questo, in un tempo in cui la Rivoluzione era al mas­
simo della sua potenza, egli poté volgere la parola con­
tro di essa.
Contemporanei e biografi di Rivarol hanno deplorato
il dispendio di energie con cui egli si dedicava ai rappor­
ti sociali e alle conversazioni; uno sperpero che senza
dubbio fu di danno alla sua opera e forse anche alla sua
vita. Si diventa le vittime dei convivi di cui si è stati gli
eroi. Dinanzi a queste obiezioni andrebbe considerato se
esse non svalutino troppo la conversazione, tanto nel
suo significato quanto nella sua efficacia. Nelle sue più
alte espressioni, la si può prendere come un'opera d'ar­
te, allo stesso modo che in Giappone, ad esempio, si an­
novera la struttura di una strada tra le opere d'arte. A
ciò non si oppone la sua fuggevolezza, poiché alla fin fi­
ne ogni opera d'arte è fuggevole. Cosi intesa, la parola
parlata può avere lo stesso rango di quella scritta, ben­
ché la formulazione per l'ascoltatore sia diversa da quel­
la per il lettore. Certo è che la conversazione ha anche
un compito che spetta a lei sola e non può essere sosti­
tuito da alcun altro mezzo. In essa si deposita proprio
quel che di fugace, quel chiaroscuro dei tempi che nes­
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suno storico rievocherà. Esso trascolora con il giorno co-·
me la brina, il velluto dei frutti.
È questo il senso in cui la conversazione basta a se
stessa: un evento si fa compiuto, da accadimento si fa
storia solo quando l'uomo che lo vive, che lo patisce ne
ha parlato con un suo simile. È questo un atto magico.
Inoltre, è evidente che, in epoche movimentate, la con­
versazione sia il primo e più importante ricettacolo delle
opinioni. Qui le acque si raccolgono e acquistano quella
potenza che infrange le dighe e gli argini. Qui, davanti al
camino e intorno alla tavola rotonda, si formano anche i
modelli delle orazioni tribunizie, che, come tutti gli in­
grandimenti, sono più forti e più rozzi. Perciò, non è le­
cito sottovalutare iI valore che Rivarol conferi alla con­
versazione, a prescindere dal fatto che egli era nato per
la conversazione come iI pesce per iI nuoto e l'uccello
per il canto. Noi consideriamo piuttosto la conversazio­
ne come la parte invisibile della sua opera, il cui signifi­
cato ci' permette di comprendere quella visibile e tra­
mandata.
Come partecipante e presto anche come fulcro di con­
versazioni, Rivarol avrà dunque fondato la sua fama
dapprima in cerchie più piccole e poi in una cerchia più
grande e sarà infine diventato l'insostituibile arbiter ele­
gantiarum, che entrò poi nella leggenda. Abbiamo già
accennato agli svantaggi che un simile talento porta con
sé, in quanto vincola le forze produttive e le esaurisce in
un fuggevole godimento. A ciò si aggiunge l'indolenza,
che troviamo quasi sempre associata all'eccessivo leggere
e di cui Rivarol era ben consapevole, come mostra l'epi­
taffio che si fece scolpire, «la pigrizia ce lo ha rubato
prima della morte».
Cosi, non fa meraviglia che in questi anni di conversa­
zioni, di libri, di inoperosità piena di spirito, egli non ab­
bia quasi avviato dei lavori. Oltre a ciò, In questo periodo
ebbe una relazione con una inglese, Miss Mather-Flint.
Rivarolla sposò, per separarsi da lei subito dopo: le cir­
costanze sono ignote. Che queste non fossero troppo ro­
see, si può ricavare dagli epigrammi che egli dedicò agli
Inglesi e alla loro isola, del tipo: « Dio vi preservi dall'a­
more di un'inglese ». Egli dice anche che alle inglesi sono
cresciute due mani sinistre. È caratteristico che le sue
frecciate si riferiscano sempre al gusto, e cosi anche in
questa unione, da cui nacque un figlio, si sarà presto ma­
nifestata una sensibile diversità di inclinazioni. Se avesse
potuto leggerla, Rivarol avrebbe difficilmente condiviso
la premessa all'edizione completa delle sue opere, con cui
questa donna si ripresenta nel 1808 quale sua vedova. Es­
sa fornisce un esempio della guerra tra diadochi che di­
vampa attorno alle opere letterarie postume.
Come molto è sconosciuto nella vita di Rivarol, cosi
anche il ruolo che in essa ebbero le donne. Come del
suo matrimonio, altrettanto poco sappiamo dell'amante
che lo accompagnò in esilio e di cui si è conservato solo
il nome, Manette. Dal suo carattere e dalle sue opere si
deve tuttavia ricavare che i suoi ideali si inserivano esat­
tamente in quella cornice che Stendhal ha descritto co­
me «l'amore capriccio» nella famosa Introduzione al
suo libro sull'amore. Stendhal dice che in esso persino le
ombre sono colorate di rosa, che non c'è nulla di passio­
nale o di imprevisto e che per questo vi domina spesso
una maggior delicatezza che nel grande amore e, sem­
pre, l'intelligenza. Questà è anche l'atmosfera della «( Ca­
mera doppia» di Baudelaire, dove però domina il blu.
Ora, si potrebbe immaginare la perfezione di una
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persona elevata a tal punto da produrre un effetto ultra­
terreno. Nelle massime di Rivarol troviamo una siffatta
apoteosi ed essa è istruttiva. La signorina Laguerre,
un'attrice che sera dopo sera incanta il pubblico della
metropoli, per un caso singolare viene portata in costu­
me in una sperduta contrada. I contadini, cui appare so­
prannaturale non solo lo splendore del suo abito ma an­
che la sua bellezza, la grazia dei suoi movimenti, la me­
lodia della sua voce, la prendono per un angelo caduto
dal cielo e si mettono in ginocchio davanti a lei.
L'intesa diventa tanto più rara quanto più si è raffina­
ta la critica. Nella stessa misura, elementi spirituali ed
estetici si aggiungono a quelli erotici. Agli accessori che
sono preziosi all'esistenza, e cioè la compagnia, il lin­
guaggio, l'abbigliamento e la tavola viene conferito l'a­
spetto della perfezione artistica; e cosl, si differenziano
dalla semplice base di sussistenza come il fiore nell'aiuo­
la da quelli di campo.
È evidente che occorre una luce artificiale per ottene­
re questo effetto. La scelta cadrà quindi su donne che
hanno qui il loro terreno e la loro forza: è sempre a don­
ne di tal genere che mezzi spirituali e, per quanto possi­
bile, anche materiali debbono venir conferiti a salva­
guardia di una squisita socievolezza.
Già solo per questo il salotto doveva giocare un gran­
de ruolo nella vita di Rivarol, che era impensabile senza
una conversazione continua e senza lo svolgimento e la
formulazione delle idee attraverso la conversazione. Il
salotto è il regno della donna, che in esso domina e dà il
tono. Nei decenni che precedono la Rivoluzione l'influs­
so del salotto sulla formazione delle opinioni e sullo svi­
luppo di talenti e caratteri cresce incessantemente. Pos­
siamo considerarlo uno dei frutti maturi della civiltà: vi
sono epoche in cui esso non è ancora possibile, altre in
cui non lo è più. Poiché è la donna che vi domina, attra­
L'influsso dei salotti sugli sviluppi politici resta più ano­
nimo, ma non meno efficace, di quello delle corti o dei
governi e anche dei parlamenti. La conversazione è un
intreccio, una creazione comune: la paternità di un nuo­
vo pensiero, di una formulazione calzante è tanto più in­
certa quanto più entusiasmante è l'effetto che produce.
In realtà, specie in una situazione tesa, certe trovate, cer­
te osservazioni si propagano per vie sconosciute come
faville in una miccia. E questo il tempo delle parole che
vengono sussurrate all'orecchio e degli scritti diffusi di
nascosto, e in cui si conferisce alla paternità di uno
scherzo valore tanto minore quanto più efficacemente
esso mette i puntini sulle i. Per questo la parola diventa
preziosa: con essa si gioca a costo della vita. Tutto ciò si
dimentica in tempi di sicurezza e qui risiede un pericolo
per lo stile. Le unghie si spuntano.
« La fraternità o la morte »: questa espressione deve
essere stata usata per la prima volta da Rivaro!. Essa non
riguarda soltanto il 1792 ma una situazione che sempre
si ripresenta. Non la si può esprimere con maggiore con­
cisione. Dove l'entusiasmo di grandi masse popolari cre­
sce smisuratamente, esso conduce allo spargimento di
sangue. Sotto il fragore di un giubilo, che non ogni seco­
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verso la parità dei diritti ella viene defraudata di questa
forma della sua azione. Per partecipare alla formazione
delle opinioni, la donna viene introdotta in quelle asso­
ciazioni il cui modello è il club e dove il pensiero ma­
schile detta le regole del gioco. Ciò non significa che ella
diventi necessariamente intellettuale e pedante. Piutto­
sto, si profila un tipo che attraverso la spiritualità diven­
ta più desiderabile.
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In questo ambito sia concesso di toccare la questione se
Rivarol possa essere definito un dandy, ordine nel quale
lo annoverava già Barbey d'Aurevilly. Ma se d'Aurevilly
nel suo scritto su Brummel contrappone a questi, che
nient'altro era che un dandy, figure come il duca di Ri­
chelieu o Lord Byron che, oltre a dò, si dedicavano ad
altre occupazioni, Rivarol deve essere collocato dalla lo­
ro parte. D'Aurevilly afferma che in costoro la sodetà al­
lenta le briglie per un attimo, mentre in Brummel rumi­
na annoiata alla stanga. Egli dice inoltre: « se si tralascia
il dandy, cosa resta di Brummel? » Al contrario, in Riva­
rol si andrà a urtare su un fondo che si nasconde sotto il
modello della sua esistenza personale. Egli compie una
missione.
Otto Mann ha fornitQ una spiegazione convincente
del problema, nella sua ricerca Der moderne Dandy,
comparsa nel 1925. Qui egli raffigura il dandy come un
tipo estetico tardo, all'interno di una società che si va
facendo livellata e materialistica, e con la quale è in con­
trasto. Ma poiché è egli stesso lontano da un'autentica
ricchezza interiore, si sente obbligato a realizzare l'esi­
genza di un ordine gerarchico sul piano formale. Di
conseguenza, ricerca una valorizzazione nell'apparenza,
anzitutto nella propria, che diviene opera d'arte. Inevi­
tabilmente, il significato di quel che l'uomo è si sposta
su quel che egli rappresenta, e con dò devono accre­
scersi gli elementi puramente estetici della vita e del suo
corredo.
Come tappa, come terreno di gioco che precede gli
obiettivi veri e propri, il dandismo ha avuto un ruolo in
molte. biografie. Ben prima che si conoscesse questo no­
me, giovani di tutte le società e di tutte le culture hanno
perduto in sciocchezze mesi e anni. del loro tempo: del
resto, una delle spiegazioni etimologiche della parola
dandy riconduce a questo verbo. 4 In questo non fanno
eccezione sovrani come Davide, Cesare, Federico il
Grande. Tutto rimaneva comunque un passaggio, un
gioco, un preludio agli impegni veri e propri. Il dandy
persiste in questo spazio preliminare, cosicché con l'età
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lo conosce,si nascondono i richiami di animali predato­
ri. Subito, con le prime difficoltà, si fanno più distinti.
Per questo non tutti si sentono bene nelle tempeste di
affratellamento. I Prussiani hanno sempre avuto un
orecchio fine al riguardo, anche agli inizi. «Qui sotto
marcia la Rivoluzione », disse Federico Guglielmo III,
quando la milizia territoriale sfilava cantando dinanzi a
lui. Guglielmo I si irritò alla vista dei fiori nelle canne
dei fucili, nel 1864 all'ingresso delle truppe vittoriose. 3
Non solo dalla sua opera ma anche da citazioni sparse
in biografie e memorie si ricava che nei salotti parigini e,
più tardi, come esule nelle case ospitali di Belgio, Olan­
da, Inghilterra e Germania, Rivarol ha avuto contatti
personali con la gran parte dei suoi contemporanei di ri­
lievo. Molti erano incantati da lui e vi sono scintillanti
descrizioni di questa impressione, come quella di Che­
nedollé. Burke lo definl il «Tacito della Rivoluzione
francese» e Voltaire disse di lui:« C'est le Français par
excellence ».
Da altri sentiamo che essi non subirono il suo fascino;
tra questi ci sono Chateaubriand e il Principe di Ligne,
che era sorpreso dalla conversazione di Rivarol come da
un fuoco d'artificio. Comunque non ci si può fidare
troppo del giudizio di personaggi che erano abituati essi
stessi a trovarsi al centro dell'attenzione. Quel che le bel­
le donne e gli scrittori dicono gli uni degli altri è per lo
più sospetto.
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assume un che di immaturo, di incompiuto. Ciò accade
a Brummel, Puckler, Pelham. Nel Dorian Gray Wilde ne
ha dato il modello letterario: la maschera dorata, immu­
tabile sopra il terrore del nulla. Sono queste le sponde in
cui fiorisce il cinismo. Il dandy resta un pupo: nel suo
caso, il termine può essere usato tanto nel senso di sta­
dio larvale quanto in quello di fantoccio. Per liberarlo
da questo stadio deve comparire il dolore. Esso scalfisce
la scrittura della vita. Il penitenziario ha fatto di Wilde il
poeta del De Profundis.
Se Rivarol è stato annoverato tra i dandy, si è giudica­
to dalle apparenze e si è tirata una conclusione affrettata
dalla perfezione che egli ha in comune con quei tipi che
compaiono nelle Memorie di Captain Gronow o nella
History of White's di Bourke. Pertanto, se ci si sforza di
andare al di là della superficie, si scoprirà non solo il co­
noscitore di una civiltà cresciuta, vecchia, ma anche il
suo legittimo erede, il quale reca nel suo essere ciò che
egli vuoI rappresentare. Il suo giudizio viene dal profon­
do, il suo metro riconduce all'incommensurato. Per que­
sto motivo egli è superiore allo spirito del tempo e al suo
accecamento, e ben più del suo contemporaneo Robe­
spierre si sarebbe meritato il nome di « Incorruttibile ».
Ne deriva che i discorsi e gli scritti degli uomini, che
allora misero il mondo in movimento e lo orientarono in
una direzione in cui ancor oggi ci muoviamo, sono di­
ventati insopportabili. Le Oeuvres Politiques di Saint­
Just sono diventate una fonte di noia e persino i discorsi
dell'impetuoso Mirabeau hanno l'effetto di un sonnifero.
Si sono consumati e ammortizzati nel dazio che hanno
pagato all'epoca. La facilità con cui si sprigionano deva­
stanti uragani da parole, che assomigliano agli otri di
Eolo pieni di vento, ha da sempre occupato e angustiato
gli spiriti pensanti. Essa ha fatto sl che Eraclito parago­
nasse le lingue dei demagoghi a delle lame e ha condotto
Li-Tai-Po alla domanda:
Cos'è il poeta di fronte
a colui che uccide mille uomini?
In una figura simile, in un simile caso isolato si fa evi­
dente con quale lentezza il metallo puro venga dilavato
dai vortici e dalle correnti di epoche movimentate. An­
che le parole hanno la loro valuta e il loro peso. Una giu­
sta misura dà loro lunga vita come alle vecchie e buone
melodie, che sempre ritornano e rasserenano il cuore,
per quanto siano state sovrastate anche dalle canzonette.
Esse agiscono più a fondo che sulla passione.
Come ogni autentica domanda, forse essa racchiude già
in sé la risposta, come il frutto il nocciolo. La parola può
uccidere, ma può anche donare la vita, e in questa sua
facoltà è la parola poetica, creatrice. In quanto tale, essa
è superiore all'epoca e, come uno scoglio, affiora sempre
dai suoi gorghi e dalle sue maree.
Tutto ciò vale anche per Rivarol e vi sono alcune sue
parole per la cui comprensione solo oggi, intrisi di espe­
rienza, siamo maturi. In questo fatto vi è qualcosa di
consolante. Negli anni passati, e non solo, ogni persona
istruita si sarà sentita di tanto in tanto nella condizione
di chi sta affogando, di chi viene sopraffatto dal timore
di affondare nel mare del non senso. La fronte insolente
dei demagoghi, che hanno conquistato il potere, è im­
passibile, il plauso illimitato. Dopo la guerra perduta lo
spettacolo si capovolge. Tersite trionfa con una terribile
bruttezza che spaventa anche il vincitore.
Qui è consolante osservare che la moneta, che uno
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7
spirito incorruttibile ha coniato in una situazione analo­
ga, ha conservato peso e valore al cambio dei tempi.
8
« Rivarol non appartiene al primo rango della nostra let­
teratura. Egli vi aspirava e aveva la capacità di raggiun­
gerlo ma nella sua piena evoluzione venne ostacolato
dalla Rivoluzione e riso spinto a causa di questa sulla sce­
na politica. Morto prematuramente in esilio, all'età di
quaranta sette anni, non ha raggiunto la sua misura com­
piuta. » .
A questo giudizio, col quale Lescure apre la premessa
alla sua edizione di Rivarol, non si può obiettare nulla. A
ciò si aggiunga il fatto che i grandi lavori di Rivarol sono
rimasti dei frammenti. Totto questo trova la sua spiega­
zione non solo nelle ingiustizie di un'epoca, che, d'altra
parte, lo stimolò. Qui dobbiamo anche vedere il conver­
gere della sua già menzionata pigrizia e di un senso di
responsabilità, che attesta e connota ogni autentico sfor­
zo rivolto alla parola. Il tendere verso una formulazione
migliore, verso un'espressione più affilata consumò la
gran parte del suo tempo.
Ma il primo rango non viene raggiunto solo attraver­
so l'insieme, l'ampiezza di un corpo di opere. Come per­
sino i nostri autori più grandi restarono al di sotto di
questa soglia in alcune parti della loro opera, allo stesso
modo altri l'hanno raggiunta con delle prove, con degli
acuti. Conosciamo degli autori che con poche pagine,
anzi con una sola poesia, hanno sottratto il loro nome al­
l'oblio e lo hanno reso immortale. Così, finché vi sarà
letteratura e una scala di valori letterari, anche Rivarol,
con le sue massime, apparterrà a quelle schiere di esplo­
ratori e pittori del carattere umano che vengono definiti
24 moralisti e alla cui crescita è particolarmente favorevole
lo spirito francese, grazie alle sue virtù di socievolezza.
Cosi come sotto questo cielo soave certi frutti maturano
sino alla più alta bontà, allo stesso modo, soprattutto dai
tempi di Montaigne, qui prosperano anche quelle opere
che sono dedicate all'intima conoscenza del cuore, dello
spirito e del carattere umani, con i loro alti e bassi, con
le loro virtù e i loro errori. Con questo contributo la
Francia ha donato alla letteratura mondiale una serie di
libri famosi, la cui lettura ci dà il piacere di « leggere nel
cuore », di un gioioso conoscere e riconoscersi.
Ora, quando inseriamo Rivarol in questa serie, non
possiamo prescindere dalla sua epoca. Dobbiamo consi­
derare quel che era possibile alla fine del XVIII sec., in
confronto ai due secoli precedenti. La società è diventa­
ta molto più sensibile, ha messo dei tralci molto più deli­
cati che al tempo in cui la ritraeva La Rochefoucauld. In
molte cose essa è più raffinata e allo stesso tempo più in­
sicura. Nuove forze, che allentano gli antichi legami, vi
si sono infiltrate e si è già arrivati al punto in cui esse,
dalla teoria, dalla letteratura e dalla filosofia, fanno in­
gresso nella realtà politica. I cuori si sono fatti più sensi­
bili ma hanno anche perduto quel tratto forte, cavallere­
sco che ravviva le massime di Vauvenargues o l'audacia
di Pascal, che risveglia nel credente la vicina esperienza
di crudeli persecuzioni. Tuttavia, l'audacia non è venuta
meno nei singoli: come le lame, essa è diventata più fles­
sibile e si avvicinano degli anni in cui certo ve ne sarà bi­
sogno. Chateaubriand, che guarda dalla finestra della
sua abitazione, vivrà presto il momento in cui, conficca­
ta in una picca, una testa tagliata gli sfilerà davanti. Egli
non si ritrarrà.
Gli anni prima della tempesta sono memorabili in vir­
tù di una particolare apertura mentale. Non solo le por­
te dei salotti sono spalancate: anche nei cuori e nelle te­
25 ste entrano nuove sensazioni e nuovi pensieri. Nella coe­
sistenza, nello scambio e nella conversazione si osserva
quel che si incontrerà di li a poco nello scontro e nel di­
battito mortale. Le « Nozze di Figaro» vennero rappre­
sentate nel 1784, e proprio su iniziativa della Corte. Ri­
varol sedeva accanto all'autore e siè conservata la battu­
ta sarcastica che gli dispensò.
Attraverso questa liberalità la società, che T allemant
des Réaux ritrae nella pienezza dei suoi originari tratti
feudali e che in Saint-Simon si leviga e si raffina nelle
corti, si mostra ampliata e ravvivata da varie luci, che
non sono solo quelle dell'Illuminismo. Essa è incline a
ogni novità, benché si mantenga ancora nella vecchia
cornice. Non sembra ancora impossibile che questa so­
cietà riesca ad accogliere il Nuovo e sappia servirsene
per rafforzarsi. Cosl, con delle saracinesche e delle di­
ghe, si raggiunge un livello d'acqua che poi si alzerà fino
alla rottura degli argini.
A tali considerazioni era particolarmente adatto uno
spirito come quello di Rivarol: aveva a sua disposizione i
mezzi e anche l'espressione. La bilancia è per lui un sim­
bolo e quindi il significato originario della giustizia.
Questo significato plasma il mezzo, la lingua anzitutto,
cui egli conferisce armonia. Quel che dapprima sbalor­
disce per leggerezza, equilibrio ed eleganza, sfiorando
spesso il virtuosismo, arriva tuttavia più in profondità,
riposa su un autentico dono per la scoperta della verità,
sulla forza del giudizio.
9
Per questo motivo, sia qui detto in breve, Rivarol non
può essere annoverato neanche tra i Romantici. I suoi
giudizi non hanno niente da spartire con quell'aspetto
26 avvocatizio che contraddistingue il Romantico. Costui si
batte per una cosa perduta e ne vuole la restaurazione:
sia come artista, sia come politico, egli sta « fuori» dal
tempo come dallo spazio. n suo punto di vista è quello
dell'esautorato, con pretese sacerdotali o aristocratiche.
In rapporto ai suoi fini, il Romantico si trova nella condi­
zione del Paradiso perduto, che nel migliore dei casi egli
scorge ancora oltre il muro, e per lui non vi è prova più
dura della realizzazione di tale stato. Poiché la perdita ha
luogo nell'essere, questi non può essere salvato con mez­
zi politici. Ciò non esclude una superiorità spirituale.
Rivarol non si lascia portare sotto questo denomina­
tore neanche durante l'emigrazione, che è considerata
una serra delle idee romantiche. In lui non troviamo la
« disposizione di spirito », il Medioevo trasfigurato e il
Cristianesimo risolto in sensibilità bella. La sua espres­
sione è meditata fin nella ramificazione più sottile. Per
questo, nel giudicare la situazione, egli resta più sicuro
e più distante dalla tracotanza di quanto non sia Cha­
teaubriand, il quale reagisce senza freni al clima politico
e alle sue fluttuazioni. Rivarol non fu vittima di quell'er­
rore, cui il carattere umano è fin troppo incline e che
consiste nello scambiare la superbia con la forza: non vi
è stato alcun periodo della sua vita in cui lo si sia potu­
to definire un « ultra ». Già il suo gusto spiccato gli vie­
tava gli estremi: egli assomiglia al tiratore che vuoI col­
pire il centro della sagoma. Fu uno dei primi a pro­
nunciarsi contro l'inopportuno manifesto del Duca di
Brunswick.
Rivarol non è un Romantico, poiché nella sua interio­
rità, nella sua coscienza, non si è verificato quel taglio
netto che separa in modo nuovo passato e presente e in­
terrompe la tradizione in una maniera che viene sentita
in parte come liberazione, in parte come perdita. Perciò,
nel bel mezzo del gorgo egli può elaborare, con disinvol­
27 tura e acutezza, dei pensieri sull'ordine che sta alla base
della scena politica e dei suoi cambiamenti.
È caratteristico suo questo movimento lungo la linea
del buonsenso, che rinuncia agli accessori mistici. Si en­
tra con lui in uno spazio chiaro, in cui le misure comba­
ciano e mancano cripte e cappelle laterali.
Da cosa dipende il fatto che di fronte all'uso del ter­
mine « conservatore» si avvertono ostacoli cosl forti e
che tutto questo avviene in un'epoca che, come nessu­
n'altra, avrebbe bisogno di preservazione e protezione?
Se si prescinde dai nudi interessi, di ciò vanno incolpati
gli influssi romantici che sin dall'inizio si sono mescolati
a questo termine, influssi che, riposando sul sentimento
della perdita, hanno ripercussioni negative. Essi non
possono reggere né alla luce della critica né alla lotta
per il potere. Il vero conservatore è colui che meno si dà
al romanticismo, anzi, al sentimento stesso, e neanche
ne ha bisogno. Il « res, non verba » è per lui legge. Gli
avversari, che nuotano con la corrente, sono di gran
lunga più disinvolti. Invano, quando Rivarol onora uo­
mini e azioni, si cercherà l'incenso che, ad esempio, Mi­
chelet spande nella descrizione del 14 luglio. Egli appar­
tiene a quegli autori che sono letti ancor oggi con pro­
fitto da tutti coloro che nelle idee conservatrici cercano
di separare ciò che è durevole da ciò che è superfluo e
dannoso.
Le massime di Rivarol sono le sigle o anche i semi della
sua opera: qui troviamo condensato tutto ciò di cui egli
si è occupato in extenso. In queste massime la sua penna
si avvicina al suo punto di forza, la conversazione. Esse
non sono state pubblicate in questa forma durante la sua
vita ma sono il risultato di una selezione postuma. Come
in uno specchio rotondo, levigato, vediamo la figura spi­
rituale e le sue inclinazioni
A queste appartiene anzitutto la lingua, .che per lui si­
gnifica più che uno strumento di lavoro. Egli fa parte
dei pensatori che da questa prendono le mosse e per i
quali la parola sta all'inizio. Per tutta la sua vita egli si è
occupato della lingua e a questa occupazione deve anche
il suo primo grande successo. Nel 1783 vinse il premio
. che l'Accademia delle Scienze di Berlino aveva messo in
palio per la risposta alla domanda su come debba essere
spiegata l'universalità della lingua francese. Il lavoro con
cui si presentò gli guadagnò non solo il premio ma an­
che l'ingresso nell' Accademia, una lettera di complimen­
ti da parte di Federico il Grande, la corrispondenza con
numerosi dotti europei e una pensione che gli conferi
Luigi XVI. Improvvisamente divenne famoso.
Anche la sua ultima opera, l'ampia prefazione al pre­
visto Nouveau Dictionnaire de la Langue Française, di cui
si occupò negli anni del suo esilio ad Amburgo, è dedi­
cata alla lingua: è una miniera di acute osservazioni.
Questo dizionario non andò oltre una raccolta di mate­
riali e la prima metà, invero c~spicua, dell'Introduzione.
Non sarebbe stato ultimato neppure se Rivarol fosse vis­
suto più a lungo, poiché fa parte di quelle opere i cui ab­
bozzi si profilano in una mente vivace e la cui realizza­
zione richiede tuttavia più la ferrea assiduità di un Du
Cange che uno spirito che vive di ozio e per l'ozio. Riva­
rol progettò un contraltare all' Enciclopedia basato sulla
lingua. Era questa un'impresa che non poteva essere af­
fidata a una squadra di cervelli, come accadde per l'En­
ciclopedia di D'Alembert. L'ingresso nell'arsenale intimo
della lingua riesce solo ai singoli, diversamente che per
un progetto logico, fisico, cui sono utili la divisione del
lavoro e l'impiego di mezzi matematici e persino mecca­
28
29
10
nici. Questa è da sempre una differenza fondamentale
tra un'opera banausica e un'opera d'ispirazione. Peral­
tro, nella sua Introduzione al Dizionario tedesco, Jacob
Grimm definisce anche la collaborazione con il fratello
diletto come un pericolo per l'unitarietà dell'opera. Per
questo, l'intenzione di Rivarol di affrontare da solo l'al­
fabeto era giusta in linea di principio, sebbene destinata
al fallimento in fase di esecuzione.
II suo rapporto con la lingua è quello di un artista,
non di un uomo di scienza, anche se si è occupato con
acribia di Condillac e di altri predecessori. In generale,
si può ricavare il suo rango di autore dalla misura in cui
resta indipendente dalle scienze. Egli vive immediata­
mente della sovrabbondanza del mondo. Per questo, la
trasformazione e la conservazione del mondo ad opera
della poesia sono infinitamente superiori a quelle opera­
te dalle scienze, le quali seguono la poesia da lontano.
La poesia sta nel mutamento e non pertiene al progres­
so, che come Saturno divora teorie e invenzioni.
I dettagli del Discours préliminaire hanno spesso per
noi un interesse soltanto storico: diverso è il caso con le
decisioni fondamentali che vi stanno dietro. Esse riguar­
dano in primo luogo l'origine del linguaggio, che incita
in effetti a una decisione, visto che nessuna ricerca la
scandaglierà mai. Con questa grande questione ci si
comporta come con la libertà del volere o l'origine della
vita: esse rimangono necessariamente delle questioni
controverse. Più una mente è limitata, tanto meglio ne
viene a capo. Vi sono dei problemi che si pongono solo
con un certo grado di intelligenza. Non vi arrechiamo
mai un lume ultimo ma ci illuminiamo attraverso le no­
stre risposte.
In questo punto Rivarol si rivela un artista, un uomo
creativo, in quanto egli pone l'accento sullo spirito della
lingua, l'origine spirituale, le génie de la langue. Vatto
creativo è per lui al primo posto, indipendente, benché
non si debba escludere uno sviluppo di suoni e segni
animali grazie a convenzioni umane. Lo sviluppo resta
dipendente dal tempo e dalle sue casualità: l'intuizione
sta al di fuori del tempo. Questa sfera è inaccessibile alla
massa dei parlanti, benché costoro vivano di essa: il poe­
ta tuttavia vi si introduce e la lingua si avviva di nuovo.
Qui Rivarol si incontra con Hamann, che definisce la
poesia la madrelingua del genere umano. Lo precedeva
Rousseau, con il suo Essay sur l'origine des langues, poi­
ché egli spiega il linguaggio non a partire dal bisogno ma
dalla passione. Per questo la lingua parlata sarebbe più
forte di quella scritta: la lingua di Omero è il canto. Nel
corso del tempo le lingue perdono in forza e acquistano
in chiarezza.
Riguardo al progetto leibniziano di una lingua univer­
sale, Rivarol è dell'opinione che questa si limiti al biso­
gno mentre lo spirito della lingua prospera solo nella lin­
gua madre, alla quale non si potrebbe rinunciare. Anche
qui gli manca il tratto imperialistico. Ci si deve compor­
tare come in un viaggio, allorché si fa il giro delle più
belle lingue nazionali e ci si fonda sulla propria. Vi è
un'intima armonia tra la lingua e il parlante che si può
conseguire solo nella lingua madre. Le grandi lingue na­
zionali aspirano alla lingua universale: in questo senso
essa è ideale. Nella prassi vi sono sempre state delle lin­
gue universali: il latino come lingua dei dotti, il francese
come lingua diplomatica, l'inglese nell'uso corrente. Og­
gi disponiamo di un apparato di espressioni tecniche,
che hanno diffusione mondiale e alle quali il greco ha
molto contribuito. Si annuncia anche una lingua per im­
magini, non solo nei segnali per il traffico. Vi è un pri­
mato di segni e simboli, che sono diventati universal·
mente comprensibili attraverso processi planetari: il
commercio, le guerre, le prigionie, le sequenze d'imma­
30 31 gini e i film. La poesia, al contrario, prospera solo nella
madrelingua, poiché solo in essa lo spirito della lingua è
a casa.
La simpatia con cui venne accolto in tutta Europa lo
scritto di Rivarol è dovuta al misurato distacco che lo
contraddistingue. Egli magnifica la clarté come un privi­
legio particolare della sua lingua madre e la considera
non come perfezione matematica ma come un tratto pe­
culiare del suo carattere, riconoscendola allo stesso tem­
po come una debolezza, che va controbilanciata attraver­
so il talento. Questa clarté è anche il vertice rispetto a cui
va giudicata la forza e la concisione della prosa di Riva­
rol, con la riserva che nella concisione vi è anche la forza.
La lingua ha per lui il carattere della luce, anche se, simile
in questo a Diderot, egli non fa parte di quei latini per i
quali il mondo dei loro geroglifici è un mondo intera­
mente chiuso. Egli non respinge, come Marmontel, lo
« style imagé » ma sottolinea espressamente: « le style fi­
guré est toujours le plus clair et le plus fort ». Si osserverà
anchè che l'immagine viene privilegiata da quegli spiriti
che danno valore a ciò che è proprio e peculiare. A que­
sto riguardo, vi sono due grandi schieramenti che si indi­
viduano nello stile e che sono più nettamente separati di
quelli politici. «Un'idea appartiene al mondo intero,
un'immagine a te solo. » Questo motto,' indirizzato da]u­
les Renard contro Barrès, si può leggere nei due sensi.
Si considerino invece le immagini di Rivarol e il fatto
che la loro fonte è sgorgata dalla luce. Esse non sono im­
merse nell'acqua del mondo sotterraneo. Sono precise,
univoche, colgono nel segno. Non sorgono, come in
Eraclito, da occulte fontane. Per quanto attiene alla vena
profonda del linguaggio, Rivarol non può essere perciò
evocato accanto ai suoi contemporanei tedeschi come
Herder e Hamann. Non di rado, sono i medesimi gli og­
getti cui Hamann e Rivarol dedicano un aforisma. Ma:
.32
« le verità sono metalli che' crescono sottoterra » - que­
sto Rivarol non avrebbe potuto dirlo. Gli manca la for­
za cieca, spermatica. Tutto ciò è eracliteo, e corrisponde
al detto: «vale l'armonia invisibile ». Qui si arriva ai
profeti.
Vi sono dei critici che hanno rimproverato a Rivarol
la limitazione razionale delle sue immagini. Ma ciò si­
gnifica comparare l'incomparabile e lamentare mancan­
ze nell'oggetto sbagliato; è un po' come biasimare l'uc­
cello perché non ha le pinne. Al contrario, si deve sot­
tolineare che Rivarol, con le sue peculiarità, era attrez­
zato in maniera ottimale per il suo ambiente. Tra i suoi
pensieri preferiti vi è la corrispondenza di forza e stru­
mento e a questo riguardo bisogna dire che lo strumen­
to spirituale, di cui egli disponeva, era all'altezza delle
forze che l'epoca sprigionò. Esse fornivano acqua al suo
mulino e su questo si fonda la sua influenza, la cui in­
tensità immediata è confermata da una durata non infe­
riore. Egli non appartiene, come ad esempio Fechner, a
quegli spiriti pur notevoli che parlano al loro tempo
senza riscontro.
Per poter apprezzare un autore nella sua peculiarità,
ci si debbono accollare certi suoi giudizi. È questo un
principio contro il quale si va a urtare quasi sempre. Co­
me, secondo il vecchio proverbio, « non il giuramento
garantisce per l'uomo ma l'uomo per il giuramento », co­
sì l'uomo garantisce anche per i suoi giudizi. Se li sepa­
riamo da lui, conserviamo un fascio di opinioni. È que­
sta una cosa usuale in un'epoca in cui tutto e niente è si­
gnificativo. Ma l'avere un centro di gravità comporta al­
leggerimenti in altri punti. Così, Rivarol doveva essere
sensibile a Dante, che ha tradotto per i suoi connaziona­
li, e non invece a Shakespeare. Nelle note al suo Di­
scours egli dice che, per avere un'idea di Shakespeare, si
debbono mescolare ai grandi personaggi del Cinna a1cu­
.3.3 ni pastori, pescatori e dei rozzi contadini. «Se si trala­
sciano i passi sublimi e si distrugge l'unità di tempo, di
luogo e d'azione si ottiene la più bella opera di Shake­
speare. »
Questo è il giudizio di un uomo che chiude la sua
porta. E questo fatto è più significativo del giudizio stes­
so. La shakespearomania, come la defini Grabbe, era
una delle forze che facevano saltare le porte. Rispetto al­
l'anglomani a aristocratica del Palais-Royal, essa operò in
verità più anonimamente ma in maniera più incisiva e
più profonda. La partecipazione straordinaria di Lenz e
Klinger a Weimar dà prova di questo gusto. Una figura
come Danton entrò non solo politicamente in società ma
anche, più durevolmente, nel repertorio teatrale.
Del ruolo che giocava il teatro, a malapena abbiamo
ancora un'idea. Esso poteva sprigionare una potenza che
forzava lo spazio, e che, tra le arti odierne, forse solo la
pittura può esprimere: essa influisce però su cerchie
molto più ristrette. Ciò che veniva rappresentato non di­
pendeva in nessun modo da semplici questioni di gusto.
In certe rappresentazioni, si potevano davvero sentire le
volte creparsi.
Lo Sturm und Drang non poteva essere per Rivarol
nient'altro che una rozza forza elementare che si orienta
secondo un impulso sfrenato. La tempesta, che in Sha­
kespeare gioca un ruolo cosi grande, aveva per lui signi­
ficato solo in rapporto ai mulini a vento, non perché egli
fosse uno spirito interessato all'economia ma perché era
uno spirito controllato. In lui l'attitudine politica ha una
portata sostanziale e per questo i suoi giudizi politici
coincidono con quelli morali ed estetici.
34 11 La pubblicazione dell'opera premiata era stata precedu­
ta da una serie di critiche letterarie che si possono con­
siderare come note a margine delle sue due principali
occupazioni in questi anni: la lettura e la conversazio­
ne. Anche questa attività caratterizza tutta la sua vita.
Essa trovò il suo coronamento provvisorio nel Piccolo
Almanacco dei nostri grandi uomini e fu proseguita nel
Piccolo Almanacco dei grandi uomini della Rivoluzione e
nella Galleria degli Stati generali - in parte attraverso
un lavoro anonimo, che rivela inequivocabilmente la
sua mano.
Gli almanacchi costituiscono una specie di «Xe­
nien », nient'affatto clementi: ' furono la ragione più du­
revole della cattiva fama di Rivaro!. Quel che si dice sulla
persona suscita dei vespai ben diversi da quelli che pro­
voca un argomento oggettivo. Qui Rivarol provò il taglio
delle sue battute su tutti coloro di cui non condivideva lo
stile o la politica: tra questi Chamfort, Mirabeau, Nec­
ker, Lafayette, Joseph Chenier, La Harpe, l'Abbè Delisle
e Madame de Genlis, oltre a una quantità di autori che
sono diventati ignoti o che già allora lo erano.
L'Almanacco dei grandi uomini è ordinato alfabetica­
mente e a questo riguardo Rivarol osserva che esso è de­
stinato ad essere sfogliato per consultazione, visto che
anche i lessici non si leggono d'un fiato. Inoltre, chi vi si
arrischiasse, dovrebbe subire una quantità di brani che
non dicono niente. A dire il vero, aggiunge Rivarol, pro­
prio questi contengono i ritratti più fedeli.
« Roudier. Di lui non si può certo osservare alcunché
di lodevole. È duro essere condannati a una tale oscurità
presso i contemporanei. Cosa sarà di tutti questi nomi
tra qualche secolo? »
35
« Chas. I suoi pezzettini si trovano in tutti i giornali e
la loro quantità ha già reso necessaria una raccolta. »
« Duclos de Longwi. Poète breton qui jait des envois à
Paris. »
« Planchet. Questo autore deve essere straordinaria­
mente conosciuto presso alcune persone in virtù di un
racconto indiano che non ci è riuscito di trovare. »
Cose del genere non si ascoltano volentieri o si ascol­
tano volentieri solo degli altri. Si ha l'impressione che
Rivarol, per affilare la sua penna, abbia concesso all'iro­
nia, un vizio nazionale francese, molto più del lecito. Da
qui vennero i bonmot in circolazione. Con queste parole
egli salutò l'accademico Florian, che camminava davanti
a lui e nella cui tasca vide un manoscritto: « con quanta
facilità potrebbe derubarla chi non La conosce! »
Tutto ciò gli procurava delle amarezze letterarie. Bi­
sogna considerare che molte delle persone da lui ritratte
acquistarono potere politico allorché si affermarono co­
me giacobini. Ci sovviene di nuovo, frattanto, che in
tempi simili si rischiava la testa anche per scherzi più in­
nocenti.
Possiamo quindi apprezzare anche il fatto che Riva­
rol, privo di illusioni e combattendo una battaglia già
perduta, rimase a Parigi fino all'ultimo. Egli abbandonò
la città solo ilIO giugno 1792, alcuni giorni prima che la
plebe dei sobborghi facesse irruzione nelle Tuiléries e
mettesse al re il berretto rosso. Poco prima Rivarol aveva
indirizzato all'intendente del re un'ultima memoria:
« Sull'orlo del vulcano ». Poche settimane dopo, La Por­
te sall sul patibolo, assieme ad alcuni amici di Rivaro!. In
effetti, era l'ultimo momento per abbandonare dalla por­
ta di servizio una casa, al cui portale gli uomini del Ter­
rore bussarono di Il a poco: «Dov'è, dov'è il grand'uo­
mo? Lo vogliamo accorciare un po' ».
Diversamente da molti dei suoi compagni di sventura,
36
Rivarol non ha fatto di necessità virtù e non ha propa­
gandato l'emigrazione come il mezzo più efficace. Per
lui non era questione di esitazione ma di tragica scelta.
Egli la rinviò a lungo, poiché in essa vedeva piuttosto il
mezzo meno efficace. Soprattutto, egli non cadde nel­
l'errore di Coriolano: lasciare che la patria scontasse ciò
che lo spirito di parte aveva provocato.
12
« La politica è tutto », disse Rivarol a Chenedollé in una
delle sue conversazioni amburghesi. Tutto questo ricor­
da il detto di Napoleone: «( la politica è il destino ». Cio­
nonostante, è difficile precisare la visione politica di Ri­
varol, poiché, nelle stratificazioni annuali in cui si for­
mò, non è priva di contraddizioni. Le circostanze fecero
si che essa si sviluppasse in maniera tanto induttiva
quanto deduttiva; induttiva, in quanto egli segui e giudi­
cò attentamente la Rivoluzione sin dai suoi inizi; dedut­
tiva, in quanto si accinse a elaborare sempre di nuovo
una teoria, un sistema dell'arte di governare. Nessuna
delle due tendenze giunse a compimento, poiché Rivarol
non visse la fine della Rivoluzione né conchiuse definiti­
vamente il suo sistema.
Il formarsi dell'opinione per strati e contraccolpi ap­
partiene ai tratti caratteristici di tempi in cui si infrange
una diga dopo l'altra. Lo troviamo anche in Chateau­
briand e persino in un pensatore sistematico come
Sieyès. Tutto ciò si prolunga sin nella prima metà del
XIX sec.; esempi tipici sono Garres, il cui viso da vecchio
si segnalava come un campo di battaglia delle idee, e
maestri della conversione repentina come l'abate La­
mennais.
Altri tempi e paesi erano più favorevoli alla crescita
37
delle idee. Prima di scrivere lo Spirito dette leggi, Monte­
squieu, cui Rivarol deve molto, poté raccogliere materia­
li nei paesi d'Europa nel corso di viaggi che durarono
anni. A Burke tornò utile la posizione isolana: l'Inghil­
terra fu sempre un classico punto di osservazione per lo
spirito contemplativo. Secondo l'antica regola, ora supe­
rata, nella sua politica essa dovrebbe essere l'avversaria
della seconda potenza marinara. Tutto questo sarebbe
una conseguenza della sua posizione esterna: molto più
profondamente, e cioè nel carattere, si radica un atteg­
giamento che la contrapporrà sempre alla più grande
potenza rivoluzionaria. Perseguendo questa linea, l'In­
ghilterra andrà contro persino al suo interesse manife­
sto. A questo carattere che la porta a resistere alla poten­
za deI momento si deve il fatto che essa conduce le guer­
re temporeggiando e affidandosi alla durata. Questo è
un tratto conservatore.
In fondo, Rivarol è rimasto fedele a se stesso, nono­
stante l'epoca e i suoi torbidi, anche quando mutò le
proprie vedute sulla prassi. Scarti repentini ed eccessi
erano lontani dall'armonia del suo carattere, anche lad­
dove nei suoi scritti si osserva un lavoro di serra. La na­
tura di questo lavoro faceva sl che egli si rivolgesse lar­
gamente alle riviste, che allora fiorivano in gran numero.
Ciò vale anzitutto per il Journal po/itique national, che
iniziò a uscire il 12 giugno 1789, e per i famosi Actes des
Apotres, in cui gli uomini della Rivoluzione si presenta­
no come gli apostoli di una nuova religione. Dal primo
giorno, con decisione, Rivarol prese partito contro la Ri­
voluzione.
Oggi, solo con uno stupore retrospettivo si possono
prendere in mano gli Actes des Apotres, che uscirono in
quattro annate, sino a poco prima della fuga di Rivaro1.
La terza annata, pubblicata A Pans, t'an de t'anarchie 1",
si apre con una « descrizione comparativa », in cui viene
38 tracciata la storia dell'infelice Carlo I -d'Inghilterra. « La
regina, bersaglio d'offese e persecuzioni, faceva prepara­
tivi per fuggire nel continente. » Il LXI numero è dedica­
to alla prima seduta del Club dei Giacobini: l'entusia­
smo era enorme « ma l'estasi è notoriamente un nemico
del ricordo ».
Simili arditezze paiono al lettore successivo ancora
più stupefacenti che ai contemporanei, poiché nello
sguardo a ritroso l'immagine della Rivoluzione si con­
densa e perde i toni intermedi. Ma noi, oggi, sappiamo
che processi come le rivoluzioni non si danno cos1 mas­
sicciamente e che restano sempre delle lacune, delle iso­
le in cui più o meno si gode di sicurezza o quantomeno
dell'illusione della sicurezza. Vi sono dei singoli che per
un certo periodo garantiscono protezione, vi sono case e
circoli in cui si è al sicuro e vi è quell'illusione diffusa
che, dall'assurdità degli eventi rivoluzionari, deduce una
loro breve durata. Non può andare, dice il sano buon­
senso. Esso giudica con esattezza ma con troppo ottimi­
smo, poiché è singolare quanto a lungo possa mantener­
si una situazione insostenibile. Di questo stato d'animo,
con le sue speranze e le sue voci, si nutrono gli scontenti
e i perseguitati in cerchie più o meno visibili, vivono ri­
viste, locali e persino cabarets. A ciò si aggiunge il fat­
to che certi intrighi non sono sgraditi ai detentori del
potere ovvero che essi temono meno questi dell'anonimo
silenzio, che diventa inquietante. Essi facilitano il lavo­
ro della polizia. Rivarol racconta che essa aveva intro­
dotto clandestinamente dei provocatori in uno dei locali
da lui frequentati, il « Caveau ». All'epilogo della sua vi­
ta, Goebbels disse dei massacri del 1934 che di tanto in
tanto si debbono stanare i topi dai loro buchi.
Le rivoluzioni si sviluppano non in maniera logico­
costruttiva ma secondo il tipo dei processi organici, in
cui la testa ha una parte inferiore a quella del sistema ve­
39 getativo. Esse hanno i loro « giorni », i loro spasmi e le
loro spinte, provocati più da scatti contingenti che da un
piano: un'oscura diceria, il panico, una zuffa per strada,
dispute al mercato, un attentato. In mezzo e anche ac­
canto a tutto ciò, in altri quartieri, la vita continua: la
posta viene distribuita, si va al caffè come sempre. La
notizia dell'assalto alla Bastiglia arriva a Versailles solo la
sera: il re la prende come una semplice rivolta. Il com­
portamento della Corte dal 14 luglio a quel 5 ottobre,
mentre Luigi XVI si trattiene a caccia nella foresta di
Meudon, è pieno di illusioni. La cosa inquietante in tut­
to ciò è la forza del destino. Michelet la ascrive al genio
del popolo. Machiavelli dice: « ... quando voglia la for­
tuna condurre grandi rovine, ella vi prepone uomini che
aiutino quella rovina. E se qualcuno fusse che vi potesse
ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcuno bene ».6
Certo, tutto questo colpisce nel segno. La carriera di
Mirabeau aveva raggiunto probabilmente la sua fine an­
che senza la malattia. Tantissimi cervelli, spesso come in
uno stato febbrile, hanno riflettuto su ogni particolare di
quei giorni che per tutti noi sono diventati un destino.
Che cosa ha fatto La Fayette e che cosa avrebbe dovuto
fare in quella grigia giornata di ottobre? La riflessione
nasce insieme agli eventi e a questi si congiunge negli
opuscoli, nei giornali e nei memoriali, nelle lettere al re,
all'Assemblea nazionale, a Mirabeau e Necker, come an­
che Rivarol ne scrisse. Ma vi sono tempi in cui nessuno
può opporsi alla corrente senza cadere. Sono gli stessi
tempi in cui è considerato un delitto il non essere appas­
sionati.
Tuttavia, troveremo sempre delle menti che si distin­
guono per un chiaro giudizio della situazione. Rivarol ne
è un esempio eccellente. Il cieco entusiasmo era contra­
rio al suo carattere ed egli non poteva scorgere la ragio­
40 nevolezza o la moralità di un'azione nel fatto che la mag­
gioranza o addirittura tutti la ammettessero. Egli ritene­
va decisivo il sano buonsenso e tuttavia non come una
dote universale ma come una rara eccezione, un po' co­
me il perfetto equilibrio che viene raggiunto dalla bilan­
cia solo di rado. Nonostante i disordini, gli ultimi anni
parigini gli furono di grande giovamento. Un teoreta che
non abbia conoscenza dei casi di emergenza assomiglia a
un maestro di scherma che ha sempre combattuto nella
bambagia. Un Clausewitz senza l'esperienza del campo
di battaglia è altrettanto impensabile di un Machiavelli
che non abbia vissuto e patito i disordini fiorentini. L'os­
servazione della guerra civile dal punto di vista dell'emi­
grazione conduce necessariamente a giudizi erronei, co­
me quelli che Rivarol, divertito, vedrà illustrati nella
conversazione di due arcivescovi fuggiti a Bruxelles.
Al contrario, il suo resoconto dei primi sei mesi di Ri­
voluzione nel Journal politique national è quello di un te­
stimone oculare che cerca di formulare dei giudizi misu­
rati. Il loro valore si può già ricavare dal fatto che Burke
li utilizzò come una delle sue fonti principali, tanto per i
dati quanto per gli argomenti. Negli Actes des Apotres la
polemica assunse poi forme di guerriglia. Sopraggiunse
la visione dei misfatti: essa ha inasprito il giudizio di
molti spiriti europei e cosl anche quello di Rivaro!. La
sua posizione in questi anni può essere ricavata, con Le­
scure, dal fatto che egli era il difensore in extremis del
re. Solo quando il re venne esautorato, pensò alla sua si­
curezza.
A Bruxelles, la sua prima tappa all'estero, egli inaugu­
ra la sua attività letteraria con una Lettera alla nobiltà
francese, che doveva mitigare l'impressione suscitata dal
manifesto del Duca di Brunswick. Nonostante l'inquie­
tudine e le relazioni sociali intrattenute negli anni a
seguire, Rivarol è occupato permanentemente da due
41 grandi progetti: il suo dizionario e la sua teoria dell'arte
di governo, in cui egli intende risalire «alle fonti dei
prindpi ». Entrambi, come si è detto, ci sono noti solo
attraverso dei frammenti, che tuttora testimoniano a suf­
ficienza la configurazione spirituale dell'autore.
D'altronde, non si può dire che su di lui si sia forma­
to un giudizio consolidato. Ciò dipende tanto dalla va­
rietà dei punti di vista quanto anche dalle contraddizioni
all'interno dell'opera; soprattutto, pero, dal fatto che i
grandi conflitti, di cui si è occupato Rivarol, sono ancora
dolorosi, ancora brucianti. Non possiamo considerarli
con la necessaria tranquillità e come qualcosa di com­
piuto: sempre si insinua lo spirito di parte. Il confronto
con e su Rivarol riempie una piccola biblioteca. Spesso,
studiandola, si ha l'impressione che la foresta sia nasco­
sta dagli alberi.
La peculiarità delle idee di Rivarol non risiede nella
loro novità o nel fatto che vengono proposte soluzioni
sorprendenti. Queste sono piuttosto le idee dell'europeo
colto del suo tempo. In molte delle menti migliori dell'e­
poca, in molti dei suoi spiriti responsabili, troviamo, co­
me in Rivarol, il desiderio di conservare il legame con il
passato e di continuare a costruire sui canovacci della
vecchia civiltà. Questo desiderio si fa più vivo con lo svi­
luppo delle forze rivoluzionarie e alla vista degli eventi
parigini. Qui si annuncia un turbine che pare condurre a
un'assenza di misura, forse alla barbarie. La concentra­
zione è cosl forte che sono da prevedere grandi esplosio­
ni, grandi distruzioni. Le guerre nazionali allungano già
la loro ombra. In questa confusione della catastrofe ma
anche della rinascita, in cui idee teologiche, filosofiche,
nazionali, sociali, romantiche si liberano e cercano di
edificarsi in sistemi, l'atteggiamento classico è quello che
può contare in minima parte su una partecipazione pas­
sionale. Nella sua aspirazione a mantenere in equilibrio
42 vincoli e libertà, esso deve urtare sulla Destra come sulla
Sinistra. A questo riguardo, non gli manca un proprio
spazio di espansione, se si pensa a un'impresa azzardata
come le Idee per un saggio volto a determinare i limiti
dell'attività dello Stato di Wilhelm von Humboldt. Cer­
to, è comune a tutti il punto di vista di Goethe, secondo
cui solo una « cultura formatasi nella tranquillità» può
portare le nazioni alla piena maturità. Ma quanto sia dif­
ficile proporre una massima cosi semplice, anche quan­
do si gode della più alta considerazione, lo dimostrano
gli attacchi a Goethe in cui gareggiano liberali e naziona­
listi. Sin dall'inizio egli venne guardato con sospetto, e lo
è ancor oggi. In un altro punto Goethe afferma: «è dif­
ficile rassegnarsi agli errori dell'epoca: se li si contrasta,
si resta soli, se ci si lascia prendere, non se ne ricava né
onore né gioia ». Considerazioni simili, più taglienti, si
trovano sparse nei diari di Grillparzer.
Una monarchia costituzionale e tuttavia forte, la no­
biltà come classe illuminata, la Chiesa come potenza
conservatrice che il singolo ha da rispettare, anche lad­
dove una libertà interiore lo facesse uscire dai limiti dog­
matici - in questi pensieri fondamentali Rivarol è certo
conseguente ma non originale. Egli li condivide non solo
con una élite spirituale ma anche con la mentalità di va­
sti circoli, in cui essi sono ancora vivi. Anzi, essi rivelano
il loro influsso su tutte le costituzioni del XIX secolo.
La peculiarità e l'irripetibilità di questo spirito risiede
piuttosto nella formulazione dei pensieri, nel loro equili­
brio stringato. Essi sono talvolta abbaglianti, talaltra
convincenti anche nella loro parsimonia, .come i movi­
menti di un ballerino che compare per un attimo a mo­
strare una figura che è insuperabile. Si sente che quella
può essere solo cosi, non altrimenti. Non si dice niente
di nuovo, ma l'arcinoto viene ridotto alla sua formula.
4.3
Anche il danzatore non può mostrare niente di più,
niente di diverso dal corpo umano.
Rivaroi non cerca di dare un nuovo senso allo stato
ma da questo vuole tirar fuori la razionalità, che da sem­
pre è in esso contenuta e di cui abbisogna per la sua esi­
stenza. L'intenzione di Rivarol consiste nel liberare ciò
che è sempre valido dalla massa storica, così come si
fonde il minerale puro separandolo dalla roccia. A ciò si
aggiunge l'impronta che dà alle sue frasi il carattere di
monete. !l loro valore risiede, più ancora che nell'effigie
e negli stemmi, nel metallo puro e temperato.
I giudizi di Rivarol sul popolo non possono soddisfare il
lettore odierno. In essi lo disturberà il distacco, anzi il
sangue freddo. Per Rivarol, il popolo appartiene a ciò
che, in quanto corps sodal, egli contrappone allo Stato in
quanto corps politique. Egli impiega le espressioni peu­
pie, bourgeois e dtoyen, inoltre populace in connessione
alle violenze e public laddove parla del popolo come
soggetto dell'opinione. La massa del XIX secolo gli si an­
nuncia nella popolazione parigina. « Parigi non è la pa­
tria di nessuno. » Spesso ci si imbatte in opinioni del ti­
po di quelle che un secolo dopo Le Bon preciserà socio­
logicamente.
Il popolo è per lui sempre immaturo, sempre in una
condizione infantile, spesso crudele e assolutamente cre­
dulone. Segue sollecitazioni emotive. Quando Rivarol
parla del popolo, lo fa sempre in base all'idea di popola­
rità, come parlasse di una forza elementare che reclama
necessariamente l'idea di forma. In questo caso egli pen­
sa al governo e allo Stato, così come l'uomo di mare
pensa alla nave e al timone e il contadino all'aratro
quando parla del terreno. Questa è ancora la mentalità,
dei Gabinetti del XVIII secolo: governare è un'arte con­
solidata. Anzitutto, Rivarol fa ancora una chiara distin­
zione tra popolo e Stato. Tutto ciò gli concede una mag­
giore disinvoltura rispetto ai suoi odierni lettori, per i
quali il termine « popolo» è divenuto in parte un tabù e
in parte una parola magica. Per questo, in Rivarol non
troviamo neanche quell'irritazione dell'individuo emi­
nente di fronte alll\ massa, che cresce ininterrottamente
nel corso del XIX secolo. Rivarol non avrebbe mai pro­
nunciato una frase come quella di Baudelaire: « al massi­
mo, il dandy parla al popolo per schernirlo ». In osserva­
zioni del genere si scorge la crescente lontananza dell'ar­
tista dal popolo, cioè a dire dalla borghesia che è uscita
dalla Rivoluzione e dai suoi interessi, una frattura che
raggiungerà il suo massimo in Nietzsche e nel modo in
cui egli valuta i « Troppi ».
D'altra parte, a questo comportamento dell'individuo
geniale corrisponde la crescente esaltazione emotiva del
popolo, che porta alle note sentenze, in forma di scritte
murali, del tipo: « il popolo è tutto, tu non sei niente ».
Allorché nell'opinione corrente il popolo viene innalzato
a tutto, a tutto autorizzato e di tutto reso capace, esso
perde forma e volto. Rivarol ne aveva un'opinione più
modesta ma per lui valeva effettivamente di più.
Nel frattempo, questi rapporti si sono spostati nella
zona della prassi visibile, dell'esperienza quotidiana.
Chiunque passi davanti a un'azienda «di proprietà del
popolo» non si aspetta, neanche in sogno, che là gli si
paghino i dividendi. Nessuno si aspetta neppure che dai
giudici di una Corte popolare gli sia riservato un tratta­
mento particolarmente gentile. Piuttosto, oggi ognuno
sa che certe parole sono più gratuite dei colori con cui le
si dipinge sui muri.
Di nuovo, anche se in una situazione del tutto diver­
44 45
13
La concisione è un mezzo di chi è spiritualmente supe­
riore ma fisicamente debole,di chi non si può abbando­
nare a lunghi dibattiti. Nonostante tutte le sue invettive,
Rivarol sta sulla difensiva, nella posizione in cui bisogna
mantenere le scorte. In questo caso, occorre notare che
egli non solo sta dalla parte dei perdenti come difensore
della monarchia ma anche che combatte per la propria
causa. Già Sainte-Beuve ha visto in questo la difesa di
uno spirito colto contro le potenze livellatrici, il cui av­
vento lo atterrisce. Noi possiamo concepire questo rilie­
vo in maniera ancora più circoscritta e dire che in Riva­
roll'artista si difende dalle potenze dell'epoca, la cui mi­
naccia mortale egli vede agli inizi.
Tutto ciò conduce a considerare quella vasta area in
cui l'artista incontra i detentori del potere e lo Stato, e
porta a riflettere sulle questioni della libertà, della sicu­
rezza e della difesa, che riguardano lo Stato stesso. Si
può pensare all'artista come al portatore di una grande
ricchezza, che è minacciato proprio da questa ricchezza.
Ora, è singolare come la penetrazione in profondità del­
l'artista nel mondo e nei suoi tesori si accompagni spesso
alla cecità per la situazione in sé. Di qui la partecipazio­
ne a quei movimenti che attraverso la libertà portano al
livellamento. Di esempi se ne possono citare a volontà e
anche di strade, seguendo le quali, si perde o la testa o,
ancor peggio, la forza creativa. Ora, l'impulso alla liber­
tà è un tratto universalmente umano che raggiunge il
suo culmine e viene poi bilanciato da contrappesi. Esso
viene inseguito quasi in ogni esistenza artistica, anche se
non di frequente nei suoi aspetti puramente politici, co­
me in Dostoevskij.
Qui Rivarol ha visto sin dall'inizio con occhio impar­
ziale, e la parola « libertà» lo ha toccato poco, lui che
conduceva personalmente una vita così libera. Si è sem­
pre interrogato su chi la pronuncia e su ciò che con essa
si intende. Egli sentiva che una società che si libera in vi­
sta dellivellamento non promuove l'artista e che questi è
destinato a inaridirsi, a estinguersi. Egli sapeva anche
che non è buona cosa quando la ricchezza si fa anonima
e si trasforma in una funzione all'interno di un apparato,
controllato da una schiera di funzionari senza nome.
L'artista dipende dall'esistenza di conoscitori, estimatori,
dilettanti, collezionisti, mecenati, uomini munifici, i qua­
li, al di là della semplice accettazione della vita, sono in­
teressati al suo approfondimento e abbellimento, alla
sua spiritualizzazionej e dipende dal fatto che qui lo
sperpero può diventare virtù. Tutto ciò presuppone un
certo numero di uomini ozianti e anche una ricchez­
46
47 sa, l'uomo si vede posto dinanzi al problema di Wilbelm
von Humboldt, « determinare i confini dell'attività dello
Stato ». TuttO ciò è possibile solo se si sa distinguere tra
popolo e Stato. Il movimento diviene altrimenti senza
fine.
Anche se Rivarol seppe farlo, non si può tornare alla
sua posizione. Davanti a noi sta il compito di riempire
nuovamente la parola « popolo », un compito che nes­
sun passato ci può sottrarre. Il modo in cui si sviluppa il
nostro mondo del lavoro è più favorevole a questo com­
pito di quanto lo fosse l'individualismo del secolo scor­
so. Ma esso non può essere adempiuto senza un aiuto
teologico, attraverso il quale soltanto l'uomo può essere
riconosciuto non solo come il «Prossimo» ma anche
come il « Libero ed Eguale », e con ciò essere liberato
dal suo isolamento, di cui sono un segno i grandi luoghi
di orrore del nostro mondo. Un poeta come Dostoevskij
lo ha riconosciuto.
14
za ereditaria, il raffmamento del gusto e del giudizio che
è il frutto maturo di generazioni. Rivarol contrapponeva
a questa ricchezza la forma barbarica delle grandi fortu~
ne accumulate dagli esattori di imposte e dai fornitori
bellici.
In maniera analoga all'uniformazione della società,
l'avvento dello Stato nazionale doveva risultargli inquie­
tante. In ciò egli doveva vedere un indebolimento della
monarchia, dell'esercito, degli Stati generali, delle pro­
vince e, addirittura, delle nazioni: il semplice incremen­
to, alla fin fine illusorio, a scapito della sostanza. Forse
solo oggi, che siamo in cattive acque, tutto ciò si può
nuovamente apprezzare.
A Rivarol premeva la ricchezza della tavolozza, non le
sue dimensioni. Per quante siano le ragioni di coloro che
promuovono un livellamento, ciò non è compito dell'ar­
tista. Questi è colui che deve mettere in gioco una liber­
tà superiore a quella dei prìncipi e che egli trova in se
stesso. Egli dimora in ciò che non ha confini e deve te­
mere il cammino che porta dal poeta nazionale all'impie­
gato statale e al pensionato. Alla fine vi è la routine ve­
nale e l'esaltazione remunerata, mentre sullo sfondo fu­
ma lo stabilimento degli sfruttatori.
15
Ai dati esteriori si deve aggiungere che Rivarol emigrò
dapprima a Bru:x:elles. Si trattenne là sino ai primi del
1794, quando Pichegru si avvicinò alla città con la sua
armata rivoluzionaria. Là egli conduceva la sua vita abi­
tuale; si occupava dei suoi progetti, pubblicava e fre­
quentava la società più o meno buona degli emigrati.
Tracce del suo soggiorno a Bruxelles si trovano nella
letteratura contemporanea, nelle Memorie d'oltretomba
48 di Chateaubriand e nell'epistolario di Fersen con la regi­
na. Nel contegno o ritegno di Fersen verso Rivarol si ri­
specchia la cautela con cui da sempre i legittimisti della
più bell'acqua e anche la Chiesa si sono incontrati con
gli avventizi che a loro accorrono dalla letteratura. Qui
si ha il pregiudizio del vecchio soldato verso il volonta­
rio ma anche la sensazione che in questa offerta si na­
sconda il regalo dei Danai, un'arma a doppio taglio. I le­
gittimisti possono avere ragione, poiché un rapporto ra­
gionato non è più quello originario. Ma ogni vincolo tra
uomini fondato sulla fiducia e su promesse solenni sot­
tostà agli influssi del tempo. Sopraggiungono crisi che o
provocano la rottura o portano a una meditata riparazio­
ne. Se questa riesce, l'unità può diventare più salda di
prima.
Senza dubbio, per la sussistenza della monarchia era­
no allora più importanti spiriti nobili come Rivarol che
rigidi realisti del tipo di Fersen, sotto la cui supervisione
fu redatto il manifesto del Duca di Brunswick. Qui si ur­
ta contro il medesimo, errato giudizio della situazione
che trent'anni più tardi promanerà dalle ordinanze di
Polignac. Ma, in simili svolte, sempre si rinnova l'incon­
tro tra caratteri aperti e caratteri assoluti: essi apparten­
gono a quel tipo di figure storiche che si presentano con
maschere sempre nuove. Si leggano, ad esempio, gli at­
tacchi del vecchio Marwitz a Hardenberg. 7 Nei circoli di
Corte si diceva persino, di un conservatore come il gene­
rale Yorck, cui la monarchia prussiana doveva tanto, che
egli avrebbe dovuto suicidarsi dopo T auroggen. 8
Da Bruxelles, Rivarol si diresse attraverso l'Olanda a
Londra, dove egli, nonostante fosse stato accolto con
onore da Pitt e dal suo ammiratore Burke, rimase solo
alcuni mesi. Sembra che la città gli si addicesse poco e
che egli non vi trovasse i necessari aiuti. Dopo qualche
tempo, cercò quindi di procurarsi un asilo accoglien­
49 te. Gli fu offerto ad Amburgo, dove si era diretta sua so­
rella Françoise in compagnia di Dumouriez, con cui
condivideva l'esilio. Nella sua casa, come in quella di
Madame de Neuilly e di altre dame, si riunivano gli emi­
grati realisti. Rivarol vi trovò un terreno fertile. Ad Am­
burgo abitava anche l'editore francese Fauche, con il
quale concluse un favorevole contratto per il dizionario
in programma. La prima parte dell'ampio Discours préli­
minat,e apparve nel 1797 ed ebbe grande successo.
Rivarol occupava una piccola casa a Hamm, un sob­
borgo di Amburgo. Qui egli spendeva il suo tempo in
meditazioni sulla grammatica generale e superiore,
quando non lo dedicava a lunghe passeggiate o a un'e­
stesa e faticosa vita di relazione. Egli si limitava aIIa cer­
chia della colonia francese o, per meglio dire, degli
ascoltatori francesi: si rivolgeva alla loro comprensione e
ancor di più alloro fiuto, il fiuto che si acquisisce solo
nella madrelingua. Per questo motivo non arrivò nean­
che a incontrarsi con dei tedeschi eminenti quali KIop­
stock e Claudius, coi quali viveva in certo modo porta a
porta. A prescindere da ciò, la società amburghese incli­
nava piuttosto per gli emigrati liberali: La Fayette venne
salutato con entusiasmo.
Nei suoi rapporti personali Rivarol non era schizzino­
so, purché soddisfacessero le sue pretese spirituali. Egli
frequentava uomini di mondo come Tilly e altri, a causa
dei quali l'emigrazione in Germania si è fatta una cattiva
fama. Possediamo una lettera di Jacobi in cui si ritrova
questa impressione. Anche in Germania, a Rivarol non
mancavano i nemici, poiché neI frattempo molti di colo­
ro che aveva ritratto nell'Almanacco dei grandi uomini, o
altrove, erano emigrati. Così, si era diretta ad Amburgo
anche Madame de Genlis, sulla quale precocemente e ri­
petute volte egli aveva provato il filo tagliente della sua
battuta. Per questi intrecci deve essere nata allora, pro­
50
babilmente ad opera di Arndt, l'espressione «cricca di
emigranti ». Chateaubriand li ripartiva in categorie. An­
noverava Rivarol nell'« emigrazione fatua »: similmente
a Ligne, egli avrà notato in lui poco più della superficie
dandystica.
Di conseguenza, anche ad Amburgo non mancarono i
fastidi. Inoltre il passo strascicato che prese il lavoro al
dizionario portò a dei contrasti con l'editore Fauche.
Tutto questo può aver indotto Rivarol a interrompere la
sua permanenza a Hamm verso la fine de11800 e a tra­
sferirsi a Berlino. L'emigrazione è una condizione noma­
de, in cui sempre si tratta di togliere le tende. È una vita
da ospiti. Anche a Berlino, per lui, membro dell' Accade­
mia, si aprivano le grandi case, tra cui quella della signo­
ra von Kriidener. Egli frequentava inoltre le principesse
Gallitzin e Dolgorukij, alle quali era legato da amicizia.
Possediamo molte testimonianze su questo brillante
soggiorno berlinese, che però la morte concluse già il 5
aprile 1801. Una grave infreddatura si portò via Rivarol.
Il suo corpo, consumato come una candela che brucia
alle due estremità tanto per l'incessante attività spirituale
quanto per i piaceri, oppose solo breve resistenza.
Antoine de Rivarol venne sepolto al cimitero di Do­
rotheenstadt: la sua tomba cadde ben presto nell'oblio.
Quando nel 1856 Vernhagen von Ense volle farvi visita,
non la trovò più.
La sua fama gli è sopravvissuta. Un'esistenza simile
viene nobilitata dall'opera, che, come la perla alla con­
chiglia, le conferisce senso e rango. Tra i vecchi e i nuovi
autori egli resterà esemplare per l'intrepido e tuttavia
ponderato atteggiamento con cui il singolo si contrappo­
ne alla corrente del tempo, che minaccia di divorare tut­
to e di cui solo pochi cuori e poche menti sono all'altez­
za. « Egli, ha adornato e attrezzato la ragione con le armi
51 Torniamo ancora una volta alla domanda posta all'ini­
zio: un autore morto da cento cinquant'anni, che cercò
di affrontare come singolo la Rivoluzione allo stato na­
scente, che significato ha per il nostro tempo, cioè per
un tempo in cui questa Rivoluzione si è consolidata,
trionfante, in tutte le sue conseguenze e su tutta la linea,
territorialmente e planetariamente, teoricamente e prati­
camente, nelle abitudini e nelle istituzioni?
Da lungo tempo sono tramontati i regni che si disco­
starono dalle nuove idee, Prussia, Austria e Russia, e tra
essi si potrebbe annoverare anche la Turchia; il fatto che
siano stati scalzati quasi in un giorno e da ambo i lati
dello scacchiere offre un'idea della forza livellatrice del­
l'attacco. Mentre in questo caso l'attacco suscita delle
immagini meccaniche, come quelle delle corone infran­
te, in altri regni avversi al cambiamento esso sembra
piuttosto operare chimicamente, per mezzo di una più
sottile dissoluzione. Tutto ciò è da vedersi spazialmente,
ma il trionfo delle idee del 1789 si ripete anche tempo­
ralmente nelle grandi spinte contro le potenze conserva­
trici e i regimi personalistici, contro gli imperi formati
dalla massa, contro la monarchia restaurata, contro la re­
'galità borghese e la borghesia fondiaria conservatrice. I
castelli vengono distrutti o trasformati in musei, anche
laddove vi si incontrano ancora i re.
La parola « conservatore» non appartiene alle crea­
zioni felici. Racchiude un carattere che si riferisce al
tempo e vincola la volontà alla restaurazione di forme e
condizioni divenute insostenibili. Oggi chi vuole ancora
conservare qualcosa è a priori il più debole.
Sarà dunque bene cercare di separare la parola dalla
tradizione. Si tratta piuttosto di trovare o anche di ritro­
vare quel che da sempre viene posto e che resterà alla
base di un ordine salutare. Ma in questo c'è qualcosa di
extratemporale, cui non si giunge né con un regresso né
con un progresso. I movimenti vi ruotano attorno. Solo i
mezzi e i nomi si modificano. In questo senso si deve
concordare con la definizione fornita da Albrecht Erich
Giinther, che non intende la conservazione' come un
« restare attaccati a ciò che era ieri ma come un vivere di
ciò che sempre vale ». Ma può sempre valere solo qual­
cosa che si sottrae al tempo. Ciò si fa valere, e in verità
in maniera funesta, anche quando non se ne tiene conto.
La volontà di mantenere ciò che non è da mantenere
rende infruttuosa la critica conservatrice, che così spesso
è congiunta alla bellezza e all'acutezza di spirito. Si entra
in palazzi mezzo rovinati, che sono diventati inabitabili.
È questo il sentimento che suscitano oggi le opere di
Chateaubriand, de Maistre, Donoso Cortés e alla lonta­
na anche quelle di Burke, che esercitarono un così gran­
de influsso sul Romanticismo tedesco. È certamente lo
stesso sentimento da cui Nietzsche trasse il paradosso
secondo cui ciò che cade deve essere ancora abbattuto e,
in effetti, le spianate devono precedere le edificazioni.
Per questo motivo, ancora Léon Bloy si definiva come
un imprenditore di demolizioni, ma oggi anch'egli do­
vrebbe mettere da parte il suo mestiere.
Sempre si vedono dei giovani che si impegnano in
tentativi infruttuosi, come ad esempio la restaurazione
della monarchia. A questo riguardo, i Francesi hanno
pagato il prezzo dell'apprendistato e bisognerebbe farse­
ne una ragione in tempi in cui non esistono più né un
monarca né un popolo atto alla monarchia. In tempi
52 53 dello spirito », dice uno dei suoi biografi, e questa po­
trebbe figurare come una massima sulla sua opera.
16
cosl movimentati domina un genio energico, determina­
to, che si cercherebbe invano proprio nelle antiche fami­
glie. Oggi, solo sull'azione non si avanzano riserve. Que­
sto è deplorevole e tuttavia con ciò viene a mancare l'e­
reditarietà in quanto potere. Il carisma è ereditario, l'a­
zione no.
Tra i pensatori della conservazione Rivarol si distin­
gue per la sua obiettività razionale. Per questo motivo,
non per le soluzioni, ma per l'impianto del suo pensiero,
la sua opera offre stimoli a chiunque rifletta su come va­
da formato un nuovo humus e creato qualcosa di perma­
nente in una situazione di tabula rasa. Questo pensiero è
cosl urgente che persino in America si comincia a tener­
ne conto, come si deve concludere dallo scalpore che
hanno suscitato i lavori di Russell Kirk.
Ma si può parlare di tabula rasa mentre nel mondo
vengono innalzati cosl tanti edifici come mai prima d'o­
ra, e tra questi titaniche costruzioni statali? Sl, in quanto
anche le fondazioni sono diventate cosl incerte come
mai prima d'ora, cosa che traspare dalla sensazione, di­
venuta assolutamente generale, che tutto ciò può essere
spazzato via d'un soffio. Il giro d'affari cresce a scapito
del capitale e il movimento a scapito della sostanza. Sia­
mo appesi come a delle eliche nell'aria. Con tutte le assi­
curazioni e con il crescente valore che si attribuisce alla
sicurezza, viene tuttavia a mancare la sicurezza ultima,
quella della fiducia, sia degli uomini tra loro sia nella
provvidenza, che caratterizzò il vero ordine.
Un'altra questione è se il capitale di base del mondo
possa essere intaccato dagli sforzi degli uomini o addirit­
tura esaurito, oppure se esso non somigli piuttosto a un
filone d'oro che il nostro sguardo non riesce nemmeno a
seguire. A questo alludono i miracoli della moltiplicazio­
ne dei pani e dei pesci o anche il detto degli antichi se-.
condo cui gli dei ci danno il meglio gratuitamente. Si
esaurirebbero allora solo· gli ordinamenti umani ma non
l'ordine del mondo. La fiducia in esso, anche quando
tutto sembra perduto, è in effetti un tratto fondamentale
del pensiero conservatore.
Per quel che attiene alla miniera d'oro, vi è sempre un
aggirarsi attorno ad essa come attorno a un luogo che si
è dissolto per gli occhi e che tuttavia viene ancora senti­
to dal cuore. È una caratteristica della nostra epoca la ri­
cerca di immagini eterne che stanno dietro agli ordina­
menti e alla loro trasformazione. Essa sente la mancanza
non del re ma certamente del padre, il cui simbolo era il
re. È questa nostalgia che, nelle repubbliche e nelle dit­
tature, vorrebbe rafforzare, con l'amore, le personalità
fuggevoli e spesso terribili dei detentori del potere, e che
concede loro dei diritti che mai spettarono ai monarchi
costituzionali o assoluti. Lo stesso vale per la nobiltà,
che ha perduto ovunque il potere. Tuttavia, ovunque la
società è alla ricerca di élites, di modelli. E alla fin fine,
anche i culti possono sprofondare e perdere di significa­
to e tuttavia l'uomo avvertirà in eterno la mancanza della
luce che li rischiarava e presentirà la patria (Heimat) nel­
l'infinito.
Ma si è stabilito quel che è la patria (Vaterland)? Noi
sappiamo che con la formazione degli stati nazionali,
che tante vittime procurò, il termine si è modificato. E
di nuovo si profila il nascere di spazi più ampi, che non
sono soltanto territori ma anche spazi dello spirito. L'oc­
chio non vede quel che prima lo spirito non ha visto.
Può venire il giorno in cui la terra sarà una patria, certo,
in altro modo da come se la rappresentavano gli antichi
cosmopoliti. Non fa meraviglia che questi passaggi deb­
bano sembrare più oscuri e difficili di quelli che porta­
rono dai principati territoriali e dai domlni feudali agli
Stati nazionali.
A questi cambiamenti presiedono delle necessità, il
54 55
vincolo dei fatti. L'uomo viene spinto nel nuovo. Glielo
si imprime fisiognomicamente. Ma egli non può accet­
tarlo, non può accontentarsene solo perché il nuovo è
più conforme a un fine, più pratico o più forte. Deve ag­
giungersi un legame. L'uomo lo ricava non dal patrimo­
nio storico ma dal patrimonio eterno, che è il suo vero
sostegno. Gli atti fondativi diventano allora fondazioni.
E sempre si debbono fare dei sacrifici.
17
È nelle caratteristiche del nostro tempo che ad aspirare
e a rivolgersi ai patrimoni fondamentali siano più i movi­
menti rivoluzionari che quelli conservatori. Qui, e non
nelle parole d'ordine dell'epoca, risiede il segreto dei
grandi successi.
Negli sforzi immensi che caratterizzano quest'epoca
vi è un ruotare attorno a verità antiche e solo quando es­
se compaiono nel vestito dell'epoca la tradizione può ri­
cominciare. La difficoltà di trovare un termine nuovo,
credibile, al posto di « conservatore» risiede più in pro­
fondità che nella sfera dell'etimologia. Un termine simile
non viene inventato ma generato attraverso il fatto vin­
colante che esso riunisce in sé lo splendore della verità
antica e di quella nuova. Vi è nel nocciolo solo una veri­
tà, cosi come vi è solo una salute.
Conservatore non significa restauratore, poiché nella
condizione di restaurazione si trovano oggi le idee del
1789, con i loro simboli e le loro istituzioni, che sono di­
ventate singolarmente logore, spesso anzi spettrali. Ma
un vestito logoro è sempre meglio che nessun vestito.
Nel frattempo ci siamo fatti modesti e conosciamo, tanto
come privati quanto come cittadini dello Stato, i limiti
della nostra sicurezza. Sappiamo che le nostre costitu­
56 zioni non sono poste su autentiche fondamenta ma sono
intessute delle negazioni che si presentano al vinto dopo
una grande sconfitta. In fondo questo corrisponde al no­
stro stato meglio di quanto sarebbe se le. si abbellissero
con finte volte romantiche. Basteranno per alcuni anni.
Vi sono anche altre preoccupazioni, perché, come è oggi
avvertito dai più, i nostri veri problemi non sono politici
o, anche laddove si pongono politicamente, non sono
questi i problemi più difficili. Un problema politico co­
me la riunificazione con l'Est tedesco si rivolge alla pro­
fondità del nostro volere: se questa sarà sufficiente, il
problema sarà risolto.
Altre considerazioni ci inquietano più vivamente: ad
esempio, gli sforzi politici in genere bastano ancora di
fronte alla rottura degli argini in una sfera completamen­
te diversa? L'uomo del XIX secolo, apparentemente cos1
terra-terra, cos1 positivo, ha sviluppato (non solo grazie
alla scienza) organi la cui portata è incalcolabile. La pit­
tura vorrebbe cogliere la sua immagine, ma può dipinge­
re il signor Lehmann che cerca di prendere la luna? Qui
si apre una frattura fra il potere e l'essere. Un'altra que­
stione è se questa sproporzione, più che nei mezzi, non
risieda invece in una rappresentazione dell'uomo non
più o non ancora adeguata. Dovremmo allora o riferire
gli organi a un tipo umano che sia alla loro altezza oppu­
re cercare delle immagini forti nel passato, sia nel mon­
do arcaico sia in quello dei miti. Là dominava una misu­
ra più grande. Questa via l'hanno scoperta anche i pitto­
ri più dotati, ma si tratta di qualcosa di più che di un
problema di pittura.
57 18 La perdita di una tradizione viene giudicata diversamen­
te a seconda del punto di osservazione e della misura in
cui si ritengono necessari il movimento e la mobilità nel­
le epoche che stanno davanti a noi. Se l'influenza dei
classici si affievolisce o diventa museale, ciò non signifi­
ca ancora che la gioventù è diventata inaccessibile alla
parola e al suo potere. Anche la parola non può immer­
gersi due volte nella stessa corrente. Solo nell'inespresso,
là dove è lo spirito, essa ha consistenza. In questo senso,
la lingua è la salda cittadella, il nucleo vivo della rifles­
sione e non è un caso che Rivarol le rivolgesse la sua
maggiore attenzione.
Non mancano i tentativi di sminuire la lingua e di ab­
bassarla a una specie di mezzo di trasporto. Ma essa è
sopravvissuta a tempi ancora peggiori. Lo straordinario
è che il tesoro che riposa in essa può essere dissotterrato
dai singoli, e in maniera sostanziale. Quando il grande
storico dà vita alla storia, egli ricava dal passato un'im­
magine significativa. Ma laddove il poeta rinnova la lin­
gua, egli fornisce un'immagine significativa e allo stesso
tempo originaria, percuote la roccia con il bastone, dallo
spirito produce la vita. Dove la lingua irrigidita nel corso
dei secoli diventa chiara e fluida come lava, sgorga an­
che la fonte in cui passato e presente sono trasparenti e
indivisi.
58 NOTE
Il saggio è del 1956.
Con ciò Jiinger vuole intendere che la tirannide sostiene soltan­
to libri che cadono, ovvero una cultura di propaganda.
3 Jiinger si riferisce qui alla vittoria della Prussia bismarckiana,
alleata con l'Austria nel conflitto con la Danimarca per il possesso
dello Schleswig-Holstein.
4 JUnger allude qui alla parentela tra il vocabolo inglese dandy e il
verbo tedesco vertiindeln (<< perdersi in sciocchezze, sciupare inutil­
mente» di cui sopra).
5 Riferimento alle Zahme Xenien di J.W. Goethe.
6 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Uvio, 1, II,
cap. XXIX.
7 Karl August von Hardenberg (1750-1822) è il promotore di im­
portanti riforme nell'ordinamento dello Stato prussiano, all'indomani
della sconfitta della Prussia a Jena ad opera di Napoleone. EL. von
der Marwitz (1777·1837) è invece il rappresentante dell'opposizione
nobiliare alle riforme.
8 JUnger si riferisce alle convenzioni di "rauroggen (1812), duran­
te le ultime fasi della disastrosa campagna di Napoleone in Russia. A
Tauroggen il generale prussiano Yorck von Wardenburg offrlla neu·
tralità della Prussia, fino ad allora alleata di Napoleone, alla Russia,
per ottenere la completa disfatta dell'armata francese.
l
2
59 Politica
La potenza è la forza organizzata, l'unione dell'organo
con la forza. L'universo è pieno di forze che non cercano
altro che un organo per diventare potenze. I venti, le ac­
que sono forze; applicate a un mulino o a una pompa,
che sono i loro organi, divengono potenza.
Questa distinzione tra la forza e la potenza dà la solu­
zione del problema della sovranità nel corpo politico. TI
popolo è forza, il governo è organo e la loro unione co­
stituisce la potenza politica. Non appena le forze si sepa­
rano dal loro organo, la potenza non c'è più. Quando
l'organo è distrutto e restano le forze non c'è altro che
convulsione, delirio o furore; e se è il popolo ad essersi
separato dal suo organo, cioè dal suo governo, allora c'è
rivoluzione.
La sovranità è la potenza conservatrice. Perché vi sia so­
vranità, occorre che vi sia potenza. Ebbene la potenza,
che è l'unione dell'organo con la forza, non può risiede­
re che nel governo. TI popolo ha solo delle forze, come si
è detto, e queste forze, quando sono disgiunte dal loro
organo, ben lungi dal conservare tendono solo a distrug­
gere; ma lo scopo della sovranità è di conservare: dun­
que la sovranità non risiede nel popolo, ma risiede nel
governo.
Non si plasma un impero repentinamente.
La legge è l'unione della ragione e della forza. TI popolo
dà la forza e il governo la ragione.
63
I diritti sono proprietà fondate sulla potenza. Se la po­
tenza viene a mancare, anche i diritti crollano.
Il popolo ha bisogno di verità pratiche e non di astra­
zioni.
I gesti autoritari dei sovrani sono come fulmini che non
durano più d'un istante; ma le rivoluzioni dei popoli so­
no come terremoti, le cui scosse si trasmettono a distan­
ze incommensurabili.
In un esercito la disciplina pesa come uno scudo e non
come un giogo.
Il popolo accorda il suo consenso, non la sua fiducia.
I popoli più civilizzati sono tanto vicini alla barbarie
quanto lo è alla ruggine il ferro più levigato. I· popoli,
come i metalli, non brillano che in superficie.
La filosofia, essendo il frutto di una lunga meditazione e
il risultato della vita intera, non può e nori deve essere
spiegata al popolo, che si trova sempre all'inizio della
vita.
Per compiere una rivoluzione è più necessaria una gran­
de misura di stupidità da una parte che una certa dose
d'intelligenza dall'altra.
le nostre facoltà troppo spesso prodotta dalle passioni,
che non possono mai concepirsi senza la volontà, mentre
troppo spesso constatiamo che la ragione è abbandonata
dalla volontà. L'invidia, la èrudeltà, l'ambizione voglio­
no; la ragione prega o comanda. Le donne sono piene di
volontà. Una tensione debole si chiama velleità. Quando
dall'età delle passioni e delle sensazioni si passa a quella
delle idee, la volontà diminuisce: questo è il momento in
cui si possiede una mente politica.
Il corpo politico è un'idea differenziata, un'idea com­
plessa; bisogna ben abituarsi a questa specie di idee,
perché in definitiva l'uomo non ne possiede altre. Non
potendo ruomo esistere senza la terra, il corpo politico
non può esistere senza la terra e l'uomo. Non si può
concepire un cavaliere senza il cavallo, né si può conce­
pire l'equitazione senza cavallo e cavaliere. La forma del­
la briglia è determinata dalle dimensioni dell'uomo e del
cavallo, come la forma del governo è determinata dalle
dimensioni del territorio e della popolazione ..
Se è vero che le congiure vengono talvolta ideate da per­
sone intelligenti, è certo che sono sempre eseguite da be­
stie feroci.
Quando l'esercito dipende dal popolo, succede alla fine
che il governo dipende dall'esercito.
La volontà è una schiava robusta che è al servizio ora
delle passioni, ora della ragione; è una tensione di tutte
Quando un governo è stato abbastanza cattivo da susci­
tare l'insurrezione e abbastanza debole da non reprimer­
la, allora l'insurrezione è legittima come la malattia: per­
ché anche la malattia è l'ultima risorsa della natura; ma
non si è mai detto che la malattia fosse un dovere del­
l'uomo.
64 65
Bisogna attaccare un'opinione con le sue stesse armi:
non si prendono a fucilate le idee.
Nel corpo politico c'è un grado di rivalità e di emulazio­
ne che ne fa l'armonia e che si estende dal bracciante fi­
no al grande proprietario terriero, dal soldato semplice
fino al maresciallo di Francia. Nella duplice gerarchia
del potere e della ricchezza ognuno ambisce a diventare
l'uomo che ha dinanzi a sé, da sé distinto per un solo
grado di autorità o di ricchezza. Questa ambizione è
molto ragionevole; ma i nostri pensatori hanno brusca­
mente accostato i due estremi, opponendo il soldato al
generale e il bracciante al proprietario. Questo contrac­
colpo ha rovesciato tutto.
Nel corpo politico vi è una parte di manomorta; in essa
tutto è rendita vitalizia e usufrutto. Per questo si diceva:
« Il re è sempre minorenne e il dominio della corona è
inalienabile ».
I nostri pensatori fondano spesso l'idea di uguaglianza
su proporzioni anatomiche: dal fatto che i nervi, i mu­
scoli e la figura esterna sono identici, essi concludono
che due cittadini devono essere uguali; ma «uguale»
non significa « simile »; crederlo è un errore funesto.
Un popolo ha molte voglie e, di conseguenza, vuole
molte cose contrarie alla prosperità del corpo politico,
perché ogni popolo è un fanciullo. Sé, come avvenne per
gli ebrei, un popolo abbandona la sua terra per seguire
un capo nel deserto, servono giochi di prestigio per at­
trarlo e miracoli per salvarlo. Se un popolo nomina un
generale o un re, in quest'atto importante il solo valore
politico è dato dalla necessità che costringe il popolo a
quell'atto, cioè alla nomina di un capo; ma la scelta del­
l'uno o dell'altro, se è puramente volontaria, è di solito
cattiva.
66
Una sicurezza perfetta, una costante inviolabilità dei
propri beni e della propria persona, ecco la vera libertà
sociale.
La libertà al di fuori della società non contiene in sé l'i­
dea di sicurezza e quest'ultima non può essere compresa
né senza la libertà né senza la società.
Ci si chiede sempre se i re siano fatti per i popoli o i po­
poli per i re. La risposta è semplicissima: i popoli sono
fatti per il corpo politico: poiché, nello Stato, se il popo­
lo è la parte più numerosa, il governo gioca il ruolo prin.
cipale; l'uno e l'altro sono costituiti a vantaggio del tut­
to. La lancetta in un orologio non è fatta per le ruote né
le ruote per la lancetta: tutto è fatto per l'orologio.
Se il principe è un devoto, il confessore giusto dev'essere
uno statista.
Gli Stati tirannici periscono per mancanza di dispoti­
smo, come le persone raffinate per mancanza di finezza.
In uno Stato si deve fare una netta distinzione tra la
maggioranza numerica e la maggioranza politica.
La natura ci condanna a uccidere un pollo o a morire di
fame; in ciò consiste il fondamento dei nostri diritti. Ed
ecco la genesi della sfera politica: i bisogni fondano i di·
ritti e i diritti fondano i poteri. Ma in Francia si sono
concessi al popolo poteri ai quali non aveva diritto e di­
ritti dei quali non aveva bisogno.
Nella misura in cui, presso il popolo, si attenua la super­
stizione, il governo deve intensificare le precauzioni e
rinforzare l'autorità e la disciplina.
67
In Inghilterra lo spirito pubblico è più sano, mentre in
Francia si è sviluppato meglio lo spirito particolare, co­
sicché in Inghilterra troverete un popolo migliore, in
Francia un miglior individuo.
La gentilezza nel sottoposto è un segno del suo stato, nel
superiore è segno della sua educazione; pertanto, nono­
stante la Rivoluzione, quest'ultimo continua ad essere
gentile per non dar a vedere di aver perso la propria
educazione, mentre il popolano smette di esserlo per di­
mostrare che ha mutato condizione. Costui offende, in­
sulta, perché un tempo obbediva e adulava: è da questi
segni che egli riconosce l'uguaglianza.
Il sovrano assoluto può essere un Nerone, ma talvolta è
un Tito o un Marc'Aurelio; il popolo è spesso un Nero­
ne e mai un Marc' Aurelio.
Nei periodi di pace le reputazioni dipendono dall'opi­
nione delle classi alte, ma durante le rivoluzioni dipen­
dono dal basso ceto: è questo il tempo delle false repu­
tazioni.
di ciò che non possono più essere. Per questo la Roma
moderna si è data i suoi tribuni e i suoi consoli. Il tempo
è come un fiume: non risale alla sorgente.
Un grande popolo eccitato dalle passioni non può che
essere capace di massacri.
Ci sono dei periodi in cui il governo perde la fiducia del
popolo, ma io non so proprio in che cosa il governo pos­
sa fidarsi del popolo.
Un governo sarebbe perfetto se potesse sempre unire la
ragione alla forza e la forza alla ragione.
È una bontà stupida e crudele quella di consultare i fan­
ciulli su ciò che vorranno essere da grandi: bisogna sce­
gliere per loro e non gettarli nell'indecisione, che fa si
che perdano fiducia in noi e non l'acquistino in se stessi.
Altrettanto vale per i popoli e i loro governi.
La più grande sciagura che possa capitare ai privati co­
me ai popoli è di ricordarsi troppo di ciò che sono stati e
Sulla rivoluzione. Di tutti i francesi fummo i primi a le­
vare la penna contro la rivoluzione, ancora prima della
presa della Bastiglia. Lo riconobbe lo stesso Burke, nella
sua squisita lettera a mio fratello, più tardi pubblicata, e
di questo siamo orgogliosi. Non senza pericolo e tuttavia
fiduciosi nella ricompensa che avremmo trovata nelle
nostre stesse convinzioni e nella nostra coscienza, ci arri­
schiammo a combattere in un tempo in cui tutti ancora
scorgevano nella rivoluzione la grande opera benefica
della filosofia, il suo alto risuonare, e il portato dei lumi.
L'Assemblea Nazionale, la cui potenza si fondava sulla
debolezza del re e la cui baldanza si fondava sull'impo­
tenza della capitale, inebriata dai successi e dagli incen~
samenti che si levavano al suo indirizzo dalle province e
all'estero, si pasceva di soperchierie e non presagiva, nel
68 69 Si sa che, visti dalla nostra terra, i movimenti degli altri
pianeti appaiono irregolari e confusi e che bisogna sup­
porre di trovarsi nel sole per poter giudicare corretta­
mente l'ordinamento di tutto il sistema: cosi un privato
cittadino giudica il corpo politico in cui vive molto più
erroneamente di colui che si trova al governo.
Le leggi della natura sono ammirevoli, ma schiacciano
nei loro meccanismi molti insetti, cosi come fanno i go­
verni con gli uomini.
suO accecamento, quali frutti avrebbe dato la sua semi­
nagione né quali seguaci stesse allevando in seno.
Invano levammo la parola e la penna per la religione,
la morale e la politica nel nome dell'umanità e dell'espe­
rienza dei secoli. La nostra voce si perse nella gigantesca
catastrofe; noi restammo ammutoliti.
Il nostro lournal politique si limita ai primi sei mesi
della rivoluzione. Le grandi follie erano già avvenute.
Già la ragione, per i suoi eccessi, era divenuta delittuosa.
Il re si trovava prigioniero a Parigi, la nobiltà e il clero
erano dispersi e in fuga. Le leggi cedevano il posto ai de­
creti, la moneta agli assegnati; i giacobini sedevano in
permanenza. Su quali aiuti potevano far conto un animo
onorato e una mente sana in una situazione in cui solo i
pazzi e i briganti avevano speranza di successo? Noi do­
vemmo dunque lasciare la Francia, finché i giacobini
preferirono la nostra fuga alla nostra morte, e dovemmo
portare la nostra miseria presso i prlncipi e i popoli che
ci tolleravano.
In quello stesso tempo, nell'esercito si rispecchiava il
destino della nazione. Gli ufficiali, nonostante la loro
appartenenza alla nobiltà, desideravano mutamenti più
o meno grandi. Ma quando i soldati, che prima obbedi­
vano come automi, abbracciarono le idee democratiche,
gli ufficiali ritornarono ad essere aristocratici, come se
avessero favorito la rivoluzione solo per lasciarsi stermi­
nate da essa. Allo stesso modo il clero, la nobiltà, i par­
lamenti e tutti i notabili, quasi senza eccezione, desidera­
rono la rivoluzione, quando la nazione in massa ancora
dormiva; tuttavia, appena quella si sollevò hl seguito ai
loto stimoli, essi fuggirono o salirono sul patibolo. lo
biasimai l'emigrazione e lasciai la patria solo nel 1791.
Lo volle il re, perché la mia penna poteva servire ai suoi
fratelli. Eppure, per questo, sono preparato all'ingrati­
tudine.
70
Anche se il corso rivoluzionario si dovesse ripetere,
gli oppressi non ricercherebbero nei nostri scritti un in­
segnamento salutare, mentre i malfattori scorgerebbero
il loro modello nelle macchinazioni dei giacobini. Nel
1789 io ho visto membri dell' Assemblea Nazionale stu­
diare con zelo il Clarendon, che essi prima non avevano
mai letto, per conoscere come il Lungo Parlamento
avesse voltato faccia a Carlo I.
D'altronde, poiché l'amor proprio e le passioni sono
insopprimibili, io credo che né i re né i popoli traggano
ammaestramenti dalla storia e che, se Luigi XVI dovesse
avere un successore della propria stirpe, la sua sfortuna
e i suoi difetti non significherebbero nulla per costui.
Invece dei diritti dell'uomo sarebbe stato meglio
enunciare i prindpi fondatori dello Stato. Si fosse dedi­
cata a questo la Costituente che, come si sa, null'altro ha
costituito che la nostra sventura! Tuttavia, su questo ter­
reno, essa doveva temere la critica; perciò preferlarmar­
si delle passioni, in ispecie della vanità, mentre assumeva
come tema dei propri lavori i diritti dell'uomo, senza
pensare che sotto questo titolo nessuna costituzione è
possibile. In esso si nasconde non solo la rivoluzione, ma
anche il germe di tutte le rivoluzioni future, e una costi­
tuzione fondata solo sui diritti dell'uomo si condanna fin
dall'inizio all'impotenza. Tutti i poteri, e anche il re, so­
no stati travolti perché hanno cercato di attenersi alla
lettera della costituzione contro lo spirito della rivoluzio­
ne. La Costituente, invece di dire « hoc est jus », diceva
«jus esto », e con ciò essa violava parimenti la propria
costituzione insieme con la monarchia.
Il grande metafisico Sieyès ha ridotto all'assurdo tutti i
prindpi della metafisica quando ha posto il suo insensa­
to assioma della ragione universale, signora del mondo:
71 cosi mette fuori gioco tutta la teoria delle passioni e gli
effetti dell'ignoranza.
sulla sicurezza, per andare nelle città, dove la sicurezza
prevale sulla libertà.
Vi è una grande distinzione tra proprietà e sovranità. I
re facevano uso nei loro editti di formule che esprimeva­
no una condizione di proprietà dispotica non corrispon­
dente alla realtà. Tutto ciò è fondato sul diritto primitivo
di conquista, sul fatto che i.monarchi hanno esteso a po­
co a poco a tutto il regno lo stile di comando che aveva­
no assunto nel loro dominio personale, e sull'uso di pa­
role sempre più forti in conseguenza dell'accresciuto va­
lore degli uomini. Sarebbe stato meglio, invece, essere
ancora più padroni nella sostanza e ridurre le pretese
nella forma. Non averlo fatto è stato anche l'errore dei
rivoluzionari: avrebbero dovuto nascondere al popolo le
proprie forze, imponendogli forme di rispetto verso il
sovrano, e queste stesse forme, a loro volta, avrebbero
celato al re la sua effettiva debolezza.
C'era nella nazione, e c'era sempre stata nell'Assemblea
dei suoi rappresentanti;· una maggioranza di invidiosi e
una minoranza di ambiziosi: perché la grande massa non
può sperare di ottenere le cariche e solo un piccolo nu­
mero può avanzare pretese fondate. Orbene, l'ambizione
vuole ottenere il suo oggetto, mentre l'invidia vuole di­
struggerlo, ed è questa invidia della maggioranza che è
prevalsa sull'ambizione della minoranza.
Se aveste consultato tutti i francesi prima della convoca­
zione degli Stati Generali, avreste visto che ognuno di
loro desiderava una parte della odierna rivoluzione.
Sembra che il destino abbia accolto tutti i loro desideri
per darci la rivoluzione nella sua interezza. Ora ognuno,
per parte sua, esclama: « È troppo ».
I nostri ftlosofi dicono che non si tratta di una guerra tra
uomini, di una lotta di fazioni e di passioni, bensi di un
grande movimento dello spirito umano. Bisogna pren­
derli in parola e allora la rivoluzione diventa una grande
esperienza della filosofia che perde la sua causa contro
la politica. Rivoluzione viene dalla parola revolvere, che
significa « mettere sottosopra ».
I veri oratori delle grandi assemblee sono le passioni.
La gioia degli altri sovrani, dinanzi alle sciagure dell'au­
gusta stirpe dei Borboni, e quella dei loro cortigiani, di­
nanzi alla miseria degli emigrati, è stata ineffabile. Fede­
rico diceva: « Noi re del Nord siamo solo dei gentiluo­
mini; i re di Francia, essi si sono dei gran signori ». Ce
n'era abbastanza perché l'invidia spingesse all'odio e
questo fors'anche a dei crimini.
Nel 1789 le altre potenze europee erano come quei colo­
ni che a Parigi chiacchieravano sulla rivoluzione, senza
prevederIa a Santo Domingo.
All'inizio della rivoluzione, la minoranza ha detto alla
maggioranza: « Sottomettiti »; in seguito, la maggioran­
za ha detto alla minoranza: « Siamo uguali », ed è stata
una terribile vendetta.
I francesi hanno anteposto la libertà alla sicurezza. Ep­
pure l'uomo abbandona le selve, dove la libertà prevale
Voltaire ha sentenziato: più gli uomini saranno illumina­
ti, più diverranno liberi. I suoi successori hanno spiegato
al popolo che quanto più fosse stato libero, tanto più sa­
rebbe stato illuminato, ed è questo che ha rovinato tutto.
72 73 La nobiltà ha dimenticato il principio: res eodem modo
conservantur quo generantur. Così, i nobili hanno difeso
il proprio spirito con la spada e la propria condizione
sociale con la penna.
C'è una singolare concordanza tra la rivoluzione ingle~
e quella francese: il Lungo Parlamento e la morte di
Carlo Ij la Convenzione e la morte di Luigi XVI; e poi
Cromwell e Bonaparte. Se ci sarà una restaurazione, ve­
dremo anche in Francia un altro Carlo II morire nel suo
letto, un altro Giacomo II lasciare il suo regno e poi l'av­
vento di una dinastia straniera? Questa previsione è
un'idea come un'altra, ma bisogna raccomandare la pre­
veggenza soprattutto ai governanti. Carlo I e Luigi XVI
ne difettavano totalmente e perciò perirono sul patibolo,
nonos.tante le loro virtù. Le virtù che si richiedono a un
monarca non devono essere quelle di un privato cittadi­
no; un re onest'uomo, e che è soltanto questo, è davvero
un povero re.
Se Luigi XVI fosse morto il lO agosto, con le armi in pu­
gno, il suo sangue avrebbe ben altrimenti fecondato i gi­
gli di Francia. Invece, la morte sul patibolo, tra il silen­
zio del popolo, resterà sempre infamante per la nazione, per il trono, per la stessa immaginazione. Bonaparte compì realmente il 13 vendemmiaio ciò che
Luigi XVI fu accusato falsamente di aver fatto il lO ago­
sto. Bonaparte succedette a Robespierre e a Barras, e
questo non era difficile.
Bonaparte regna per aver sparato sul popolo e per aver
realmente compiuto il delitto di cui Luigi XVI fu falsa­
mente accusato. La Francia sprofondava, di precipizio
in precipizio, verso l'abisso e si è arrestata aggrappando­
74
si alle baionette di un soldato; un manipolo di soldati
era sufficiente. D'altronde, Parigi era mutata, non c'era
più un'opinione pubblica: la città era solo un grande co­
vo con una polizia.
I nostri poeti hanno voluto trasformare Bonaparte in un
Augusto, certi che, in tal modo, essi stessi sarebbero ben
presto diventati dei Virgili e degli Orazio Bonaparte è
meno intelligente e soprattutto meno coerente di Augu­
sto. I suoi discorsi gli hanno sempre nuociuto: fra le sue
guardie avrebbe dovuto mettere un ufficiale del silenzio.
Stanchi del proprio governo, i francesi presero a massa­
crarsi; stanchi di massacrarsi in patria, subirono il giogo
di Bonaparte che li fece massacrare all'estero.
La prova che Bonaparte è superiore a Lannes, Ney,
Soult, Moreau, Bernadotte, è che costoro lo servono in­
vece di disfarsene.
Un eccesso di potere, conferito improvvisamente a un
cittadino in una repubblica, dà luogo a una monarchia o
a qualcosa di più che una monarchia. Quando si succede
al popolo nell'esercizio del potere, si è un despota.
Bonaparte mal ripone i suoi odi e le sue amicizie: i regi.
cidi e i rivoluzionari lo porteranno alla rovina, se egli
continuerà a circondarsene. Bonaparte ha più potere che
dignità, più appariscenza che grandezza, più audacia che
genialità, ed è più facile congratularsi con lui· che 10­
darlo.
Se la rivoluzione fosse stata fatta durante il regno di Lui·
gi XIV, Cotin avrebbe fatto ghigliottinare Boileau e Pra­
don non avrebbe risparmiato Racine. Con l'emigrazione
75 io mi sono sottratto all'ira di qualche giaeobino che ave­
vo incluso nel mio Almanacco dei grandi personaggi della
Rivoluzione.
Ogni filosofo che si occupa di questioni costituzionali
partorirà un giacobino: è questa una verità che l'Europa
non deve perdere di vista.
I francesi hanno sempre avuto un debole per gli stranie­
ri, a riprova delle loro reciproche gelosie; lo testimonia­
no gli Ornano, i Broglio, Rose, Lowendhal, Saxe, Nec­
ker, Besenval, Bonaparte.
La politica è come la sfinge del mito: divora tutti coloro
che non spiegano i suoi enigmi.
Il dispotismo di Tito, di Traiano e di Mare' Aurelio era
grande quanto quello di Tiberio, di Nerone e di Domi­
ziano. Con un semplice cenno del capo muovevano il
mondo conosciuto, dall'Eufrate al Danubio: erano de­
spoti, ma non tiranni. Su questo Montesquieu si è sba­
gliato.
Nel 1790 mi chiesero come sarebbe andata a finire la ri­
voluzione. Risposi molto semplicemente: «O il re avrà
un esercito o l'esercito avrà un re ». E aggiunsi: « Qual­
che soldato conoscerà la felicità, perché le rivoluzioni fi­
niscono sempre a sciabolate: ricordate Silla, Cesare,
Cromwell ».
I coalizzati sono sempre stati in ritardo di un anno, di un'armata e di un'idea. La terra è il piano sul quale si disegna il corpo politico.
Perché uno Stato tocchi il punto più alto della sua gran­
dezza relativa, bisogna che ci sia un'equazione tra la po­
polazione e il territorio. Nell' America settentrionale il
territorio eccede la popolazione e lo Stato non ha ancora
acquisito il più alto grado della sua potenza. In Europa,
dove c'è un'equazione perfetta tra territori e popolazio­
ni, gli Stati sono giunti al grado più alto di potenza. In
Cina, dove la popolazione è in eccesso e il territorio in
difetto, lo Stato è in declino.
I corpi politici si riprendono sempre dalle loro malattie
e vivono a furia di medicine.
Il corpo politico è come un albero: quanto più s'innalza
tanto più ha bisogno sia del cielo sia della terra.
Un popolo senza territorio e senza religione morirebbe,
come il gigante Anteo sospeso tra cielo e terra.
Sarebbe piacevole vedere un giorno i nostri filosofi e
apostati seguire a messa Bonaparte, digrignando i denti,
e vedere i repubblicani costretti a inchinarsi davanti a
lui. Proprio loro che avevano giurato di uccidere il pri­
mo che si fosse impadronito del potere! Sarebbe bello
che Bonaparte creasse delle onorificenze, decorandone
gli altri re; che creasse dei prìncipi e si alleasse con qual­
che antica dinastia ... Guai a lui, però, se non restasse
sempre vincitore!
I sovrani non devono mai dimenticare che, essendo i po­
poli sempre fanciulli, il governo deve sempre essere un
padre.
76
77
L'oro è il re dei re.
Alla persona dei re capita lo stesso che alle statue degli
dei: i primi colpi distruttivi sono rivolti proprio al dio,
gli ultimi cadono soltanto su un marmo sfigurato.
La guerra è il tribunale dei re e le vittorie sono le sue
sentenze.
sono le loro caratteristiche comuni, mentre le differenze
sono impercettibili.
Per la plebe non c'è alcun secolo dei lumi. La plebe non
è né francese, né inglese, né spagnola. La plebe è sempre
e dovunque la stessa: è sempre in preda a istinti canni­
baleschi e antropofagi, e, quando compie le sue vendette
sui suoi governanti, punisce dei delitti che non sempre
sono accertati con atti che sono sempre, certamente, cri­
minosi.
Solo il timore, che è la più potente delle passioni, può
assicurare l'esistenza e la durata del corpo politico;
quando è reciproco, tra il popolo e il re, ne assicura an­
che la felicità. Infatti, se il popolo teme il re, non c'è ri­
bellione, e se i re temono i popoli, non c'è oppressione;
ma quando il timore è solo una parte, allora c'è sempre
anarchia o dispotismo.
Quando il popolo è più illuminato del trono, allora è as­
sai vicino a una rivoluzione. È ciò che accadde nel 1789,
quando il trono, in mezzo ai lumi, si trovò eclissato.
I paragoni che, in materia politica, richiamano le imma­
gini del gregge e dei pastori non hanno alcun valore,
perché manca ogni analogia: la religione si è impadroni­
ta di questa metafora, perché in essa è questione di un
Dio che si prende cura degli uomini. Un pastore attor­
niato dalle pecore non è altro che un uomo prowisto di
molti mezzi di sostentamento: ma non è questa un'im­
magine pertinente alla regalità.
A proposito degli agitatori: quando Nettuno vuoI placa­
re le tempeste, non si rivolge alle onde ma ai venti.
Se si avesse in un governo la stessa fiducia che si ha nella
Prowidenza, sarebbe giusto che, sul modello di questa,
quel governo assumesse una forma dispotica.
In un impero grande e complesso, se il governo vuole che il popolo abbia i suoi rappresentanti, accade che questi siano o gli amici della forma di governo già esi­
stente - e allora il popolo li considera suoi nemici _ o i nemici di questa; e, in tal caso, si ha la rivoluzione. Il corpo politico soffre quando i re agiscono come pro­
prietari e i proprietari e il popolo come sovrani.
In ogni Stato, le città di frontiera godono di minore li­
bertà rispetto alle città dell'interno: infatti, la sicurezza è
tanto più importante della libertà.
Come ho già detto, il corpo politico ha dei bisogni, dei
diritti e dei poteri; ma, tra questi tre prindpi, la corri­
spondenza è tale che il popolo non ha mai diritto a ciò
che non rientra nella sfera del suo potere: dunque, poi­
ché il popolo non può essere riunito in assemblea e non
può trovarsi unanime, segue che esso non può delibera­
re, non può scegliere la forma di governo e non può es­
sere sovrano.
Agli occhi della natura, tra due uomini come Voltaire e
un portatore d'acqua, ciò che è ammirevole ed essenziale
Nelle forme di governo rappresentative, bisogna in pri­
mo luogo che tutti i delegati si radunino in un'unica sala,
qualunque sia l'estensione dell'impero; in secondo luo­
78
79 go, che la maggioranza della nazione possa costantemen­
te trovarsi in minoranza nell'assemblea. Del resto è la
maggioranza parlamentare che governa.
Hanno reso costituzionale l'insurrezione; ma la febbre
non è costituzionale nell'uomo. Essa è spesso inevitabile,
ma bisogna sempre respingerla.
Soltanto la natura ha sempre congiunto nelle proprie
leggi la punizione e il premio: infatti i sudi precetti sono
anche inclinazioni. Il corpo sociale non può essere. così
perfetto: le sue leggi minacciano e castigano.
Poiché i principi sono la parte visibile del governo, è ne­
cessario che la loro vita privata, i loro giochi, i loro
scherzi e costumi siano noti solo a quanti sanno com­
prendere le finzioni sociali. Il popolo deve ignorare tutto
questo. La stessa cosa vale, a maggior ragione, per i pa­
pi. Benedetto' XIV, amato dall'élite spirituale, non era fa­
moso presso il popolo romano.
Con le parole ordine e lIbertà si condurrà e si riporterà
sempre il genere umano dal dispotismo all'anarchia e
dall'anarchia al dispotismo.
A Luigi XIV, che gli chiedeva l'ora, un cortigiano rispose: « Sire, è l'ora che piace alla Vostra Maestà ». Nella famosa vicenda deI collier vi furono due colpevoli:
Madame de La Mothe e Monsieur de Breteuil. La prima
per intrigo e per bisogno, il secondo per vendetta. Vi fu­
rono anche due vittime: la regina e il cardinale; ma la re­
gina fu la più innocente.
lo, che suscitava le simpatie altrui, e senza ~sere una
perfetta nullità, il che vi rendeva sopportabile.
Oggi la moda di parlar male dei principi è così diffusa
che, quando si parla bene di loro, si passa per uno che li
conosce intimamente.
Se è vero che Rousseau scriveva per abbattere la monar­
chia, si poteva però anche dire che volesse, con i suoi
scritti, suggerire alla nobiltà emigrata degli espedienti
per sopravvivere, perché insegnava al gentiluomo il me­
stiere deI falegname.
La prima Assemblea tolse il regno al re, la seconda tolse
il re al regno, la terza uccise l'uno e l'altro. L'Assemblea
costituente asservì il re, Parigi e l'esercito; Parigi asservì
l'Assemblea; i giacobini decimarono Parigi, l'esercito e
l'Assemblea.
L'Assemblea Costituente uccise la regalità e, per conse­
guenza, il re; la Convenzione non uccise che l'uomo. La
prima fu regnidda e l'altra pa"idda. Poiché la vittima
era pronta, ai giacobini restò soltanto da sollevare la
mannaia.
Come re, Luigi XVI meritò le sue disgrazie, perché non
seppe fare il suo mestiere; come uomo, invece, non le
meritò. Ma proprio le sue virtù lo resero estraneo al suo
popolo.
Un esercito che viene impiegato per asservire è già esso
stesso asservito. Il martello riceve tanti colpi quanti l'in­
cudine.
Negli ultimi tempi, alla corte di Francia, non si poteva
più avere successo senza possedere qualche tratto ridico­
Luigi XIV aveva così ben ordinato tutte le parti della suà
amministrazione che le illuminanti disposizioni deI suo
80
81 regno perduravano ancora nel 1789. Le sue ordinanze,
le memorie degli intendenti e degli uffici lo dimostrano.
I nostri primi funzionari, tutti di così alto livello, viveva­
no delle tradizioni dei suoi. Durante la rivoluzione la no­
stra amministrazione divenne, invece, una foresta nella
quale tutti derubavano senza timore e senza pudore: da
ciò sono nate fortune così ingenti che danno perfino la
nausea.
Come Didone così i popoli possono piangere per aver
visto la luce.
Lo scopo di ogni governo è la conservazione della socie­
tà, e il fine di quest'ultima, da quando si è costituita, non
è stato e non può essere altro che di garantire la sicurez­
za e la proprietà. Questa definizione chiara, precisa e
completa non avrebbe dato luogo ad alcun equivoco se
non vi si fosse introdotta a sproposito, e in forma pleo­
nastica, questa parola ambigua e controversa che è la li­
bertà.
Se dopo la Lega non avessimo avuto un re padrone, sa­
rebbe stata la fine per la casata dei Borbone. La Fronda
poteva diventare molto seria, ma il giovane re cresceva
per poi diventare un grande re e tutto rientrò nell'ordi­
ne. Di quale Borbone non ci sarebbe bisogno dopo la
nostra terribile rivoluzione? Perché, prima o poi, la le­
gittimità riporterà i re sui troni e ucciderà Bonaparte.
inutilmente: la sciocchezza merita sempre le sue sfor­
tune.
In Francia, il corpo politico ha bisogno d'un padrone
più che in ogni altro Paese. La sovranità del popolo uc­
ciderà tutti i re, se essi continuano a tenere il diadema
sugli occhi invece che sulla fronte.
Si può paragonare la società a un teatro; si occupano i
primi palchi, solo perché si paga di più.
Quando Montesquieu ha detto: «Nessuna monarchia
senza nobiltà », è caduto in un notevole infortunio, per­
ché ha lasciato nel vago e nell'arbitrario questa espres­
sione. Ha così seminato il germe di una disputa. Inten­
deva forse una nobiltà dotata di poteri o una nobiltà che
ha solo cariche onorifiche?
Per la nobiltà non vi sono che quattro maniere di esiste­
re: da sovrana come in Germania, da feudale come in
Polonia, da costituzionale come in Inghilterra, da casta
sacra come in India. In Francia e in Spagna la nobiltà
era soltanto una condizione piacevole.
Letteratura
Qualche volta le corti si affidano ai letterati, come gli
empi che invocano i santi nel pericolo, ma altrettanto
Anche lo spirito più sobrio non parla senza metafore e
quando sembra astenersene di proposito è perché le im­
magini di cui si avvale, essendo vecchie e abusate, non
colpiscono né lui né i lettori. Si può dire che Locke e
Condillac, l'uno più impegnato a combattere gli errori,
l'altro a stabilire delle verità, siano entrambi privi del
potere segreto dell'espressione, di questo felice potere
82 8.3 Noi viviamo in un tempo in cui l'insignificanza protegge
più della legge e rassicura più dell'innocenza.
che hanno le parole di imprimersi così profondamente
nell'attenzione degli uomini, squarciando la loro imma­
ginazione. Saremo loro grati per questa impotenza? Di­
remo che essi temono di farsi leggere con troppi abbelli·
menti o che lo stile senza metafore è parso loro conve­
niente alla severità della metafisica? Potrei anzitutto di­
mostrare che non esiste uno stile davvero diretto e senza
metafore, che Locke e Condillac facevano uso di meta­
fore loro malgrado e a loro insaputa, che infine essi han­
no spesso cercato la metafora e le similitudini, e si vede
con quale risultato; ma non è questo il mio scopo. Il no­
stro grande modello, la natura, è forse senza immagini,
la primavera è forse senza fiori e i fiori e i frutti sono for­
se senza colori? Aristotele ha reso un'eccellente testimo­
nianza a favore dell'immaginazione, tanto più disinteres­
sata in quanto lui stesso ne era privo mentre Platone,
suo rivale, ne era riccamente provvisto. Le belle immagi­
ni feriscono solo l'invidia.
Capita talvolta che l'uomo, abbandonandosi alle abitudi­
ni e ai meccanismi dell'istinto, agisca e parli senza l'io: il
suo corpo si muove senza il controllo dell'attenzione, co­
me un vascello senza pilota, per i soli effetti automatici
della sua complessione. In tal caso l'uomo è diviso tra i
suoi movimenti e le idee ad essi estranee. Poi c'è come
un primo ordine e un movimento iniziale, che non han­
no bisogno di essere ripetuti perché il corpo continui a
obbedire. Ogni uomo che osservi se stesso mentre cam­
mina, parla e scrive, conosce bene questi ordini anterio­
ri, che tutta la rapidità del contrordine impartito dalla
riflessione non potrebbe prevenire. Questo spiega la dif­
ferenza che c'è tra l'uomo che parla e l'uomo che scrive,
poiché chi parla si esprime in una dimensione più este­
riore rispetto a chi scrive. Il giudizio cosciente impedisce
84 che si scriva come si parla, mentre la natura stessa ci im­
pedisce di parlare come se scrivessimo; il gusto, invece,
posa la brillantezza della conversazione con le forme
metodiche e depurate dello stile scritto.
Si può paragonare il sistema della creazione a quello del
linguaggio: ogni discorso si riduce alle frasi, la frase alle
parole, la parola alle lettere; non ci sono divisioni ulte­
riori, perché gli elementi della parola sono indivisibili.
Così pure, nella realtà fisica, pervenuti alle sostanze ele­
mentari non si può procedere a ulteriori divisioni. La so­
la differenza tra il sistema fisico del mondo e illinguag­
gio è che gli elementi posseggono delle affmità che li
guidano sempre verso le stesse aggregazioni; di contro,
le lettere dell'alfabeto non si attraggono tra di loro, ma
le loro combinazioni sono in balla della volontà umana,
e questo spiega la diversità delle lingue. Se le vocali e le
consonanti si attirassero in virtù di leggi determinate,
come gli elementi, la lingua sarebbe unica e fissa come
l'universo.
L'uomo non poteva dare al suo pensiero che una veste
assai elaborata. Quanta finezza, quanta intelligenza, qua­
le sottile metafisica nella creazione di una lingua! Il filo­
sofo se ne accorge, soprattutto quando voglia dipanare
quei fili misteriosi con i quali l'uomo ha voluto rivestire
il suo pensiero, come il baco da seta si avvolge nella sua
trama lucente.
La parola è il pensiero esteriore, il pensiero è la parola
interiore.
La lingua è uno strumento di cui non bisogna far stride­
re le corde.
85
Nelle lingue la storia conia le proprie medaglie.
La grammatica è l'arte di levare le difficoltà da una lin­
gua; bisogna dunque che questa leva non sia più pesante
del carico.
La nazione più vivace e allegra d'Europa ha avuto un
gioco, una danza e una musica in contrasto con questi
caratteri: il picchetto, il minuetto e i nostri canti antichi.
Sta forse in ciò la spiegazione del fatto che Racine, di
temperamento allegro, compose tragedie, mentre Moliè­
re, di carattere triste, scrisse commedie?
Nell'uomo come nel linguaggio tutto è misura. Non si
può dire: «Ho visto una pulce tutta distesa », sebbene
quest'espressione, dal punto di vista logico, sia vera tan­
to per una pulce quanto per un vitello.
È ridicolo intitolare un libro Storia filosofica o Esame im­
parziale ecc. Saprò ben giudicare se la tua storia sarà fi­
losofica, se il tuo esame sarà imparziale. Tu metti un giu­
La parola« caro» ha qualcosa di dolce e insieme di vol­
gare: è l'espressione dell'amore e dell'avarizia, e sembra
suggerire che ciò che vale per la borsa vale anche per il
cuore.
Chi ha l'abitudine di scrivere, lo fa anche senza idee, co­
me quel vecchio medico, di nome Bouvard, che in punto
di morte tastava il polso alla sua poltrona.
Si può dire che nei dizionari vi siano certe parole con­
sunte che attendono un grande scrittore per riprendere
tutto il loro smalto.
dizio al posto del titolo.
Alla fine, in letteratura, tutto diviene luogo comune.
In letteratura le apparizioni repentine non piacciono e le
menti più brillanti hanno bisogno di un crepuscolo.
Nel dizionario dell' Accademia non si può trovare ciò
che non si sa, ma non si trova neppure ciò che si sa.
Non si deve fare troppo affidamento sulla sagacia dei
lettori; qualche volta bisogna spiegarsi.
La parola « precario» significa oggidi una cosa o uno sta­
to poco sicuri e dimostra quanto poco si ottenga con la
preghiera, visto che « precario» deriva da « preghiera ».
Non c'è nulla di così assente come la presenza di spirito.
La pittura non ritrae che una movenza dei personaggi,
un incidente dell'azione, un istante del tempo; il pittore
non dispone che di un luogo, il poeta ha invece lo spazio
a sua disposizione.
OsselVate i grandi scrittori: hanno dominato solo per la
forza dell'espressione. J.J. Rousseau ha messo a tacere
la fama di tutti coloro che prima di lui avevano scritto
sui doveri della maternità. Il genio soffoca tutti i prede­
cessori.
Il creatore dell'alfabeto ha messo nelle nostre mani il filo
dei nostri pensieri e la chiave della natura.
86
87
La grammatica è la fisica sperimentale delle lingue.
I segni sono la moneta delle percezioni.
Solo i letterati hanno un alone di notorietà che può ga­
reggiare con lo splendore del trono.
I sovrani non devono mai dimenticare che uno scrittore
può essere reclutato tra i soldati, ma non certo un gene­
rale tra i lettori.
La stampa .è l'artiglieria del pensiero.
Un libro che viene sostenuto è un libro che cade.
In poesia bisogna spogliarsi del vecchio uomo.
È un gran vantaggio non aver fatto niente, ma non biso­
gna abusarne.
L'arte deve darsi uno scopo che retroceda senza fine.
Parigi è la città in cui più che altrove si ignora il valore e
spesso perfino l'esistenza di una marea di libri. Bisogna
essere vissuti in provincia o in campagna per avere letto
molto. A Parigi lo spirito si alimenta e si rafforza nella
vorticosa sfera degli avvenimenti e delle conversazioni;
in provincia ci sono solo le letture. Perciò bisogna sce­
gliersi gli uomini nella capitale e i libri nella provincia. A
Parigi l'opera più rinomata non s'impone a nessuno o
non s'impone a lungo: si sa ben presto a quale partito
aderisca l'autore, quali siano i suoi protettori e fautori;
d'altronde le idee diffuse nei circoli colti dissipano le il­
lusioni in cui potrebbero gettarci i giornalisti; lo stesso
amor proprio degli autori non viene tratto in inganno.
88 Invano le trombe della celebrità. hanno proclamato quel­
la prosa o quei versi: ci sono sempre, nella capitale, tren­
ta o quaranta persone incorruttibili che tacciono. Que­
sto silenzio delle persone di gusto serve da coscienza ai
cattivi scrittori e li tormenta per il resto della loro vita.
Ma quando un libro esaltato su tutti i giornali e appog­
giato da un forte partito giunge in provincia, l'illusione è
completa, soprattutto per i giovani. Qui le persone di
gusto si stupiscono di non stupirsi e la voga di un'opera
cattiva fa vacillare la loro. ragione; gli altri si immaginano
che Parigi rigurgiti di grandi talenti e che noi, in lettera­
tura, abbiamo solo l'imbarazzo della scelta.
Nel poema Jardz'ns il poeta si è impegnato a rendere pre­
gevole ogni suo verso senza pensare che a farne le spese
era l'opera intera.
Dalla traduzione delle Georgiche Delille è uscito mal­
concio come Giacobbe dopo la lotta con il Signore. In
questa traduzione gli unici versi buoni sono le cicatrici
sanguinanti di Virgilio.
Delille è Virgilio abate.
Mirabeau, alla tribuna, assumeva la posa della statua di
Lord Chatam, e un giorno approfittò dello scherzo di un
ragazzo per trarne spunto per una delle sue arringhe.
Cosa pensare dell'eloquenza di un uomo che ruba i pro­
pri gesti a un morto e le parole a un bambino?
Le opere di Mirabeau sono brulotti lasciati in mezzo a
una flotta: vi appiccano il fuoco, ina si consumano.
Fin qui si annoveravano tre specie di stile: l'umile, il me­
dio, il sublime, ingenuamente classificati nei trattati di
89 retorica; ma noi siamo costretti ad ammetterne un quar­
to dopo la comparsa degli scritti di Necker: è lo stile mi­
nisteriale.
Il Tableau de Pari! di Mercier è un'opera pensata nella
strada e scritta su un paracarro. L'autore descrive gli
scantinati e il pianoterra, ma omette il salotto.
Il gradimento che i .francesi hanno manifestato per un
momento verso i drammi di Mercier mi ricorda quei
convitati che, alla fine d'un eccellente pasto, chiedono
dell' acquavite.
Champcenetz il vecchio è un uomo misteriosissimo: non
entra in una casa, vi si insinuai scorre dietro le poltrone
e si ferma in un cantuccio, e quando gli si chiede come
sta, mormora: «Tacete! Sono forse cose da dire ad alta
voce? »
Cerutti compone frasi scintillanti: è la lumaca della lettec
ratura. Lascia dovunque una scia argentata, ma non è
che schiuma.
Ci sono autori che hanno scritto dei libri muovendo da una o due sensazioni soltanto; uno di questi è Young con La notte e il silenzio. Condorcet scrive con inchiostro d'oppio su lastre di
piombo.
Filosofia
I nobili di oggi non sono che i fantasmi dei loro ante­
nati.
Palissot, transfuga ora della religione e ora della filoso­
fia, assomiglia a quella lepre che, messasi a correre tra
due eserciti pronti allo scontro, suscitò il riso universale.
I re di Francia sollevavano i loro sudditi da una condi­
zione plebea allo stesso modo in cui li guarivano dalla
scrofola: a condizione, cioè, che ne restassero delle
tracce.
Lo stile di La Harpe è pulito senza essere splendido. Si
vede che è stato brunito.
Certi parvenu, lacchè arricchitisi con le malversazioni,
hanno compiuto il salto da fuori a dentro la carrozza,
senza neppure passare per la strada.
90
L'idea fondamentale del giudaismo è che Dio ha preferi­
to gli ebrei a tutti i popoli. In virtù di questa sola idea
Mosè innalzò un muro di bronzo fra la sua nazione e
tutte le altre; anzi, fece ancora di più, perché condannò
questo popolo sciagurato a una vera e propria scomuni­
ca da parte dell'intera umanità; ed è sorprendente che, a
causa di quest'odio universale, gli abbia assicurato l'im­
mortalità. L'amore o anche l'indifferenza degli altri po­
poli avrebbero fatto scomparire gli ebrei da molto tem­
po, poiché essi si sarebbero confusi con le altre razze at­
traverso i matrimoni, le conquiste e la dispersione; ma
quest'odio del genere umano li ha conservati, ed è grazie
ad esso che gli ebrei sono davvero imperituri.
Gli ebrei dicevano a Dio: « Signore, fai tutto per i vivi,
perché nulla puoi aspettarti dai morti: non mortui lauda­
bunt te, Domine ».
91
!t,.
!'\~
La devota crede ai preti, l'irreligiosa ai filosofi; entrambe'
sono credulone.
Attribuendo agli dèi le debolezze umane, i poeti hanno
destato il nostro interesse più che se avessero conferito
agli uomini le perfezioni divine.
La maggior parte delle persone empie che io conosco
non sono altro che devoti che si sono ribellati.
Il martiré di una religione vecchia sembra un ostinato;
quello di una religione nuova un ispirato.
Le visioni hanno un istinto felice: caphano solo a coloro
che devono crederci.
In generale, i bambini e i giovani concepiscono più age­
volmente la realtà dei corpi, gli adulti e i vecchi quella
dello spirito. Queste due inclinazioni sono parimenti na­
turali. Infatti, i primi hanno uno spirito ancora debole in
un corpo vigoroso; i secondi possiedono uno spirito più
saldo in un corpo che sta declinando. Negli uni domina­
no le sensazioni, negli altri le idee.
turalista Plinio osservano una pernice; oppure, quando
tuona, considerate l'atteggiamento di un superstizioso e
quello di uno scienziato: l'uno ricorre alle reliquie, l'altro
al parafulmine.
L'avaro si burla del prodigo e il prodigo dell'avaro; al­
trettanto fa l'incredulo con il devoto e il devoto con l'in­
credulo: si prendono per sciocchi gli uni con gli altri.
La differenza tra le passioni e le idee risulta evidente nel
frammento di dialogo che sto per citare.
A Voltaire, nei Campi Elisi, viene detto:
«- Voi dunque volevate che gli uomini fossero uguali?
- Sì.­
- Ma sapete che per ottenerlo c'è stato bisogno di una
spaventosa rivoluzione? ­
- Non importa - ». In questo caso si parIa con le sue
idee.
«Ma sapete che il figlio di Fréron è diventato proconso­
le e che saccheggia le province? ­
- Ah per Dio! Che orrore! -.» Cosi si parla alle suepas­
sionÌ.·
La semplice differenza fra le sensazioni e le idee ne pro­
duce una grandissima tra gli uomini. Considerate con
quale diversità di sguardo il buongustaio Apicio e il na­
L'attenzione è solo un sentimento tenuto vivo tanto nel
corpo che nello spirito: si guarda, si ascolta, si gusta, si
maneggia, si pensa attentamente. È a questo potere che
dobbiamo riferire le cause della nostra superiorità sugli
animali e delle differenze tra gli uomini. Ma non bisogna
credere, con Helvétius e CondilIac, che l'attenzione di­
penda interamente da noi, né, soprattutto, che essa pro­
duca gli stessi effetti in due uomini ugualmente attenti.
In quante persone la riflessione e l'attenzione più pro­
fonde non producono nulla, senza contare poi quelli che
ne ricavano soltanto errori.
92
93
Non solo non bisogna cercare di definire ciò che cade
direttamente sotto i sensi, ma, al contrario, ci si deve
servire delle realtà sensibili per definire le entità intellet­
tuali. La materia, il movimento, il riposo e tutte le nozio­
ni degli oggetti esterni servono a comprendere tutto ciò
che non parla direttamente ai nostri sensi.
I bambini, dei quali è cosÌ difficile catturare l'attenzione,
prorompono in esclamazioni, amano il frastuono, cerca­
no di stare in gruppo; fanno di tutto per accorgersi della
propria esistenza assommando sensazioni, perché il loro
interno è ancora vuoto. Si può dire altrettanto del popo­
lo in generale. Solo gli uomini abituati a riflettere amano
il silenzio e la calma; la loro esistenza è una sequela di
idee, il loro movimento è interiore.
Per questa ragione gli aneddoti attraggono la mente
dei vecchi e divertono i bambini e le donne: nei racconti
vi è solo il filo della storia che fissa il sentimento e tiene
viva l'attenzione. Invece, una sequenza di ragionamenti e
di idee richiede tutta la vivacità mentale d'un'uomo.
Signora degli elementi e della materia, la natura opera
dall'interno verso l'esterno; essa si sviluppa nei suoi pro­
dotti, e noi chiamiamo forme i limiti in cui si arresta la
sua attività. L'uomo invece non lavora che dall'esterno; il
fondo gli sfugge senza posa: egli vede e tocca soltanto
forme.
L'uomo sulla terra non ha ricevuto provviste per l'im­
mortalità: è un viandante che finisce con la sua strada.
Se, per un concorso di cause assai raro, il suo viaggio si
prolunga, ecco che il tesoro di sensazioni e di piaceri, di
ricordi e di idee si esaurisce e l'uomo, viandante spoglia­
to dei suoi beni, si perde e si spegne nel deserto.
sa attende l'omaggio della loro sottomissione e non le ar­
ringhe della loro eloquenza.
La memoria obbedisce sempre al cuore.
I metodi sono le abitudini dello spirito e le economie
della memoria.
L'identità del fine è la prova del senso comune, che uni­
sce gli uomini; la differenza dei mezzi è la misura delle
intelligenze; l'assurdità del fine è il segno della follia.
I bambini gridano o cantano tutte le loro richieste, acca­
rezzano o rompono tutto ciò che toccano e piangono
ogni cosa che perdono.
.
Della storia la ragione è narratrice, le passioni sono at­
trici.
Ci saranno sempre due mondi soggetti alle speculazioni
dei filosofi: quello della loro immaginazione, dove tutto
è verisimile e niente è vero, e quello della natura, dove
tutto è vero senza che niente appaia verisimile.
Non si ha diritto a una cosa impossibile.
La natura ha posto l'uomo sulla terra dandogli capacità
limitate e desideri sconfinati: è questa eccedenza, questo
impulso, che ci spinge al di là della meta, che trasforma i
bisogni in desideri e i desideri in passioni; e forse non
sarebbe stato abbastanza forte se non fosse stato violen­
to. Ma è compito degli uomini giustificare la natura? Es­
La natura ha donato all'uomo due potenti organi: quello
della digestione e quello della generazione. Per mezzo
del primo ha assicurato la vita all'individuo, tramite l'al­
tro l'immortalità alla specie. Ed è tale in noi il ruolo del­
lo stomaco che i piedi e le mani non sono che schiavi la­
boriosi al suo servizio e perfino la testa, di cui siamo così
fieri, altro non è che un suo satellite, più illuminato degli
altri: è la lanterna dell'edificio.
94
95
Non si può fare la storia delIa natura. Se ogni giorno in­
dossassi una maschera, chi avesse disegnato tutte le mie
maschere non avrebbe ancora fatto il mio ritratto.
La natura mirabile ha voluto che gli uomini avessero in
comune l'essenziale, e che le differenze fossero di poco
conto: è però vero che ciò che gli uomini hanno di di­
verso modifica assai ciò che hanno di simile.
quale egli grida: « Satira, non awicinarti, perché il fuoco
brucia ». Ma con dò ha spiegato malamente l'allegoria,
perché il satira, che si trova ancora distante, non è colpi­
to che dalla luce. Bisognava dunque gridargli: « Non av­
vicinarti, perché la luce bruda », ed è appunto di questo
che si trattava. I nostri filosofi hanno dunque portato la
luce ai nostri satiri, senza pensare che la luce brucia.
C'è bisogno d'intelligenza non per attaccare le religioni,
L'uomo è l'unico animale che accenda il fuoco, e questo
gli ha dato l'impero del mondo.
Coloro che chiedono dei prodigi non sospettano di chie­
dere alla natura l'interruzione del suo corso prodigioso.
I nostri bisogni si fondano sulle proporzioni. Poiché
questo mondo è un complesso armonico, e dunque fon­
dato sulle proporzioni, la sensibilità, nel senso di com­
passione, non rientra affatto nel piano della natura.
Era necessario che la natura conferisse durata all'indivi­
duo o alla specie. Essa ha seguito il primo piano per il
sole e gli astri, e il secondo per gli animali e le piante.
Ora, in quest'ultimo caso, era ben necessario che le for­
me individuali fossero passeggere, perché alla specie re­
stasse l'immortalità.
Vero filosofo è colui che si pone, con il solo sforzo della
ragione, là dove la maggioranza degli uomini giunge solo
con il favore del tempo.
ma per fondarle e mantenerle; poiché tutti gli epigram­
mi contro Gesù Cristo vanno bene. Quanto al coraggio,
il filosofo non ne ha bisogno più dell'apostolo e spesso
neppure in egual misura.
« Nel dubbio astieniti »: se questa parola di un saggio è
la più bella massima della morale, essa è anche la prima
della metafisica.
I fùosofi hanno battuto tutte le strade dell'errore, spie­
gando talvolta le apparenze mediante la realtà e talvolta
la realtà mediante le apparenze. Cicerone aveva notato
che non c'era niente di cosi assurdo che non fosse già
stato detto da qualche filosofo.
Non si sragiona mai cosi tanto come quando si ha molta
ragione da perdere. Allo stesso modo non d si rovina
mai cosi tanto come quando si posseggono molte ric·
chezze.
Il devoto crede alle visioni altrui, il filosofo crede solo
alle proprie.
La più bella risorsa dello spirito umano, che consiste
nella capacità di creare nomi collettivi, è stata la causa di .
quasi tutti i suoi errori.
Rousseau ha fatto incidere sul frontespizio delle sue ope­
re politiche un satira che si awicina a una fiaccola e al
Bisogna che la ragione sorrida e non si arrabbi, come già
faceva Socrate con la sua ironia. Pascal, invece, ha me·
96 97 scolato i due modi. Dio stesso, dopo aver condannato
Adamo al lavoro e alla donna, gli si rivolse con ironia:
« Ecce Adam factus sicut unus ex nobis. Ecco dunque
Adamo divenuto simile a un dio ».
Guardate i frutti che cadono prima del tempo: hanno
una falsa maturità, un falso colore, una falsa dolcezza
che ci traggono in inganno. All'opposto, i frutti che de­
vono ancora maturare per tutta la durata della bella sta­
gione sono aspri e acerbi.
Allo stesso modo, osservate i ragazzi che muoiono
prima di diventare adulti: maturano di colpo, i loro ge­
sti, le loro parole, i loro sguardi sono di un'altra età;
spesso destano stupore per un tratto morale che non ha
più niente dell'infanzia. Al contrario quelli che devono
diventare adulti hanno un'infanzia lunga e turbolenta. A
completamento di questa analogia si osservi che i genito­
ri lasciano i propri figli quando sono grandi e gli alberi i
propri frutti quando sono maturi.
Niente stupisce quando tutto è stupore: è lo stato del­
l'infanzia.
Gli sciocchi, i contadini e i selvaggi si ritengono molto
più distanti dagli animali di quanto non creda il filosofo.
Per quale ragione?
Il movimento tra due stati di quiete è l'immagine del
presente tra passato e futuro. Il tessitore che lavora alla
sua tela fa sempre ciò che non è.
Come i nostri occhi sono colpiti dalle immagini degli og­
getti e non dagli oggetti stessi, coslle nostre anime lo so­
no dalle opinioni sulle cose e non dalle cose stesse.
98
L'indolenza, in certi spiriti, altro non è che nausea per la
vita; in altri è disprezzo.
Si, tutto è votato all'oblio, a questo tiranno muto e cru­
dele che segue dappresso la gloria e davanti ai suoi occhi
ne divoragli amanti e i favoriti. Che dico? La stessa glo­
ria, essendo soltanto rumore, cioè agitazione dell'aria, è
sospesa come l'atmosfera intorno al globo e il suo flusso
cambia senza posa, trascinando i nomi e le notorietà e fi­
nendo per disperderli.
Nell'antichità vi sono due grandi tradizioni, non suffi­
cientemente poste in rilievo: Satana, il primo degli ange­
li, vuole detronizzare il suo benefattore; il frutto della
scienza del bene e del male procura la morte. La prima
insegna che l'ingratitudine è connaturata a ogni creatu­
ra, l'altra che i lumi non rendono felici i popoli.
Le persone straordinarie tengono in gran conto le cose
comuni e usuali, mentre le persone comuni amano e cer­
cano soltanto le cose straordinarie.
Capita per le sciagure come per i vizi, dei quali tanto
meno si arrossisce quanto più li si condivide con la mag­
gior parte delle persone. L'emigrazione mi ha dimostrato
- e in essa la disgrazia toccava il colmo - che gli infelici
traevano tutta la propria consolazione dal loro numero.
Annullare le differenze produce confusione; spostare la
verità produce l'errore; esagerare l'ordine produce il di­
sordine. La vera filosofia sta nell'essere astronomi in
astronomia, chimici in chimica e politici in politica.
L'uomo non gode mai di una completa libertà, ma sol­
tanto di una libertà di secondo grado. Per esempio, è li­
99 bero di mangiare questo o quell'altro cibo, ma non è li­
bero di non mangiare affatto.
za? In voi e non in lui. La grandezza d'un uomo è come
la sua reputazione: vive e respira sulle labbra degli altri.
È sempre libero colui che, sia pure costretto, agisce per
il proprio bisogno, come un valletto che per vivere si po­
ne al servizio d'altri; ma è sempre schiavo colui che è co­
stretto a compiere ciò di cui non ha alcun bisogno.
Ciò che rende gli uomini di mondo a un tempo mediocri
e raffinati è il fatto che si occupano molto delle persone
e poco delle cose: accade il contrario negli uomini di piu
alto rango.
Lo spettacolo dei malvagi ha formato le persone oneste,
come il ridicolo ha creato la gente di buon gusto: jura
inventa metu injusti.
Gli uomini di mondo impiegano il loro tempo libero
meglio che le loro giornate; i poveri non hanno tempo
libero.
Quando si vuole avere ragione ventiquattr'ore su venti­
quattro davanti a tutti, si passa per uno che è privo di
senso comune in tutto l'arco della giornata.
Le passioni si esprimono in modi diversi: vi sono uomini
che non solamente confessano i loro vizi, ma se ne van­
tano; altri, invece, li nascondono con cura; gli uni vanno
in cerca di compagni, gli altri di gonzi. Non sempre il
più grande egoista ammette il proprio egoismo, come il
più gran ghiottone non è colui che prorompe in escla­
mazioni davanti a' un buon piatto, ma colui che lo assa­
pora in silenzio per paura che tutti gliene chiedano un
assaggio.
La fatalità o predeterminazione sta nelle cose, non nelle
persone. È fatale che ogni corpo che passerà su quel pia­
no inclinato scivoli e cada, ma non lo è che vi passi que­
sto o quell'altro uomo.
La paura è la passione più terribile perché si dispiega
contro la ragione; essa paralizza il cuore e la mente.
La distrazione è il frutto di una grande passione o di una
grande insensibilità.
Si ha un'idea più giusta di qualcosa quando la si possie­
de che quando la si desidera: da ciò segue che il solda­
to e il ladro sono più coraggiosi del proprietario. L'uo­
mo infatti ha più ardimento per conquistare che per
conservare.
Ribellarsi contro i mali inevitabili e sopportare quelli che
si possono evitare è un gran segno di debolezza. Che di­
re d'un uomo che si spazientisce contro il maltempo e
che sopporta pazientemente un'ingiustizia?
Gli uomini hanno posto sullo stesso piano gli individui
di cci si sono fatti una grande idea, quelli che hanno da­
to loro grandi idee e quelli che hanno compiuto grandi
cose o prodotto grandi avvenimenti.
Pensate che quel grand'uomo è soggetto a tutte le vostre
piccole passioni: è timido o insolente, avaro o bugiarcfo
proprio come voi. Dove poggia dunque la sua grandez­
Vi sono uomini cosi facili da impensierire, cosi poco in­
clini a usare il loro buon senso e tuttavia cosi ostinati da
riporre la propria onestà nel dubitare di quella altrui.
100 101 Niente rende cosi infelici come attenersi alle regole, ai
prindpi o alle condizioni di uno stato sociale diverso dal
proprio. Un selvaggio che avesse la nostra cultura oppu­
re un cittadino che avesse l'ignoranza del selvaggio sa­
rebbero ugualmente infelici.
Quando ci si propone uno scopo, il tempo, invece di au­
mentare, diminuisce.
Tutti si agitano per trovare infine la quiete, ma ci sono
uomini cosi indolenti che mettono la fme all'inizio.
Ciò che, in genere, è orribile a questo mondo è che noi
cerchiamo con lo stesso accanimento di diventare felici e
di impedire agli altri di esserlo. Molti uomini scagliano
su di noi uno strale a ogni sguardo.
L'ambizione e la voluttà parlano spesso la stessa lingua.
Cesare confessava, quand'era all'apice dell'umana gran­
dezza, che le preghiere gli solleticavano le orecchie. Ho
conosciuto una donna che diceva al suo amante: «Ah,
imploratemi come si deve!» I principi nuovi godono del­
l'impero più dei prlncipi ereditari.
Per valere qualcosa a questo mondo bisogna fare ciò che
si può, ciò che si deve e ciò che si conviene.
Ho conosciuto un gran signore che si interessava molto
alle ruberie che si commettevano nella sua casa: « Il tale
mi deruba di tanto - diceva - il tal altro di tanto e tutti
insieme di tanto; ma io li tengo con me e forse ne assu­
merò di peggiori. D'altronde sono abbastanza ricco per
arrivare alla fine dei miei giorni; mio figlio si arrangerà a
suo piacimento ». Fu Luigi xv a dire: «La monarchia
- durerà tanto quanto me; compiango il mio successore ».
È questo il grado più basso di incuria e di egoismo.
.
102
Bisogna avere una fame da povero per godere della ric­
chezza e uno spirito da privato cittadino per gustare il
potere regio.
Si può avere ricchezza ma senza felicità, cosi come si
hanno delle donne senza l'amore.
Vi sono persone che della propria ricchezza posseggono
solo il timore di perderla.
È ben triste dover desiderare il necessario come ciò sen­
za di cui si è infelici e con cui non si è affatto felici.
La natura, dovendo creare un essere che fosse adatto al­
l'uomo per le proporzioni del corpo e al bambino per il
carattere, ha risolto il problema creando quel bambino
grande che è la donna.
Il cuore è la parte infinita dell'uomo, la mente quella li­
mitata. Non si ama Dio con tutta la mente, lo si ama con
tutto il cuore. Ho notato che le persone che mancano di
cuore - e il numero è assai più alto di quanto non si cre­
da - hanno tutte un eccessivo amor proprio e una certa
povertà di spirito, mentre il cuore armonizza tutto nel­
l'uomo; esse sono invidiose e ingrate e basta che siano in
obbligo verso di te perché divengano tue nemiche.
L'amore è un piccolo furto che lo stato di natura compie
ai danni dello stato sociale.
L'amore che vive nelle tempeste e spesso cresce in mez­
zo alle perfidie non dura sempre nella bonaccia della fe­
deltà.
Perché l'amore è sempre cosi scontento di sé, mentre l'a­
mor proprio è sempre cosi soddisfatto? Ebbene, perché
103 .",~
. 'I
per l'amor proprio tutto è un incasso, mentre per l'amo­
re tutto è una spesa.
sempre senza trovarla, i grandi uomini hanno posseduto
solo una teoria dell'amicizia.
Dinanzi alle donne i giovani sembrano ricchi che si ver­
gognano, i vecchi sembrano poveri sfacciati.
Si sa per quale destino i grandi talenti sono, in genere,
più rivali che amici; essi maturano e brillano da soli, per
paura di farsi ombra l'un l'altro. Le pecore si raggruppa­
no, i leoni si isolano.
Si corrompe la ragazza innocente con proposte sfacciate,
mentre l'amore delicato seduce la donna galante: un gu­
sto nuovo per l'una e per l'altra.
Niente è maggior prova della scarsa stima degli uomini
per se stessi che il disprezzo dimostrato verso gli attori e,
in generale, verso tutti coloro che li fanno divertire e ser­
vono ai loro piaceri; d'altronde la maggioranza degli uo­
mini spiega il proprio disprezzo per una donna col fatto
che l'hanno posseduta.
È dalla consuetudine dei rapporti che nascono le amici­
zie più tenere e gli odi più forti.
Enea è l'eroe della pietà filiale per aver lui stesso portato
sulle spalle il padre attraverso le fiamme; non lo sarebbe
se avessè fatto trasportare il padre da uno schiavo. Si di­
viene eroi quando si com pie un grande sacrificio per il
proprio re o per la patria. Si può essere un gran re, un
grand'uomo, un grande generale senza essere un eroe.
Nell'amore o nella disgrazia l'amor proprio prega sem­
pre in modo poco accorto: perché all'oggetto amato par­
la sempre di sé e al potente implorato parla dei servizi
resi invece che dei benefici ricevuti.
Nel campo dell'arte, se è la parte laboriosa di una nazio­
ne quella che crea, è però la parte oziosa quella che sce·
glie e che detta il gusto.
L'amore nacque tra due esseri che si chiedevano lo stes­
so piacere.
L'uomo modesto ha tutto da guadagnare, mentre l'orgo­
glioso ha tutto da perdere, perché la modestia ha sempre
a che fare con la generosità e l'orgoglio con l'invidia.
Perché si preferisce per la propria figlia uno stupido che
abbia un nome e una posizione a un uomo intelligente?
Il fatto è che i vantaggi dello stupido si· condividono e
quelli dell'intelligente sono incomunicabili: un duca crea
una duchessa, un uomo intelligente non rende intelli­
gente la sua donna.
Simili ai cavalieri erranti che si creavano un'amante im­
maginaria e se la figuravano così perfetta da cercarla
104 Il disprezzo deve restare il più nascosto tra i nostri senti·
menti.
In generale, !'indulgenza verso chi si conosce è molto
più rara che la pietà per chi non si conosce.
Gli stupidi farebbero bene a nutrire per le persone intel·
ligenti una diffidenza pari al disprezzo che queste riser­
vano loro.
105
\/:'~:n~:r \
L'invidia che parIa e che strepita è sempre innocua; è
l'invidia silenziosa che dev'essere temuta.
A procurarci fastidi non sono le scomodità di una condi­
zione, ma gli agi di un'altra.
Un bello spirito sembra spesso felice, come un uomo
che ha un bel corpo sembra spesso agile.
TI gatto non ci accarezza ma si accarezza a noi.
Un uomo mediocre, che usa bene il suo tempo, può, con
destrezza e tenacia, giocare un ruolo importante e far
parlare di sé.
In Europa nascono più uomini che donne; questo solo
fatto condanna le donne all'infedeltà. All'opposto, in
una terra in cui ci fossero meno uomini molte donne sa­
rebbero condannate alla fedeltà.
Lo stomaco è il terreno in cui germina il pensiero.
TI decoro abbellisce la ricchezza e maschera la povertà.
I rovi coprono il cammino dell'amicizia quando non lo si
percorre frequentemente.
Le stesse doti che consentono a un t,Jomo di fare fortuna
gli impediscono poi di goderla.
Bisogna evitare gli stupidi perché sono attaccabrighe e ti
infliggono almeno venti ferite prima di riceverne una.
Certe virtù si possono praticare solo quando si è ricchi.
Se gli stupidi potessero immaginare quante sofferenze ci
infliggono, avrebbero compassione di noi.
Nello stato selvaggio le razze sono belle, perché è sem­
pre il maschio più robusto che scaccia gli altri e si gode
la femmina.
In morale bisogna evitare di riporre la propria virtù in
atti indifferenti, com'è il conservare la verginità.
Come un fiore o un frutto coltivati, che più sono belli o
grossi e meno portano in sé i semi o gli acini, cosi un uo­
mo più coltiva il proprio spirito e meno è adatto alla ge­
nerazione o ai lavori manuali. Questo dimostra che la na­
tura non vuole che un fiore sia un bel fiore, né un frutto
un grosso frutto, né un uomo un grande pensatore.
La natura, poiché ha solo i quattro grandi scenari delle
stagioni e il sole, la luna e gli astri come attori, si diverte
a cambiare gli spettatori e li spedisce all'altro mondo.
Noi uomini non possiamo cambiare gli spettatori e per­
ciò mutiamo scenari e commedia.
106
TI grande errore degli uomini sta nel credere che il tem­
po passa. TI tempo è la riva che sembra muoversi mentre
noi gli scorriamo dinanzi.
La strada più cattiva fa più rumore.
La memoria si accontenta di tappeti logori, ma l'immagi­
nazione si circonda degli arazzi dei Gobelins.
Tra gli animali si possono distinguere gli individui Intel­
ligenti e quelli abili: il cane, l'elefante, per esempio, sono
intelligenti; l'usignolo e il baco da seta sono abili.
1'07
L'uomo è l'unico animale che si sorprenda dell'universo
e che si stupisca ogni giorno di non essere più stupito.
Negli animali la sorpresa scaturisce solo dall'apparizione
di un oggetto sconosciuto e finisce bruscamente con lo
spavento o la fuga, e, in tempi più lunghi, con l'assuefa­
zione o l'oblio. Nell'uomo la sorpresa è madre della ri­
flessione, si conclude con la meditazione e ci porta spes­
so, attraverso il felice tormento del pensiero, a delle sco­
perte. Lo stesso stupore, che è prodotto dalla nostra de­
bolezza, è un segno di genialità: perché sentirsi piccolo è
indice di grandezza, come sentirsi colpevole è indice di
virtù. Infine, noi uomini siamo ad un tempo stupefacenti
e stupefatti; gli animali sono solo stupefacenti.
Possiamo ritenerci fortunati che gli animali, già diversi
da noi nell'aspetto, non posseggano la parola, perché, se
ci comunicassero idee e sentimenti, se parlassero, il sen­
so di umanità ci impedirebbe di mangiarli. Infatti, non si
ha il coraggio di uccidere neppure gli animali che entra­
no con noi in un rapporto molto stretto, come il cane.
Se uccidete il pollo di un contadino, costui si acconten­
terà del vostro denaro; ma se uccidete il suo cane, offrir­
gli del denaro sarebbe un'ulteriore offesa.
Poiché la vita è un intero, cioè ha un inizio, un mezzo e
una fine, non ha importanza che essa sia lunga o breve;
importa solo che possegga le giuste proporzioni. Ci si
deve dunque lamentare solo di una morte prematura,
che giunge prima della fine della vita: una morte simile
non è infatti la fine della vita ma la sua interruzione.
Vi è una genia di filosofi, persone di scarso prestigio in
materia, spiriti avventati, che non hanno verso la natura
quell'ardore misto a reverenza che distingue il vero
amante, degno di riceverne i favori, ma si comportano
108 da persone indiscrete, che cercano solo la novità, la mo­
da e il clamore, e che disonorano troppo spesso l'oggetto
dei loro omaggi.
La ricchezza di Voltaire mantenne l'equilibrio della sua
esistenza. Considerate le Mondain. In Rousseau, al con­
trario, si presenta un grande squilibrio tra il suo valore e
le sue sostanze. TI primo era adatto a un grande impero,
il secondo a una piccola città, dove la povertà può essere
ritenuta una virtù. Ma, per una bizzarria che si può spie­
gare solo con i loro temperamenti, Voltaire visse a Gine­
vra e Rousseau a Parigi: l'uno voleva godere fastosamene
della sua ricchezza presso un piccolo popolo e l'altro vo­
leva stupire una grande nazione con lo spettacolo della
sua sdegnosa miseria. In questo loro modo di essere non
si esprime certo una buona filosofia.
Se si parla dal punto di vista metafisico, il tempo non è
né un vecchio, né un fium~; tutte queste immagini si ad­
dicono solo al grande moto dell'universo che tutto di­
strugge e tutto ricrea per l'eternità. TI tempo è piuttosto
il contenitore che lascia passare le acque del tÌume e re­
sta immobile; riviera dello spirito, tutto gli scorre dinan­
zi e noi crediamo che sia lui a scorrere.
È noto che la vecchiaia si appoggia più alla memoria che
all'immaginazione: perciò l'uomo di talento, quand'è nel
suo pieno vigore, cerca di impressionare gli altri uomini,
mentre, quando il talento declina, riesce solo a dipinger­
li. Bisogna dunque preparare già nella giovinezza questa
risorsa per la stagione del tramonto.
Senza la memoria, il sentimento, eccitato dall'immagina­
zione, si sarebbe scontrato ad ogni istante con la realtà;
ma le sensazioni e le idee, che in origine sono come lam­
109 pi, si mutano in luce morbida e continua per effetto del­
la memoria.
Il motivo per cui un selvaggio non si trova bene nelle
nostre città è che egli non attribuisce alcuna importanza
alla pubblica opinione; del resto, se lo facesse, si assog­
getterebbe ben presto a tutte le nostre catene, in quanto
porterebbe già la prima e la più pesante. Si sono visti dei
marinai, divenuti selvaggi, non voler più tornare allo sta­
to sociale, mentre non si è mai visto un solo selvaggio
che alla prima occasione non sia ritornato presso i suoi
simili, qualunque piacere gli si fosse procurato nella no­
stra società.
Sulla soglia della vita l'uomo fu posto dinanzi a un cro­
cicchio, l'animale dinanzi a un'unica strada: per questo
noi uomini siamo capaci di dubitare e colpevoli di frode,
mentre gli animali ne sono esenti e restano sempre in­
corruttibili.
I filosofi si sono ingannati sia riguardo al popolo sia ri­
guardo alle classi sociali più elevate. Hanno creduto che
i lumi si sarebbero diffusi nel popolo e non tra le classi
alte.
La morale erige un tribunale più alto e temibile di quello
della legge. Essa vuole non solo che evitiamo il male, ma
anche che facciamo il bene; non solo che sembriamo vir­
tuosi, ma che lo siamo realmente: e ciò poiché la morale
non si fonda sul giudizio del pubblico, che si può ingan­
nare, ma sulla stima che abbiamo di noi stessi, che non
ci inganna mai.
La morale, come il corpo politico, è fondata sull'omoge­
neità, perché non c'è morale comune tra l'uomo e la be­
110 stia o tra l'uomo e Dio. Fra gli animali, essa sarebbe fon­
data sull'animalità, fra gli angeli sulla natura spirituale,
fra gli uomini sull'umanità, madre di tutte le virtù, per­
cpé conduce prima alla giustizia e poi a fare del bene.
In morale vi sono questioni alle quali un uomo saggio e
sicuro della propria coscienza non deve mai rispondere.
La legge è scritta sulla facciata dell'edificio sociale; essa
custodisce le porte e le strade e non conosce né prefe­
renze né eccezioni. Tuttavia, nell'edificio della morale e
delle leggi, vi è un segreto ricetto che io chiamerei volen­
tieri il tribunale della coscienza, per giungere al quale
solo la virtù conosce il cammino, e che la moltitudine è
destinata a ignorare per sempre.
Sarebbe criminale mostrare allo straniero il disegno del­
le nostre fortificazioni: egli si approprierebbe così della
chiave del regno. lo non mostrerò dunque il cammino
nascosto e la porta segreta di quel santuario appartato
nel quale si giudicano le sottili questioni della morale, le
perplessità della giustizia e tutti i problemi per i quali
non vale la bilancia di Temi: perché, se li mostrassi, l'ari­
do interesse e tutti i sofismi delle passioni forzerebbero
subito l'ingresso e violerebbero la coscienza nel suo ulti­
mo riparo.
Non c'è che una sola morale, come non c'è che una sola
geometria; queste due parole non conoscono plurale. La
morale è figlia della giustizia e della coscienza: è una- re­
ligione universale.
Ciò che va evitato nella morale è di riporre la virtù in at­
ti indifferenti come il digiuno, il cilicio, la macerazione
della carne: tutto questo non è di alcuna utilità per gli
altri uomini.
111
Le virtù sono state distinte in due classi: quelle che sono
utili soltanto a noi, come la temperanza, la prudenza, la
circospezione, e quelle che sono utili agli altri, come la
giustizia, il fare del bene, l'abnegazione. Ciò che è utile
soltanto a noi non è una virtù, nel senso che un uomo
solo non può essere virtuoso né vizioso; ma, nella socie­
tà, un uomo prudente, temperante, circospetto, è più
adatto ad essere buon padre di famiglia, buon soldato,
buon magistrato; ed è in questo senso che tali qualità
personali divengono virtù.
Bisogna proporsi di dire sempre la verità, perché questo
programma seguito costantemente ci eleva dinanzi a noi
stessi e perché ci rende persone discrete: una virtù ne
porta un'altra. Dunque, la dissimulazione non deve mai
oltrepassare la soglia del silenzio.
Fra tanti malevoli, che sventatamente dicono cattiverie
su cose che non conoscono, vi sono degli amici discreti
che tacciono prudentemente sulle cose buone che essi
sanno.
A corte non si è indulgenti su nulla e si dissimula tutto.
È per questo che si ha di mira un gusto squisito e si
giunge a una raffinata cortesia. Gli uomini eccelsi in
ogni campo forniscono sempre dei modelli a un genti­
luomo di corte; da ciò proviene quella leggera patina di
universalità che costituisce lo spirito di corte.
La felicità dei bambini è una grande· opera della prov­
videnza: perché se il mondo fosse qualcosa di buono,
quelli che non ci capiscono niente sarebbero da com­
piangere più di tutti.
« Perché si è ucciso? » Servono ragioni così valide per vivere che non ce ne vuole alcuna per morire. All'avaro manca sia ciò che ha sia ciò che non ha. È l'uo­
mo odioso per eccellenza. Un ricco che, pur non essen­
do avaro, non facesse del bene al prossimo sarebbe co­
me un sole che avesse perduto la sua luce.
Se il ricco fosse generoso allo stesso modo in cui lo è la
terra, se cioè concedesse qualcosa solo inseguito al lavo­
ro, sarebbe ritenuto altrettanto duro.
Niente di più brutto che essere ricco senza virtù.
Quando un uomo vale più di ciò che possiede bisogna
,che sia ben povero; ecco perché i ricchi sembrano valere
tanto poco ed ecco perché i filosofi sono a favore dei
poverI.
« Ritornate », scriveva al suo amante una donna di poca
religiosità, «se avessi potuto amare un assente, avrei
amato Dio.» Costei trasformava Dio in uomo; ma Dio è
sempre presente.
Ciò che conserva quel poco d'onestà e di morale pubbli­
ca che brilla ancora a questo mondo è il fatto che un fur­
fante non vuole passare per tale e accusa i suoi simili di
esserlo. Tutto sarebbe perduto se egli avesse l'ardire di
proclamare ad alta voce: « io sono un furfante ». Questo
pudore non è affatto ipocrisia.
Il suddito, sulla cui amicizia conta il monarca, deve sem­
pre trepidare come la ninfa della favola che temeva che
Giove, un giorno, dimentico di ogni metamorfosi, le
comparisse dinanzi nel suo folgorante splendore.
112
113
Su dieci persone che parlano di noi nove ne parlano ma­
le e spesso la sola persona che ne parla bene lo fa nel
modo sbagliato.
meravigliosa armonia, dall'insetto all'uomo, dall'atomo
al sole, fino all'essere unico, luminoso e misterioso, che
funge da centro e che è l'io dell'universo.
Se i gentiluomini di corte pensano e parlano con più fi­
nezza degli altri uomini, è perché a corte si è continua­
mente costretti a dissimulare i pensieri e i sentimenti.
Vi sono stati dei preti costituzionali, ma non si può ave­
re una religione costituzionale.
Che poteva il buonsenso in un secolo malato di metafisi­
ca, nel quale non si concedeva neppure alla felicità di
presentarsi senza adeguate dimostrazioni?
Poca filosofia allontana dalla religione e molta vi ricon­
duce. Bacone ha detto questo della religione e ha voluto
farci capire che quando si ritorna a essa è perché la reli­
gione ci richiama grazie alla sua dimensione politica.
Ogni uomo che s'innalza si isola, e io paragonerei volen­
tieri la gerarchia degli spiriti a una piramide. Quelli che
stanno alla base corrispondono alle sezioni più grandi, e
si trovano ad essere in molti allo stesso livello; a misura
che ci si innalza si corrisponde a sezioni più ristrette; in­
fine, la pietra che sormonta e conclude la piramide è
unica e ad essa non corrisponde nessuno.
Tacito ha parlato da vero filosofo quando ha detto che è
meglio credere in Dio piuttosto che discutere di Dio:
« Sanctius
ac reverentius videtur de existentia Dei credere
quam sctre ».
Ai nostri giorni, se il potere assoluto di un singolo si sta­
bilisse in Francia, la filosofia opporrebbe meno argini al­
la tirannide di quanto non farebbe la religione.
Ho visto un uomo che non credeva in Dio e che tuttavia,
per quanti gli stavano attorno, era un vero uomo della
provvidenza. Di uomini siffatti ho conosciuto soltanto
questo.
In materia di religione, il saggio non dev'essere né super­
stizioso né empio. L'incredulo si inganna sull'altra vita, il
credente sbaglia spesso su questa.
Alla fin fme non c'è che una religione sulla terra - ossia
il rapporto dell'uomo con Dio -, come non c'è che un
metallo chiamato argento. Ma ogni nazione conia il me­
tallo nella sua zecca e questo crea la differenza delle mo­
nete. Capita lo stesso per le lingue, che tra loro sono di­
verse benché non sussista che una sola facoltà di parlare.
Come applicare una misura fissa ai culti e alle lingue?
Come trovare il loro tratto universale?
Si è sommamente infelici quando i propri gusti stanno in
opposizione alle proprie necessità. Ad esempio, a me
piace la quiete ma ho bisogno di muovermi.
L'universo si compone di cerchi concentrici, ordinati gli
uni attorno agli altri e che si corrispondono tutti con
Un giovanotto, che era riuscito a introdursi nella buona
società, approfittò di una circostanza fortunata per in­
114 Annotazioni
115 viare al padre un soccorso finanziario; all'amico che l'a­
veva aiutato in questa faccenda raccomandò il segreto, perché - diceva - in un mondo corrotto come quello la disgrazia d'avere un padre povero poteva nuocergli più di quanto gli avrebbe fatto onore la sua pietà filiale. Il tale è uno sciocco, ma sta a sentire di buon grado gli amici intelligenti. Il cielo vi preservi dall'amore di un'inglese. « Signore, vi State annoiando? » « Non ha importanta purché mi si distragga.» «A che pro questa continua dissolutezza? Una ragazza dopo l'altra! » « Lei dovrebbe piuttosto congratularsi con me, perché in questo modo la mia amante resta sempre all'età di quindici anni e per di più mi risparmia la fatica della corrispondenza epistolare. » Un giorno la figlia naturale del conte P. mi disse: «lo debbo alla mia natura la mia irragionevole follia e una dissolutezza senza sentimenti ». Sprofondato nell'indolenza, vedevo crescermi attorno una reputazione di cattivo senza aver commesso, per meritarmela, altri delitti che qualche amenità, e dunque mi dicevo: «I Nerone e i Caligola, per farsi temere e odiare, compivano atti davvero delittuosi, mentre con qualche semplice bagatella sarebbero potuti passare per mostri ». Al Caveau, verso il 1780, le nostre conversazioni erano di livello così elevato che le spie quasi morivano di noia; 116 perciò dovettero far infiltrare tra noi un accademico,
Suard.
Poiché la natura non mi ha donato niente di eccezionale,
e ancora meno mi ha dato la società, io mi accontento
dell'aria e dell'acqua, del silenzio e della solitudine come
dei quattro elementi della mia vita, che non portano con
sé né piacere né tormento.
Al signor Dutens, autore di un libro nel quale sostiene
che noi siamo debitori agli antichi di tutte le nostre in­
venzioni, bisognerebbe chiedere perché non abbia asse­
gnato ad Apollo un fucile. Infatti, poiché ci saranno .
sempre nuove invenzioni e, di conseguenza, nuovi signo­
ri Dutens, che non mancheranno di attribuirle agli anti­
chi, gli suggerisco di risparmiare la fatica ai suoi succes­
sori e perciò di ricavare dai classici, una volta per tutte,
ogni invenzione che possa essere escogitata in saecula
saeculorum. Amen.
Regola pratica: non prestate mai libri alle donne o fatelo
solo con quelle che teniamo sotto chiave.
Su Mirabeau: il denaro gli costava solo dei delitti e i de­
litti non gli costavano niente.
Una sera, all'Opéra, M.lle Laguerre, in seguito a un
aspro diverbio con l'amante, fugg1 dal teatro piangendo
e con ancora indosso l'abito di scena; la sua mente era
cos1 confusa, che si smarrì nella campagna, dove trascor­
se l'intera notte in lacrime. Verso il mattino era d'esta­
te - si mise a cantare e salutò l'aurora con un leggiadro
canto, che era stato molto applaudito a Parigi. I contadi­
ni che scorsero questa bellissima creatura con abiti di
una magnificenza e di un'eleganza ad essi sconosciute,
117 stupiti per il suo portamento, per la sua superba bellezza
e per la sua voce, la scambiarono per un angelo e si ingi­
nocchiarono dinanzi a lei. Immaginiamoci che, a rapire
M.lle Laguerre, fosse apparso un pallone aerostatico, si­
mile a quello con cui Charles si alzò in volo davanti alle
Tuileries: l'illusione non sarebbe forse stata completa? I
testimoni non si sarebbero fatti in quattro per conferma­
re l'apparizione e l'ascesa al cielo? In qualunque altra re­
ligione ci sarebbe forse un miracolo attestato meglio e
più chiaramente di questo?
E tuttavia il fatto è accaduto vicino a Parigi, nel 1778,
in pieno secolo dei lumi.
Perché il signor Lauraguais ha paragonato il mio spirito
a un fuoco che brucia sull'acqua?
Nella mia giovinezza c'erano a Parigi degli uomini di
mondo che si sono rovinati per conquistare l'amore di
qualche ragazza del popolo. Una di loro mi disse, a pro­
posito del duca x: « È un uomo che vuoI essere adorato
e questo costa molto ~>.
Non soltanto il Dio degli uomini è un uomo, ma quello
degli ebrei è ebreo, quello dei giapponesi è giapponese e
cosi via.
Nel 1772 alcune nobili damigelle, dai quindici ai diciot­
to anni d'età, poiché languivano di noia all'Abbaye-aux­
Bois, decisero di scrivere una lettera al Gran Sultano per
supplicarlo di accoglierle nel suo harem. La lettera, in­
tercettata, fu consegnata al re, e a corte se ne rise molto.
La noia del convento e il desiderio d'amore avevano
spinto queste signorine a un gesto molto naturale.
Su Lauraguais. Le sue idee sono come lastre di vetro ac­
catastate in una vetreria: ognuna, singolarmente, è tra­
sparente, ma tutte insieme sono opache.
Una donna disse a un parvenu che le aveva rifiutato un
favore: «Pfui! Avete tutti i difetti dei gran signori ». E
cosi ottenne ciò che desiderava.
Mentre io dormivo, l'arcivescovo disse alla mia amica:
« Lasciamolo dormire, non parliamo più ~>. Ed io rispo­
si: « Se smettete di parlare, mi sveglierò ~>.
I gazzettieri, che scrivono tanto seriosamente sui versi
leggeri di Voltaire, assomigliano a quei doganieri che
applicano i loro sigilli di piombo alle finissime stoffe ita­
liane.
« Gli uomini non sono cosÌ cattivi come Lei suppone.
Lei ha impiegato vent'anni per scrivere un pessimo libro,
mentre a loro è bastato un attimo per dimenticarlo. »
« Lei parla molto con queste persone noiose. ~>
« Parlo per non doverle ascoltare. »
« Le scriverò' domani, ne sia certo. »
« Non abbia premura e scriva quando vuole. »
118
Mirabeau, più di ogni altro uomo; era pari alla sua fama:
era orrendo.
Per denaro Mirabeau sarebbe stato capace di tutto, per­
fino d'una buona azione.
La simulazione può rendere intelligenti: ad esempio, G.
diceva sempre, per principio, l'opposto di ciò che pensa­
va e questo gli dava dei buoni risultati.
119
Il mio lavoro al Dizionario della lingua francese mi faceva
pensare, talvolta, a quello di un medico, costretto a se­
zionare la sua amata.
Un giorno mi saltò in mente di sparlare dell'amore e lui,
per vendicarsi, mi costrinse al matrimonio. Da allora vi­
vo di rimpianti.
La Venere di Milo è solo una statua di marmo, anche se
ha una forma perfetta. La donna è imperfetta, e tuttavia
è dotata di vita e di movimento. Mentre la statua, a cau­
sa della sua immobilità, sarebbe insopportabile senza
una forma perfetta, la donna, a motivo della sua imper­
fezione, sembrerebbe una brutta statua se fosse priva
dell'incanto che le conferisce la vita e il gioco della pas­
sione.
A Parigi la prowidenza è più potente che altrove.
La musica deve cullare l'anima nell'indefinito e offrire
dei motivi. Non c'è musica peggiore di quella che defini­
sce tutto.
Nelle sue epoche di sviluppo, Parigi assomiglia a una
morbida ragazza che si irrobustisce solo nell'addome.
Nel 1792, due anziani arcivescovi passeggiavano nel par­
co della città di Bruxelles, appoggiandosi ai loro bastoni.
Dopo un lungo silenzio, l'uno disse all'altro: «Monsi­
gnore, lei crede che trascorreremo l'inverno a Parigi? »
E l'altro replicò con sussiego: «Monsignore, non ci vedo
nulla di sconveniente ».
Gli spiriti meschini e~ultano per i difetti dei grandi, co-·
me le civette, che si rallegrano per un'eclissi di sole.
Se si fa dello spirito davanti a dei tedeschi, essi reagisco­
no solo dopo averci pensato su e dopo essersi incorag­
giati tra loro con lo sguardo. I tedeschi hanno bisogno di
essere in gruppo per apprezzare una battuta.
Lo Spirito delle Leggi di Montesquieu è maestoso e fe­
condo come il Nilo nel suo corso, ma è altrettanto oscu­
Sebbene io non sia né Socrate né Giove, mi ritrovo in
casa Santippe e Giunone.
ro nelle sorgenti.
Come tanta gente, che invano si sforza di starnutire, G.
cerca di fare osservazioni intelligenti.
Lo stile di Rousseau è lacrimoso e scomposto; non è lo
stile di uno scrittore, ma di un tribuno che declama.
. Lo storico e il romanziere si scambiano la verità e la
poesia: lo storico ricorre alla poesia per rawivare il rac­
conto di dò che è accaduto; il romanziere si appella alla
verità per dare credibilità a ciò che non è mai awenuto.
120 Non conosco nessuno in Europa che s'inganni sul pro­
prio sesso più di Madame de Stael.
Mentre ij francese cerca di strappare alla vita il lato più
bello, l'inglese sembra sempre in presenza di un dram­
ma, cosicché il classico paragone tra l'ateniese e lo spar­
tano si applica ai due perfettamente. Si procura lo stesso
fastidio a un francese quando lo si annoia e a un inglese
quando lo si diverte.
Ho lasciato l'Inghilterra per due ragioni: in primo luogo
per il cattivo clima e poi perché il mio lavoro al Diziona­
121 i
rio riusciva meglio sul Continente. Del resto, non mi ag­
grada una terra in cui vi sono più farmacie che forni e dove non si conosce alcun frutto maturo al di fuori delle mele cotte. Le inglesi, poi, sono belle, ma hanno due mani sinistre. « ... e la loro grazia oscura anche la loro bellezza », dice invece il nostro Lafontaine, in uno dei suoi versi dedicati al corpo delle donne francesi. Il mio epitaffio: « L'indolenza ce lo rapì prima della morte ». Aneddoti
Parodiando un verso dell'Henriade, Rivarol definiva
l'occhio come il luogo in cui spirito e materia si congiun­
gono: « Luogo in cui il corpo finisce e inizia lo spirito ».
A un autore che gli richiedeva un'epigrafe per una bro­
chure: «purtroppo, posso offrirLe soltanto un epitaf­
fio ».
Definì gli oratori dell' Assemblea Costituente, i cui nomi
erano sulla bocca di tutti senza che prima nessuno li
avesse mai sentiti, « funghi politici, spuntati nottetempo
nelle serre della moderna filantropia ».
A qualcuno che gli presentava un distico: « è buono, ma
vi sono delle lungaggini ».
In un colloquio sulla rivoluzione, l'abate Balivière ebbe a
dire: « lo spirito ha portato tutti noi alla rovina ». Riva­
rol rispose: «perché Lei non ci ha fornito l'antidoto? »
La sera, il suo segretario non si ricordava già più delle
lettere che gli erano state dettate il mattino. Rivarol lo
definiva il segretario ideale per le congiure.
Un giorno, Rivarol si intratteneva con D'Alembert su
Buffon. D'Alembert disse: «Lasci che mi diverta con
questo chiacchierone, che comincia con frasi del tipo:
"la conquista più nobile che l'uomo abbia mai fatto è
quella di questo fiero e veloce animale" etc. Perché non
scrive semplicemente: il cavallo? »
« Sì », disse Rivarol, « egli fa a gara con Jean Baptiste
Rousseau, che ha il coraggio di dire in versi: "dai lidi in
cui si leva l'aurora alle sponde fiammeggianti in cui co­
mincia la notte" invece di scrivere semplicemente: "da
est a ovest". »
Ebbe a dire di Thibault, che teneva ad Amburgo delle
lezioni molto mal frequentate: « paga i custodi a guardia
delle uscite ».
A proposito del Duca d'Orléans, il cui viso era colorito
dal borgogna: « la dissolutezza lo ha dispensato dal ros­
sore della vergogna ».
L'editore: «lo mi sarei presentato in maniera decoro­
sa ». Rivarol: « Non volevo metterLa in imbarazzo ».
Nel suo incontro con Voltaire, paragonò certe operazio­
ni algebriche all'attività delle donne che lavorano al tom­
bolo, le quali guidano i loro fili attraverso un labirinto di
aghi e a sera si stupiscono dei merletti sopraffini che
hanno ottenuto.
« Cosa crede », rispose Rivarol a una duchessa, che dice­
va che si poteva frustare la regina, purché la rivoluzione
122
12.3 non andasse avanti, « cosa crede che si farebbe alle du­
chesse, se si frustano le regine? ~>
A uno sciocco che si vantava di conoscere quattro lin­
gue: « Mi complimento con Lei. Lei ha quattro parole
per una sola idea ».
124
APPENDICE
Sulla letteratura
La fama che Rivarol si era fatta in società come homme
d'esprit fu piuttosto nociva al suo apprezzamento lettera­
rio. Ai liberali appariva, nel migliore dei casi, come un
persifleur, come un canzonatore spiritoso, ai conservato­
ri come un fiorettista.
Le Oeuvres Complètes, che uscirono nel 1808 presso
Collin, poterono modificare di poco questo stereotipo:
esse rivelano quelle mancanze che spesso gravano sulle
raccolte postume. Ne è un esempio l'edizione Rothsche­
Hamann, di cui per molto tempo abbiamo dovuto ac­
contentarci, sino a quando tali mancanze vennero col­
ma,te dai testi di N adler.
Solo Sainte-Beuve, intorno alla metà del secolo scor­
so, ha riconosciuto il significato di Rivarol, benché egli si
limiti essenzialmente a un apprezzamento stilistico. Ne­
gli anni '80 e '90 le edizioni di Lescure e Le Breton get­
tarono luce tanto sui testi quanto sulla biografia. I loro
lavori stimolarono spiriti come Barbey d'Aurevilly, Remy
de Gourmont e Paul Léautaud a occuparsi di Rivaro!.
Rivarol agirà· sempre e soltanto sui singoli: egli è an­
noverato tra le pietre di paragone letterarie. Se lo si ama
e si trova un tale amore anche presso uno sconosciuto, è
questo un auspicio per una buona discussione. Rivarol
guadagna in durata quel che perde in estensione. Nei
suoi quaderni si trova l'annotazione: « io cerco di appor­
tare al mio stile una rifinitura che mi impedisce di eser­
citare un influsso sul mio secolo ».
In Germania l'influenza di Rivarol fu ancora minore
che in patria. Ma egli ha pur sempre trovato in fretta de­
127 gli estimatori, come Karl Julius Weber, l'erudito autore
del Demokn'tos, quell'inesauribile fonte di serenità.
Una traduzione delle massime apparve soltanto nel
1938, nella collezione Die franzosischen Moralisten, pres­
so Dieterich. Questa traduzione segue la ripartizione di
Lescure. Venne curata da Fritz Schalk,
Lo stesso anno recò la più approfondita celebrazione .
del nostro autore: Antoine de Rivaral undder Ausgang
der /ranzosischen Aufklarung, un'ampia dissertazione
che sopravanza, per conoscenza dei dettagli e anche per
empatia spirituale, persino il bel lavoro di Le Breton.
Essa rappresenta la chiave scientifica per chiunque vo­
glia occuparsi di Rivarol e della sua opera. Il suo autore
è Karl-Eugen GaS.
È per me necessario ricordare questo valido romani­
sta, non solo perché lo impone l'occasione di uno scritto
su Rivarol pubblicato in Germania ma anche perché egli
rientra in quella messe di talenti in via di' maturazione
che la guerra chiamò a sé.
Karl-Eugen GaS nacque il 21 marzo del 1912 a Kas­
sel e dal 1930 al 1936 studiò lingue romanze, germanisti­
ca e filosofia, dapprima ad Heidelberg, dove fu allievo
di J aspers, più tardi a Monaco e quindi a Bonn presso
Ernst Robert Curtius. Qui ricevette lo stimolo a occu­
parsi di Rivarol, quindi si recò alla Sorbona per il Seme­
stre invernale 1933-34. Là, da uno degli antiquari di Rue
de Seine, gli riusCÌ di scoprire l'edizione di Rivarol del
1808, da lungo tempo introvabile. L'esemplare, che ven­
ne tratto in salvo dal rifugio antiaereo della sua casa di­
strutta, tornò buono anche a me per la traduzione. Deb-'
bo tutto questo, cosl come i particolari della sua vita, al­
l'amichevole interessamento di sua moglie.
Nel febbraio del 1935 GaS ottenne la promozione e
nel 1937 una borsa di scambio alla Scuola Normale Su­
periore di Pisa, dove trovò la quiete per i suoi studi.
128 Qui, accanto ai lavori scientifici, iniziò un bel diario. Nel
1938 diventò assistente alla biblioteca Hertziana a Ro­
ma. Di là ricevetti il suo lavoro su Rivaro!. Dalla lettera
di accompagnamento appresi che la rilevanza del suo
autore - una rilevanza che non solo si prolunga fino alla
nostra epoca ma si attualizza in essa - era per lui sconta­
ta: a questo riguardo, egli è anzi una pietra di paragone.
GaS mi scrive nello stile un po' cifrato di quegli anni:
« Dal libro Ella potrà desumere che in questo perio­
do Rivarol ha esercitato su di me un importante influsso:
egli mi ha illuminato la situazione presente sotto tutti gli
aspetti. Ma, come si richiede ad una dissertazione, ho
accantonato del tutto questo tratto per far posto a un al­
tro intendimento: esporre nella sua struttura il mondo
spirituale di Rivarol. È sempre rimasto un desiderio tra­
durre una raccolta di testi di RivaroI che faccia effettiva­
mente conoscere la sua figura e cosi lo renda noto in
Germania... »
Poi scoppiò la guerra. Giunsero ancora alcune brevi
lettere e, infine, dopo la sconfitta, come di molti altri
amici a me personalmente sconosciuti, arrivò la notizia
che egli era caduto a Eindhoven, in terra olandese, il 18
settembre 1944.
Da lungo tempo il suo spirito sereno era stato offu­
scato: il destino del nostro popolo lo aveva riempito di
una grande malinconia. Ma quando lo raggiunse l'ordine
di partire, ritornò la serenità. Come molti tra i migliori
dei nostri, egli vide che la vessatoria coartazione di po­
tenza e diritto forgia una terza realtà: la porta del sacrifi­
cio, che è sempre aperta. «Concedimi il cammino sul
quale io non ti posso portare. » Queste furono le sue ul­
time parole alla moglie.
129 Sulle massime
Come si è già detto, ai tempi di Rivarolle massime non
comparvero in questa forma. Piuttosto, esse si vennero
formando come una raccolta di frammenti. Già l'edizio­
ne del 1808 ne recava un piccolo fondo, titolato Mélan­
ges. Nel 1836, un fratello più giovane di Rivarol, Claude­
François, pubblicò un'edizione delle Pensées inédites.
Essa si fonda su quattro quaderni lasciati da Rivarol, chè
egli definiva il suo « tesoro ».Rivarol aveva l'abitudine
di scrivere giornalmente le sue idee su dei foglietti e di
conservarle, a seconda del contenuto, in diversi sacchet­
ti, come era allora d'uso per i notai e per le autorità. Oc­
casionalmente, la raccolta veniva esaminata e collaziona­
ta. Purtroppo il fratello, di cui Rivarol aveva detto una
volta che in ogni altra famiglia, tranne che nella sua, sa"
rebbe stato considerato un bambino prodigio, ritenne
necessario fare nella sua edizione alcuni ritocchi, modifi­
che e aggiunte. Il merito di aver chiarito e ripulito questi
testi alla luce dei « carnets» e di altre fonti spetta ad
André Le Breton. Il suo lavoro di vaglio e di critica tro­
vò esito nell'opera pubblicata nel 1895, Rivarol, sa vie,
ses idées, son talent, d'après des documents nouveaux, che
è rimasta da allora canonica. Su di essa si basa anche là
raccolta, Notes, Maximes et Pensées de A. de Rivarol,
comparsa nel 1941 da Haumont.
Jacques Haumont, un appassionato stampato re, con­
sultò oltre all'edizione di Le Breton anche quella di Le­
scure, quindi l'edizione completa e i « Rivaroliana ».del
1812. Il risultato fu un bel prodotto a stampa in due vo­
130 lumi, con il quale egli arricchila sua « Collana di mora­
listi ».
La presente edizione, previa un'ulteriore consultazio­
ne delle fonti, segue essenzialmente l'ordine di questa
raccolta. Alcuni luoghi sono stati nuovamente accolti; al­
tri, per noi divenuti privi d'importanza, tralasciati. Una
glossa come «l'arte di stampare libri è l'artiglieria
dell'idea» è stata tralasciata in quanto di livello inferio­
re, benché il paragone di polvere da sparo e inchiostro
da stampa confermi il punto di vista di Rivarol, per il
quale, alla fin fme, in letteratura tutto diventa luogo co­
mune. Sono diventate superflue gran parte delle punzec­
chiature a quei letterati la cui ultima traccia è stata dis­
solta dal tempo, quantomeno se l'osservazione ha solo
un riferimento personale ed è priva del peso aggiuntivo
della verità universale. Al contrario, quando Rivarol dice
di un contemporaneo che le sue idee ricordano i vetri
nella cassetta del vetraio, poiché esse sono chiare singo­
larmente ma opache nell'insieme, ecco che allora si trat­
ta di un'osservazione di tattica logica e alla sua luce vie­
ne fissato per il futuro il nome di questo contempora­
neo. In ciò risiede uno dei pericoli per lo scricciolo che
pretende di volare al di sopra dell'aquila. Il trionfo di un
giorno viene pagato con imperitura derisione.
Nel frattempo, le cose si sono di nuovo normalizzate
a tal punto che, anche in questa sede, io posso dire il
mio grazie al signor Haumont per il viatico su un incerto
cammino che egli mi ha dato con i suoi due volumi del
1944. In una situazione del genere, i pensieri di una
mente chiara, anche se questa è vissuta molto prima di
noi, sono più nutrienti e indispensabili del pane.
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