20150411alias2 - Il Manifesto

(2)
ALIAS
11 APRILE 2015
NESSUNA NOSTALGIA
PER IL 35MM
NUITS BLANCHES
SUR LA JETÉE
DI GIULIO VICINELLI
Dopo aver visto Femmes Femmes di Paul Vecchiali, Pasolini dichiarava:
«Sono ancora commosso, sconvolto, faccio fatica a parlare perché, confesso,
mi è successo raramente di vedere in questi ultimi anni un film così bello e
così commovente». L'aneddoto restituisce in pieno il calibro di questo
personaggio, contemporaneo (quasi) ai grandi della Novelle Vague, ma
rispetto ad essi sempre eccentrico, rigoroso nello stile ma in esso
sperimentale, poetico e crudele al contempo nel ritratto delle relazioni e
delle emozioni umane. Lo incontro a «Registi Fuori Dagli Sche(r)mi 4», la
rassegna frutto della collaborazione tra Apulia film commission e Uzak, il
trimestrale di cultura cinematografica. Parliamo con lui del suo ultimo film
Nuits blanches sur la Jetée (2015).
La mia non
è in alcun modo
una sfida
a Visconti
o Bresson,
per i quali ho
grande rispetto,
semplicemente
ho avuto un'idea
che non era
nei loro film
PAUL VECC
DI GIULIO VICINELLI
Rispetto ai film di Bresson e
Visconti tratti dallo stesso
romanzo il suo protagonista non
aspira a liberarsi dalla propria
condizione di solitudine
attraverso l'amore, in realtà
sembra che ricerchi
masochisticamente questa
solitudine...
Ho cercato di restituire l'anelito
masochista di Fëdor che gli altri
film avevano tralasciato, anche se
non è la sola lettura possibile del
film, la prospettiva di Visconti e
Bresson, cioè quella di un
nottambulo che incontra una
donna solitaria e triste, nell'attesa
infinita dell'amore della sua vita,
resta valida. La mia idea è
nettamente diversa, ma non si
contrappone a questa, al più ci
convive. Ci tengo anche a dire che
la mia non è in alcun modo una
sfida a Visconti o Bresson, per i
quali ho grande rispetto, e di cui
amo questi due film in particolare.
Non sono in concorrenza con
loro, semplicemente ho avuto
un'idea che non era nei loro film.
Un film tratto da un
romanzo... qual è, secondo lei, il
rapporto tra un'opera letteraria
e il testo filmico che la mette in
scena? traduzione letterale o
interpretazione?
Entrambe. Ho cercato la massima
prossimità al testo originale,
dopodiché ho giocato con
elementi appartenenti al contesto
contemporaneo, come il cellulare
che fa da elemento di mediazione
in alcuni snodi narrativi, o quella
coreografia moderna della
protagonista, che non è certo
presente nel testo di Dostoevskij.
La traduzione, poi, non è mai
perfetta perché l'immagine dice
sempre qualcosa in più rispetto al
testo, trascende la parola, anche
se non deve essere mai in
contraddizione con essa.
Sulla recitazione lavora in
senso sottrattivo, evita i picchi
espressivi ed emotivi troppo
accentuati...
Più emotiva è la parte della
ragazza, che in alcune occasioni
piange per il suo amore infelice.
Ho detto a Pascal Cervo, l'attore
che interpreta Fëdor, di essere
«presente e contemporaneamente
assente» e di prendere come
modello Daniel Hourot in
Madame De... di Max Ophüls. È
per questo che spesso guarda
altrove anche quando è presente
nell'inquadratura con la ragazza, è
assente con lo sguardo. E di
questa assenza, come fossi Le
Petit Poucet, Pollicino, ho
seminato le briciole lungo il
percorso del film, piccole ma
sintomatiche discontinuità della
presenza. Durante la prima notte
ho fatto volontariamente un falso
L'IPhone permette
un accesso
«democratico»
agli strumenti
di produzione:
credo sia il futuro
del cinema
raccordo con lui che entra dalla
parte sbagliata dell'inquadratura,
come se arrivasse da un «altrove»,
oppure mentre lei gli sta parlando
lui «perde il contatto audio» e non
ne sente più la voce, come
metafora acustica della perdita in
assoluto. Quando lei si allontana
dopo aver scritto la lettera c'è una
luce irreale e abbacinante, che poi
illumina il volto di lui e qui si
spegne, ne dissolve la presenza. E
ancora quando i due protagonisti
sono sul molo in alto, c'è una
inquadratura in cui lui è in luce e
sulla destra ci sono le mani della
ragazza, allora lui le afferra tira la
figura di lei dentro l'inquadratura,
dall'assenza alla presenza.
La delicata tessitura
emozionale invece, più che sulla
recitazione, sembra ricadere su
componenti di immagine, come
il gioco delle luci o i
cromatismi... la scena del
tramonto, ad esempio, ha una
qualità di rosso incredibilmente
poetico...
Pensa che è girata con l'IPhone e
senza alcun intervento di post
produzione, come tutte le scene
diurne, mentre per la notte
abbiamo usato una 5-D (intende
la Fotocamera digitale Cannon
EOS 5-D, ndr). Le luci variopinte e
sfocate che creano la scenografia
luminosa nelle notturne sono la
trasposizione visuale della
minaccia implicita nella notte,
luci sconosciute come i pericoli
della vita notturna. Sono come
elfi, spiriti della notte, che non uso
solo per denunciare questi
pericoli, ma come monito per il
protagonista, a cui dovrebbero
segnalare il pericolo che corre, un
pericolo che lui però ricerca.
Perché di quella notte è figlio, una
sua creatura.
Questa scelta di utilizzare
l'IPhone ha suscitato molto
clamore. È uno strumento che in
qualche modo limita le
possibilità espressive del regista
perché ha uno zoom di pessima
qualità e non permette di
giocare con l'otturatore, con la
messa a fuoco o con le variazioni
di focale...
Non ho mai usato questo tipo di
sintagmi neanche quando facevo
film in 35 mm. Non uso mai lo
zoom perché mi sembra
artificioso, se in una
inquadratura voglio andare da
un punto un altro perché non
fare un raccordo? Purtroppo nel
cinema italiano c'è stata
un'epoca in cui lo zoom era
sopravvalutato, Rossellini, ma
anche Visconti, ma non mi
piaceva tanto. L'IPhone
permette un accesso
«democratico» agli strumenti di
produzione delle immagini e
richiede montaggio digitale e
post-produzione, credo che sia
questo il futuro del cinema. È
stato il mio tecnico a dirmi «Ti
prego prova l'IPhone e la 5-D,
sono fatti per te, per il tuo tipo
di cinema». Io, all'inizio, restavo
attaccato alla mia vecchia
Panasonic. Ho accettato di
lavorare con il virtuale, ormai già
da dieci anni, ma per quanto
riguardava la fotografia ero
piuttosto titubante. Poi mi è
capitato di dover girare Faux
Accord (Falsi Accordi) in due
giorni e a quel punto mi è parso
che avrei potuto provare, così ho
girato con la 5-D e ho trovato
l'immagine incredibile...la mia
conversione è stata definitiva. La
scena del tramonto in questo
film, con quella stupenda qualità
di rosso, per dire, è fatta
semplicemente con l'IPhone,
senza filtri, né interventi
ulteriori. Non provo nessuna
nostalgia per una qualche
presunta «età d'oro» del cinema,
quella del 35mm che tanti giovani
rimpiangono e mitizzano, è
qualcosa di prezioso, ma oramai
definitivamente passata.
C'è molto lavoro sulle luci.
È un risultato sorprendente che
ho ottenuto grazie alla mia geniale
équipe tecnica, così come
straordinari sono stati i risultati sul
suono. Durante la prima notte c'è il
rumore della risacca del mare e i due
protagonisti usano questo elemento
sonoro per giocare, perché ha un
andamento quasi musicale, lo usano
Grammatica
segreta
come una musica. In molti mi
hanno fatto i complimenti per quella
parte del montaggio sonoro...ma lì
non c'è alcun montaggio, è solo la
bravura della mia squadra. Ho da
sempre un'attenzione particolare
per il suono e una predilezione quasi
totalizzante per quello di presa
diretta, sul quale intervengo, ma solo
a volte, in post-produzione. Più che
altro mi capita con le parole, le
manipolo con Pro Tools, per far
emergere «la verità» della parola, la
sua verità fonetica e tonale al di là di
quella semantica. Non per renderla
«migliore», più bella dal punto di
vista sonoro, ma per renderla più
«giusta», adeguata al significato.
Lei in questo film recita nel
prologo...
A proposito del prologo volevo
dire che non è tratto dalle Notti
Bianche ma da Memorie Dal
Sottosuolo e spesso è stato
frainteso, addirittura definito
«indigesto». A me è servito
innanzitutto per operare una sorta
di passaggio di consegne
simbolico, un rito in cui cedo il
mio film nelle mani dell'attore
protagonista, cioè degli attori, che
diventano come prosecuzioni,
alter-ego moltiplicati, del regista. A
livello narrativo, invece, qui
introduco il tema del masochismo,
del sacrificio, che poi ritorna un
po' ovunque nel film, perfino nella
scelta dei movimenti di macchina,
di solito così frequenti e vari nel
mio cinema di movimento, e che
qui ho limitato a spostamenti
lineari in avanti o indietro e ai due
lati, in modo da definire sempre
una Croce, un riferimento
simbolico non tanto al Cristo,
quanto all'idea di sacrificio. Tutto il
personaggio maschile è
improntato a quest'idea: la ragazza
è una proiezione dei suoi desideri,
una sua creatura mentale di cui ha
la responsabilità, come ogni
divinità creatrice ha nei confronti
dei suoi creati, e dunque in nome
In pagina due ritratti
di Paul Vecchiali, uno
degli anni ’70 e l’altro
dello scorso anno, a
Locarno. Sotto, una scena
da «Femmes Femmes»
CHIALI
LA CRITICA LES NUITS BLANCHES SUR LA JETÉE
Il gergo muto
delle sensazioni
corporee
di G.V.
Qualche riflessione su Nuits
Blanches sur la Jetée, ultimo lavoro
di Paul Vecchiali, su alcuni
momenti della sua poetica in cui
affiorano le ragioni di una
corporeità che innerva il testo su
livelli molteplici. «Cinema di
movimento» dice di sé,
dichiarando trasversalmente la
referenza di tipo corporeo, poiché
ogni movimento in un corpo si
inscrive e rispetto a un corpo può
essere percepito. Alcune sue
dichiarazioni, poi, lasciano pensare
a un'idea di cinema che il corpo,
nelle sue possibilità percettive e
cinetiche, assume come propria
unità di misura e orizzonte
veritativo. Quando definisce lo
zoom un artificio meccanico
inutile cui ovviare con un
movimento in avanti della
macchina da presa, quando
rimbrottava Pasolini per il numero
eccessivo delle cineprese che usava
sul set, accusandolo di moltiplicare
insensatamente il numero dei punti
di vista-sguardi sul reale, Vecchiali
implicitamente avalla un'idea di
cinema che vede e sente come il
corpo umano, lo assume a sua
misura percettiva ed espressiva, e
rifiuta quegli infingimenti visivi, gli
sguardi impossibili e moltiplicati, i
movimenti artificiali, gli artifici
ottico-tecnologici, resi possibili dal
mezzo cinematografico. Un
cinema-corpo che aborre la
falsificazione extra-corporea, in una
ricerca che non mira al vero, alla
riproduzione mimetica del reale,
quanto alla verità nascosta delle
cose come della audio-visione.
Eppure la raffinata poetica visuale
Un'idea di cinema che vede
e sente come il corpo umano
e rifiuta gli sguardi impossibili,
gli artifici ottico-tecnologici
della felicità di lei deve sacrificare
la propria. E come ogni creatura
può decidere di ribellarsi al suo
creatore così la mia protagonista
decide di rifiutarlo, di non essere
più la sua creatura, come vedi nella
parte in cui danza e lo spinge via
facendolo cadere.
Danza che è totalmente
improvvisata...i suoi attori
erano molto liberi dunque.. .In
realtà ho preteso che imparassero
tutto il copione perfettamente a
memoria, tuttavia ho anche detto
loro di interagire creativamente
con qualsiasi accidente, un
rumore imprevisto, un errore o
qualsiasi altra casualità, che fosse
occorsa durante la ripresa. È così
che sono nate le battute in cui lei
chiede a lui se l'aereo che
sentiamo passare sia di sua
proprietà o se non lo sia il battello
che dapprima udiamo solamente
e che dopo attraversa veramente
l'inquadratura.
Dunque non pensa alla
sceneggiatura come a una
struttura rigida...
La considero, con un gioco di
parole, un pre-testo, rispetto al
film, che è il testo. La
sceneggiatura è
contemporaneamente nel
pensiero e nello scritto, se cambia
qui, cambia lì. Scrivo molto più di
quello che poi posso girare, in
questo momento ho una
sessantina di sceneggiature non
realizzate. Non c'è uno schema
definito, a volte ho scritto un film
quasi completo in poco più di tre
giorni, mentre per la
sceneggiatura di: En Haut De
Marches (Oltre Le Scale) mi ci
sono voluti più di due anni,
perché ho voluto concepirla come
un gigantesco foglio di missaggio
tutto diviso in colonne per
ciascuna voce del montaggio con
riportati i timing precisi di ogni
singolo effetto, movimento,
parola, eccetera.
di Vecchiali riesce a caricare questo
reale guardato secondo modalità
naturali di mille istanze emotive e
significati ulteriori, che sono la
verità delle cose. La verità che cerca
anche quando modifica
l'equalizzazione di singole parole in
post-produzione, nel tentativo
sperimentale di farne emergere la
verità timbrica e fonetica, prima di
quella semantica, letterale o
drammaturgica.
In alcune scene di Nuits Blanches
sur la Jetée, siamo passati
all'argomento principale di questa
riflessione, la poetica di Vecchiali,
sembra rivolta più alla res extensa
che non alla res cogitans, il film
riguarda prima le percezioni, i
sensi, e dunque il corpo, e solo
dopo si apre all'interpretazione
razionale e culturale del testo. Sono
i colori, il suono, la musica, la
liquida luce e l'ombra, i materiali di
questo artigianato dell'impalpabile,
prima ancora della parola recitata o
scritta. L'emozione, il senso, la
minaccia si sciolgono nella pasta
rubina del tramonto abbacinante, o
nel baluginio arlecchinesco delle
mille luci della notte, nelle assenze
presenze del suono e nelle
alternanze di visione e buio, nella
verità fonetica di una voce-suono
che precede il verbo.
Ecco che allora quando deve
mettere in scena la paura che il
protagonista ha di perdere la sua
amata Natacha, Vecchiali non lo fa
recitandola o spiegandola o in
qualche modo dicendola, ma
evocandola come fantasma
sensoriale, suggerendola, nella
negazione della voce di lei, in una
metonimia sensoria della perdita
totale, pars pro toto. Natacha
muove le labbra belle ma Fëdor, il
dostoevskiano protagonista, non
ode più la sua voce, in una vertigine
silente e panica di abbandono.
Vecchiali manipola strategicamente
un dato percettivo elementare,
come la presenza di un'emissione
vocale in corrispondenza di un
certo tipo di moti labiali, per
inoculare significazioni ed
emozioni nelle arterie del suo film,
passa dal corpo e dalle sue
percezioni per arrivare alla mente e
al cuore. Questa grammatica
segreta è pre-culturale e
pre-verbale, primordiale, verrebbe
da dire, visto che inerisce a funzioni
elementari ed estremamente
antiche del nostro sistema nervoso
e celebrale, come la percezione
cromatica o la decrittazione
dell'informazione uditiva e
spaziale, possibilità ancestrali del
corpo, dal significato universale,
che il cinema è in grado di iper
stimolare. La questione non è di
poco conto, dal punto di vista delle
dinamiche percettive e cognitive
che mette in campo. Elidere la
voce di un parlante è un segnale
forte, perché viola quel principio
psicofisiologico involontario e
universale che Michel Chion
chiamava sincresi e che ci porta
inevitabilmente, a stabilire un
nesso di causalità tra un evento
visivo e uno sonoro ad esso
simultaneo. Se sento un colpo e
vedo un martello battere stabilirò
che questo è la causa di quello. È il
principio che rende credibile il
doppiaggio dei film. Vecchiali
lavora sui meccanismi minimi,
basici, della nostra interpretazione
del mondo fisico anche quando, e
lo fa spesso, utilizza il colore per i
suoi fini drammaturgici. Quando
sfrutta le qualità incredibilmente
emozionali di un abbacinante
tramonto rosso, quando riempie la
notte di puntiformi luminescenze
variopinte o quando illumina i
volti di cangianti luci dai viraggi
cromatici diversi dialoga
direttamente con l'area V4 del
nostro cervello visivo (lobo
occipitale), il centro di
elaborazione del colore, una
regione estremamente antica del
nostro encefalo, che permetteva ai
nostri antenati di distinguere un
frutto velenoso da uno
commestibile o il manto di un
predatore nella boscaglia. Il colore
di un oggetto viene percepito tra
80 e 100 millisecondi prima del
movimento e dell'orientamento, la
sua informatività è elementare,
rapida e dalla portata universale.
Ed è questa, forse, la forza
maggiore di questo film, il suo
rivolgersi alla nostra componente
animale, sensoria, corporea che al
di là e prima delle determinazioni
culturali e idiosincratiche ci rende
tutti uguali.
Percezione, cromatica, uditiva,
spaziale e corpo dominano questo
cinema, il corpo come concreto
suolo in cui tale percezione radica,
abbiamo detto, ma anche il corpo
performatico, quello attorico, che
ALIAS
11 APRILE 2015
agisce il e nel film e che Vecchiali
usa come pedina viva muovendolo,
posizionandolo, mostrandolo in
ragione di un disegno di senso
ultra-attorico, suo personale e
intimo.
Un corpo ben diverso da quello
metaforizzato, quasi astratto, che
abbiamo incontrato parlando con
Bressane, che della fisicità danzante
della propria protagonista faceva
crocevia simbolico di istanze
culturali, una rappresentazione
metaforica dell'amplesso, mise en
abîime interlinguistica, che a sua
volta rimanda a questioni di ordine
mistico-religioso, al legame col
sacro e con l'energia del corpo.
Quello di Vecchiali è un corpo
assunto a partire, prima di tutto,
dalla sua concretezza, dal suo stare
modale nello spazio, il fonema di
carne di una raffinata e nascosta
grammatica posizionale e
prossemica, in cui le relazioni
spaziali tra i corpi dei personaggi
diventano scrittura poetica del dato
emozionale e psicologico. I due
potenziali amanti inizialmente si
cercano, si studiano, non si fidano,
poi si fidano solo un po' e solo alla
fine si abbandonano al sentimento
amoroso. Vecchiali, da giocatore di
scacchi consumato, muove i loro
corpi-pedina secondo figurazioni
spaziali, di presenza-assenza, di
vicinanza lontananza, che da sole,
in assenza di verbo, esprimono il
decorso affettivo dall'estraneità
all'amore, dalla distanza alla
prossimità reciproca di Fëdor e
Ntacha. Il regista, spodesta l'attore,
e ne agisce il corpo agente secondo
un percorso ulteriore e sotteso. Lei
è in fuoricampo (assenza, non
corpo) mentre lui è perfettamente
centrato nel quadro (presenza,
corpo) lui allora le afferra
gentilmente le mani e la tira
amorevolmente in campo, nel
regno della presenza, e alla sua
com-presenza. I due si trovano ai
margini opposti del quadro
(distanza) si incamminano uno in
direzione dell'altro (reciprocità) e si
incontrano nel centro geometrico
dello schermo (vicinanza), si
congiungono in una predizione dal
valore sintomatico. Vecchiali gioca
con queste «micro discarsie della
presenza», evita di far comparire i
due corpi contemporaneamente nel
quadro e quando è costretto a
mostrarli insieme un gioco
abilissimo di luci e bui ne mostra
uno (presenza) e nasconde
(assenza) l'altro tra le ombre del
molo, orchestrando un montaggio
interno alla scena dall'impronta
teatrale. Gli sguardi a volte perdono
il loro accordo direzionale, o si
scoprono incapaci all'incontro che
presentifica «l'altro», divergenti o
distratti, in translitterazioni
plastiche dell'assenza che ancora
minaccia i cuori.
Mentre lei si allontana, dopo aver
scritto al suo vecchio amore, una
forte luce, fantasmatica ed
emotiva, abbacina il campo visivo,
scivola sul primo piano di lui,
illuminandolo per un'istante, e
qui si spegne cancellando quel
volto nell'assenza del buio.
Solo alla fine, quando anche lei
cede all'amore, alla presenza di lui
nella sua vita, lo scacchista
crudele che muove la partita
metterà re e regina uno di fronte
all'altro, nella vicinanza
vertiginosa e finalmente raggiunta
dell'abbraccio, occhi che solo ora
possono trovare quegli altri occhi,
in quel bacio interrotto che
chiude il film su un coronamento
mancato. L'assenza si fa acustica
nella scena in cui Fëdor non sente
più la voce di lei. È gergo dei
corpi, quello di Nuits Blanche Sur
La Jetée, che ai corpi parla e che i
corpi usa per esprimersi perché
della sensazione e della fisicità fa
parola oltre la parola, un gergo
che proprio nel corpo trova la
propria referenza interpretativa
primigenia, il destinatario
perfetto, interlocutore unico per la
muta lingua dell'appercezione.
(3)
GERENZA
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In copertina: una scena
da «White God» di Kornel
Mundruczo
(4)
ALIAS
11 APRILE 2015
Lili e il vagabondo
in stile Mundruczó
di SILVANA SILVESTRI
Si addice ai tempi presenti
dove circola il sapore del sangue
un film come White God del
fenomenale regista ungherese
Kornél_Mundruczó. La sua
specialità è riempire gli spazi vuoti
di dinamiche incontrollabili, così
fece nelle silenziose paludi di
Delta, così in questa Budapest
deserta dove sola circola la sorda
violenza. Sarà forse la
cancellazione di diritti dei recenti
governi ultranazionalisti?
Certamente una delle iniziative che
sembra aver conquistato in questa
chiave svariati paesi dell’est è stato
l’abbattimento dei cani randagi,
così in Romania, in Ucraina (non a
caso già a suo tempo allineati con
il nazifascismo e non solo allora)
compresa l’olimpica Sochi. In
Ungheria in particolare i cani che
non appartengono alla razza pura
devono pagare tasse salatissime
determinando l’abbandono dei
meticci. Hagen il cane di Lili è
abbandonato dal padre sulla
circonvallazione. Lili e il
vagabondo, si direbbe, anche se
siamo ben lontani dagli stereotipi
del cinema americano, tranne che
per l’amore esclusivo della
ragazzina per il suo labrador. La
silenziosa Lili vive nel vuoto di vita
affettiva, affidata a un padre
amareggiato, abbandonata dalla
madre che se ne è andata via con
un altro. L’uscita del film era stata
programmata intorno all’Epifania
ed è stato velocemente sostituito
con il rassicurante Italo, la storia
vera del buon cane che dopo la
morte del padrone si reca tutti i
giorni all’uscita della chiesa e viene
poi adottato da tutto il paese. Qui
siamo in clima di guerra totale, di
apocalisse, di horror sociologico
senza esclusione di colpi. Hagen
Intervista
esclusiva
al regista
rivelazione
del nuovo cinema
ungherese
ora nelle sale con
«White God,
Sinfonia per
Hagen»
In alto una scena di "White God", in
basso il regista a Cannes
deve sopravvivere catturato in
situazioni sempre più dure di
schiavitù. Individuato come
esemplare perfetto da
combattimento è addestrato alla
ferocia con metodi adeguati
mentre, in parallelo Lili si esercita
alla tromba per il concerto finale
della scuola. Tutti e due si
esercitano a fronteggiare la vita
con le sue regole violente. Non ci
sono simpatici compagni di strada
ad alleggerire il contesto, ma ceffi
che operano con catene, chiodi,
sangue e violenza. La ribellione
cova sorda, ma esplode poi in
forma organizzata e inaspettata.
Non si tratta più solo del cagnolino
che torna dal padroncino, ma di
una torma di cani (nessun regista
ha mai girato con 250 cani, prima)
che in maniera scientifica
percorrono la città ed eliminano
uno dopo l’altro con ferocia tutti i
loschi figuri che li hanno
perseguitati, orribile vendetta di
una specie sottomesa e incubo
che solo Lili riuscirà a contenere,
con la sua tromba/flauto magico.
Il film esce in Italia con il
titolo: «White God, Sinfonia per
Hagen» come per smorzare un
po' la violenza del film. Abbiamo
letto che il titolo si riferisce
all'opera di J.M. Coetzee, e che
ha realizzato una pièce teatrale
da Disgrace. Può dirci qualcosa
di più a proposito? Non solo
rispetto a questo lavoro, alla
posizione animalista dello
scrittore, ma anche a quel
particolare sguardo che
dovrebbe essere puntato su di
noi da parte di un god-dog (nelle
altre lingue il gioco di parole
non funziona).
La distribuzione ha il dirtitto di
scegliere il titolo che ritiene più
appropriato per la cultura di ogni
paese. «White God» ha diversi
titoli nei vari paesi, mentre il film
resta sempre lo stesso. Si tratta di
un elemento fondamentale del
concetto di Coetzee del mondo,
dove ogni essere vivente, cioè
l’umanità, gli animali e le piante
godono di un diritto primordiale
di sopravvivere per il loro
beneficio reciproco. La filosofia di
Coetzee, in generale, e il suo
pensiero sull’umanità hanno
avuto un effetto decisivo sul mio
modo di concepire l'esistenza in
generale, come anche
sull'umanità e sull’ambiente, e la
responsabilità morale che
dovremmo avere sugli altri, razze
e minoranze diverse.
Il film sembrerebbe anche
fornire una barriera al razzismo
dilagante in Europa. Era
arrivata qualche tempo fa una
notizia anche sulla nostra
stampa che in Ungheria
un'ordinanza stabiliva la
soppressione dei cani randagi. Il
film si sviluppa anche a partire
da questa notizia? Com'era
diventata a quel punto la
situazione sociale del paese?
Sì, certo, il fatto che la legge
proposta dal partito della destra
estrema - proposta rifiutata alla
fine dal Parlamento - avesse lo
scopo di classificare i cani e di
tassarli secondo la specie mi ha
turbato a tal punto che non
potevo non cercare di esprimere i
miei sentimenti in un film. Delle
idee di quel tipo, qualsiasi
tentativo di discriminare qualsiasi
minoranza, finisce per scatenare
reazioni nocive in una società la
cui storia ha avuto molto a che
fare con simili processi da vicolo
cieco. Quando il mio sguardo
incontrava lo sguardo di cani
destinati alla morte in un canile
che mi è capitato di visitare, mi
sono reso conto che, anche se
prima non ne avevo la minima
coscienza, facevo parte di un
sistema in cui si discriminava
un’altra razza. Divenne chiaro che
dovevo fare un film senza
ambiguità rispetto a quel
problema. E siccome faccio parte
della società ungherese, la mia
critica di quella società è anche
un’autocritica.
Cosa è sparito in realtà dalle
strade di Budapest che vediamo
così deserte?
La scena primordiale che avevo
in mente era quella di strade
vuote occupate improvvisamente
da una muta di cani randagi. Per
me, una strada vuota in un
quartiere per bene vuol dire un
qualche tipo di paura, qualcosa
di pos-tapocalittico. I
benpensanti intolleranti, i razzisti
e quelli che mettono a tacere i
loro complessi di inferiorità
attraverso la discriminazione si
sono trovati pieni di terrore. Ciò
che succede prossimamente
potrebbe risolvere il loro destino.
Per il cinema americano il
cane è una componente della
famiglia, presenza rassicurante.
Cosa rappresenta in Ungheria?
Rispetto alla funzione simbolica
che ha assunto il cavallo, non
ricordiamo di aver visto altri
film ungheresi con cani, se non
di passaggio nei villaggi.
Non mi sembra una specialità
americana. Per me, un cane fa
parte integrante della famiglia ed
è questo che gli stessi cani si
considerano. Sono contenti e a
posto se vedono con chiarezza
qual è il loro rango, i loro diritti e
limiti e le loro responsabilità nella
famiglia a cui appartengono.
«White God» narra una vicenda in
cui un cane, un membro vero
della famiglia di appartenenza,
viene costretto all’esclusione
sociale e a un viaggio morale. Non
gli è facile adattarsi alle nuove
circostanze, cioè di essere privato
dei suoi diritti. Se ne segue la pace
o meno, sta al pubblico decidere.
Sempre si chiede ai registi:
com'è lavorare con bambini? In
questo caso: com'è lavorare con i
cani? Sappiamo che il labrador
Hagen sono in realtà due
fratelli, ma tutti gli altri? Ci può
parlare degli addestratori e degli
effetti speciali?
La mia idea fondamentale
dall’inizio escludeva qualsiasi
effetto speciale o animale di
razza. È stata la straordinaria
addestratrice americana di cani
Teresa Ann Miller a trovare i due
protagonisti e trasformare i due
fratelli randagi in Hagen. Il
professionista ungherese Árpád
Halász e la sua équipe ha offerto
alla nostra troupe per le riprese
l’esperienza di un miracolo: 250
vittime degli accalappiacani che
sono stati trasformati in una
allegra banda di cani pronti a
lavorare insieme durante le
riprese credendo che davvero il
loro compito fosse giocare tra
loro e con noi della troupe.
Bisogna celebrare anche come un
loro successo il fatto che, alla fine
della lavorazione, ognuno di loro
abbia trovato una famiglia
affettuosa attraverso il nostro
programma di adozione.
Il film è come un grido di
allarme, ma per qualcosa che è
già troppo tardi da fronteggiare,
la crisi economica che ha
trasformato tutti in vittime
inermi, può essere anche una
bomba pronta ad esplodere. Ci
sono segnali di questa esplosione
nella società ungherese che è
una delle punte avanzate del
nazionalismo in Europa?
Non è facile rispondere a questa
domanda. Non sono un profeta.
La crisi economica ha portato a
una specie di crisi morale seguita
da problemi con il costo della vita.
L’incertezza esistenziale apre
facilmente la porta alla
discriminazione, al nazionalismo,
alla xenofobia e a una repulsione
verso l’occidente. In Ungheria
abbiamo sperimentato troppi
esempi di processi disastrosi. A
me d’altra parte l’Ungheria non
sembra più l’unico esemplare
esotico di estremismo. Abbiamo
visto anche l’evolversi di tendenze
simili a Copenhagen, Anversa,
Roma, Parigi, ecc. L’Ungheria
dimostra piuttosto l’essenza della
deriva in cui l’Europa si trova forse, anche se è un percorso che
dovrebbe smettere di seguire.
Ho frequentato per alcuni
anni il festival del cinema a
Budapest e ho conosciuti i registi
«storici» (Jancso, Kovacs, Pal
Gabor, Metzaros, Gaal...) ma da
quando il governo ha dato una
svolta al paese, il festival non si
è più fatto, è più difficile
comporre le coordinate di una
intera generazione, comprendere
di cosa «non si può parlare». I
suoi film anche se sono così
diversi da ogni altro linguaggio
cinematografico ci riportano
qualcosa di quella tradizione
per astrazione. forza e stile.
Pensiamo soprattutto a Jancso e
al suo stretto rapporto con la
storia. Pur essendo un ragazzo
dei tempi contemporanei
riconosce qualche punto di
riferimento nel suo paese o in
altre cinematografie?
Miklos Jancso mi ha aiutato
parecchio, anche in modo diretto,
in quanto gli ho chiesto e ho
apprezzato molto il suo parere. In
effetti «White God» è stato l’ultimo
film da lui visionato e
commentato, ed è lui che mi ha
aiutato a dargli una sua forma
definitiva. Era una persona
straordinaria. Riusciva a dipanare
delle problematiche filosofiche
difficili attraverso i film,
mantenendoli a un alto livello di
complessità intellettuale. Per la
prima volta ha introdotto nel
linguaggio cinematografico l’uso
della parabola e della metafora. Per
quanto riguarda i film che mi
hanno dato molto piacere da
giovane ci sono stati quelli di
Fassbinder, poi i primi film
espressionisti sovietici, Più in là,
come i miei coetanei ho amato i
colossal di Hollywood come Blade
Runner, Terminator ecc. Gli anni
Ottanta e Novanta mi hanno
portato il cinema post-apocalittico
cui nessuno poteva resistere.
MIDDLE EAST NOW
La sedicesima edizione del Festival del Cinema Europeo si tiene a Lecce
dal 13 al 18 aprile nella multisala Massimo, sostenuta dalla Regione Puglia
attraverso l’attivissima Apulia Film Commission. Si apre con un film italiano,
Wax di Lorenzo Corvino e la presenza del regista Bertrand Tavernier. Nel
programma comprende film in concorso, la personale del regista turco Fatih
Akin che realizzò nel Salento Solino nel 2002, l’omaggio a Milena Vukotic e Paola
Cortellesi, due focus su omosessualità ed emigrazione, il convegno cndotto da
Marco Giusti sullo statogli stati generali della commedia all’italiana tra cinema e
web. La famiglia Verdone (i fratelli Carlo, Luca e Silvia) assegneranno il premio
Mario Verdone istituito in ricordo del padre (che amava Lecce ed era amico di
Carmelo Bene, ha ricordato Carlo Verdone) al miglior esordio italiano.
ALIAS
11 APRILE 2015
Lo Yemen
di Sara Ishaq
al festival
del medio
oriente
di Firenze
Qui accanto la regista Sara Ishaq
di MARIA GROSSO
FESTIVAL DI LECCE
Speranze
e riflessioni che
ci riguardano
con La Grecia
è vicina
di Enzo Rizzo
di S.S.
Il periodo di tempo in cui si
svolgono i fatti sono il 25, 26 e 27
gennaio di quest’anno, i tre giorni
che culminano con gli straordinari
risultati elettorali in Grecia. Enzo
Rizzo ha colto questa occasione
per il suo La Grecia è vicina che
sarà presentato al Festival del
Cinema Europeo di Lecce il 16
aprile. Non a caso ha scelto come
guida, a fare da collegamento tra i
due paesi, un’amica greca
residente in Italia tornata a votare
ad Atene. In Italia queste elezioni
hanno avuto un significato quasi
speculare, un valore di rivincita,
l’indicazione di una linea. Questa
Grecia così vicina parla a un’Italia
che sembra narcotizzata
attraverso le parole di gente colta
nei luoghi più diversi, nei quartieri
più poveri e nei quartieri alti, in
una farmacia solidale (ce ne sono
40 in tutta la Grecia, 4 ad Atene)
che procurano medicine da
distribuire a chi non le può pagare
procurate da gente comune che le
ha in casa, nei bar e nei ristoranti,
nei seggi elettorali. Chiediamo a
Rizzo di darci un’idea complessiva
di questa città così provata: «La
povertà non era visibile, ci dice, la
gente che abbiamo intervistato
non si lamentava, era dignitosa. Ci
siamo resi conto che il
meccanismo di solidarietà messo
in moto da Syriza funzionava e,
pur consapevoli della situazione
critica, la gente esprimeva
speranza nel voto». Il film si apre
con i materiali di repertorio di
La gente deve partecipare.
Syriza non è comparsa come
un fulmine a ciel sereno, è stata
plasmata dai movimenti
In alto una scena di "La Grecia è vicina" e foto del Politecnico di Atene nel 1967
un’epoca che sembrerebbe
conclusa, ma la cui eredità pesa
ancora nella situazione attuale,
l’epoca delle lotte e
dell’occupazione del Politecnico e
della presa del potere dei
colonnelli. Come è assai bene
raccontato da uno dei testimoni
dell’epoca, una presenza che fa
pensare ai film di Anghelopoulos,
la storia stessa del paese ha
portato alla vittoria di Tsipras,
rispetto alla situazione italiana:
«Noi abbiamo alle spalle una
guerra civile, ci sono state
lacerazioni che sono riaffiorate.
Questo ci ha dato una volontà di
lottare che forse in Italia non c’è.
Anche in Italia c’è stata una
guerra civile, ma è durata solo due
anni e poi i comunisti hanno
cominciato a collaborare con il
governo, mentre qui eravamo
divisi, da una parte i «buoni» che
hanno preso posizioni estremiste
e dall’altra i «cattivi» appoggiati da
forze esterne, prima gli inglesi, poi
gli americani». Il risultato delle
elezioni è stata una risposta, dice
chiaramente il film, a tutti quelli
che descrivevano un futuro pieno
di pericoli, un’indicazione rivolta
anche ad altri paesi (Spagna,
Portogallo, Irlanda, Italia) che
aspettano che qualcuno faccia il
primo passo. «La cosa
straordinaria di queste interviste è
stato il livello di risposte elaborate
politicamente che non ci
aspettavamo, dice Rizzo, da parte
di appartenenti a qualunque classe
sociale, dal semplice passante, al
cameriere, alla gente incontrata
per caso nei ristoranti. Fanno
eccezione alcune studentesse che
hanno dichiarato di essere senza
speranza nel futuro, che
probabilmente non andranno a
votare o preferiscono non
rispondere. Proprio al Politecnico,
dove ci è stato impedito di entrare
con la telecamera e forse per
effetto dei duri scontri di
novembre i pochi che hanno
risposto hanno preferito non
parlare». Certo una reazione ben
diversa rispetto ai balbettamenti
irosi che siamo abituati a sentire
nelle nostre trasmissioni televisive
pilotate. nel film ci sono riprese sul
palazzo della televisione greca, l’Ert
(ora ha cambiato nome, si chiama
Nerit) che da un giorno all’altro
(l’11 giungo 2013) spense la
trasmissione e proprio di fronte si
trova la sede dove gli ex dipendenti
hanno aperto la loro redazione
alternativa e trasmettono in rete,
voce libera al servizio della
comunità. « Spingere i tasti del
telecomando e vedere tutto nero fa
Guardare il mondo
dall’interno di una casa yemenita,
con gli occhi di una donna
yemenita. Tra l’altro una donna
che custodisce in sé anche una
radice europea. In questi giorni di
lutti, bollettini concitati, allarmi
umanitari: ci rende forse un po’
meno estranei, anestetizzati,
distanti, e ancora capaci di
empatia. Un dono raro di questa
piccola cinematografia e del
Middle East Now Film Festival, la
rassegna su tematiche culturali
sociali e politiche del Medio
Oriente, guidata da Lisa Chiari e
Roberto Ruta, ora, fino al 13
aprile, a Firenze. Ecco, sentiamo il
cuore andare oltre la cortina
gelida e spersonalizzante dei
report di guerra, per tornare a un
momento essenziale nella storia
tormentata del Paese, la
rivoluzione del 2011, quando la
corrente delle rivolte nordafricane
accende la miccia di antichi
conflitti anche nel lembo più
meridionale della penisola
arabica. Passato prossimo e
podromi dell’attuale e complessa
guerra civile yemenita. «Una
rivoluzione incompiuta», «la più
grande della storia dello Yemen,
in cui a un tiranno immorale
corrotto e bugiardo (Saleh), segue
la sua ombra (Hadi)», fino a oggi,
fino al ritorno di Saleh a fianco dei
ribelli sciiti Houti, a sottrarre
terreno al presidente Hadi, e a
innescare il domino degli
interventi dei colossi alleati.
Processi talmente intricati che per
meglio comprenderne gli
ingranaggi storico-politici, nonché
quelli squisitamente psicologici, è
impressione», dice una ragazza.
Lucidamente emerge il primo
elemento della democrazia, la
partecipazione: «Non sappiamo se
Tsipras farà quello che ha
promesso», dice una ragazza
seduta al tavolo di un ristorante,
dove la convivialità non è stata
cancellata, proprio come
nell’Argentina del default, tutti
fuori dall’isolamento delle case e
tutti insieme «ma è necessario che
la gente partecipi. Syriza non è
comparsa come un fulmine a ciel
LA GRECIA A LECCE
L’archivio Audiovisivo del
movimento operaio e democratico
sarà presente a Lecce con La Grecia è
vicina di Renzo Rizzo che contiene
anche materiali di repertorio d’epoca
e con Attenzione Grecia realizzato da
Ennio Lorenzin nel 1969, reportage
sulla Grecia dei colonnelli, la
penetrazione economica americana,
l’alto clero ortodosso, la repressione,
la resistenza, dalla notte del colpo di
stato, agli arresti, ai campi di
concentramento negli stadi e negli
ippodromi, le parate militari e
religiose e l’inizio della lenta
riorganizzazione clandestina. I due film
si potranno richiedere all’Aamod.
Sseguirà un incontro con Luciana
Castellina (all’epoca inviata di Paese
Sera ed espulsa dal paese), la deputata
europea Eleonora Forenza, Renzo
Rizzo e Paola Scarnati dell’Aamod.
Tra i film in concorso al festival ci sarà
anche Anemistras, di Dimitri Bitos
esplosivo dramma domestico.
(5)
più che mai beneaccetto un
rewind a quel cruciale 2011. Ecco
il bene immane del cinema,
riportarci a quell’allora, a quella
casa. Sana’a, la favolosa capitale
dai palazzi «ricamati» di bianco,
che Pasolini amò e riprese, e una
casa con «finestra sul cortile», tra
gatti, vociare di bambini, un
giardino e un albero con frutti dal
sapore indescrivibile d’infanzia,
succose gocce rosse sul viso. La
casa della famiglia Ishaq, The
Mulberry house, quella del gelso,
appunto. «Gruppo di famiglia in
un interno» per cibo convivialità e
discussioni di politica e società,
matrimoni ancora inconsapevoli e
l’emergere di una coscienza altra.
Stai riprendendo? Allora togli
quella brocca che impalla e
portami il velo. Mentre gli occhi di
cui sopra, gli occhi che osservano,
sono i suoi, di Sara Ishaq, regista
del documentario, un tempo
bambina tenerissima negli
homemovie spensierati col padre,
sul «tappeto volante sonoro» di
musiche alla Piovani, e voce over
che racconta come, dopo il
divorzio dei suoi, a 17 anni lasci «il
soffocante contesto yemenita»,
per la Scozia, terra d’origine della
madre, pur promettendo al padre
di non recidere le proprie radici
arabe. Così dieci anni dopo eccola
tornare, in uno scenario tra i più
provati da miseria e
disoccupazione dell’area
sereno, è stata plasmata dai
movimenti».
Questo, secondo Enzo Rizzo è
uno dei punti chiave del suo lavoro
che intende come materiale da far
circolare il più possibile tra circoli
di Sel, sedi dell’Arci e tutti i
possibili luoghi di aggregazione
perché valga come materiale di
discussione: «Buona parte dei
discorsi sono anche rivolti all’Italia,
un po’ per le origini della ragazza
italogreca e della sua famiglia che
fa da filo conduttore e soprattutto
per le indicazioni che possiamo
trarre. Non tanto per la formula del
partito Syriza che ha messo 25 anni
per costituirsi, ma per l’indicazione
dei principi di solidarietà e
partecipazione senza avere come
punto di riferimento un’élite
politica. Non sono i leader che
cambiano le cose, ma la gente. E in
Italia al contrario si ostenta distacco
dai movimenti, siano quelli dei No
Tav, o del No Muos (NoMuosfilm è
un suo documentario sul
movimento contro la base della
marina americana a Niscemi in
Sicilia, si può vedere su youtube
ndr) o di tutti gli altri, dove la gente
è presente perché non può non
farlo, perché la politica non si fa
solo in Parlamento e, come si dice
nel film, bisogna ristabilire il diritto
della gente e il compito di un
governo è occuparsi dei problemi
della gente, non dei problemi delle
banche». Prodotto dall’Aamod, con
le musiche originali di Matilde
Politi e Tumastui project.
mediorientale: nel frattempo si è
ulteriormente aggravato, tra l’altro
da mesi nessuna notizia del
cugino, incarcerato e torturato,
mentre il padre di Sara scrive un
appello su Facebook, cercando di
spiegare al proprio padre, come
funziona coi social. E lei che
voleva «solo» girare un doc tra
quelle care mura, si ritrova in quel
luogo del tempo – gennaio 2011 in cui insieme a Tunisia ed Egitto
tutto sta per accadere anche nello
Yemen. Allora, in uno straniante
circolo della visione, attraverso lo
specchio del suo obiettivo,
vediamo la famiglia riunita con gli
occhi fissi al fuoricampo della tv,
fino allo strazio delle news sulla
strage di civili del 18 marzo.
Allora, tra i timori affettuosi del
nonno che ancora si affida al
Corano e l’apertura supportante
del padre (inaspettatamente una
genealogia al maschile tutt’altro
che oppressiva), che la sprona
orgoglioso a imbracciare il
coraggio e la competenza di
filmmaker per disvelare al mondo
le sofferenze e l’azione delle
yemenite e degli yemeniti, sarà
reporter dal suo Paese per la BBC
e blogger. Tutti insieme
affronteranno il buio, rischiarato
solo da candele, dei
bombardamenti, e insieme
cucineranno un meraviglioso
pasto per i rivoluzionari, mentre
Sara e il nonno si scambieranno
gesti di cura, tra innesti in
giardino e piccole riparazioni alla
videocamera di lei … Ancora
acrobaticamente su filo delle
rivolte in soggettiva femminile,
sotterranee ma gigantesche, il
Middle East Now lavora con
sapienza sull’incompiuto di quelle
«Rivoluzioni violate» di cui ha
scritto Giuliana Sgrena, a gravare
per lo più sul corpo di noi donne
(solo percependo la continuità
trasversale del «noi», come ha
detto Azar Nafisi, possiamo
uscirne), con il documentario di
Alexandra Schneider Private
revolutions: Young, Female,
Egyptian. Ancora un riavvolgere il
nastro alla scintilla del 2011,
ancora uno sguardo altro, che
muove da Vienna, assetato del
coraggio delle donne egiziane, di
apprenderne l’anomala
conciliazione tra rivoluzione
famiglia e quotidianità. Così, per
due anni, Schneider non lascia
quattro di loro: Sharbat, un «kit»
da rivoluzionaria con maschera e
forbici antistupro e tre figli che
porta con sé perché sappiano
cosa accade a Tahrir alle
manifestanti, oltre le
mistificazioni della scuola
(restiamo pietrificati innanzi al
racconto del figlio adolescente,
arrestato e seviziato con
elettroshock), a Amani, temeraria
fondatrice di una radio solo per
ragazze - perché siano sempre più
consapevoli dei loro diritti, ribelli
ad aberranti pratiche di
mutilazione del loro corpo editora in una società dove ancora
parlare di divorzio provoca
incendi di libri e spedizioni
punitive di un sistema repressivo
parallelo; a May, un tempo
bancaria e ora pronta a tutto per
dare un senso ai suoi luoghi
retrogradi in Nubia, progetto di
sviluppo culturale tra mille
sabotaggi e resistenze, fino a
Fatema, attivista e madre, un
master in Scienze Politiche, e
dopo la caduta di Mubarak, parte
del comitato elettorale di Morsi
(in cui Sharbat e Amani, con
lungimiranza, non credono). Lì
Schneider la vedrà l’ultima volta.
Non le sarà più possibile entrare
in contatto con lei. Ecco, avendo
visto lo sguardo di Fatema, noi
chiediamo fortemente di sapere. E
cosa ne è stato dei bambini della
casa del gelso e del padre di Sara,
ora che a Sana’a manca l’acqua e
tutto, per le piante e per gli esseri
umani.
[email protected]
(6)
ALIAS
11 APRILE 2015
L’AQUILA
di SILVANA SILVESTRI
Si inaugura a Perugia il 15
aprile una mostra multimediale
dal titolo «L’Aquila frammenti di
memoria», realizzata dagli allievi
del corso di Reportage
Audiovisivo della sede Abruzzo
del Centro Sperimentale di
Cinematografia diretto da
Daniele Segre. Fanno parte di
questo materiale i reportage
radiofonici che sono in questi
giorni trasmessi da Radiotre (e
che si possono ascoltare in
podcast) come Ritratto di un
giornalista di Eleonora
Gasparotto sull’impegno civile di
Giustino Parisse caporedattore
del quotidiano Il Centro e la sua
drammatica esperienza che si
esprime con parole da brivido, la
morte dei figli e del padre a
causa del terremoto. I giornali
nazionali dice, sono latitanti,
dell’Aquila non se ne occupa più
nessuno. Lui ha continuato a
raccontare giorno dopo giorno
tutti quegli eventi che
passerebbero sotto silenzio.
Parliamo con Daniele Segre, che
in Italia fu tra i primi a usare il
video con la sua casa di
produzione I Cammelli, della
mostra e della scuola: «È una
mostra multimediale,
fotografica, di reportage
radiofonici e video oltre a
reportage scritti, le quattro
discipline della nostra scuola».
Questo in linea con le richieste
che vengono fatte oggi ai
giornalisti che devono scrivere,
fotografare, filmare e postare.
«Esatto, l’ordine dei giornalisti ci
sta anche chiedendo dei corsi di
aggiornamento per i giornalisti,
per adeguarli alle nuove
richieste di mercato che sono
sulle quattro forme principe del
reportage. È un modo di
utilizzare al massimo le
potenzialità di intervento,
documentazione e racconto di
alcune situazioni. I risultati che
sono espressi nella mostra sono
stati ottenuti nel corso di base
tenuto da settembre a dicembre
che serviva a valutare le
attitudini degli allievi. Il primo
anno è iniziato a gennaio,
adesso è finito il primo trimestre
e i radiodocumentari che si
sentono su Radiotre sono frutto
dei laboratori del primo
trimestre, mentre «L’Aquila
frammenti di memoria» è
relativo a settembre-dicembre
2014 quando è stato fatto il
corso di base. Ho subito testato
gli allievi, ho dato questo
obiettivo che per fortuna è stato
raggiunto. Il corso di base deve
valutare le attitudini per
comprendere se tutti quelli che
sono stati ammessi sono adatti a
essere ammessi al corso
regolare. Gli allievi vengono da
varie parti d’Italia, abbiamo
friulani, veneti pugliesi,
campani, abruzzesi, uno
dell’Aquila e uno di Pescara.
L’unico straniero era georgiano
ma si è ritirato, probabilmente
perché non era quello il suo
indirizzo. La più giovane allieva
ha 26 anni e il più anziano ha 27
Reportage
dai non luoghi
Daniele Segre che dirige la
Scuola di Reportage
Audiovisivo del Centro
Sperimentale sede Abruzzo
parla della mostra
che si inaugura a Perugia
il 15 aprile e che testimonia
il lavoro dei giovani allievi
anni» sono quindi perfetti per le
nuove tecnologie, sono nativi
informatici: «Sulla carta sì, però
per fortuna è sempre importante
il cervello e le abilità intellettuali
che devono essere alla base
dell’attività del reporter». I
reportage che ho sentito sono
impressionanti, tra l’altro si
parlava del silenzio della stampa,
perché ora succedono solo «fatti
minimi» che non interessano:
«La situazione all’Aquila non è
delle migliori, perché dopo sei
anni poco è stato fatto. La mia
attenzione rispetto all’attività
didattica era lavorare per il
territorio per rappresentare un
punto di riferimento di
riflessione adeguato per
maturare delle consapevolezze,
per valorizzare la dignità stessa
degli aquilani oltre che dare
visibilità al nostro corso, ma
innanzi tutto essere al servizio
del territorio e produrre
un’azione di sensibilizzazione,
perché per gli aquilano è una
situazione delicata e anche
pesante». Che impatto avete voi
che venite da fuori? «È un
impatto forte perché è una città
che ha il centro storico
semidistrutto tutto puntellato,
non c’è vita di aggregazione
come in tutte le città del mondo.
Ora hanno aperto alcuni pub il
giovedì venerdì e sabato e c’è il
giovedì dell’universitario,
un’occasione per ritrovarsi, bere
e divertirsi. La città in questi
luoghi non vissuti si anima, ma è
una situazione problematica,
perché ci sono i problemi dei
servizi pubblici, come si dice in
uno dei radioreportage: i mezzi
LA MOSTRA
L’Aquila frammenti
di memoria
«L'Aquila, frammenti di
memoria» si inaugura a Perugia il 15
aprile, installazione multimediale,
risultato del lavoro svolto dagli allievi
del Corso di base di Reportage
Audiovisivo (settembre/dicembre
2014) del Centro sperimentale di
cinematografia sede Abruzzo
all’interno dell’evento PerSo for
#IJF15 – Documentari d’Inchiesta,
rassegna curata dal PerSo – Perugia
Social Film Festival che si inserisce nel
cartellone del Festival Internazionale
del Giornalismo di Perugia.
A sinistra il centro dell’Aquila prima del
terremoto, le altre foto fanno parte della
Mostra
ALIAS
11 APRILE 2015
pubblici prima avevano come
punto di riferimento il centro
storico, adesso il baricentro è il
centro commerciale. Il nuovo
luogo di aggregazione è il centro
commerciale L’Aquilone. Poi ci
sono le situazioni nei moduli
abitativi provvisori dove hanno
praticamente deportato tutti e
dove gli anziani hanno perso gli
amici di una vita, hanno perso il
riferimento del bar, dell’osteria,
scoprono gli amici leggendo gli
annunci funerari e si fanno
accompagnare almeno al
funerale. Ma anche per andare
in farmacia o fare la spesa hanno
bisogno che qualcuno li
accompagni in macchina perché
questi moduli abitativi sono privi
di servizi. Altri servizi radiofonici
parlano dei progetti positivi che
stanno immaginando per dare un
senso al loro futuro di aquilani,
quindi non è solo uno sguardo
critico, è uno sguardo rivolto al
futuro. «L’Aquila frammenti di
memoria» che è la prima tappa
non poteva che partire dalla
tragedia del terremoto, anche per
ribadire il concetto della
memoria, per avere un punto di
riferimento su cui riflettere che ti
si presenta davanti tutti i giorni
come una scenografia di
Cinecittà con queste case
puntellate e di notte se cammini
è una situazione spettrale. Non
so quanti decenni ci vorranno
per riportarla come era allora».
Realizzerete reportage anche su
altri luoghi? «Anche se siamo
sostenuti dalla Regione Abruzzo,
dal comune e dal Mibact, gli
allievi verranno attivati su altri
temi che potranno nascere
aprendo il giornale e
destinandoli a un intervento
immediato. Non c’è niente di
preordinato. Lavoriamo come in
una redazione di giornale, con
tempi serrati e con docenti che
vengono da tutta italia e che
sono tra i migliori, come
Goffredo Fofi, Lorenzo Pavolini,
Daria Corrias di Radiotre,
Luciana Castellina, Giuliana
Sgrena, verrà Giorgio Meletti del
Fatto, è venuto Alessandro
Leogrande, Massimo Raffaeli, chi
cura la materia storia del cinema
è Tullio Masone, come fotografi
Mario Dondero e Tano
D’Amcico, Roberto Perpignani
per il montaggio e un ex allievo
del Centro, Matteo Passerini, un
altro ex allievo del Centro
tecnico del suono Edgar
Iacolenna, è venuto Luca
Bigazzi. Il sindaco Cialente ha
introdotto ’Conoscere l’Aquila’,
sono intervenuti Casacchia
luminare della psichiatria
aquilana, lo storico aquilano
Walter Cavalieri. Tutti quelli a
cui ho chiesto di fare da docenti
hanno accolto l’invito con
entusiasmo».
HPSCCRD
XING / LIVE ARTS WEEK  BOLOGNA, 21 APRILE
Clavicembalo,
la sfida infernale
di John Cage
di MARIO GAMBA
Il clavicembalo non gli
piaceva per niente. Una
insofferenza pari a quella per il
vibrafono («melenso») ma con
motivazione diversa: «Mi ricorda
una macchina per cucire». Eppure
nell’anno 1967 John Cage si mise
all’opera con l’obiettivo di
elaborare un brano «mostruoso» al
cui centro dovevano esserci ben
sette clavicembali. Che cosa era
successo? Come aveva rotto gli
indugi che gli avevano fatto
rimandare una risposta all’invito
della clavicembalista svizzera
Antoinette Vischer di scrivere,
appunto, un pezzo per il suo
strumento? Mica un invito
platonico: si trattava di una
commissione pagata, simile a
quelle che la concertista aveva
assegnato o avrebbe assegnato in
futuro a compositori come
Luciano Berio, Earle Brown, Hans
Werner Henze, Duke Ellington. Ma
Cage nicchiava. Dando poco
ascolto a un’altra clavicembalista,
Sylvia Marlowe, americana, pure
lei smaniosa di avere un regalo
musicale dal compositore
compagno d’arte e d’amore del
divo della danza Merce
Cunningham.
L’agente segreto che fece
decidere Cage per il sì si
chiamava computer. Sulla carta
c’entrava poco col clavicembalo,
che questo strumento fosse usato
per matematiche/delicate Fughe
o Partite sei-settecentesche o per
meccaniche/inquiete indagini
come quella che il novecentesco
György Ligeti, proprio nello
stesso periodo, stava
completando con la scrittura del
clavicembalistico Continuum
(1968). Sulla carta. In pratica era
tutto da vedere. Intanto bisogna
precisare che il sì Cage non lo
disse ad Antoinette, o meglio non
solo a lei: lo disse a Lejaren
Hiller, direttore del Dipartimento
di Computer Music all’Università
dell’Illinois e compositore a sua
volta. Gli disse che era interessato
a sfornare una composizione
impiegando il computer e gli
chiese la sua consulenza. Hiller lo
convocò per un anno alla sua
università e Cage si mise al lavoro
insieme a lui.
Ma già prima di cominciare
Cage aveva avuto un’idea
luminosa: perché non mettere
assieme il progetto di un’opera
ambiziosa fatta al computer con
la soddisfazione della richiesta di
una brava concertista, Antoinette
Vischer? Cage era anarchico e
situazionista ma non per questo
mancava di spirito
imprenditoriale. Era anche
un’anima gentile. Arrivò a
Urbana-Champaign, Illinois,
all’Università, con in tasca il
piano di HPSCHD, titolo che
altro non era che la contrazione
della parola harpsichord,
clavicembalo. Nei giorni, mentre
esplorava le risorse del computer
che Hiller gli metteva a
disposizione, aiutandolo, anzi
distillando idee compositive in
tandem con lui e regalandogli
l’assistenza dei tecnici suoi
collaboratori al Dipartimento, si
accorse che i suoni sintetici,
artificiali, che faceva sprigionare
da quella macchina potevano
congiungersi efficacemente,
dialogare, assimilarsi, soprattutto
sovrapporsi in maniera
stimolante ai suoni destinati al
clavicembalo ma prodotti col
computer stesso. Ed ecco
prendere forma un’opera
spettacolare e folle. La stessa che
Xing/Live Arts Week, il cenacolo
bolognese di arti
visive/sonore/performative, farà
rivivere il 21 aprile dalle nove di
sera a mezzanotte e oltre in una
sala della galleria MAMbo della
capitale emiliana. Cage e Hiller –
in duo fino a un certo punto,
difficile stabilire un ordine
inventivo gerarchico, ma è
accettato comunemente che la
firma effettiva finisse per essere
quella di Cage e che lui avesse
voluto associare quella del
compagno e guida – elaborarono
sette parti musicali per
altrettanti clavicembali e 51
nastri magnetici di suoni
artificiali. I brani per i
clavicembali erano ricavati (con
modifiche varie), tranne uno, il
primo, da battute di opere di
Mozart. In uno degli assoli per
clavicembalo apparivano battute
di altri compositori: Beethoven,
Chopin, Schumann, Gottschalk,
Busoni, Cage (da Winter music),
Hiller.
La scelta delle battute di
Mozart e degli altri compositori,
e delle loro modifiche, era
affidata al caso, o meglio, al
metodo dell’I-Ching (usato da
Cage per la prima volta per
Music of change nel 1951) e al
metodo di Mozart del «gioco dei
dadi», Musikalisches Würfelspiel,
assai apprezzato da Cage. La
stessa cosa avveniva per quanto
riguarda la scelta dei suoni e lo
svolgimento dei brani dei nastri
magnetici. Tutto veniva
assemblato da un software
programmato per operare,
appunto, scelte e modifiche
casuali. Le parti dei
clavicembali e quelle dei
nastri magnetici avevano
una durata di venti
minuti e potevano,
anzi dovevano nelle
intenzioni di Cage e
Hiller, essere
ripetute,
sovrapposte,
accostate per un
tempo indefinito.
L’obiettivo era una
musica che avesse
l’effetto della
moltiplicazione
degli episodi e nello
stesso tempo
contenesse la
reiterazione di quegli
episodi. Ripetizione
abbinata all’espansione senza
limiti.
«Alla fine non si sentiva
distintamente nulla», racconta
Philip Corner, ottantenne
compositore americano da anni
residente a Reggio Emilia (un
suo lavoro entusiasmante, I’deal
Orchestra, è stato presentato in
prima assoluta nel settembre
2012 a Bologna nell’esecuzione
dell’Orchestra del Comunale
diretta da Tonino Battista).
«Nulla delle varie componenti
dell’opera, in particolare delle
battute riprese da Mozart e dagli
altri compositori. Un caos totale,
il suono dell’assieme era fitto e
denso e prodotto con criterio
stocastico, diciamo col calcolo
delle probabilità. Statisticamente
il flusso sonoro cambiava di rado
e ciò permetteva al pubblico di
andare e venire». Ovviamente era
proprio questo che gli autori si
proponevano di ottenere.
Corner – nell’équipe di
clavicembalisti che suonerà
HPSCHD all’imminente Live Arts
Week IV bolognese - non è un
testimone qualsiasi: era uno dei
sette clavicembalisti convocati da
Cage per la prima mondiale
dell’opera la sera del 16 maggio
1969 alla Assembly Hall
dell’Università dell’Illinois. Tra gli
altri alla tastiera
dell’antico/moderno strumento
si trovavano David Tudor, il
grande solista (pianista, per la
verità) che ha accompagnato
Cage in tante imprese della sua
carriera, e – guarda guarda! –
Antoinette Vischer, la
committente-interprete. L’evento
durò cinque ore circa davanti a
7.000 fruitori. Ma quello che non
si è ancora detto è che l’opera era
diventata multimediale. Non è
chiaro se Cage e Hiller l’avessero
pensata così fin dall’inizio, sta di
fatto che il gigantesco apparato
sonoro era immerso o avvolto,
insomma in rapporto
comunicativo-espressivo
strettissimo e assai significativo,
in una gran massa di immagini e
film proiettate su uno schermo
circolare che occupava i lati di
tutta la sala. E il gruppo di artisti
visivi, videomaker, grafici
A Bologna si ripete l’opera
nata da un’idea «monstruosa»
messa in scena dal musicista
per la prima volta nel 1967
(7)
LA MOSTRA
Philip-Corner al piano, Villa Croce 2002;
HPSCHD, shirt disegnata da Gary
Viskupic 1969
La pittura
prima e dopo
tutto: l'arte
di Ull Hohn
in una personale
a Peep Hole,
Milano
di GIANLUCA PULSONI
implicati nello
spettacolo/performance/happen
ing aveva adottato gli stessi
criteri di casualità dei
compositori per elaborare e poi
montare i propri lavori.
Il fattore multimediale sarà
esaltato nella messa in scena di
Live Arts Week IV. Ben
diciannove videoartisti di tutto il
mondo saranno della partita e,
una volta conclusa la
rappresentazione di HPSCHD, i
loro lavori rimarranno in mostra al
MAMbo. E i clavicembalisti?
Questa volta saranno cinque e si
alterneranno su tre strumenti (le
versioni «alleggerite» dell’opera
furono previste da subito, chiaro
che tutte le parti originali,
strumentali e digitali, a Bologna
saranno eseguite). Sono Philip
Corner, Luciano Chessa, Anthony
Pateras, Salvatore Panu e Marco
Dalpane. Dice Dalpane, tastierista
e compositore di gran pregio,
votato alla sperimentazione sul
fronte di una musica anti-cerebrale
che cattura elementi della cultura
di massa: «HPSCHD è un lavoro
anomalo per Cage, è quello dove
ha tentato di mettere in atto la sua
idea anarchica di caos attraverso la
moltiplicazione supercaotica delle
fonti di suono. A me tocca la parte
di clavicembalo più complessa,
credo, frutto di una scrittura
volutamente forzata, più che
altro dimostrativa, ogni nota è
preceduta da un’alterazione,
abbondano i bequadri».
A Corner, invece, in occasione
della prima del 1969, toccò la
parte «libera» tra le sette per
clavicembalo. Il solista può
suonare qualsiasi composizione
di Mozart o riprendere le parti
dei suoi colleghi alla tastiera, e
può adottare i criteri di
successione e di dinamica che
preferisce in un dato momento.
«Proprio in quei giorni stavo
lavorando sul Concerto in do
minore di Mozart», racconta.
«Estrapolai sei misure di quel
Concerto, le suonai dapprima
lentamente, poi sempre più
velocemente procedendo verso la
fine delle sei misure. Il brano che
suonai io era l’unico in cui
l’autore classico era
riconoscibile, tutti gli altri erano
un reticolo di suoni in cui di
mozartiano non si sentiva nulla.
Ero affascinato dall’idea di
collaborare a una grande opera
di Cage». Ora la palla passa ai
protagonisti di Live Arts Week
IV. Magnifica sfida. Forse
infernale.
Si inaugura oggi (ore 18.30)
– per poi durare fino al 6 giugno
2015 – painting, painting, la
prima mostra in Italia dell'artista
tedesco Ull Hohn (1960-1995),
con un intervento dell'artista
statunitense Tom Burr. Il luogo
designato è un piccolo e prezioso
centro d'arte di Milano, in Via
Stilicone 10, cioè Peep Hole (sito
in rete: www.peep-hole.org):
centro d'arte contemporanea che
dal 2009 lavora focalizzando
l'attenzione su pratiche artistiche
contemporanee diverse, con
programmi agili composti anche
di lectures, conversazioni ed
eventi.
Ora, perché la scelta di Hohn?
La direttrice della galleria Bruna
Roccasalva spiega: «perché in un
momento storico in cui si faceva
strada l'istitutional critique e si
guardava con sospetto alla
pittura, Ull Hohn ha portato
avanti una ricerca in grado di far
convivere questa pratica con
l'approccio teorico predominante
in quel momento, e perché al di
là del valore che ha avuto
all'interno di quel contesto
storico-artistico la sua ricerca è
ancora attuale se ricondotta a un
più generale dibattito sulla
pittura.»
Nella breve biografia dell'artista
tedesco, a voler essere schematici,
due esperienze sembrano essere
alla base della sua formazione: gli
studi iniziali, quelli all’Accademia
di Düsseldorf con il grande
Gerhard Richter e l’esperienza del
«Whitney Independent Study
Program» a New York. E in
merito, si potrebbe suggerire che
con la prima ci sia l'acquisizione
di un saper-fare pittorico come
condizione si base e che con la
seconda, invece, ci sia
l'acquisizione di una specifica
consapevolezza teorica e
concettuale.
La mostra presenta una
disposizione non cronologica di
una selezione di opere dell'artista
che attinge da due importanti
serie da lui realizzate nel 1988,
cioè Nine Landscapes e Off The
Wall, poste in due pareti
diametralmente opposte all'inizio
e alla fine dello spazio espositivo.
Fra questi due limiti sono poi
presentate le fasi del lavoro e
quindi della ricerca di Hohn, in
un percorso in dialogo con
l'opera di Tom Burr – al di là del
rapporto di natura privata tra
l'artista tedesco e l'artista
americano, l'affinità si basa anche
sul medesimo contesto
storico-artistico (la presenza di
entrambi nel Whitney Program).
Alla fine, quel che si mostra è
un insieme di stili e registri diversi
dove, nella sperimentazione
dell'artista, si può vedere la
pratica pittorica come orizzonte
di senso, eterno ritorno di una
azione che passa, per esempio,
attraverso la mediazione della
pittura di paesaggio: dai
riferimenti all'arte di Albert
Bierstadt e all'Hudson River
School agli esercizi didattici
memori del programma televisivo
di Bob Ross, Joy of Painting. In
fondo, un qualcosa di
perfettamente coerente con la
ricerca di Peep Hole, come
conferma di una necessità di
guardare al futuro da diversi
punti di vista, solidi quanto una
tradizione e però aperti
all'immaginazione: come,
appunto, lo sguardo tramite uno
spioncino.
(8)
ALIAS
11 APRILE 2015
TUTTI IN PISTA  SE IL CIRCO EL GRITO INCONTRA WU MING
Letteratura da sfogliare
sotto un tendone
rigorosamente a strisce
completamente altra. Non si può
disattendere la spettacolarità che
impone un tendone da circo.
Non passare per delle categorie
già conosciute non vi pone dei
freni nella costruzione dello
spettacolo?
Giacomo: Per niente, anzi. Il fatto
che in scena a rischiare la pelle ci
sia Wu Ming 2 che, diciamocelo,
non è propriamente un circense
doc, si fa più interessante proprio
in quanto rottura degli schemi. Se
ci fosse un attore non
funzionerebbe».
WM2: Il valore in più è che lo
scrittore si fa sparare addosso e
spara a sua volta, c’è una sua
drammaticità viva, rafforzata
dall’accerchiamento del pubblico.
è una serata al circo sotto al
tendone, ma è qualcosa di unico,
completamente nuovo nello
scenario artistico, in cui il numero
acrobatico va di pari passo con il
messaggio.
di LUCA PAKAROV
Sebbene ci sia una grande
tradizione di circo, in Italia è stato
relegato nei parcheggi di periferia,
sempre più aderente
all’immaginario di nomadismo
che a quell’epifania di cui parlava
Fellini. Perché da noi lo si associa
unicamente a clown, saltimbanchi
e animali in gabbia. Se nel resto
d’Europa esistono centinaia di
compagnie con una tradizione
artistica che girano per teatri e
chapiteau, che si incontrano per
discutere delle normative che
regolamentano gli spettacoli, in
Italia siamo ancora all’anno zero.
Il circo una volta apriva il proprio
strano mondo direttamente nel
cuore delle città, nelle piazze sotto
casa, dove lo chapiteau
permetteva a tutti di confrontarsi
con una cultura anomala. Spazi di
cui si sta riappropriando la
compagnia El Grito, una delle
poche compagnie italiane di circo
contemporaneo orientate alla
sperimentazione artistica, per far
conoscere nel nostro Paese un
circo diverso, con una funzione
sociale e legato ai contenuti.
Così la stravaganza circense ha
incontrato la letteratura: Giacomo
di El Grito ha creato con Wu Ming
2 lo spettacolo Piccolo circo
magnetico libertario, sulle tracce
de L’armata dei sonnambuli. Non
è la presentazione di un libro, non
Il circo ha una coreografia e
una regia, ma cosa c’entra la
letteratura?
WM2: La nostra attitudine è quella
di raccontare storie con tutti i
mezzi possibili. A me il circo non
sarebbe mai venuto in mente se
non avessi conosciuto Giacomo e
El Grito. La base di riferimento in
Piccolo circo magnetico libertario
ce l’ha data uno spettacolo che
avevamo eseguito con il
mentalista Mariano Tomatis. Il
nostro ultimo romanzo parla di
magnetismo animale, ipnosi,
suggestione e, come accaduto con
Tomatis, si poteva trovare il modo
di incrociare letture del libro e
numeri di magia e illusionismo.
Questo è stato un po’ il
canovaccio, senza però incollare
la letteratura sopra un altro
genere di espressione; sia chiaro:
non abbiamo agito come lo
scrittore che legge i suoi testi e i
musicisti di sottofondo.
Giacomo: Il circo contemporaneo
è nato dalla sintesi di diversi
linguaggi, la multidisciplinarietà è
una sua prerogativa. Solitamente,
si esprime attraverso un
linguaggio di tipo non verbale con
il compito di evocare piuttosto
che descrivere o raccontare una
storia. Il Piccolo circo magnetico
libertario non trae semplicemente
ispirazione da un opera letteraria,
ma ne porta in scena il suo autore
tra colpi di pistola e acrobazie
magnetiche. È un esperimento di
circo e letteratura in cui l’autore
del libro, matrice del significato,
diventa significante».
Come si può avvicinare un
pubblico che, soprattutto in
Italia, non è abituato a un circo
concettuale?
WM2: Quanto avviene nel numero
non è didascalico al reading, il
numero di circo ha lo stesso tema,
ma non è un gioco in cui uno
illustra dell’altro. Fondamentale è
stato calibrare i tempi delle
letture: ci siamo resi conto che il
potenziale non sta nella
presentazione di un libro
spettacolarizzata, ma in uno
spettacolo ispirato, tanto che, in
fin dei conti, potrebbe anche non
esserci il romanzo.
Giacomo: Nonostante ci sia una
componente concettuale, il nostro
resta un circo contemporaneo
«all’antica», autenticamente
popolare, le cui proposte sono
adatte a ogni genere di pubblico.
Per i suoi forti esperimenti di
mesmerismo in questo caso lo
spettacolo è sconsigliato ai minori
di 14 anni, ma si rivolge sia al
pubblico attratto dalla letteratura
di Wu Ming, che a quello
spettatore che, ancora oggi, in
Italia è affascinato dalla piazza
che di notte diventa circo. Al di là
del suo valore concettuale, per noi
la pista circense deve essere una
terra lontana, una bolla temporale
all’interno della quale ci si ritrova
in un paese straniero.
Non c’è il pericolo di
disattendere le aspettative?
Giacomo: Credo che con il Piccolo
circo magnetico lo spettatore
abbia la libertà di scegliere se
fermarsi ad un primo grado, e
godersi le immagini surreali e i
virtuosismi circensi, oppure se
scendere in profondità nel
racconto, nel suo significato».
WM2: Bisogna evitare uno
spettacolo troppo incongruo al
contesto in cui ti trovi, magari un
po’ strano ma non una cosa
Ne «L’armata dei sonnambuli»
siamo a Parigi, sotto il Regime
del Terrore della Rivoluzione
francese, e ci sono due praticanti
di mesmerismo: cosa avete
rappresentato?
WM2: Uno di questi è un
rivoluzionario che crede che
mesmerismo, suggestione e proto
ipnosi possano aiutare la
rivoluzione stessa e le sue cause.
L’altro invece è un
controrivoluzionario che vorrebbe
lo stesso strumento al servizio del
potere, per dar vita a un esercito
di soldati invincibili. Un po’ come
ogni tecnologia. Le letture
riguardano diversi aspetti del
magnetismo, per esempio a quei
tempi si era convinti che un
individuo magnetizzato
diventasse più forte fisicamente e,
nello spettacolo, questa credenza
viene associata a un numero che
riguarda la forza fisica… è così
che mi ritrovo con un coltello
sopra la testa».
Giacomo: In scena ci sono dei
circensi che si sottopongono ad
esperimenti di mesmerismo.
Dobbiamo però capirci bene: non
è magia con il trucco, ma si tratta
di esercizi di concentrazione. C’è
il rituale dell’ipnosi collettiva e
l’acrobatica aerea di una donna in
trance. E c’è uno scrittore che
mentre legge si fa sparare addosso
tenendo dei bersagli per poi, da
vittima, diventare carnefice. Tutto
è capovolto.
Il mesmerismo applicato è una
buona quanto triste metafora
della società: la facilità di essere
ipnotizzati…
WM2: Ad un certo punto, con una
serie di esercizi, mesmerizzo il
pubblico... Attenzione però, ci si
può opporre all’ipnosi collettiva,
fondamentale è l’intenzionalità a
concedersi. Molto spesso la nostra
è servitù volontaria, come diceva
La Boétie noi la scegliamo perché,
chi ci asservisce, magari ci
«Il nostro ultimo romanzo parla di magnetismo
animale, ipnosi, suggestione: bisognava incrociare
letture del libro e numeri di magia e illusionismo»
promette qualcosa in cambio. In
altre parole lo spettacolo invita a
chiunque si senta asservito a
ragionare su quanto, almeno
all’inizio, sia stato complice, di
quanta consapevolezza c’era e che
cosa sperava di ottenere in
cambio da quella cessione di
volontà. C’è molto mesmerismo
nella società.
Giacomo: Il pubblico si presta
all’ipnosi perché sa che è in un
contesto giocoso, in un certo
senso è come se ci fosse un atto di
fiducia verso di noi, ma a pensarci
bene è la stessa fiducia che viene
data all’istituzione e all’autorità
costituita. Questo spettacolo è un
invito a prendere coscienza sul
proprio stato di libertà.
http://www.elgrito.net/
A pag.8 e 9, alcuni numeri
dello spettacolo del circo
El Grito. Fotografie di Natalia
Bavar
Le immagini degli spettacoli
di Constanza Macras
(in alto "Open for everything"
e in basso "Berlin Elsewhere"
sono di Thomas Aurin
ALIAS
11 APRILE 2015
(9)
di GIANNI MANZELLA
Constanza Macras non ha
più voglia di giocare. La danza si è
arrestata, seduti a formare un
semicerchio i nove interpreti
danno voce a memorie lontane,
che settant’anni dopo ancora
dicono di un dolore non sanato.
Potrebbe essere di istintiva
sorpresa la prima reazione dello
spettatore davanti a The past, la
più recente creazione che la
coreografa ha presentato alla
Schaubühne di Berlino. Sarà
anche per l’asprezza delle
musiche composte da Oscar
Bianchi, eseguite in scena da una
violinista e da un percussionista
che mette alla prova le capacità
sonore di tutto ciò che capita
sotto le sue mani, non solo le due
batterie a disposizione con cui si
lancia in fragorosi assoli. Ci aveva
conquistato, la giovane artista
porteña, anche per quella sorta di
giocosità con cui metteva in scena
uno spaesamento che non è
evidentemente soltanto suo. Quel
piacere di condividere lo spazio
del teatro che ritroviamo intatto
nel trascinante Open for
everything che arriva per due sere
sul palcoscenico del Teatro nuovo
Giovanni da Udine. Ecco infatti, in
quest’altro spettacolo, una
variopinta comunità Rom
proveniente dall’Europa centrale
fondersi con i suoi canti e i suoi
balli con i passi dei danzatori della
compagnia Dorky Park, fino ad
annullare ogni distinzione. Sono
giovani e no, anche bambini.
Sono ungheresi e cechi e
slovacchi. Ciascuno con una
propria abilità individuale che
vien fuori da una storia collettiva.
Si era parlato altre volte di un
immaginario fusion, a proposito
della capacità di Constanza
Macras mettere in danza la
globalizzazione in cui siamo
immersi. Non per gusto
postmoderno, malgrado l’innato
eclettismo o la voracità con cui
sembra addentare ogni immagine.
Ma perché così non può che
essere, sembra dirci. Ecco per
esempio che quel violino così
connotato nelle sue sonorità
gitane può piegare a supporto di
una danza molto simile a un
rock’n roll. E quei panni colorati,
quei ciaffi che dilagano sulla
scena sono poi il corrispettivo di
un disordine del mondo, della sua
inevitabile entropia. Di cui si fa
specchio la scena, che altre volte
qualcuno ha definito sguaiata – in
senso dispregiativo, ma forse
all’artista il termine non dovrebbe
dispiacere, se si intende la sua
sconvenienza come scarsa
attenzione alle convenzioni del
décor. Qui domina nel mezzo un
container di lamiera che funge da
porta di comunicazione con il
mondo esterno e da un lato una
vecchia automobile di grossa
cilindrata, e passerà anche una
zebra impagliata.
Constanza nelle città. Ogni
spettacolo della sua compagnia
parte con un viaggio e diventa a
sua volta un viaggio, in cui viene
coinvolto lo spettatore. A volte il
viaggio ha coordinate geografiche
precise, come l’India di Big in
Bombay – qui sono i campi Rom
nei pressi di Praga o Budapest,
che la compagnia ha girato per un
paio d’anni mentre raccoglieva i
nuovi compagni (lo spettacolo ha
debuttato nel 2012). Altre volte il
viaggio si arresta all’apparenza
sotto casa, come il popolare
quartiere di immigrati visitato in
Scratch Neukölln. Oppure assume
caratteri più mentali, e
perturbanti, come l’inoltrarsi nella
Una variopinta
comunità
di Rom
dell’Europa
centrale si fonde
con i passi
dei danzatori
della compagnia
Dorky Park
tropicale foresta di No Wonder, in
cui l’artefice aveva scelto di
rimettersi in gioco
impudicamente in prima persona,
o nell’immaginario paradiso
artificiale di Brickland dove una
comunità agiata replicava i suoi
riti. E ogni viaggio comporta
necessariamente l’incontro con
l’altro, o bisognerebbe dir meglio:
con l’immagine dell’altro. È che
agli stereotipi non si può girare
intorno, bisogna per forza andarci
a cozzare.
E allora ti accorgi che il teatro di
Constanza Macras si dipana tutto
attorno ad alcuni fili molto solidi,
che tengono anche quando lo
spettacolo sembra allontanarsi,
come in The past. Non è solo per
via di un riconoscibile linguaggio
coreografico che si trasmette da
un lavoro all’altro – quel rotolare a
terra facendo perno su un braccio
in appoggio, quel saltare
inarcando la schiena... Con una
sorta di forza gravitazionale,
capace com’è di assorbire la street
dance dei ragazzini di Scratch
Neukölln, tanto quanto le danze
gitane di Open for everything. Nel
teatro di Constanza Macras, la
danza non è mai un esercizio di
stile fine a se stesso. Perché possa
svilupparsi, qualcosa deve
caricarsi fino a rischiare di
esplodere. La danza è ciò che
resta dopo che tutto si è
consumato. Quando non c’è più
nulla da comunicare e bisogna
invece esprimere.
È che dietro l’eclettica voracità
con cui si consumano le immagini
della nostra quotidianità, dietro il
gusto divertito e divertente per le
commistioni pasticciate,
l’indisciplinato giocare a cavallo
dei generi, ci sta anche un severo
bisogno etico di «tornare al
presente», come suggeriva il titolo
del suo primo successo, Back to
the present appunto, che
vedemmo ad Avignone una
decina d’anni fa. Che non è
soltanto il difficile «ritorno al
presente» che segue la fine di un
amore; può essere una buona
metafora di quella fragilità della
memoria che sta, fin dall’inizio,
nell’insegna di Dorky Park (la
memoria è fragile, l’immondizia
resta per sempre – dice con
TEATRO  OPEN FOR EVERYTHING, UDINE 17-18 MARZO
Immaginario fusion
di Costanza Macras
tra i nomadi
qualche ironia il loro motto). La
memoria è dichiaratamente il
tema di The past. Lo rivela già il
titolo. (C’è sempre un tema
all’origine di uno spettacolo di
Constanza Macras, o forse una
meta da raggiungere. E lo
spettacolo non è allora che il
percorso da compiere per
riempire questa distanza, e la
somma dei detriti che ogni storia
si lascia dietro). Lo spettacolo
programmaticamente esplora l’ars
memoriae, le tecniche della
memoria studiate già durante
l’antichità classica e riportate in
vita in epoca rinascimentale. E
infatti la drammaturgia, firmata
com’è ormai abitudine da Carmen
Mehnert, fa proprie le parole di
Frances Yates, la massima
studiosa della tradizione ermetica;
sfiora Giordano Bruno e cita
l’arduo «teatro della memoria» di
Giulio Camillo, mentre si disserta
anche del concetto fuorviante del
tempo e del rapporto esistente fra
la parola «gatto» e il suo oggetto. E
nel tessuto drammaturgico si
insinuano anche Walter Benjamin
e Hannah Arendt. Ma la
dissertazione accademica si
intreccia, in maniera un po’
derisoria, con gag da comica
slapstick o con le prove di un film
d’azione, sopra e sotto
un’impalcatura metallica a più
piani collegati da rampe di scale
come in un’incisione di Escher,
però fornita di parabole televisive
che danno l’idea di una
modernità relegata in periferie
marginali o emarginate. L’arte
della memoria che qui più
interessa è quella portata dagli
stessi interpreti, come già
avveniva in I’m not the only one.
Ricordi familiari. Un casa troppo
piccola. Un’anziana donna che
danza seminuda. E tramite di loro,
si diceva, quella di quattro
anziane donne sopravvissute alla
distruzione di Dresda, nel tardo
inverno del 1945, incontrate dalla
compagnia durante la
preparazione dello spettacolo. Gli
allarmi. I primi raid nella notte. Il
passato. Detriti. Serve questa
memoria? Non c’è bisogno di
preservare tutto – risponde Sophie
Calle; bisognerebbe
semplicemente lasciare le cose
come stanno, come tracce. E forse
non vale solo per la rimozione
della statua di Lenin a Berlino o
per la ricostruzione della
Frauenkirche uguale a com’era,
prima che Dresda fosse rasa al
suolo.
Un teatro che lascia delle
tracce. Potrebbe essere una buona
definizione di quel che Constanza
Macras va cercando. A cominciare
dalla domanda che ci pone Open
for everything: chi sono i nomadi
di oggi? Perché, vale la pena
ripeterlo, Constanza Macras è fra i
pochi artisti in grado di porre il
problema del posizionamento
dell’artista, ma anche dello
spettatore, nei confronti della
realtà contemporanea. Senza
smettere di divertirci.
(10)
ALIAS
11 APRILE 2015
SPORT
Il futuro segretario del partito comunista scrisse in favore del
foot-ball come gioco che rappresentava la modernità contrapposto
allo scopone simbolo di corruzione e imbroglio. Apprezzarono
in seguito anche Togliatti e Berlinguer, entrambi juventini
Gramsci, il calcio
e lo scopone
di PASQULE COCCIA
Se Antonio Gramsci fosse vivo,
la domenica andrebbe allo stadio.
Non sappiamo se frequenterebbe lo
Juventus Stadium, il gioiellino di
casa Agnelli, edificato sulla scia degli
stadi di proprietà delle più grandi
squadre europee, per seguire le
imprese calcistiche dei bianconeri,
oppure andrebbe più volentieri a
vedere le partite del Torino, che il
semplicismo calcistico vorrebbe
essere la squadra degli operai della
Fiat, oggi di proprietà di Cairo, il
patron di La 7. Circa un secolo fa,
nelle sue rubriche di costume sull’
Avanti! poi raccolte nel volume
Sotto la Mole, Antonio Gramsci
invitava gli operai a frequentare lo
stadio, esaltando il mondo del
calcio come espressione della
modernità. Il futuro segretario del
partito comunista analizzò due
aspetti del tempo libero degli
operai: il calcio e il gioco delle carte.
Lo scritto gramsciano pubblicato
sotto il titolo emblematico Il
Football e lo scopone è l’occasione
Nella foto il "magico trio": Sivori,
Boniperti e John Charles. Gramsci con
alcuni giornalisti di Ordine Nuovo
per analizzare i vizi e le virtù degli
italiani attraverso il gioco del calcio,
che metaforicamente rappresentava
la società liberale, quella
anglosassone e patria del calcio,
contrapposta alla società della
corruzione e dell’imbroglio
italiana-giolittiana: «Anche in queste
attività marginali degli uomini si
riflette la struttura
economico-politica degli Stati. Lo
sport è attività diffusa delle società
nelle quali l’individualismo
economico del regime ha
trasformato il costume, ha suscitato
accanto alla libertà economica e
politica anche la libertà spirituale e
la tolleranza dell’opposizione».
Gramsci in realtà parte da una lunga
premessa sul modo di essere degli
italiani, che preferiscono lo stile di
vita pantofolaio, confermato un
secolo dopo da una recente
indagine di Eurobarometro,
l’istituto di ricerca dell’Ue, che
classifica gli italiani tra i più
sedentari d’Europa dopo i greci e i
bulgari. «Gli italiani amano poco lo
sport; gli italiani allo sport
preferiscono lo scopone. All’aria
aperta preferiscono la clausura in
una bettola-caffè, al movimento la
quiete intorno al tavolo» premette
Gramsci, prima di addentrarsi in
un’analisi interessante che mette a
confronto la cultura del calcio e
quella dello scopone, espressione di
due modi contrapposti di concepire
la società: «Osservate una partita di
football: essa è un modello di
società individualistica: vi si esercita
l’iniziativa, ma essa è definita dalla
legge. Le personalità si distinguono
gerarchicamente, ma la distinzione
avviene non per carriera ma per
capacità specifica; c’è il movimento,
la gara, la lotta, ma esse sono
regolate da una legge non scritta,
che si chiama lealtà e viene
continuamente ricordata dalla
presenza dell’arbitro. Paesaggio
aperto, circolazione di aria, polmoni
sani, muscoli forti, sempre tesi
I DUE
PELLEGRINI
all’azione». Quando Antonio
Gramsci scriveva queste note il
campionato di calcio era ancora
sospeso per via degli ultimi mesi
della Grande Guerra, ma
nonostante l’interruzione dei
campionati egli aveva potuto
cogliere l’essenza del foot-ball,
come si scriveva allora, grazie al
proliferare di squadre di calcio
dilettantistiche su tutto il territorio
nazionale e al fatto che il suo
osservatorio fosse Torino, città che
sin dalla fine dell’800 aveva ospitato
in un unico giorno il primo
campionato italiano di calcio, vinto
dal Genoa, che si aggiudicò il primo
scudetto. Se per Gramsci la partita
di calcio è l’emblema della
democrazia, perché si disputa a
cielo aperto e sotto gli occhi del
pubblico, che può distinguere e
apprezzare i calciatori per capacità,
di tutt’altro spirito è impregnata la
cultura dello scopone: «Una partita
allo scopone. Clausura, fumo, luce
artificiale. Urla, pugni sul tavolo e
spesso sulla faccia
dell’avversario…o del complice.
Lavorio perverso del cervello.
Diffidenza reciproca. Diplomazia
segreta. Carte segnate. Strategia
delle gambe e della punta dei pedi.
Una legge? Dov’è la legge che
bisogna rispettare? Essa varia di
luogo in luogo, ha diverse tradizioni,
è occasione continua di
contestazione e litigi». Se per il
futuro segretario del partito
comunista italiano che sarà fondato
a Livorno tre anni dopo queste note,
nel gennaio del 1921 «lo sport suscita
anche in politica il concetto di ‘gioco
leale’» secondo il dirigente politico
sardo la cultura dello scopone è
l’espressione più retriva della società:
«Lo scopone è la forma di sport della
società economicamente arretrata,
politicamente e spiritualmente, dove
la forma di convivenza civile è
caratterizzata dal confidente di
polizia, dal questurino in borghese,
dalla lettera anonima, dal culto
dell’incompetenza, dal carrierismo
(con relativi favori e grazie del
deputato). Lo scopone produce i
signori che fanno mettere alla porta
dal principale l’operaio che nella
libera discussione ha osato
contraddire il loro pensiero».
L’interesse di Gramsci verso il calcio
non fu un fatto isolato, anche altri
segretari del partito comunista
manifestarono, seppur
segretamente, una vera e propria
passione per il calcio che in più
occasioni si trasformò in tifo per la
Juventus. Dopo la Liberazione,
Palmiro Togliatti ogni lunedì
chiedeva al vicesegretario del Pci,
Pietro Secchia, che cosa avesse fatto
la Juve il giorno prima, e Secchia che
si era formato alla ferrea scuola del
Pci e mai si era interessato di calcio,
spiazzato dalla richiesta del
segretario assumeva un’espressione
interrogativa, in quel preciso
momento Palmiro Togliatti gli
diceva con aria bonaria: «Vuoi fare
la rivoluzione senza sapere i risultati
delle partite di calcio?». Anche
Enrico Berlinguer, pur avendo nel
cuore il Cagliari, alle cui partite
assisteva quando andava in
Sardegna per impegni politici, si
tenne sul solco del tifo bianconero,
attribuendo questa scelta, quasi
scusandosi, a un peccato di
gioventù. Enrico Berlinguer,
confessò il suo tifo per la Juve a un
sardo d’adozione, che
rappresentava la punta di diamante
del Cagliari e della nazionale di
calcio, Gigi Riva, il quale anni dopo
rivelò la passione bianconera del
segretario del Pci nel corso di una
trasmissione radiofonica.
Poche primule gialle, verde brillante
nei prati, cinquettio matttutino: aria di
primavera. Qui al cohousing gli animali
stanno bene: è nata ieri Pasqualina, la
quarta pecorella. Fra noi umani c’è
cambiamento: Luana va via, ritorna in
città. Nella famiglia e nei gruppi umani
istituzionali le entrate e le uscite sono
regolate e celebrate in fasi definite. I
«fuori programma» sono eventi critici.
In questa piccola comunità, negli
ecovillaggi e nelle comunità
«intenzionali» ogni realtà è diversa e
forse i passaggi sono ancora poco
studiati. Ci troviamo a pensarci. Anna
commenta: «si bisticcia, ma poi è
importante costruire insieme un
luogo dove sai che nella terra , nelle
case e persone c’è qualcosa che è
sempre li e ti aspetta». Rino viaggia e
poi torna da Anna: «c’è poco da dire:
è un fatto personale stare a capire e
cercare i propri legami e le proprie
radici». Ernesto, sempre in piena
avanguardia, afferma: «È bene che ci
sia gente che passa. Per me è
importante che questo sia un ’non
luogo’: quei luoghi della
postmodernità di circolazione, di
comunicazione, come stazioni,
areoporti, campi di restringimento
planetario», Sbotta Smirna: «Si
Ernesto, vallo a dire alla Pasqualina».
Poi silenzio. Meglio parlarne, svelarsi,
cercare codici di unione e
comprensione per sostenere insieme
la vita ed i suoi eventi. Olga a bassa
voce rimprovera: «Ci sono persone
che difficilmente tollerano i conflitti e
cercano climi più tranquilli. Se non ci
fosse sempre continua discussione,
forse, non sarebbe successo».
Sgradevole da accettare per animi che
professano solidarietà e vicinanza. Pier
rassicura: «ci si può voler bene
profondamente anche se vi sono
malumori». Aurora richiama a
responsabilità e impegno ed il resto
che accada. Il nostro cohousing si
trova sulla Via Francigena, itinerario di
pellegrinaggio che nel medioevo univa
Canterbury a Roma. Sigerico,
arcivesco di Canterbury, nel 990, si
reca a piedi a Roma da Papa Giovanni
XV ed in un diario di viaggio annota
79 tappe di quel cammino, chiamato
oggi via Francigena. Succede che alcuni
giorni fa bussano alla porta due
pellegrini francesi. Lei ha la febbre e
non riescono ad arrivare al posto
tappa prefissato. Io e Lola li
accogliamo nelle stanze ospiti.
Farmaci, alimenti e Lola offre loro la
pastiera di Pasqua. Qualche giorno
dopo, in forma, caricano sulle spalle gli
zaini. Ci abbracciano e ci donano il
loro bordone (il bastone del
pellegrino). Nel legno è inciso «per
andare dove non si sapeva di poter
arrivare». Li guardo allontanarsi e mi
sento in cammino con loro e con i
miei compagni di cohousing. Penso a
questa casa, come rifugio di un nostro
pellegrinaggio di vita. Non è sufficiente
la responsabilità per il luogo e le cose,
è necessaria anche per le persone.
Significa che ognuno si affida a
qualcuno ed ognuno ha in affido
qualcuno, che sia single, coppia,
famiglia. Solo così, se luogo di legami e
accudimento reciproci, possiamo
salutare con serenità chi riprende il
cammino della propria leggenda
personale.
ALIAS
11 APRILE 2015
SINTONIE
ADELINE - L'ETERNA
GIOVINEZZA
DI LEE TONLAND KRIEGER, CON BLAKE LIVELY,
HARRISON FORD, 2015
0
Il film narra la misteriosa
storia di Adeline che dopo un
incidente automobilistico
smette all'improvviso di invecchiare.
La donna percorre tutto il XX secolo,
cercando di trovare se stessa e finisce
per trovare l'amore di tutta una vita.
I BAMBINI SANNO
DI WALTER VELTRONI, DOCUMENTARIO.
ITALIA 2015
0
Il nuovo documentario di
Walter Veltroni cerca di
raccontare il mondo dal punto
di vista dei bambini, parlando di
futuro, di speranza e della situazione
del paese, raccogliendo testimonianze
sulla propria esperienza, la propria
famiglia, con storie di migrazioni,
omosessualità, l'idea di Dio e dei
sogni.
IL FIGLIO DI HAMAS - THE
GREEN PRICE
DI NADAV SHIRMAN, CON MOSAB HASSAD
YOUSEF, GONEN BEN YITZHAK, GERMANIA UK
ISRAELE 2015
0
Docufiction sulla vera storia di
Mosab Hassad Yousef, seguace
di Hamas, che per manifestare
contro le azioni suicide decide di agire
per conto dello Shin Bet, intelligence
israeliana, fornendo informazioni
come agente inflitrato.
IN THE BOX
DI GIACOMO LESINA, CON ANTONIA LISKOVA,
NICCOLÒ ALAIMO. ITALIA 2015
0
Svegliatasi in un garage, una
giovane donna scopre di
essere in una trappola
mortale. Un lento rilascio di anidride
carbonica la costringe a pensare in
fretta a come salvare la propria vita e
quella di sua figlia.
LE FRISE IGNORANTI
DI ANTONELLO DE LEO, CON PIETRO
LOPRIENO, CON NICOLA NOCELLO. ITALIA
2015
0
Il pugliese Luca è membro di
una band musicale chiamata
«Le Frise ignoranti» composta
dagli amici di sempre, scapestrati ed
eccentrici. Insieme decidono di
percorrere un tour in Puglia dove
oltre alla ricerca del padre di Luca,
svanito nel nulla, affronteranno
situazioni sempre più improbabili.
SAMBA
DI ERIC TOLEDANO, OLIVIER NAKACHE, CON
OMAR SY, CHARLOTTE GAINSBOURG. FRANCIA
2015
0
Samba, un clandestino
senegalese emigrato in Francia
in cerca di fortuna e di una
vita regolare incontra Alice, dirigente
d'azienda che dopo un forte stress
decide di dedicarsi al volontariato. I
due diversi mondi si intrecciano in
una romantica e divertente storia
d'amore.
LA SQUOLA DI BABELE
DI JULIE BERTUCCELLI. DOCUMENTARIO.
FRANCIA 2014
0
Da una regista che è stata
assistente di Otar Iosseliani,
Kieslowski, Tavernier un
film che contiene grazia e
profondità, girato in una scuola di
accoglienza per emigranti
adolescenti in attesa di entrare
nelle classi normali. Alle paure del
nuovo paese, della nuova lingua si
aggiungono i problemi della giovane
età, guidati e appianati da una
professoressa di rara sensibilità. Il
titolo originale è «La cour de
Babel» (il titolo italiano allude a
una lingua ancora da imparare alla
perfezione). Nelle sale dal 23 aprile.
BLACKHAT
DI MICHAEL MANN CON
CHRIS HEMSWORTH, WEI
TANG. USA 2015
Un virus sta per colpire il
sistema di raffreddamento di
una centrale nucleare. La
trama non ha molto di avveniristico, è
quasi da western classico. Film
sconclusionato, ambiziosissimo e di
strana urgenza, tradurre la purezza
del cinema astratto in grande
spettacolo hollywoodiano. Dietro
l’ossessione ipertecnologica c’è un
trasporto romantico che salva un film
sbalestrato come questo. (g.d.v.)
7
FAST &FURIOUS 7
DI JAMES WAN, CON VAN DIESEL, PAUL
WALKER. USA 2015
1
Settimo episodio della serie
sulle corse e battaglie
automobilistiche Iniziata nel
2001 da Rob Cohen. Dopo aver
ucciso Owen Shaw e la sua squadra di
mercenari nel sesto film, Dom, Brian
e la loro squadra sono in grado di
ritornare negli usa. Ma il fratello
maggiore di Owen, Ian Shaw (Jason
Statham) alle spalle di Dominic, cerca
vendetta per la morte di suo fratello.
L’effetto extra è dato dalla morte
effettiva di paul walker schiantatosi a
bOrdo della sua Porsche a 150 all’ora.
Già dal primo piano iniziale è un
fantasma ed è così che aleggia nel
film.Incassi stratosferici negli Usa.
(g.d.v.)
FIN QUI TUTTO BENE
DI ROHAN JOHNSON, CON ALESSIO
VASSALLO, PAOLO CIONI. ITALIA 2014
6
Il dopo laurea di un gruppo di
amici addensa i problemi della
maturità, di umorismo ce n’è
poco e della cattiveria di una toscanità
a cui il regista fa abbastanza
riferimento pure. Tutto è prevedibile,
risata sempre rassicurante sempre
riconoscibile come i personaggi
schematizzati nelle loro reazioni.
Regia ammiccante attenta a non
deludere nessuno. (c.pi.)
FRENCH CONNECTION
DI CÉDRIC JIMENEZ, CON JEAN DUJARDIN,
GILLES LELLOUCHE. FRANCIA 2014
6
French Connection era il
titolo originale di Il braccio
violento della legge di Friedkin,
nome del filone di inchiesta del
commercio di eroina verso gli Usa, un
film ambientato non più a New York
ma a Marsiglia e che fa da
controcampo a quello di Friedkin.
Corretto film d’azione che omaggia il
cinema civile italiano e sembra
guardare ai classici di Verneuil,
Boisset, Lautner. Un onesto esercizio
di stile prevedibile. (g.a.n.)
HO UCCISO NAPOLEONE
DI GIORGIA FARINA, CON MICAELA
RAMAZZOTTI, PAMELA VILLORESI. ITALIA 2015
6
Anita, manager in carriera,
donna di ghiaccio, è licenziata
dal suo capo e amante quando
scopre che è incinta. Racconto di una
società precaria, composta da famiglie
disastrate e dirigenti in continua lotta
per il potere, con grande abbondanza
di colpi bassi. Parecchi film italiani
raccontano lo stesso panorama, qui lo
atile si ispira ai manga e anche un po’
alla strega di Biancaneve, con un
pizzico di Almodovar, ma la sostanza
resta il nostro desolante panorama
pur abbellito dalla vivacità. (s.s.)
HUMANDROID
DI NEILL BLOMKAMP, CON SHARITO COPLEY,
DEV PATEL. USA MESSICO 2015
6
Chappie, robot poliziotto
frutto dell’immaginazione di
Blomkamp potnziato di qualità
quasi umane da un genio del
computer è l’ultimo eroe di
Johannesburg sul cui sfondo l’autore
sudafricano ha ambientato i suoi
precedenti film District 9 e Elysium.
Alla stranezza e all’alterità di Chappie
contribuisce ancora di più la presenza
di Ninja Yo-landi Visser il duo hip hop
sudafricano Die Antwoord, una
coppia di piccoli criminali che vivono
ai margini di una metropoli del futuro
la cui violenza viene arginata da
poliziotti robot. L’ingegnere che li ha
disegnati è al lavoro su un modello più
evoluto che li fa simile agli esseri
umani. I due criminali rubano un
prototipo difettoso e lo educano al
crimine. Ha dalla sua la cattiva
coscienza sociale, ma anche
un’implausibile miscela di
sentimentalismo e iperviolenza. Una
parabola per bambini che però non
possono andare a vederla. (g.d.v.)
INTO THE WOODS
DI ROB MARSHALL, CON MERYL STREEP,
JAMES CORDEN. USA GB CANADA 2014
5
Rob Marshall cineasta che non
riesce mai a evitare di
mostrare la sua formazione
intelletuale tenta di agganciare da un
lato il pubblico di Cenerentola
branaghiana e dall’altro rimettere in
circolo le proprie credenze cinefile.
Ciò che non convince fino in fondo è
la letterarietà della messa in scena,
non abbraccia mai fino in fondo la
vertigine del suo progetto, opta per
l’evidenza della struttura e scontenta
tutti. (g.a.n.)
N-CAPACE
DI E CON ELEONORA DANCO. ITALIA 2015
7
Nel viavai tra Terracina luogo
dell’infanzia e Roma medita su
cosa significa crescere,
sull’inadeguatezza di fronte alla vita.
Esordio di Eleonora Danco, autrice e
attrice di teatro che ha ricevuto molti
premi dopo Torino e il marchio dei
film scelti dal Sncci. Film di libertà
geometrica e di continue invenzioni,
che spiazza lo sguardo sul modo di
raccontare e costruire gli spazi. Il suo
entrare e uscire dal bordo delle
immagini è forse la cifra più forte dl
film le cui improvvisazioni mettono
alla prova le nostre abitudini di
spettatori. (c.pi.)
IL PADRE
DI FATIH AKIN, CON TAHAR RAHIM, SIMON
ABKARIAN. GERMANIA TURCHIA 2014
4
Cinematograficamente
«brutto» per costruzione
narrativa, scelte visuali, format
da produzione internazionale. Un film
sul tabù turco, il genocidio armeno.
Nel 1915, mentre l’Europa è in
guerra, i turchi deportano ed
eliminanomigliaia e migliaia di armeni
cittadini dell’impero ottomano. Akin
all’interpretazione storica preferisce il
punto di vista della «vittima» non solo
degli armeni, ma delle vittime tout
court che finiscono per somigliarsi
tutte, mettendosi al riparo da ogni
assunzione di responsabilità. Non
assume un preciso punto di vista, il
genocidio alla fine coincide con
l’identità migrante. (c.pi.)
WILD
DI JEAN-MARC VALLÉE, CON REESE
WITHERSPOON, THOMAS SADOWSKI. USA 2014
4
Reese Whiterspoon cammina
dalla punta più a sud della
California a quella più a nord
dell’Oregon. Ambientato sullo
sfondo di scenari da cartolina, così
come il regista posizionato Julia
Roberts in Mangia prega ama tra
l’Italia e l’India, gli unici paesaggi a cui
sembra interessato sono quelli
interiori. È quasi inaccettabile che un
film dedicato a una catarsi interiore
abbia così poco amore e sensibilità
estetica nei confronti della
wilderness. Un film dall’orizzonte
meschino. (g.d.v.)
(11)
A CURA DI
SILVANA SILVESTRI
CON ANTONELLO CATACCHIO,
GIULIA D’AGNOLO VALLAN,
MARCO GIUSTI,
GIONA A. NAZZARO, CRISTINA
PICCINO
PALESTINA
FEMMINILE PALESTINESE
SALERNO, TEATRO ANTONIO GHIRELLI, 15 APRILE, ORE 20
TORNANO
LE TARTARUGHE
HANDSOME
UK, 2015, 5’59”, musica: The Vaccines, regia:
Guerson Aguerri, fonte: MTV Hits
1
Si vede il tocco stilistico e
produttivo del collettivo
CANADA in questo video della
band londinese, girato a Brooklyn,
pieno di azione ma soprattutto di
ironia. I quattro membri della band,
trovatosi nel bel mezzo di una rissa in
un locale cinese tra personaggi dal
volto mostruoso (tipo delle tartarughe
ninja), vengono istruiti a dovere per
potersi vendicare alla prima occasione.
Justin Young e compagni, sottoposti a
duri esercizi sul tetto di un palazzo,
avranno naturalmente la meglio sulla
gang rivale. Handsome gioca con i
classici stereotipi del cinema di arti
marziali in modo efficace e divertente,
con qualche misurato effetto speciale. Il
singolo fa parte dell’album English
Graffiti prodotto da David Fridmann.
CENTURIES
Usa, 2014, 4’32”, musica: Fall Out Boy, regia:
Syndrome, fonte: Youtube
7
I membri della band di Chicago
vengono condotti dentro il
Colosseo come gladiatori. Il
violento scontro ha inizio, tra la
polvere, sotto un cielo plumbeo e
minaccioso e il pubblico esaltato. Al
centro c’è lui, il classico invincibile
combattente, anche se i Fall Out Boy
hanno un’arma segreta: delle piccole
pietre dai poteri magici che gli sono
state date prima di entrare nell’arena
da un misterioso personaggio (San
Pietro? Un angelo barbuto? Dio?). Alla
fine avranno la meglio, ma un nuovo
inquietante gladiatore si prepara a
entrare in campo e la storia ricomincia.
Spettacolare clip molto “all’americana”,
in stile neo-peplum digitale, zeppo di
scenografie virtuali ed effetti speciali,
Centuries è intervallato anche da alcuni
tableaux vivants, volutamente kitsch,
con allegorie dei martiri cristiani.
COLLEGE BOY
Francia, 2013, 5’59”, musica: Indochine, regia:
Xavier Dolan, fonte: Youtube
8
Spietato, feroce, altamente
simbolico, ma elegante e
ricercato nella sua perfetta
costruzione (bianco e nero coniugato
all’anomalo formato quadrato del
mascherino), questo clip del giovane
canadese Xavier Dolan (l’attore e
regista di Mommy per intenderci) per
la storica formazione new wave
francese. Le angherie subite da un
collegiale adolescente da parte dei suoi
compagni, fino alla sua violenta
crocefissione, di fronte alla quale non è
difeso ma ulteriormente massacrato
dalle istituzioni. Una cura per ogni
inquadratura, carrellate, contreplongée,
uso inevitabile del ralenti per esaltare
ancora di più la dimensione rarefatta e
onirica di una situazione che non lascia
scampo. Inevitabili i paralleli con la
nouvelle vague e con il free cinema (If
di Lindsay Anderson per tutti), ma
Dolan dimostra comunque – con la sua
vena surrealista non disgiunta da un
realismo brutale – di avere il tocco da
maestro, pur trattando un soggetto
ampiamente abusato.
MAGICO
Terzo appuntamento della rassegna «Femminile Palestinese di storia in storia» a
cura di Maria Rosaria Greco con un appuntamento speciale: Michele Giorgio, il
nostro corrispondente da Gerusalemme incontra il pubblico per un
approfondimento su Gaza nel quadro delle strategie e interessi nella regione, sulle
ultime elezioni legislative israeliane e sulle prospettive di indipendenza dei
palestinesi. Parlerà poi di resistenza popolare al femminile e ricorderà la figura
dell'attivista italiano Vittorio Arrigoni a 4 anni dalla sua uccisione. Nel 2010 Michele
Giorgio ha fondato l’Agenzia di Stampa Vicino Oriente (Nena News,
www.nena-news.it). È autore di Nel Baratro: i Palestinesi, l’occupazione israeliana, il
Muro, il sequestro Arrigoni. Edizioni Alegre, 2012. Con lui dialogano Pietro Falco,
giornalista, e Maria Rosaria Greco. Segue un reading dedicato a Vittorio Arrigoni nel
quarto anniversario della sua uccisione con lettura di alcuni articoli e brani a cura
delle attiviste Rosa Schiano e Sara Cimmino. Intervento musicale a cura di Maria
Cristina Galasso, voce e Romano Michelacci, chitarra: «Naci en Palestina». La
rassegna è promossa dalla Fondazione Salerno Contemporanea, dal Comune di
Salerno, dall’Università di Salerno e fa parte della campagna nazionale per la
Palestina che l’Associazione Cultura è Libertà ha lanciato a Roma nel dicembre
2013. Cena palestinese a buffet, a cura di Omar Suleiman - Ristorante arabo Amir,
presso la Fornace del Teatro Antonio Ghirelli, info: facebook Femminile palestinese
IL DOCUMENTARIO
LE COSE BELLE
ROMA, CINEMA NUOVO SACHER (LARGO
ASCIANGHI 1), 12 APRILE
Napoli, 1999, una città in grande
fermento. All'abituale vivacità sembra
essersi aggiunta finalmente una speranza
per il futuro. E lì, in quel momento,
Agostino Ferrente e Giovanni Piperno
stanno realizzando Lettera a mia madre,
un documentario per Raitre. Magnifiche
figure materne, osservate attraverso i
figli. Si parla, si balla, si sogna, si spera.
Un mondo pervaso da canzoni
neomelodiche e da aspettative. Sono
passati poco più di dieci anni, è
cambiato il millennio, è cambiata la città sono cambiate le aspettative. Ferrente e
Piperno sono andati di nuovo a cercare quei quattro ragazzini intervistati, ora
giovani adulti. La disoccupazione, soprattutto giovanile, morde come un cancro una
società togliendo ogni energia, la città è come sprofondata nelle viscere di quella
Napoli sotterranea speculare a quella di superficie, ma dove la luce non potrà mai
arrivare. I nostri quattro giovani fanno parte di un'intera generazione cui è stato
sottratto il futuro. Film importante per quanto doloroso, perché significa guardare
in faccia la realtà di una città e di un paese incapaci di trovare qualsiasi prospettiva
nonostante le sue infinite risorse di creatività, intelligenza, talento. (a.ca.)
LA SATIRA
IL NUOVO MALE N.23
E FRIGIDAIRE, PER TUTTO IL MESE DI APRILE
In edicola Il nuovo Male n.23 di aprile
e, nell’interno, l’edizione straordinaria
di Frigidaire n.252 e la presentazione
della mostra dell’Arte Maivista di
Frigidaire che si inaugura l’11 aprile a
Piacenza con invenzioni grafiche della
rivista dall’80 ad oggi. Il mensile
indipendente di satira e idee diretto
da Vincenzo Sparagna, coordinato e
impaginato da Maila Navarra, propone
l’editoriale di Tersite dal titolo «Molti
Caino, troppi Abele», nell’interno
vignette di Giuliano, Ugo Delucchi,
Bicio Fabbri, Cecigian, Frago, Paolo Marengo, Giuseppe Del Buono, Pietro
Vanessi, Antonio Vinci, Massimo Bandini. Tra i fumetti: si conclude il viaggio
fantascientifico di «Survival» disegnato da Maurizio Ercole, l’operaio Nicola di
Marco Pinna e Carlo Gubitosa, Giorgio Franzaroli racconta in «Relatività» il
demansionamento di un impiegato. Due i racconti: «Gli incappucciati» di
Walter de Stradis accompagnato da una illustrazione di Giulio Laurenzi e «Lupo
al forno», nuovo fantahorror di Guido Giacomo Gattai con un disegno di
Gianni Cossu. Un articolo dell’Arcidiavolo Gabriele si occupa di «Matteo
Salvini, solo e male accompagnato». info: www.frigolandia.eu
LA MOSTRA
ARMATA INNOCENZA
MOSTRA DI FRANCO CENCI,
INTERNO 14, VIA CARLO ALBERTO 63, ROMA
Presso Interno 14 di Roma, lo spazio
dell’Aiac, si aprirà giovedì la mostra dal
titolo «Armata Innocenza» di Franco
Cenci, a cura di Manuela De Leonardis
(vernissage il16 aprile, ore 18.30,
visitabile poi fino al 25 aprile, su
appuntamento). Una pinacoteca che
presenta bambini con armi giocattolo:
non piccoli soldati col fucile, ma ironici
ex voto dell’infanzia che imbracciano
cucchiai, stampelle, scope e vasi da fiori.
Immagini in cui si improvvisa un luogo
del fiabesco e si incontrano ambigui folletti. A testimoniare la discesa di
quell’esercito di irregolari sognatori c’è un cuore dai fili espansi, tessuto. «Un cuore
che unisce, cuce e rimanda a sentimenti innocenti. Un universo parallelo a quello
degli adulti, il mondo dell’infanzia e della preadolescenza di cui Franco Cenci trova
l’essenza in quel cuore ricamato. A generare il ritmo di ’Armata Innocenza’ non
possono che essere pulsazioni. L’idea delle pulsazioni in quanto espansioni ritmiche
delle arterie può essere utile, quanto quella della frequenza temporale, come ideale
metafora di questo viaggio», scrive la curatrice. Dieci anni di indagini sul tema,
nutriti dall’amore per «Les Enfants Terribles» di Cocteau, ma anche per «I ragazzi
della via Paal», con fotografie, disegni, installazioni, video e molti ricordi.
(12)
ALIAS
11 APRILE 2015
NEW YORK  30 ANNI FA NASCEVA UNA DELLE SCENE PIÙ ESALTANTI
Il jazz dentro Downtown
Tra mini arpe e i ritmi
estremi della fusion
di GUIDO MICHELONE
Esattamente trent'anni fa il
sassofonista John Zorn, all'epoca
trentaduenne, con un decennale
passato di sperimentatore
radicale, inizia le registrazioni di
The Big Gundown, un album
tributo alle colonne sonore di
Ennio Morricone, con riletture
ultra-avanguardiste, che subito
riceve stroncature pesanti e al
contempo apprezzamenti
spassionati, imprimendo
comunque una svolta epocale alla
musica statunitense, perché fa
«ufficialmente» conoscere a livello
internazionale la Downtown
Scene newyorkese, fino ad allora
relegata a circuiti minoritari e
nicchie alternative. Ma cos'è
precisamente la Downtown
Scene? Per dirlo occorre una breve
premessa teorico-linguistica,
benché, all'epoca, l'espressione
non venga ancora usata né dal
pubblico né da studiosi o cronisti.
In tal senso è abbastanza facile
rilevare come nel vocabolario
delle musiche urbane dal 1900 a
oggi la critica lanci spesso
espressioni o etichette, il cui
destino può essere l'imperituro
successo - il termine r'n'r, rock
and roll, coniato dal dj Alan Freed
per lanciare cantanti di rhythm
and blues in radio - o al contrario
il dimenticatoio o il travisamento
a causa di modifiche di senso in
prospettiva storico-critica. Sotto
quest'ultimo aspetto l'elenco
sarebbe lunghissimo, ad esempio
la jungle music «inventata» da
Duke Ellington negli anni Venti,
oggi indica un settore della
techno; oppure
underground che, sul
finire dei Sixties, è
sinonimo di rock
alternativo
(sotterraneo,
appunto), mentre
oggi si riferisce a un
sottogenere da
discoteca. Un destino
analogo succede ora
all'uso gergale di
Downtown Scene
(letteralmente scena del
centrocittà) che viene impiegato
un po’ come una retrospettiva, dai
giornalisti statunitensi a indicare
via via il punk newyorkese, la
successiva new wave e le
tendenze più o meno giovanili
che dagli anni Ottanta/Novanta a
oggi ambiscono a un ruolo di
ricerca, di rottura, di reinvenzione
dell'immaginario contemporaneo,
talvolta in stretto connubio con
altri linguaggi performativi (qui ad
esempio cinema, video, fotografia,
danza, pittura, spray art).
Come ogni scuola, tendenza,
manifestazione artistica, anche la
Downtown Scene nella Grande
Mela ha simbolici protagonisti,
identificabili con persone fisiche,
opere riconosciute, locali notturni,
case discografiche; per iniziare da
un caso emblematico è proprio la
musica di John Zorn in quella
seconda metà degli anni Ottanta a
spopolare. Il biondo altista
dall'aria un po' nerd un po'
fricchettona infatti registra non
solo The Big Gundown ma gli
altrettanto influenti Spy vs Spy e
Spillane, fonda il gruppo Cobra (al
cui interno ruotano una ventina di
celebri improvvisatori), si esibisce
regolarmente alla Knitting Factory
(aperta tra il 1987 e il 1995 al 47 di
Houston Street), inizia a comporre
i primi «Filmworks», debutta con
la neonata Elektra Nonesuch
(fusione di due label poi acquisite
dalla Warner, non a caso nel
momento della creazione della
propria Tzadik, quale
indipendente). È Zorn dunque a
rappresentare al meglio la
Downtown Scene in cui, allora
come oggi, il jazz si apre al rock
(persino grindcore e death metal)
e alla contemporanea
(minimalismo e noise music), in
un coloratissimo ventaglio di
situazioni inventive, che sono
difficilmente riassumibili nella
loro complessità. A partite dal
John Zorn incide
«The Big Gundown»
nel 1985 e avvia
un sincretismo
musicale che tiene
dentro rock,
contemponea
e visioni
sperimentali
1985 seguono simbolicamente le
orme artistiche di Zorn, in una
sorta di originalissimo avant-jazz,
almeno tre chitarristi americani
nella Dowtown Scene: Elliott
Sharp viene notato per
l'attenzione a sperimentare, con
sempre nuove tecniche esecutive
in ogni suo album, mentre le
composizioni sono un esempio di
sintesi, dissonanza, ripetitività e
improvvisazione sui quattro assi
cardine di jazz, classica, rock,
avanguardia; il funambolico
Eugene Chadbourne mescola
ingredienti di free jazz con aromi
di musica bianca di origine rurale;
Henry Kaiser invece raccoglie
l'influenza di Derek Bailey e di
Captain Beefheart per creare un
sound connotato da
improvvisazioni atonali e caratteri
psichedelici, sino a progettare,
assieme al trombettista Wadada
Leo Smith (già caposcuola della
creative music nera), il gruppo Yo
Miles! dedito a radicalizzare
ulteriormente le suite del Miles
Davis più electro funk, rifacendo
interamente alcuni storici album
doppi del trombettista.
Nella Downtown agiscono
anche molti artisti stranieri:
parlando ancora di chitarre
elettriche, dal 1979 è a New York,
da Londra, Fred Frith, già leader
del gruppo prog Henry Cow, ora
attento a scandagliare un nuovo
rumorismo. Per contro l'irlandese
Christy Doran porta il proprio
quartetto New Bag verso un jazz
rock astratto. Anche il
violoncellista Tom Cora,
prematuramente scomparso, è
responsabile di una serie di opere
fortemente sperimentali in cui lo
strumento adotta tempi e funzioni
della chitarra (come pure delle
percussioni). Nell’avant jazz il
contributo numericamente
maggiore resta ancora a stelle e
strisce: il trombettista Lesli
Dalaba contribuisce al
rinnovamento linguistico del
proprio strumento, con un mood
che trasforma liricamente i brani
più cerebrali. Il batterista Joey
Baron debutta con un trio di
musica imprevedibile assieme a
Bill Laswell e Ellery Eskelin. Il
Microscopic Septet è un gruppo
creativo che scioglie influenze
free, prog rock e rhythm and blues
con elementi circensi, un po'
come Frank Zappa faceva anni
prima.
Già a fine anni Novanta, c'è
un’ennesima rivoluzione sulla
Downtown Scene che si muove
piuttosto tra post jazz e hyper
fusion e che artisticamente
riguarda sia il tipo di materiali
ALIAS
11 APRILE 2015
RUBEI, AUF WIEDERSEHEN
di LUIGI ONORI
È scomparso a Roma il 2 aprile scorso Giampiero Rubei,
inventore e animatore, a Roma, del club Alexanderplatz
e del festival di Villa Celimontana «Jazz & Image». Aveva
75 anni ed era stato ricoverato in ospedale a metà
marzo. I funerali si sono svolti il 4 aprile a S. Maria
Regina Pacis, quartiere Monteverde, alla presenza di
molti jazzisti tra cui Marcello Rosa, Ada Montellanico,
Stefano Di Battista, Gegè Munari. Rubei è stato anche
sonori sia le tecniche per
improvvisare. Vanno anzitutto
citati quattro personaggi. In tal
senso il pluristrumentista Ned
Rothenberg è in prima linea con
una nuova generazione di
improvvisatori avanzati, usando
spesso differenti tipologie di ancia
per una lunga serie di lavori
influenti nell’immediato futuro.
Sam Bennett presenta opere in
cui la sua batteria è l'unico
strumento anche se integrato con
l'elettronica spinta. Il trombonista
Jim Staley sperimenta con diverse
formazioni, mentre il sassofonista
Marty Fogel lavora fondendo
1985-2015, I CLUB
E I LUOGHI DA VISITARE
Chandelier 120 Ave. C
C.U.A.N.D.O. community center
Houston St. & 2nd Ave.
Inroads 150 Mercer St.
Life Café 343 E. 10th St.
Neither/Nor 73. E. 6th St.
P.S. 122 First Avenue & 9th St.
Roulette 228 West Broadway
Studio Henry 1 Morton St.
The Kitchen 59 Wooster St.
The Saint 206 E. 7th St.
suoni postmoderni assai
eterogenei. Ciò che si ascolta tra
post jazz e hyper fusion è un
campo vasto e multicolore in cui,
come nel decennio precedente,
scorrazzano altre sei figure
rilevanti, a partire da Tom Varner,
virtuoso del corno francese, il
quale si erge compositore tra i più
originali della propria
generazione, mentre il
fisarmonicista Guy Klucevsek
offre un interessante contributo
alla testa di versatili formazioni. Il
bassista Marc Johnson, che lavora
con Frisell e Scofield, sottolinea
ulteriormente il linguaggio
sincretista, mentre David Torn
viene a colmare il divario che
esiste nel mondo della chitarra tra
Jimi Hendrix e Sonny Sharrock.
Notevoli sono pure da un lato
l’arte di violoncellista di Hank
Roberts a incorporare elementi di
free, soul, blues o musica classica
e dall’altro quella di Mike Shrieve
(ex batterista di Santana) con
elementi onirici basati su suoni
percussivi.
E si deve continuare a discutere
sempre e ancora di Downtown
Scene intendendo altresì il sound
newyorkese che magari non
rientra direttamente nell’avant
jazz, nel post-jazz o nell’hyper
fusion, ma che rifiuta ogni
filologico revivalismo alla Wynton
Marsalis, ma che assapora di
continuo la voglia di
sperimentare, fino a guardare
oltre gli steccati intellettuali: sono
Downtown Scene, in tal modo, ad
esempio Jim O'Rourke, Jamie Saft,
Christian Howes o la
versatilissima violinista Regina
Carter, ultimamente approdata a
rivisitare il country bianco.
Se ancora ci si accosta a un jazz
impegnato e oltranzista, allora la
Downtown Scene è degnamente
simboleggiata da Zeena Parkins
che è la prima arpista a introdurre
uno strumento in apparenza poco
consono nel contesto
dell'improvvisazione creativa in
un suono poi seguito da molti
altri, mentre lei continua a
esplorare i contatti fra camerismo,
improvvisazione e elettronica. Il
flautista Robert Dick svolge un
lavoro parallelo con lo strumento
in differenti situazioni espressive,
come fa anche ad esempio il
trombonista Peter Zummo. Su
versanti scoscesi agiscono poi altri
quattro originali performer: da un
lato il trombettista Toshinori
Kondo a investigare i rapporti fra
strumenti ed elettronica; e
dall'altro il chitarrista Alan Licht
direttore della Casa del Jazz dal 2011 al 2013 e di
recente era stato chiamato a far parte del Comitato di
gestione della struttura. L’Alexanderplatz, la sua prima
creatura, è stata a lungo l’epicentro della scena jazzistica
romana e non solo, prima che iniziasse l’attività del
Parco della Musica. Nel locale di via Ostia (firme e
dediche alle pareti lo testimoniano ancora) hanno
trovato spazio numerosi jazzisti stranieri (da Michel
Petrucciani a Joe Lovano) e italiani (da Enrico Pieranunzi
a Rosario Giuliani), progetti, debutti. Oltre a ciò Rubei è
stato motore di tante iniziative tra cui la serie di recital
FUORI I DISCHI
Joey Baron Tongue in Groove
(1991)
Don Byron No-Vibe Zone: Live at
the Knitting Factory (1996)
Uri Caine Sphere Music (1992)
Regina Carter Southern Comfort
(2014)
Robert Dick Irrefragable Dreams
(1994)
Dave Douglas & Uri Caine Present
Joys (2014)
Joe Lovano & Dave Douglas
Soundprints (2014)
Marty Fogel Many Bobbing Head
at Once (1989)
Bill Frisell, Marc Ribot, Tim Sparks
Masada Guitars (2003)
Vijay Iyer & Rudresh Mahanthappa,
Raw Materials (2006)
Toshinori Kondo Panta Rhei-An
Alchaic Comedy In Chaos (1993)
Alan Licht Well (2000)
Denman Maroney Hyperpiano
(1998)
Masada First Live 1993 (2002)
Zeena Parkins Something Out
There (1987)
Ivo Perelman Cama de terra (1996)
Ted Rothenberg's Sync with
Strings Inner Diaspora (2007)
Matthew Shipp Nu-bop (2000)
John Zorn Simulacrum (2015)
Peter Zummo Experimenting with
Household Chemicals (1991)
A sinistra Dewa Bujana, Eugene
Chadbourne e le sue ferraglie, sopra John
Zorn, Tom Cora al violoncello, Jason Kao
Hwang al violino, Joey Baron alla
batteria.
Qui accanto Regina Carter, a destra un
pensieroso Elliott Sharp, David Krakauer
al clarinetto, Henry Kaiser alla chitarra
e Susie Ibarra
(13)
Jazz italiano a New York (nella Big Apple) e la raccolta di
fondi nel 2005 per la ricostruzione del Museo della
Storia del Jazz di New Orleans, dopo Katrina. Dagli anni
Ottanta si era dedicato all’organizzazione concertistica
mentre nei secondi Settanta - da «rautiano atipico»,
come è stato definito, affascinato da Julius Evola - fu
l’organizzatore del primo Campo Hobbit per il Fronte
della Gioventù. Nel jazz, secondo la sua concezione,
c’era il «messaggio adrenalico del Novecento». Ritmo
futurista e popolare, note per restare «in piedi tra le
rovine» (Secolo d’Italia, 2/4/’15, articolo di A. Terranova).
lavora con suoni maggiormente
psycho-anarchici tra dada e
radical. Sul piano del solismo,
tanto Denman Maroney
introduce nuovi concetti
pianistici, quanto il brasiliano Ivo
Perelman, tenorista stabilitosi a
New York, tributa duri omaggi alle
proprie radici, incrociando Heitor
Villa-Lobos e Albert Ayler.
E proprio partendo dai sodalizi
con Zorn, vale inoltre la pena di
ricordare l'escalation fra i grandi
del jazz di almeno tre solisti già
attivi negli anni Novanta ma che
nel XXI secolo diventano simboli
della Downtown Scene a tutto
tondo: Uri Caine, pianista di
formazione classica, esplora le
sinergie tra melodismo colto e le
dissonanze free jazz, non senza
richiami talvolta al soul e alla dj
culture; alla tromba Dave
Douglas, già con John e nel 2015
con Joe Lovano in uno splendido
album, vanta invece una prolifica
carriera suonando un mix
personalissimo di hard bop, new
thing e rimandi classici; Tim
Berne, sax alto, collega un
fraseggio nevrotico con questioni
dove i confini tra composizione e
improvvisazione restano labili.
Alla fine del XX secolo, l'eredità
del free jazz è ancora molto
avvertibile nella comunità nera
degli improvvisatori ancora una
volta ascrivibili alla Downtown
Scene poiché, nella Big Apple, ad
esempio David S. Ware,
sassofonista di scuola coltraniana,
dopo la gavetta con Cecil Taylor e
Andrew Cyrille prosegue una
carriera da solista che si estende
per decenni facendone uno dei
solisti più significativi del recente
movimento free collegabile a un
sound futuristico. Craig Harris,
irriverente al trombone, risulta
anch'egli una figura importante
così come il pianista Matthew
Shipp, che, attraverso una lunga
serie di album che appaiono nel
corso degli anni, flirta anche con
l'hip hop. Sulle loro tracce, ci sono
inoltre le conferme di Don Byron
nonché di Roy Nathanson e Curtis
Fowlkes (entrambi già nei Jazz
Passengers) e il successo del
gruppo B Sharp Jazz Quartet
proteso tra hard bop e free jazz.
La Downtown Scene negli anni
Duemila è persino in grado di
assorbire e rielaborare culture
musicali eterogenee anche a
partire da gruppi etnici o religiosi
fortemente connotati. Si tratta,
anche qui, di un sound
modernissimamente jazzistico,
che si estrinseca anzitutto nella
cosiddetta «radical jewish
culture», la quale è una realtà
vasta e polimorfa, che si
riconduce in primis alla musica
klezmer così come si evolve lungo
il Novecento in America. Ma la
nuova musica ebraica si gira verso
le contaminazioni, le fusioni, le
sovrapposizioni del nuovo e del
vecchio klez con scelte appunto
più rivoluzionarie e massimaliste,
purché facciano parte di una
cultura ebraica (più laica-civile
che mistico-religiosa) abbracciata
dunque da musicisti eterogenei a
partire dal «solito» Zorn. Circa
dieci anni fa, infatti, John da un
lato crea il quartetto Masada con
Dave Douglas, Greg Cohen, Joey
Baron, dall’altro fonda l’etichetta
Tzadik per lanciare la «cultura
ebraica radicale»: per essa
registrano almeno un album a
testa jazzisti come Jack
DeJohnette, Steve Coleman, Cyro
Baptista, Erik Friedlander, Julius
Hemphill, il trio Martin Medeski &
Wood, gli inglesi Evan Parker e
Tony Oxley e l’italiano Gabriele
Cohen. Oltre Tzadik, la radical
jewish culture della Downtown
Scene è lungamente
rappresentata, da David Kracauer
a Frank London, da Anthony
Coleman a Ben Goldberg, dai
Klezmatics a Andy Statman, oltre
lo stesso Byron nel fenomenale
tributo a Mickey Katz. Già dal
2000 si parla inoltre di
asian-american jazz, perché nella
Downtown Scene i vari Jason Kao
Hwang, Jon Jang e Fred Ho
(Cina), Ikue Mori (Giappone),
Rusesh Mahharappa e Vijay Iyer
(India), Susie Ibarra (Filippine)
conoscono assai bene i linguaggi
improvvisativi occidentali e al
contempo vanno a fondo dei
legami con le culture delle loro
origini, fra visuali inedite e
concetti innovativi.
Con loro, come già visto, l'idea
binaria nero/bianco nella musica
americana è ormai fuorviante,
visto che un sempre maggior
numero di asiatici di passaporto
americano offre un contributo
importante all'evoluzione
jazzistica medesima. Ancora e
sempre dalla Downtown Scene
grazie a una label coraggiosa - la
Moonjune di Leo Pavkovic giunge la scoperta di una scena
fusion in Indonesia con chitarristi
di talento come Jeff Arwadi, Tesla
Manaf, Tohpati, Dewa Budjana,
Balawan - oltre Indra Lesmana
(pianoforte), Windy Setiadi
(fisarmonica), Ika Ratih Poespa e
Sierra Soetedjo (entrambe
cantanti) - spesso registrati a
Giacarta oppure chiamati a
suonare in America: frequenti le
influenze, più o meno esplicitate,
dei gamelan balinesi o di altre
variegate sonorità di Giava o
Sumatra.
Non manca tuttavia, proprio in
anni recenti, una risposta
indirettamente polemica nei
confronti della Dowtown Scene: a
New York, presso il Birdland Jazz
Club, il 5 gennaio 2012 si tiene la
prima conferenza organizzata dal
movimento denominato BAM
(Black American Music), nato
dall'idea di alcuni musicisti di
punta della scena mainstream
(Nicholas Payton, Gary Bartz,
Orrin Evans, Marcus Strickland,
Ben Wolfe) che vorrebbe tutelare i
canoni tipici della musica nera
improvvisata (e non)
rafforzandone un'identità che, a
detta loro, sempre più spesso si
disperde attraverso operazioni
commerciali. Payton e compagni
non vogliono rinnegare o
sminuire altre musiche oggi
annoverate sotto il termine «jazz»,
piuttosto cercare un altro termine
che possa racchiudere la musica
nera, la Black American Music,
appunto e per loro Bam è la
proposta che da allora a oggi
ottiene un buon riscontro fra
pubblico e critica.
Ma la querelle con la
Downtown Scene estremista
(avant jazz e dintorni) è forse solo
un falso problema: non a caso il
movimento Bam vanta l’inizio
ufficiale proprio nel mitico
Birdland - il locale patria di tutto il
modern jazz dal dopoguerra a
oggi - dove si ritrovano per
l’occasione molti altri musicisti,
nonché intellettuali, reporter,
appassionati e operatori del
settore. Gli adepti Bam sono pure
animati da un profondo senso di
appartenenza a un preciso ambito
socioculturale e da un orgoglio
etnico molto forte, benché,
artisticamente, si rispecchino
nell’amore incondizionato verso il
jazz nero degli anni Cinquanta (lo
stile degli ellepì Blue Note, per
intendersi), nel periodo in cui
esiste una forte contrapposizione
fra bianchi e neri, tra il languido
redditizio cool jazz e il nuovo
pimpante hard bop
afroamericano; ma sarà proprio
quest’ultimo il retroterra
necessario per ulteriori sviluppi
avanguardistici (il free jazz in
primis) che a loro volta
coinvolgeranno musicisti europei
in ottica sovversiva, democratica e
internazionalista, anticipando la
crescente realtà musicale
multietnica, di cui la Downtown
Scene, con o senza Bam, è ancor
oggi l’espressione più compiuta e
lungimirante.
(14)
ALIAS
11 APRILE 2015
RITMI
ELITA FESTIVAL
di LAURA SARTI
Dal 14 al 19 aprile Milano ospiterà la
Design Week, che da tempo ha
superato il concetto di semplice «fiera
di settore», diventando un
appuntamento con la cultura che
coinvolge l'intero tessuto
metropolitano. L'offerta è ricca, tra
cui l'Elita Design Festival, evento
ufficiale del Fuorisalone arrivato
quest'anno alla decima edizione. Live
dj set, showcase, performance, ma
anche workshop di approfondimento
sul tema del networking, del sound
design, dell'editoria musicale e della
discografia. Il tema dell'edizione 2015
è #borderless, «senza confini»: la
line-up internazionale è più che mai
caratterizzata da contaminazioni di
ogni tipo, a dimostrare quanto i
di LUCIANO DEL SETTE
LE FOTO
ASTI
Gig è una parola inglese con
qualche difficoltà di traduzione
nella nostra lingua. Concerto
sarebbe troppo per bene. Meglio
«serata», «ingaggio». Gig, slang
musicale, venne coniata nel
mondo del jazz degli anni Venti
del Novecento. Con un salto
temporale, la sentiamo rimbalzare
a Dublino, è il 1978, in un paese
stagnante, prigioniero di una crisi
economica che ha reso ricordo
lontanissimo il boom
spendaccione del 1960. All’epoca
felice dei Sixties appartengono
giovani artisti e scrittori come Bill
Graham. Fermamente decisi a
reinventare la creatività irlandese,
facendola circolare dentro luoghi
che, fisicamente e mentalmente,
prendano accurate distanze da
quelli in cui si dà appuntamento il
Pensiero ufficiale e mondano
dell’intellighenzia. Bill fa il
giornalista, ed è tra i fondatori di
Hot Press, magazine dedicato al
rock. Secondo lui, e non solo, la
musica deve giocare un ruolo di
primo piano nella nuova
creatività, esprimendosi in spazi
come quelli del Project Arts
Centre, fabbrica dismessa dove
sono presenze abituali lo scrittore
Mannix Flynn, gli attori Gabriel
Byrne, Liam Neeson, Colm
Meaney, e con loro artisti visuali e
performer. Oppure contribuendo
a restituire vita a una dimensione
urbana vuota e desolata, che
rinasce ogni fine settimana nel
Dandelion Market. Ulteriori
luoghi si aggiungeranno
all’elenco: McGonagle’s, in South
Anne Street; il Granary
Bar e The Buttery; lo
Stardust, nel quartiere di
Artane, distrutto da un
incendio all’alba di San
Valentino del 1981. In un
altro quartiere, Ballymun,
periferia nord di Dublino,
soprannominato il Bronx
irlandese, era comparso, il
25 settembre 1976, un
annuncio affisso sulla
bacheca della Mount
Temple School. Il
giovanissimo alunno e
batterista Larry Mullen
cercava coetanei per
formare una band.
Risposero in otto, rimasero
in tre: David Evans (The
Edge), chitarra; Adam
Clayton, basso; Paul David
Hewson, voce. Paul si portava
dietro un nomignolo, Bono Vox,
assegnatogli da Fionan Hanvey,
amico e compagno della Lypton
Village, gang di adolescenti ribelli
che nel Bellymun scorrazzava
senza far gravi danni. Paul/Bono
cantava discretamente, ma
soprattutto si intuiva in lui la
capacità di essere protagonista sul
palco e trascinatore di pubblico.
Durante un’intervista di alcuni
anni dopo, Larry ricorderà «...È
stata la band di Larry Mullen per
circa dieci minuti, poi è comparso
Bono e ogni possibilità che fossi io
il leader è sfumata». Con il nome
di Feedback, la band si esibisce
nel suo gig di esordio (cover di
confini della musica elettronica siano
sempre più evanescenti. In scena, tutti
rigorosamente live, tanti big della club
culture che hanno saputo rinnovarsi e
rinnovare: i pionieri Ryoji Ikeda, Gilles
Peterson, Benny Benassi, Henrik
Schwarz e Cerrone, assieme a giovani
talenti come il berlinese Dixon, Guy
Boratto, Enroll aka Rame, Mecna dal
mondo dell'hip hop, Kate Tempest,
Yakamoto Kotzuga, Youarehere,
U2 1978-1991, Photographs by Patrick
Brockebank’ è ospitata a Palazzo
Ottolenghi, corso Alfieri 350, Asti, fino al 4
maggio. Informazioni 0141/399050.
Organizzatori per l’Italia le Officine Carabà
e Libellula Press, come anticipazione del
prossimo FuoriLuogo Festival, San
Damiano d’Asti, dal 25 al 28 giugno. Una
sala della mostra è dedicata a memorabilia
delle tournée degli U2. Completano la
piccola esposizione alcuni video. (l.d.s.)
Peter Frampton, dei Rolling, di
Bowie) alla Temple School, 1977.
Secondo gig e secondo nome, The
Hype, in una discoteca di Sutton.
Paul/Bono, carattere difficile,
viene espulso dalla scuola, e allora
diventa colui che va a cercare
date, ascolta musica in grado di
far crescere il gruppo, matura
l’idea che siano The Hype a
scrivere i loro pezzi. Quando, nel
settembre 1978, si presentano in
qualità di supporter degli
Stranglers, a Dunlagohaire, lo
fanno con il terzo e definitivo
nome, U2, forse suggerito loro dal
cantante dei Radiators Steve
Averill pensando all’aereo spia
MITI  GLI ESORDI DELLA BAND IRLANDESE
Gli U2 sopra
Dublino.
Ecco la mostra
americano abbattuto in Unione
Sovietica il 6 maggio 1960. Bono e
compagni arrivano entusiasti della
scena punk di quegli anni, ma la
serata si rivela un disastro.
Chiamati all’ultimo momento,
non possono fare il sound check;
le corde della chitarra di Evans
saltano per aria quasi subito; il
pubblico, punk duri e puri, si
mette a lanciare loro sigarette e
sputi. Le cose iniziano a cambiare
quando gli U2 vincono una gara
allo Stella di Limerick. Il premio
consiste in 500 sterline e nella
produzione di un demo con
l’etichetta Cbs Ireland. Il
compenso se ne va tra servizi
fotografici e vestiti di scena.
Dietro queste scelte, con ogni
probabilità, c’è già lo sguardo
lungo di Bono. Al Project Arts
Centre, dove un altro gruppo
molto interessante, i Virgin
Prunes, si esibisce abitualmente,
gli U2 incontrano Bill Graham
insieme a Paul McGuinnes. Bill
vuole che Paul ne diventi il
manager. Sulla band si punta
l’obiettivo della macchina
fotografica di Patrick Brocklebank,
collaboratore di Hot Press, In
Dublin e del Sunday Tribune. Il 18
settembre, Patrick mette bianco
su nero il gig e il duetto di Bono
Asti ospita fino
al 4 maggio,
i primi anni
della carriera
di Bono Vox
e compagni
attraverso
gli scatti di Patrick
Brocklebank
alle bevande servite. Ecco, allora, i
volti di Paul McGuinness,
manager fino al 2014, anno di
uscita del disco Songs of Innocence;
dell’enigmatica Elsie, definizione
dello stesso Brocklebank, sempre
al seguito degli U2 e dei Prunes; di
Philip Byrne, cantante dei
Revolver; di Bill Graham in uno
scatto collettivo alla Rowen House,
affittata per organizzare party e
custodire le attrezzature. Vanità,
vezzi, senso dell’umorismo, idee
tanto più brillanti perché venute
all’improvviso ai suoi committenti,
caratterizzano i lavori di Patrick
dentro e dietro la scena del Dark
Space Punk Festival, del Dandelion
Market, del The Buttery. Adam
Clayton sfoggia al Project un paio
di pantaloni leopardati, in vendita
nel negozio No Romance delle
sorelle Mylett, Susan e Regina,
quest’ultima ancora oggi
collaboratrice degli U2; Bono
mostra i piedi inguantati dentro un
paio di stivaletti, i Bono Boots, dal
tacco decisamente troppo alto per
un uomo; i quattro impugnano
armi (finte), prese da una stanza
deposito del Project; tentano di
sradicare un paio di estintori da
una parete del Trinity College;
davanti a un muro dipinto da
Robert Ballagh, Bono fa avances
poco eleganti alla figura di una donna vista di spalle. C’è
spazio anche per la cronaca, ad esempio nella foto del
pubblico all’interno di un ambiente spoglio e disadorno del
Dandelion; nei due scatti di The Edge e Larry mentre
escono solitari dal McGonagle’s all’alba; nell’incontro a un
tavolino del Granary Bar con McGuinness per discutere il
primo contratto. Intensi e spiazzanti al pari delle foto nella
diversità del linguaggio, furono i due album usciti nel
triennio: Boy, 20 ottobre 1980, filo conduttore il cammino
verso l’età adulta; October, 12 ottobre 1981, riflesso di un
periodo di crisi della band dovuto all’adesione di Bono e
The Edge alla setta religiosa Shalom Bible Group. Il 5
giugno 1983 vedrà la pubblicazione di War e il trionfo
planetario di Sunday Bloody Sunday. Ma questa è un’altra
storia, questi sono e saranno altri U2.
con Gavin Friday dei Prunes. Da lì
nasce un rapporto testimoniato in
centinaia di scatti che
documentano gli U2 sul palco,
oppure protagonisti di servizi
destinati ai giornali e alla
promozione. Parte di questo
materiale è divenuto una mostra,
U2 1978-1981, approdata da
Dublino e Cleveland ad Asti,
Palazzo Ottolenghi. Quei tre anni,
scrive il fotografo
nell’introduzione al catalogo della
mostra, videro gli U2 «...diventare
veri musicisti, scrivere i loro brani;
sviluppare il potere di comunicare
ai loro fan un entusiasmo
contagioso». Va detto subito che il
valore delle immagini non risiede
soltanto nella rappresentazione
visiva della forza, del talento
scenico, della personalità di Bono
e soci. A ciò si unisce, come
annota John Stephenson, allora
direttore del Project, la capacità
«...di esprimere l’energia di quel
periodo: insolente, ricca di
improvvisazione, fiduciosa in se
stessa». Se, infatti, gli U2, i Virgin
Prunes, i Boomtown Rats, i Thin
Lizzy sono i soggetti principe,
attorno a loro, o all’interno di altri
contesti che non siano
strettamente musicali, gravitano
personaggi importanti, «narratori»
di un’epoca cui calzava
perfettamente l’aggettivo «filthy»,
sporco, riferito alle condizioni
igieniche di certi locali; o i termini
«vinaccio» e «ignobile sidro» rivolti
ON THE ROAD
Godspeed You! Black
Emperor
Torna in Italia una delle più influenti
band del panorama indie rock
internazionale.
Bologna SABATO 11 APRILE (ESTRAGON)
Soak
La giovanissima cantante e autrice di
Belfast. Sulle orme di Cat Power e
Laura Marling.
San Costanzo (Pu) SABATO
11 APRILE (TEATRO DELLA CONCORDIA)
The KVB
Il drone rock del duo inglese.
Forlì MERCOLEDI' 15 APRILE (DIAGONAL)
Milano GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO
FRANCO PARENTI-ELITA)
Perugia VENERDI' 17 APRILE (URBAN)
Firenze SABATO 18 APRILE (TENDER)
Jethro Tull's Ian
Anderson
Il leader della storica band britannica
in tour per presentare il meglio della
sua produzione ultraquarantennale e
il suo lavoro solista, Homo Erraticus.
Padova GIOVEDI' 16 APRILE (GRAN TEATRO
GEOX)
Milano VENERDI' 17 APRILE (GRAN TEATRO
rock portoghese.
Roma GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO
QUIRINETTA)
Firenze SABATO 18 APRILE (FLOG)
Dry the River
Una sola data per la giovane indie folk
rock band inglese.
Milano MARTEDI' 14 APRILE (BIKO)
Mike Stern
L’artista di Boston è unanimemente
riconosciuto come uno dei migliori
chitarristi sulla scena.
Milano SABATO 11 APRILE (BLUE NOTE)
Kate Tempest
Per la prima volta in Italia la poetessa
e rapper inglese.
Milano VENERDI' 17 APRILE (TEATRO
FRANCO PARENTI-ELITA)
Roma SABATO 18 APRILE (TEATRO
QUIRINETTA)
The Once
Il trio folk canadese torna in Italia a
distanza di pochi mesi.
Bologna SABATO 18 APRILE (COVO)
Cody Chesnutt
LINEAR4CIAK)
Cesena (Fc) SABATO 18 APRILE (NUOVO
Uno dei più interessanti interpreti
neosoul in un concerto «unplugged».
Ferrara MERCOLEDI' 15 APRILE (SALA
TEATRO CARISPORT)
ESTENSE)
Frankie Chavez
Il nuovo fenomeno della scena blues
Firenze GIOVEDI' 16 APRILE (SALA VANNI)
San Ginesio (Mc) VENERDI' 17 APRILE
(TEATRO LEOPARDI)
ALIAS
11 APRILE 2015
ULTRASUONATI DA
Aucan, Popoulos e via dicendo.
Non solo house, insomma: elettronica
dalle influenze rock, techno, lounge,
minimal, jungle e disco si mescolano tra
loro, rendendo superflua ogni
caratterizzazione di genere. Magazzini
Generali, Tunnel, Fabrique, Rocket,
Tom, sono tra le location scelte per
ospitare i dj set, mentre headquarter del
festival resta il Teatro F. Parenti.
Info:http://www.designweekfestival.com/
STEFANO CRIPPA
GIANLUCA DIANA
GUIDO FESTINESE
GUIDO MICHELONE
LUIGI ONORI
ROBERTO PECIOLA
MARCO RANALDI
AA. VV.
THE HUNGER GAME (Mockingjay/Decca)
     Per un film di grossi movimenti
extra o molto terrestri una soundtrack
d’attrazione verso il centro della terra.
È così che la produzione del film ha
messo insieme anche Lorde, Chemical
Brothers, Stromae per una colonna
sonora interessante, dal colore
elettronico e sintetico niente male.
Certamente non è un film che salva
l’apporto mediatico della musica, ma
ascoltando il cd si scopre come certe
sonorità cinematografiche siano
ancora molto interessanti. (m.ra.)
INDIE ITALIA
Incontenibile
isolazionismo
Usually Nowhere (La Tempesta) è il primo
album di Yakamoto Kotzuga (al
secolo Giacomo Mazzucato),
giovanissimo produttore e musicista
veneziano. 11 tracce nate in un piccolo
studio, tra chitarra e computer. Possibili
colonne sonore per fughe dal mondo
reale. Elettronica glaciale e d’ambiente.
Isolazionista. In un posto solitario,
appartato, pensano il loro disco d’esordio
anche Nü Shu. Nü Shu (titolo del disco,
letteralmente «scrittura delle donne») è
un altro modo per ribadire quello che
dicevano i Germs; «what we do is
Secret». E quello che porta a termine il
duo salentino sono 10 momenti infuocati
di suoni ed energia allo stato puro, un
viaggio introspettivo che attraversa
l'anima di chi lo ascolta, fino ad arrivare
alla redenzione. Un po’ più solari ma
anche loro lontani da ogni cliché sono
Fratelli Calafuria. Prove complesse, il
loro ultimo disco, segna un'inversione di
rotta verso un sound ruvido tipicamente
Nineties. Power trio senza compromessi,
eclettico, visionario e senza regole. Tra la
no wave newyorkese, il punk e il pop
italiano. Con una vena demenziale
sempre incontenibile. (Viola De Soto)
BUENA VISTA SOCIAL CLUB
LAST AND FOUND (World Circuit)
     Da Compay Segundo a Omara
Portuondo, da Ibrahim Ferrer a Ruben
Gonzales (e altri dieci), ci sono
proprio tutti i reduci della più
fenomenale riscoperta di archeologia
sonora del ventunesimo secolo: in
questo nuovo album di inediti - molti
dei quali dalla mitica session con Ry
Cooder - in studio o dal vivo i
«nonnetti» dell'Avana tengono alto il
vessillo della moderna tradizione (nera
e creola) in 13 brani, da Bruca manigua
a Como siento yo, rigogliosi,
spumeggianti, colorati, che vanno
da un languido carezzevole
romanticismo a un sano divertimento
ritmico. (g.mic.)
MICHELE CAMPANELLA/
JAVIER GIROTTO
MUSIQUE SANS FRONTIÈRES (CamJazz)
     Esalta la lettura che il titolato
pianista classico e il navigato
plurisassofonista danno di pagine
celebri di Debussy e Ravel,
composizioni che molto hanno donato
e ricevuto dal jazz. Incanta l’assoluta
libertà dei due musicisti e «l’assenza di
confini creativi tra composizione e
improvvisazione» (Brian Morton).
Profondo e personale il senso del
tempo di Campanella, originalissimo il
suono di Girotto per un album in cui
chi compone, interpreta e improvvisa
sfugge a qualsiasi frontiera. (l.o.)
MUSICA NUDA
LITTLE WONDER (Warner Bros)
     Hanno voluto tornare alle
origini - e lo spiegano nel booklet del
disco - Petra Magoni e Ferruccio
Spinetti che per i dodici anni del loro
sodalizio, lo riportano al significato
originario: solo contrabbasso e voce e
un pugno di pezzi ripresi dal passato e
riletti nel 2015. All'insegna, come al
solito, dell'estrema varietà di generi:
c'è spazio per Is This Love di Marley
così come per la cover morandiana di
Sei forte papà... (s.cr.)
DI GUIDO FESTINESE
TRIBUTI
INDIE ROCK
JAZZ
Il coraggio
del progressive
Le fortune
di Tobias
Classico
alternativo
Molto spesso i tributi sono poco più che
pretesti per mascherare carenze
d’ossigeno creativo, e il discorso è vieppiù
vero quando si parla del terreno minato
del prog rock. Quando però il tributo ha
senso e coraggio, e vede coinvolti i
musicisti giusti, il pregiudizio svanisce.
Consideriamo ad esempio I cancelli della
memoria, sottotitolo Tributo anni ’70 a
Franco Battiato (Ams Records),
registrazione eccellente dal vivo al Teatro
di Castellanza, Varese del 2010. Cd e dvd.
Due protagonisti di questa incisione erano
davvero nella band che accompagnava il
gran siculo negli anni Settanta, quelli della
sperimentazione e dei suoni inauditi:
Mario Dalla Stella, chitarrista, e
Gianfranco D’Adda, batterista. Bella la
scelta di una voce femminile, per evitare
fastidiosi confronti. In viaggio tra Fetus,
Pollution, Sulle corde di Aries e Clic. Non
tributo, ma prezioso recupero per due
tasselli perduti del prog italiano che stava
per diventare world music: i due dischi del
1980 dei Futuro Antico, uno omonimo,
l’altro intitolato Dai primitivi all’elettronica
(Black Sweat). Con Walter Maioli,
Riccardo Sinigaglia e Gabin Dabiré. Da
riscoprire con amore. (Guido Festinese)
I Libertines di Pete Doherty e Carl Barât
sono stati una delle band più promettenti e
discusse, amate e odiate dell'indie
britannico. Storie personali sempre sull'orlo
dell'abisso e un sound non certo
originalissimo ma che sapeva come colpire.
La reunion è vicina, ma intanto i due hanno
dato libero sfogo alle loro carriere soliste. E
il secondo ora torna con una nuova
formazione reclutata su internet, The
Jackals, e con un disco, Let it Reign (Cooking
Vinyl/Edel) che non dice molto di nuovo e
diverso rispetto al passato. Clash, brit pop e
punk sono i motivi cui gira intorno. Prima, e
meglio, di lui troppi... Una spanna sopra il
nuovo di Chaz Bundick, in arte Toro y
Moi. What for? (Carpark/Goodfellas) va a
pescare nel rock anni Settanta, quello
venato di r'n'b, e lo fa con credibilità e
ottime capacità compositive. Un disco
senza tempo ma ben inserito negli anni 2.1.
E sembra arrivare da chissà quando anche
Goon (True Panther Sounds/Self), esordio
per Tobias Jesso Jr. che pubblica un disco
di «canzoni», pure, semplici, dirette. Lui,
bassista senza fortuna, si riscopre pianista e
cantante ed è già sulla bocca di tutti. Randy
Newman e Paul McCartney aleggiano sulla
e nella sua testa riccioluta. (Roberto Peciola)
Jazz americano 1956-1961, grande,
classico, alternativo: è il caso anzitutto
di Ray Charles in The Great (Poll
Winners): abbandonati per un attimo i
panni di rabbioso cantante soul, al
pianoforte, sforna due album
strumentali, in trio, sestetto, big band,
cimentandosi in note canzoni altrui, con
un approccio mainstream dalle forti
tinte swing. Duke Ellington in Jazz
Party (Poll Winners), come sempre,
dirige o meglio «suona» la propria
orchestra rinforzandola con il sostituto
Jimmy Jones, il fedele Johnny Hodges, il
funambolico Dizzy Gillespie (il bopper
per definizione) e il bluesman Jimmy
Rushing (già cantante nei gruppi di
Count Basie): lo swing ellingtoniano sui
generis eccellente sia nelle parti
arrangiate sia in quelle soliste. Infine il
meno noto Dave Bailey in Feet in the
Gutter Sessions (Phoenix) raduna attorno
alla propria batteria solisti di prestigio
già con Ellington o Monk o liberi
battitori per brevi lp consecutivi (sui
cinque da lui realizzati in totale come
leader) in quintetto/sestetto,
riprendendo umori al contempo swing,
be bop, mainstream. (Guido Michelone)
SPEAK NO EVIL TRIO
A SHORTER MOMENT (Notami Jazz)
     Da qualche tempo si
moltiplicano citazioni, riferimenti,
progetti, dedicati a Wayne Shorter. Sia
onore alle intenzioni, perché scrittura e
suono del sassofonista americano
seguono logiche stringenti e non
ancora messe del tutto a fuoco.
Questo lavoro degli italiani Speak No
Evil Trio, indaga su sette composizioni.
Con esiti particolarmente convincenti
quando il suono si impenna e diventa
più carico. (g.fe.)
STAR HIP TROOPERS
PLANET E (Parco della Musica/Egea)
     Formazione composta da alcuni
dei migliori jazzisti italiani del momento
che assieme a Mess Morize, già noto
come Knuf, mettono in gioco se stessi
in territori electro. Tra atmosfere
minimal e reminiscenze dei primi anni
Duemila, quando il jazz continentale e
non solo si mescolava con l'elettronica.
La professionalità non difetta in un
lavoro ben suonato, che però non
scalda, su cliché già andati nel tempo.
Sarà per la prossima. (g.di.)
TWO GALLANTS
WE ARE UNDONE (Ato/Pias/Self)
     Il duo di San Francisco colpisce
ancora. Non guardano tanto per il
sottile, e in due sparano rock senza
fronzoli con quel tanto di blues
trasversale e di country non
convenzionale che non guasta mai. E
quando si fanno un po' più cupi e si
affidano al piano anziché alla chitarra
elettrica (vedi Invitation to a Funeral) le
cose vanno anche meglio. Poi che in
giro ci sia di meglio è fuor di dubbio,
ma intanto, ce ne fossero... (r.pe.)
A CURA DI ROBERTO PECIOLA  SEGNALAZIONI: [email protected]  EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ
Mezzago (Mb) SABATO 18 APRILE
(BLOOM)
A Place to Bury
Strangers
Da New York, sulla scia di Jesus and
Mary Chain.
Bologna VENERDI' 17 APRILE
(LOCOMOTIV)
Eyehategod
In arrivo la sludge metal band di New
Orleans.
Roma VENERDI' 17 APRILE (INIT)
Livorno SABATO 18 APRILE (TEATRO
Ben Frost
L'elettronica industriale e
sperimentale del musicista australiano
di stanza in Islanda.
Milano SABATO 11 APRILE (BUKA)
Dub Inc.
La reggae, e non solo, band francese è
nel nostro paese.
Milano SABATO 11 APRILE
(CS LEONCAVALLO)
Pentatonix
MASCAGNI)
Un’unica data per il gruppo vocale
texano.
Milano MARTEDI' 14 APRILE (FABRIQUE)
Satyricon
Flying Lotus
Torna il black metal della band
norvegese.
Pordenone SABATO 18 APRILE
(DEPOSITO GIORDANI)
Peter Kernel
L'indie rock della band
svizzero-canadese.
Milano SABATO 11 APRILE (LIGERA)
Ghostpoet
Una sola data per il rapper
sperimentale londinese.
Bologna SABATO 18 APRILE (TPO)
Asaf Avidan
Il talentuoso cantante di origine
israeliana.
Milano DOMENICA 12 APRILE (ALCATRAZ)
(15)
L'hip hop nella sua forma più astratta
e psichedelica.
Milano DOMENICA 12 APRILE (FABRIQUE)
David Rodigan
Nato in Germania da padre scozzese
e madre irlandese, ha vissuto i primi
anni in Nord Africa per trasferirsi
ancora bambino in Inghilterra.
Probabilmente il sound system per
eccellenza del reggae contemporaneo.
Roma SABATO 11 APRILE (INIT)
Torino SABATO 18 APRILE (LAPSUS)
Verdena
La rock band bergamasca è tornata
dopo cinque anni con un nuovo disco,
Endkadenz Vol. 1.
Madonna dell'Albero (Ra)
Grottammare (Ap) VENERDI' 17
Napoli VENERDI' 17 APRILE (LANIFICIO 25)
Modena SABATO 18 APRILE (OFF)
APRILE (CONTAINER)
Perugia SABATO 18 APRILE (URBAN)
Elita
SABATO 11 APRILE (BRONSON)
Marlene Kuntz
Ancora dal vivo la rock band di
Cuneo, che ha da poco pubblicato il
nuovo Pansonica, in occasione del
ventennale del loro album d'esordio,
Catartica. In questo tour teatrale
accompagnano un corpo di ballo in Il
vestito di Marlene, spettacolo che
racconta l'universo femminile
attraverso la danza e la musica.
Mestre (Ve) GIOVEDI' 16 APRILE
(TEATRO TONIOLO)
Vicenza VENERDI' 17 APRILE (TEATRO
COMUNALE)
Tre Allegri Ragazzi
Morti
Il trio indie rock friulano in tour.
Brescia SABATO 11 APRILE (LATTERIA
MOLLOY)
Milano MERCOLEDI' 15 APRILE
(LA SALUMERIA DELLA MUSICA)
Legnano (Mi) GIOVEDI' 16 APRILE
(CIRCOLONE)
Bologna VENERDI' 17 APRILE (COVO)
Colle Val d'Elsa (Si) SABATO
18 APRILE (SONAR)
Cristina Donà
La cantante e autrice di Rho è tornata
sui palchi con uno Special Acoustic
Tour.
Il «Design Week Festival» torna con
un cartellone musicale di tutto
rispetto. Tra gli artisti presenti, in
varie location del capoluogo
lombardo, si possono ricordare
Aucan, Benjamin Clementine, Bob
Moses, Brooke Fraser, Dardust, Gilles
Peterson, Henrik Schwarz, Ice One,
Kate Tempest, Kiasmos, Kindness,
Machinedrum, Populous, Ryoji Ikeda,
Shabazz Palaces, The Kvb e molti altri
ancora.
Milano DA MARTEDI' 14 A SABATO
18 APRILE (VARIE SEDI)
Crossroads
La sedicesima edizione della rassegna
«Jazz e altro in Emilia Romagna»
continua la sua programmazione
itinerante con i concerti di Rita
Marcotulli Septet feat. Andy
Sheppard, Raiz, Fausto Mesolella,
Ares Tavolazzi, Alfredo Golino,
Pasquale Minieri in un omaggio ai Pink
Floyd; Diane Schuur Quartet in un
tributo a Frank Sinatra e Stan Getz;
Steve Lehamn Trio.
Russi (Ra) GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO
COMUNALE)
Rimini VENERDI' 17 APRILE (TEATRO DEGLI
ATTI)
Ferrara SABATO 18 APRILE (JAZZ CLUB
TORRIONE SAN GIOVANNI)
Bam Festival
La musica di New York nel capoluogo
pugliese, tra concerti serali, jam
session notturne (al Bohemien Jazz
Club), masterclass e incontri con gli
artisti. In cartellone: Johnny O'Neal e
Orrin Evans Trio; Saul Zubin Zebtet e
Johnny O'Neal Trio; Fabio Morgera &
NY Cats e Nicholas Payton Trio.
Bari DA GIOVEDI' 16 A SABATO 18 APRILE
(SHOWVILLE)
Waterface
Uno spettacolo narrativo musicale che ripercorre la storia e la carriera
di Neil Young - ideato da Marco
Grompi, Pasquale De Fina e Pier
Angelo Cantù.
Agrate Brianza (Mb) VENERDI'
17 APRILE (TEATRO DUSE)
No Go
Terzo appuntamento per l'«Ultimate
Contemporary Music Festival». Una
serata dedicata alla musica elettronica
e alle installazioni sonore.
Roma SABATO 18 APRILE (EX C ARTIERA
LATINA)
Bologna Festival
La rassegna di musica classica
prosegue con la Orpheus Chamber
Orchestra su musiche di Wagner,
Mozart, Haydn e del pianista Fazil Say,
solista per l'occasione.
Bologna MERCOLEDI' 15 APRILE (TEATRO
MANZONI)
PENSIERI
URBANI
Massimo Urbani il folle, che non si
preparava mai, e per qualche misterioso
motivo conosceva ogni singolo brano e
griglia accordale della storia del jazz.
Massimo Urbani che non aveva fatto
studi regolari, ma se si metteva a parlare
di Roma antica lo faceva con la
competente acribia di un archeologo a
tempo pieno, spiegando toponimi e
genealogie. Massimo Urbani che non
guidava mai, ma che (in anni non
sospetti) faceva da tom tom umano nei
viaggi, conoscendo a memoria
apparentemente per scienza infusa ogni
uscita, ogni svincolo, ogni scorciatoia da
usarsi sulla rete stradale e autostradale.
Massimo Urbani generoso fino alla
dissipazione, vitale come un gatto, e
come un gatto sornione e capace di
grandi assenze e reticenze, non spiegabili
solo con quella maledetta eroina che se
lo portò via troppo presto. Massimo
Urbani il «Bird» d'Italia senza velleità da
protagonista: un accostamento tutt'altro
che casual, perché anche lui si
trasfigurava, quando imbracciava il sax
contralto. E le note volavano, e il
pensiero non ce la faceva a star dietro a
quel fiotto inarrestabile, palpitante,
magmatico di note che erano tutto
tranne che casualità. «È vero, combino
tanti guai, però ricordatevi di tutto
l'amore che ho dato ai musicisti», hanno
giustamente messo come frase epigrafe
sul retro di copertina. Massimo Urbani,
il genio, insomma. C'è tutto questo, e
parecchio d'altro, nell’appassionato
ritratto che al jazzista romano dedica
Carola De Scipio, in Massimo
Urbani/L'avanguardia è nei
sentimenti (Arcana Jazz). Nuova
edizione che raccoglie ben quaranta
testimonianze di chi Massimo Urbani
l’ha conosciuto, una discografia ai limiti
del possibile curata da Roberto Arcuri,
le magnifiche foto di Roberto Masotti.
¶¶¶
Amari Accordi (scritto però con due
colori diversi nei caratteri, in modo che
dalle due parole si possa ricavare anche
«Amarcord» è invece il libro (Arcana)
che raccoglie esperienze di musica e di
vita di Marcello Rosa, il trombonista
tanto signorile nei modi e nelle
espressioni (e nello splendido approccio
al suo strumento padroneggiato con
rara competenza) quanto spietatamente
diretto nei giudizi su cosa sia jazz e cosa
non lo sia. E con un odio da alzo zero
per tutte le volte che il jazz s'è avvicinato
a questioni politiche, il che nella realtà
tende ad accadere inevitabilmente. Rosa
però è più che convinto di ciò che scrive
e dice, e bisogna dargliene atto: a costo
di inseguire qualche luogo comune di
troppo, nella pretesa invece di
demolirlo, e con qualche laudatio
temporis acti. Peccati veniali, per una
figura centrale nella complicata storia del
jazz d'Italia.
(16)
ALIAS
11 APRILE 2015
GRAFFITI
di GERALDINA COLOTTI
ROMA
Al Forte Prenestino, i writer
sono di casa. Il centro sociale romano (occupato e autogestito dal
1986) custodisce le tracce di grandi
artisti di strada. Da venerdì scorso,
su una delle pareti del vecchio forte
militare è rimasta incisa anche l'opera del celebre writer newyorchese –
scrittore, musicista, idolatrato dal cinema indipendente - George Sen
One Morillo. Un artista impegnato
nella difesa dei diritti della comunità
nera, diventato un simbolo e anche
un brand per borse e tessuti. Sen
One è venuto in Italia insieme ad altri 3 attivisti legati alle Black Panther:
Dequi Odinga, insegnante, esponente del Sekou Odinga Defense Committee e moglie di Sekou Odinga, un
prigioniero politico arrestato nell'81
e ora in libertà condizionale; Yaa
Asantewaa Nzingha, attrice, educatrice e a sua volta attiva nel Committee, e il rapper militante Mutulu
Olugbala aka M1, from «dead prez».
Al Forte, hanno animato una serata
di dibattito e informazione sul «prezzo della libertà», pagato dagli africani nati in Nordamerica che, nei '60 e
'70 hanno deciso di dire basta al razzismo e alla sopraffazione. Un prezzo che, nel secolo delle rivoluzioni,
hanno scelto di pagare in molti, di
qua e di là dell'oceano. E di questo
ha ascoltato e discusso la stracolma
sala cinema con persone di tutte le
generazioni.
Il Black Panther Party nasce ufficialmente a Oakland, in California,
nell'ottobre del 1965, per iniziativa
di Bobby Seale e di Huey P.
Newton. I due marxisti iniziano un
lavoro politico nel ghetto partendo
dai bisogni concreti ed elaborano
una piattaforma del partito in dieci
punti che si propone di raggiungere
tutta la comunità nera. Ai primi
punti del loro programma, le Black
Panther mettono i diritti basilari –
casa, lavoro, istruzione – e «la libertà e il potere di determinare il destino» della propria comunità nera.
Poi chiedono la fine della repressione e degli assassinii e la libertà dei
prigionieri politici. Al decimo, dicono fra l’altro di volere: «Terra, pane,
case, istruzione, giustizia e pace».
In seguito, uno dei principali dirigenti, sarà George Jackson, autore
del libro I fratelli di Soledad, scritto
durante la detenzione in carcere.
L'intento era quello di dotare la comunità nera di un'organizzazione
di autodifesa. Nel 1965 era stato ucciso Malcom X, un importante simbolo di rivolta per la comunità nera, ma che – secondo il Plack Panther – non aveva prodotto un programma di riforme sociali ed economiche che avesse come orizzonte il socialismo rivoluzionario. Ne
seguono, però, l'indirizzo per quel
che riguarda l'internazionalismo e
la ricerca di unità con altre minoranze, e con i gruppi radicali bianchi. Con questa idea, il partito –
Incontro romano
con l’artista
newyorchese,
impegnato nella
difesa dei diritti
della comunità
nera diventato un
simbolo.
E anche un brand
va ai principi originari del gruppo.
Mi sono unito a loro. Allora c'era il
sindaco Rudolph Giuliani, quello
della «tolleranza zero». A partire
dal '94, per due mandati, ha
scatenato una guerra contro i poveri che occupavano le case, contro i senza fissa dimora, la polizia aveva il permesso
di uccidere. Siamo
andati ad Harlem
a fare dei video seguendo le pattuglie della polizia,
come il Black Panter delle origini.
Abbiamo formato
dei giovani che poi
hanno deciso di andare per conto loro.
Ora mi dò da fare anche per la liberazione
dei prigionieri politici.
Siamo riusciti a tirar
fuori Sekou Odinga,
ma dentro ne restano
ancora una dozzina.
George Sen One Morillo
e a fianco alcune
sue creazioni
come artista
e poi creativo nel suo
brand di calzature
BLACK PANTHER  GEORGE SEN ONE MORILLO
«Mi ha salvato
la passione per
la politica»
all'origine un piccolo gruppo – si
estenderà in tutti gli Stati uniti, fino a diventare un punto di riferimento per le comunità nere.
Allora, George Morillo non era ancora venuto al mondo. Ed era appena nato nell'ottobre di due anni dopo quando gli atleti neri statunitensi,
Tommy Smith (24 anni, del Texas), e
John Carlos (23 anni, di Harlem), de-
cidono di dare un segnale al mondo
salendo sul podio a piedi nudi e a
pugno chiuso, col guanto nero simbolo del Black Power. Sei mesi prima è stato ammazzato Martin Luther King. George non può ricordare direttamente, ma dice di «essere stato adottato dalle Pantere
nere» e mostra il tatuaggio che le rappresenta inciso sull'avambraccio.
Prima del dibattito, lo abbiamo
guardato dipingere. E all'improvviso, la galleria del centro sociale diventa una pista del Parkour, un
frammento dei ghetti neri attraversati dallo skateboard e dalla musica, di rabbia e di sogni. Diventa, anche, una mostra d'arte vivente e
una scuola di quartiere. Fin dall'inizio, il Black Panther party ha messo al centro del suo programma
l'educazione popolare. Sen One ci
racconta che, come esponente del
Collettivo delle Pantere Nere ha insegnato per diverso tempo l'arte di
strada ai ragazzini del Bronx, di età compresa tra i 9 e i 15
anni: «L'autodifesa – dice – comincia con il prendere coscienza delle proprie potenzialità».
Com'è cominciata la sua avventura artistica?
Sono nato in un quartiere povero di New York, un posto
duro per crescere quando non hai niente. Ho cominciato
facendo hip hop insieme alle gang negli anni '80, l'epoca
doro della cultura hip hop. Ho fatto parte del gruppo
Ibm, Incredible Bombing Masters, pionieri nello stile dei
graffiti. Con un «bombardamento» di stili diversi sovrapposti e un tocco astratto abbiamo cominciato a disegnare sui treni. Abbiamo disegnato sui campi di pallamano
nel cortile della scuola. Ci siamo appropriati dello spazio
di una scuola allo sbando. Abbiamo imparato gli uni dagli altri e da chi aveva capito prima di noi. Abbiamo sviluppato uno stile e messo insieme tanti talenti artistici.
Eravamo una squadra, il gruppo della Upper West Side.
Siamo stati l'ultima generazione di writer che ha potuto
«bombardare» con la propria creatività i vagoni della metropolitana, scrivere la nostra leggenda. Poi sono arrivati
il crack, la coca, la droga ha distrutto tutto. Il governo ha
cominciato a dare la caccia agli spacciatori, molti sono finiti in carcere, altri sono morti. Ero sempre in fuga. Alcu-
ni di noi si sono salvati facendo
graffiti. Io ho visto tutto questo, ne
sono stato dentro e poi sono cambiato incontrando la politica.
E come?
Un giorno ho visto dei ragazzi che
vendevano il giornale del Black
Panther Party: le Pantere nere non
c'erano più, ma era rimasto il giornale e un collettivo che si richiama-
La polizia, negli
Usa, continua a uccidere i neri anche con
Obama alla presidenza. Qual è la reazione
della comunità? E' vero che
un gruppo di giovani ha ripreso
a fare le ronde richiamandosi al
Black Panther Party?
Obama è un pezzo del sistema. La
destra bianca lo odia, ma piace ancora a gran parte dei neri che lo
hanno votato. Per noi, invece, è roba vecchia, buona per trafficare
con la Cia e fare il solito gioco delle
parti. Purtroppo, a causa delle droghe, i giovani delle comunità sono
un po' sconnessi, non conoscono
molto delle Black Panther. Quelli
che si richiamano al Bpp non sono
autentici. Il gruppo è stato fondato
da un membro della nazione islamica, figuriamoci: per noi la religione
è l'oppio dei popoli... Io preferisco il
movimento di Occupy. Mi piace
quello che fanno in America latina.
Mi piace il Venezuela socialista.
Non appartengo a nessun partito.
Faccio politica con la mia arte. Sono stato adottato dalle Black Panter, rimarrò sempre una pantera.