(2) ALIAS 11 APRILE 2015 NESSUNA NOSTALGIA PER IL 35MM NUITS BLANCHES SUR LA JETÉE DI GIULIO VICINELLI Dopo aver visto Femmes Femmes di Paul Vecchiali, Pasolini dichiarava: «Sono ancora commosso, sconvolto, faccio fatica a parlare perché, confesso, mi è successo raramente di vedere in questi ultimi anni un film così bello e così commovente». L'aneddoto restituisce in pieno il calibro di questo personaggio, contemporaneo (quasi) ai grandi della Novelle Vague, ma rispetto ad essi sempre eccentrico, rigoroso nello stile ma in esso sperimentale, poetico e crudele al contempo nel ritratto delle relazioni e delle emozioni umane. Lo incontro a «Registi Fuori Dagli Sche(r)mi 4», la rassegna frutto della collaborazione tra Apulia film commission e Uzak, il trimestrale di cultura cinematografica. Parliamo con lui del suo ultimo film Nuits blanches sur la Jetée (2015). La mia non è in alcun modo una sfida a Visconti o Bresson, per i quali ho grande rispetto, semplicemente ho avuto un'idea che non era nei loro film PAUL VECC DI GIULIO VICINELLI Rispetto ai film di Bresson e Visconti tratti dallo stesso romanzo il suo protagonista non aspira a liberarsi dalla propria condizione di solitudine attraverso l'amore, in realtà sembra che ricerchi masochisticamente questa solitudine... Ho cercato di restituire l'anelito masochista di Fëdor che gli altri film avevano tralasciato, anche se non è la sola lettura possibile del film, la prospettiva di Visconti e Bresson, cioè quella di un nottambulo che incontra una donna solitaria e triste, nell'attesa infinita dell'amore della sua vita, resta valida. La mia idea è nettamente diversa, ma non si contrappone a questa, al più ci convive. Ci tengo anche a dire che la mia non è in alcun modo una sfida a Visconti o Bresson, per i quali ho grande rispetto, e di cui amo questi due film in particolare. Non sono in concorrenza con loro, semplicemente ho avuto un'idea che non era nei loro film. Un film tratto da un romanzo... qual è, secondo lei, il rapporto tra un'opera letteraria e il testo filmico che la mette in scena? traduzione letterale o interpretazione? Entrambe. Ho cercato la massima prossimità al testo originale, dopodiché ho giocato con elementi appartenenti al contesto contemporaneo, come il cellulare che fa da elemento di mediazione in alcuni snodi narrativi, o quella coreografia moderna della protagonista, che non è certo presente nel testo di Dostoevskij. La traduzione, poi, non è mai perfetta perché l'immagine dice sempre qualcosa in più rispetto al testo, trascende la parola, anche se non deve essere mai in contraddizione con essa. Sulla recitazione lavora in senso sottrattivo, evita i picchi espressivi ed emotivi troppo accentuati... Più emotiva è la parte della ragazza, che in alcune occasioni piange per il suo amore infelice. Ho detto a Pascal Cervo, l'attore che interpreta Fëdor, di essere «presente e contemporaneamente assente» e di prendere come modello Daniel Hourot in Madame De... di Max Ophüls. È per questo che spesso guarda altrove anche quando è presente nell'inquadratura con la ragazza, è assente con lo sguardo. E di questa assenza, come fossi Le Petit Poucet, Pollicino, ho seminato le briciole lungo il percorso del film, piccole ma sintomatiche discontinuità della presenza. Durante la prima notte ho fatto volontariamente un falso L'IPhone permette un accesso «democratico» agli strumenti di produzione: credo sia il futuro del cinema raccordo con lui che entra dalla parte sbagliata dell'inquadratura, come se arrivasse da un «altrove», oppure mentre lei gli sta parlando lui «perde il contatto audio» e non ne sente più la voce, come metafora acustica della perdita in assoluto. Quando lei si allontana dopo aver scritto la lettera c'è una luce irreale e abbacinante, che poi illumina il volto di lui e qui si spegne, ne dissolve la presenza. E ancora quando i due protagonisti sono sul molo in alto, c'è una inquadratura in cui lui è in luce e sulla destra ci sono le mani della ragazza, allora lui le afferra tira la figura di lei dentro l'inquadratura, dall'assenza alla presenza. La delicata tessitura emozionale invece, più che sulla recitazione, sembra ricadere su componenti di immagine, come il gioco delle luci o i cromatismi... la scena del tramonto, ad esempio, ha una qualità di rosso incredibilmente poetico... Pensa che è girata con l'IPhone e senza alcun intervento di post produzione, come tutte le scene diurne, mentre per la notte abbiamo usato una 5-D (intende la Fotocamera digitale Cannon EOS 5-D, ndr). Le luci variopinte e sfocate che creano la scenografia luminosa nelle notturne sono la trasposizione visuale della minaccia implicita nella notte, luci sconosciute come i pericoli della vita notturna. Sono come elfi, spiriti della notte, che non uso solo per denunciare questi pericoli, ma come monito per il protagonista, a cui dovrebbero segnalare il pericolo che corre, un pericolo che lui però ricerca. Perché di quella notte è figlio, una sua creatura. Questa scelta di utilizzare l'IPhone ha suscitato molto clamore. È uno strumento che in qualche modo limita le possibilità espressive del regista perché ha uno zoom di pessima qualità e non permette di giocare con l'otturatore, con la messa a fuoco o con le variazioni di focale... Non ho mai usato questo tipo di sintagmi neanche quando facevo film in 35 mm. Non uso mai lo zoom perché mi sembra artificioso, se in una inquadratura voglio andare da un punto un altro perché non fare un raccordo? Purtroppo nel cinema italiano c'è stata un'epoca in cui lo zoom era sopravvalutato, Rossellini, ma anche Visconti, ma non mi piaceva tanto. L'IPhone permette un accesso «democratico» agli strumenti di produzione delle immagini e richiede montaggio digitale e post-produzione, credo che sia questo il futuro del cinema. È stato il mio tecnico a dirmi «Ti prego prova l'IPhone e la 5-D, sono fatti per te, per il tuo tipo di cinema». Io, all'inizio, restavo attaccato alla mia vecchia Panasonic. Ho accettato di lavorare con il virtuale, ormai già da dieci anni, ma per quanto riguardava la fotografia ero piuttosto titubante. Poi mi è capitato di dover girare Faux Accord (Falsi Accordi) in due giorni e a quel punto mi è parso che avrei potuto provare, così ho girato con la 5-D e ho trovato l'immagine incredibile...la mia conversione è stata definitiva. La scena del tramonto in questo film, con quella stupenda qualità di rosso, per dire, è fatta semplicemente con l'IPhone, senza filtri, né interventi ulteriori. Non provo nessuna nostalgia per una qualche presunta «età d'oro» del cinema, quella del 35mm che tanti giovani rimpiangono e mitizzano, è qualcosa di prezioso, ma oramai definitivamente passata. C'è molto lavoro sulle luci. È un risultato sorprendente che ho ottenuto grazie alla mia geniale équipe tecnica, così come straordinari sono stati i risultati sul suono. Durante la prima notte c'è il rumore della risacca del mare e i due protagonisti usano questo elemento sonoro per giocare, perché ha un andamento quasi musicale, lo usano Grammatica segreta come una musica. In molti mi hanno fatto i complimenti per quella parte del montaggio sonoro...ma lì non c'è alcun montaggio, è solo la bravura della mia squadra. Ho da sempre un'attenzione particolare per il suono e una predilezione quasi totalizzante per quello di presa diretta, sul quale intervengo, ma solo a volte, in post-produzione. Più che altro mi capita con le parole, le manipolo con Pro Tools, per far emergere «la verità» della parola, la sua verità fonetica e tonale al di là di quella semantica. Non per renderla «migliore», più bella dal punto di vista sonoro, ma per renderla più «giusta», adeguata al significato. Lei in questo film recita nel prologo... A proposito del prologo volevo dire che non è tratto dalle Notti Bianche ma da Memorie Dal Sottosuolo e spesso è stato frainteso, addirittura definito «indigesto». A me è servito innanzitutto per operare una sorta di passaggio di consegne simbolico, un rito in cui cedo il mio film nelle mani dell'attore protagonista, cioè degli attori, che diventano come prosecuzioni, alter-ego moltiplicati, del regista. A livello narrativo, invece, qui introduco il tema del masochismo, del sacrificio, che poi ritorna un po' ovunque nel film, perfino nella scelta dei movimenti di macchina, di solito così frequenti e vari nel mio cinema di movimento, e che qui ho limitato a spostamenti lineari in avanti o indietro e ai due lati, in modo da definire sempre una Croce, un riferimento simbolico non tanto al Cristo, quanto all'idea di sacrificio. Tutto il personaggio maschile è improntato a quest'idea: la ragazza è una proiezione dei suoi desideri, una sua creatura mentale di cui ha la responsabilità, come ogni divinità creatrice ha nei confronti dei suoi creati, e dunque in nome In pagina due ritratti di Paul Vecchiali, uno degli anni ’70 e l’altro dello scorso anno, a Locarno. Sotto, una scena da «Femmes Femmes» CHIALI LA CRITICA LES NUITS BLANCHES SUR LA JETÉE Il gergo muto delle sensazioni corporee di G.V. Qualche riflessione su Nuits Blanches sur la Jetée, ultimo lavoro di Paul Vecchiali, su alcuni momenti della sua poetica in cui affiorano le ragioni di una corporeità che innerva il testo su livelli molteplici. «Cinema di movimento» dice di sé, dichiarando trasversalmente la referenza di tipo corporeo, poiché ogni movimento in un corpo si inscrive e rispetto a un corpo può essere percepito. Alcune sue dichiarazioni, poi, lasciano pensare a un'idea di cinema che il corpo, nelle sue possibilità percettive e cinetiche, assume come propria unità di misura e orizzonte veritativo. Quando definisce lo zoom un artificio meccanico inutile cui ovviare con un movimento in avanti della macchina da presa, quando rimbrottava Pasolini per il numero eccessivo delle cineprese che usava sul set, accusandolo di moltiplicare insensatamente il numero dei punti di vista-sguardi sul reale, Vecchiali implicitamente avalla un'idea di cinema che vede e sente come il corpo umano, lo assume a sua misura percettiva ed espressiva, e rifiuta quegli infingimenti visivi, gli sguardi impossibili e moltiplicati, i movimenti artificiali, gli artifici ottico-tecnologici, resi possibili dal mezzo cinematografico. Un cinema-corpo che aborre la falsificazione extra-corporea, in una ricerca che non mira al vero, alla riproduzione mimetica del reale, quanto alla verità nascosta delle cose come della audio-visione. Eppure la raffinata poetica visuale Un'idea di cinema che vede e sente come il corpo umano e rifiuta gli sguardi impossibili, gli artifici ottico-tecnologici della felicità di lei deve sacrificare la propria. E come ogni creatura può decidere di ribellarsi al suo creatore così la mia protagonista decide di rifiutarlo, di non essere più la sua creatura, come vedi nella parte in cui danza e lo spinge via facendolo cadere. Danza che è totalmente improvvisata...i suoi attori erano molto liberi dunque.. .In realtà ho preteso che imparassero tutto il copione perfettamente a memoria, tuttavia ho anche detto loro di interagire creativamente con qualsiasi accidente, un rumore imprevisto, un errore o qualsiasi altra casualità, che fosse occorsa durante la ripresa. È così che sono nate le battute in cui lei chiede a lui se l'aereo che sentiamo passare sia di sua proprietà o se non lo sia il battello che dapprima udiamo solamente e che dopo attraversa veramente l'inquadratura. Dunque non pensa alla sceneggiatura come a una struttura rigida... La considero, con un gioco di parole, un pre-testo, rispetto al film, che è il testo. La sceneggiatura è contemporaneamente nel pensiero e nello scritto, se cambia qui, cambia lì. Scrivo molto più di quello che poi posso girare, in questo momento ho una sessantina di sceneggiature non realizzate. Non c'è uno schema definito, a volte ho scritto un film quasi completo in poco più di tre giorni, mentre per la sceneggiatura di: En Haut De Marches (Oltre Le Scale) mi ci sono voluti più di due anni, perché ho voluto concepirla come un gigantesco foglio di missaggio tutto diviso in colonne per ciascuna voce del montaggio con riportati i timing precisi di ogni singolo effetto, movimento, parola, eccetera. di Vecchiali riesce a caricare questo reale guardato secondo modalità naturali di mille istanze emotive e significati ulteriori, che sono la verità delle cose. La verità che cerca anche quando modifica l'equalizzazione di singole parole in post-produzione, nel tentativo sperimentale di farne emergere la verità timbrica e fonetica, prima di quella semantica, letterale o drammaturgica. In alcune scene di Nuits Blanches sur la Jetée, siamo passati all'argomento principale di questa riflessione, la poetica di Vecchiali, sembra rivolta più alla res extensa che non alla res cogitans, il film riguarda prima le percezioni, i sensi, e dunque il corpo, e solo dopo si apre all'interpretazione razionale e culturale del testo. Sono i colori, il suono, la musica, la liquida luce e l'ombra, i materiali di questo artigianato dell'impalpabile, prima ancora della parola recitata o scritta. L'emozione, il senso, la minaccia si sciolgono nella pasta rubina del tramonto abbacinante, o nel baluginio arlecchinesco delle mille luci della notte, nelle assenze presenze del suono e nelle alternanze di visione e buio, nella verità fonetica di una voce-suono che precede il verbo. Ecco che allora quando deve mettere in scena la paura che il protagonista ha di perdere la sua amata Natacha, Vecchiali non lo fa recitandola o spiegandola o in qualche modo dicendola, ma evocandola come fantasma sensoriale, suggerendola, nella negazione della voce di lei, in una metonimia sensoria della perdita totale, pars pro toto. Natacha muove le labbra belle ma Fëdor, il dostoevskiano protagonista, non ode più la sua voce, in una vertigine silente e panica di abbandono. Vecchiali manipola strategicamente un dato percettivo elementare, come la presenza di un'emissione vocale in corrispondenza di un certo tipo di moti labiali, per inoculare significazioni ed emozioni nelle arterie del suo film, passa dal corpo e dalle sue percezioni per arrivare alla mente e al cuore. Questa grammatica segreta è pre-culturale e pre-verbale, primordiale, verrebbe da dire, visto che inerisce a funzioni elementari ed estremamente antiche del nostro sistema nervoso e celebrale, come la percezione cromatica o la decrittazione dell'informazione uditiva e spaziale, possibilità ancestrali del corpo, dal significato universale, che il cinema è in grado di iper stimolare. La questione non è di poco conto, dal punto di vista delle dinamiche percettive e cognitive che mette in campo. Elidere la voce di un parlante è un segnale forte, perché viola quel principio psicofisiologico involontario e universale che Michel Chion chiamava sincresi e che ci porta inevitabilmente, a stabilire un nesso di causalità tra un evento visivo e uno sonoro ad esso simultaneo. Se sento un colpo e vedo un martello battere stabilirò che questo è la causa di quello. È il principio che rende credibile il doppiaggio dei film. Vecchiali lavora sui meccanismi minimi, basici, della nostra interpretazione del mondo fisico anche quando, e lo fa spesso, utilizza il colore per i suoi fini drammaturgici. Quando sfrutta le qualità incredibilmente emozionali di un abbacinante tramonto rosso, quando riempie la notte di puntiformi luminescenze variopinte o quando illumina i volti di cangianti luci dai viraggi cromatici diversi dialoga direttamente con l'area V4 del nostro cervello visivo (lobo occipitale), il centro di elaborazione del colore, una regione estremamente antica del nostro encefalo, che permetteva ai nostri antenati di distinguere un frutto velenoso da uno commestibile o il manto di un predatore nella boscaglia. Il colore di un oggetto viene percepito tra 80 e 100 millisecondi prima del movimento e dell'orientamento, la sua informatività è elementare, rapida e dalla portata universale. Ed è questa, forse, la forza maggiore di questo film, il suo rivolgersi alla nostra componente animale, sensoria, corporea che al di là e prima delle determinazioni culturali e idiosincratiche ci rende tutti uguali. Percezione, cromatica, uditiva, spaziale e corpo dominano questo cinema, il corpo come concreto suolo in cui tale percezione radica, abbiamo detto, ma anche il corpo performatico, quello attorico, che ALIAS 11 APRILE 2015 agisce il e nel film e che Vecchiali usa come pedina viva muovendolo, posizionandolo, mostrandolo in ragione di un disegno di senso ultra-attorico, suo personale e intimo. Un corpo ben diverso da quello metaforizzato, quasi astratto, che abbiamo incontrato parlando con Bressane, che della fisicità danzante della propria protagonista faceva crocevia simbolico di istanze culturali, una rappresentazione metaforica dell'amplesso, mise en abîime interlinguistica, che a sua volta rimanda a questioni di ordine mistico-religioso, al legame col sacro e con l'energia del corpo. Quello di Vecchiali è un corpo assunto a partire, prima di tutto, dalla sua concretezza, dal suo stare modale nello spazio, il fonema di carne di una raffinata e nascosta grammatica posizionale e prossemica, in cui le relazioni spaziali tra i corpi dei personaggi diventano scrittura poetica del dato emozionale e psicologico. I due potenziali amanti inizialmente si cercano, si studiano, non si fidano, poi si fidano solo un po' e solo alla fine si abbandonano al sentimento amoroso. Vecchiali, da giocatore di scacchi consumato, muove i loro corpi-pedina secondo figurazioni spaziali, di presenza-assenza, di vicinanza lontananza, che da sole, in assenza di verbo, esprimono il decorso affettivo dall'estraneità all'amore, dalla distanza alla prossimità reciproca di Fëdor e Ntacha. Il regista, spodesta l'attore, e ne agisce il corpo agente secondo un percorso ulteriore e sotteso. Lei è in fuoricampo (assenza, non corpo) mentre lui è perfettamente centrato nel quadro (presenza, corpo) lui allora le afferra gentilmente le mani e la tira amorevolmente in campo, nel regno della presenza, e alla sua com-presenza. I due si trovano ai margini opposti del quadro (distanza) si incamminano uno in direzione dell'altro (reciprocità) e si incontrano nel centro geometrico dello schermo (vicinanza), si congiungono in una predizione dal valore sintomatico. Vecchiali gioca con queste «micro discarsie della presenza», evita di far comparire i due corpi contemporaneamente nel quadro e quando è costretto a mostrarli insieme un gioco abilissimo di luci e bui ne mostra uno (presenza) e nasconde (assenza) l'altro tra le ombre del molo, orchestrando un montaggio interno alla scena dall'impronta teatrale. Gli sguardi a volte perdono il loro accordo direzionale, o si scoprono incapaci all'incontro che presentifica «l'altro», divergenti o distratti, in translitterazioni plastiche dell'assenza che ancora minaccia i cuori. Mentre lei si allontana, dopo aver scritto al suo vecchio amore, una forte luce, fantasmatica ed emotiva, abbacina il campo visivo, scivola sul primo piano di lui, illuminandolo per un'istante, e qui si spegne cancellando quel volto nell'assenza del buio. Solo alla fine, quando anche lei cede all'amore, alla presenza di lui nella sua vita, lo scacchista crudele che muove la partita metterà re e regina uno di fronte all'altro, nella vicinanza vertiginosa e finalmente raggiunta dell'abbraccio, occhi che solo ora possono trovare quegli altri occhi, in quel bacio interrotto che chiude il film su un coronamento mancato. L'assenza si fa acustica nella scena in cui Fëdor non sente più la voce di lei. È gergo dei corpi, quello di Nuits Blanche Sur La Jetée, che ai corpi parla e che i corpi usa per esprimersi perché della sensazione e della fisicità fa parola oltre la parola, un gergo che proprio nel corpo trova la propria referenza interpretativa primigenia, il destinatario perfetto, interlocutore unico per la muta lingua dell'appercezione. (3) GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719557 e 0668719339 [email protected] http://www.ilmanifesto.info impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. 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La sua specialità è riempire gli spazi vuoti di dinamiche incontrollabili, così fece nelle silenziose paludi di Delta, così in questa Budapest deserta dove sola circola la sorda violenza. Sarà forse la cancellazione di diritti dei recenti governi ultranazionalisti? Certamente una delle iniziative che sembra aver conquistato in questa chiave svariati paesi dell’est è stato l’abbattimento dei cani randagi, così in Romania, in Ucraina (non a caso già a suo tempo allineati con il nazifascismo e non solo allora) compresa l’olimpica Sochi. In Ungheria in particolare i cani che non appartengono alla razza pura devono pagare tasse salatissime determinando l’abbandono dei meticci. Hagen il cane di Lili è abbandonato dal padre sulla circonvallazione. Lili e il vagabondo, si direbbe, anche se siamo ben lontani dagli stereotipi del cinema americano, tranne che per l’amore esclusivo della ragazzina per il suo labrador. La silenziosa Lili vive nel vuoto di vita affettiva, affidata a un padre amareggiato, abbandonata dalla madre che se ne è andata via con un altro. L’uscita del film era stata programmata intorno all’Epifania ed è stato velocemente sostituito con il rassicurante Italo, la storia vera del buon cane che dopo la morte del padrone si reca tutti i giorni all’uscita della chiesa e viene poi adottato da tutto il paese. Qui siamo in clima di guerra totale, di apocalisse, di horror sociologico senza esclusione di colpi. Hagen Intervista esclusiva al regista rivelazione del nuovo cinema ungherese ora nelle sale con «White God, Sinfonia per Hagen» In alto una scena di "White God", in basso il regista a Cannes deve sopravvivere catturato in situazioni sempre più dure di schiavitù. Individuato come esemplare perfetto da combattimento è addestrato alla ferocia con metodi adeguati mentre, in parallelo Lili si esercita alla tromba per il concerto finale della scuola. Tutti e due si esercitano a fronteggiare la vita con le sue regole violente. Non ci sono simpatici compagni di strada ad alleggerire il contesto, ma ceffi che operano con catene, chiodi, sangue e violenza. La ribellione cova sorda, ma esplode poi in forma organizzata e inaspettata. Non si tratta più solo del cagnolino che torna dal padroncino, ma di una torma di cani (nessun regista ha mai girato con 250 cani, prima) che in maniera scientifica percorrono la città ed eliminano uno dopo l’altro con ferocia tutti i loschi figuri che li hanno perseguitati, orribile vendetta di una specie sottomesa e incubo che solo Lili riuscirà a contenere, con la sua tromba/flauto magico. Il film esce in Italia con il titolo: «White God, Sinfonia per Hagen» come per smorzare un po' la violenza del film. Abbiamo letto che il titolo si riferisce all'opera di J.M. Coetzee, e che ha realizzato una pièce teatrale da Disgrace. Può dirci qualcosa di più a proposito? Non solo rispetto a questo lavoro, alla posizione animalista dello scrittore, ma anche a quel particolare sguardo che dovrebbe essere puntato su di noi da parte di un god-dog (nelle altre lingue il gioco di parole non funziona). La distribuzione ha il dirtitto di scegliere il titolo che ritiene più appropriato per la cultura di ogni paese. «White God» ha diversi titoli nei vari paesi, mentre il film resta sempre lo stesso. Si tratta di un elemento fondamentale del concetto di Coetzee del mondo, dove ogni essere vivente, cioè l’umanità, gli animali e le piante godono di un diritto primordiale di sopravvivere per il loro beneficio reciproco. La filosofia di Coetzee, in generale, e il suo pensiero sull’umanità hanno avuto un effetto decisivo sul mio modo di concepire l'esistenza in generale, come anche sull'umanità e sull’ambiente, e la responsabilità morale che dovremmo avere sugli altri, razze e minoranze diverse. Il film sembrerebbe anche fornire una barriera al razzismo dilagante in Europa. Era arrivata qualche tempo fa una notizia anche sulla nostra stampa che in Ungheria un'ordinanza stabiliva la soppressione dei cani randagi. Il film si sviluppa anche a partire da questa notizia? Com'era diventata a quel punto la situazione sociale del paese? Sì, certo, il fatto che la legge proposta dal partito della destra estrema - proposta rifiutata alla fine dal Parlamento - avesse lo scopo di classificare i cani e di tassarli secondo la specie mi ha turbato a tal punto che non potevo non cercare di esprimere i miei sentimenti in un film. Delle idee di quel tipo, qualsiasi tentativo di discriminare qualsiasi minoranza, finisce per scatenare reazioni nocive in una società la cui storia ha avuto molto a che fare con simili processi da vicolo cieco. Quando il mio sguardo incontrava lo sguardo di cani destinati alla morte in un canile che mi è capitato di visitare, mi sono reso conto che, anche se prima non ne avevo la minima coscienza, facevo parte di un sistema in cui si discriminava un’altra razza. Divenne chiaro che dovevo fare un film senza ambiguità rispetto a quel problema. E siccome faccio parte della società ungherese, la mia critica di quella società è anche un’autocritica. Cosa è sparito in realtà dalle strade di Budapest che vediamo così deserte? La scena primordiale che avevo in mente era quella di strade vuote occupate improvvisamente da una muta di cani randagi. Per me, una strada vuota in un quartiere per bene vuol dire un qualche tipo di paura, qualcosa di pos-tapocalittico. I benpensanti intolleranti, i razzisti e quelli che mettono a tacere i loro complessi di inferiorità attraverso la discriminazione si sono trovati pieni di terrore. Ciò che succede prossimamente potrebbe risolvere il loro destino. Per il cinema americano il cane è una componente della famiglia, presenza rassicurante. Cosa rappresenta in Ungheria? Rispetto alla funzione simbolica che ha assunto il cavallo, non ricordiamo di aver visto altri film ungheresi con cani, se non di passaggio nei villaggi. Non mi sembra una specialità americana. Per me, un cane fa parte integrante della famiglia ed è questo che gli stessi cani si considerano. Sono contenti e a posto se vedono con chiarezza qual è il loro rango, i loro diritti e limiti e le loro responsabilità nella famiglia a cui appartengono. «White God» narra una vicenda in cui un cane, un membro vero della famiglia di appartenenza, viene costretto all’esclusione sociale e a un viaggio morale. Non gli è facile adattarsi alle nuove circostanze, cioè di essere privato dei suoi diritti. Se ne segue la pace o meno, sta al pubblico decidere. Sempre si chiede ai registi: com'è lavorare con bambini? In questo caso: com'è lavorare con i cani? Sappiamo che il labrador Hagen sono in realtà due fratelli, ma tutti gli altri? Ci può parlare degli addestratori e degli effetti speciali? La mia idea fondamentale dall’inizio escludeva qualsiasi effetto speciale o animale di razza. È stata la straordinaria addestratrice americana di cani Teresa Ann Miller a trovare i due protagonisti e trasformare i due fratelli randagi in Hagen. Il professionista ungherese Árpád Halász e la sua équipe ha offerto alla nostra troupe per le riprese l’esperienza di un miracolo: 250 vittime degli accalappiacani che sono stati trasformati in una allegra banda di cani pronti a lavorare insieme durante le riprese credendo che davvero il loro compito fosse giocare tra loro e con noi della troupe. Bisogna celebrare anche come un loro successo il fatto che, alla fine della lavorazione, ognuno di loro abbia trovato una famiglia affettuosa attraverso il nostro programma di adozione. Il film è come un grido di allarme, ma per qualcosa che è già troppo tardi da fronteggiare, la crisi economica che ha trasformato tutti in vittime inermi, può essere anche una bomba pronta ad esplodere. Ci sono segnali di questa esplosione nella società ungherese che è una delle punte avanzate del nazionalismo in Europa? Non è facile rispondere a questa domanda. Non sono un profeta. La crisi economica ha portato a una specie di crisi morale seguita da problemi con il costo della vita. L’incertezza esistenziale apre facilmente la porta alla discriminazione, al nazionalismo, alla xenofobia e a una repulsione verso l’occidente. In Ungheria abbiamo sperimentato troppi esempi di processi disastrosi. A me d’altra parte l’Ungheria non sembra più l’unico esemplare esotico di estremismo. Abbiamo visto anche l’evolversi di tendenze simili a Copenhagen, Anversa, Roma, Parigi, ecc. L’Ungheria dimostra piuttosto l’essenza della deriva in cui l’Europa si trova forse, anche se è un percorso che dovrebbe smettere di seguire. Ho frequentato per alcuni anni il festival del cinema a Budapest e ho conosciuti i registi «storici» (Jancso, Kovacs, Pal Gabor, Metzaros, Gaal...) ma da quando il governo ha dato una svolta al paese, il festival non si è più fatto, è più difficile comporre le coordinate di una intera generazione, comprendere di cosa «non si può parlare». I suoi film anche se sono così diversi da ogni altro linguaggio cinematografico ci riportano qualcosa di quella tradizione per astrazione. forza e stile. Pensiamo soprattutto a Jancso e al suo stretto rapporto con la storia. Pur essendo un ragazzo dei tempi contemporanei riconosce qualche punto di riferimento nel suo paese o in altre cinematografie? Miklos Jancso mi ha aiutato parecchio, anche in modo diretto, in quanto gli ho chiesto e ho apprezzato molto il suo parere. In effetti «White God» è stato l’ultimo film da lui visionato e commentato, ed è lui che mi ha aiutato a dargli una sua forma definitiva. Era una persona straordinaria. Riusciva a dipanare delle problematiche filosofiche difficili attraverso i film, mantenendoli a un alto livello di complessità intellettuale. Per la prima volta ha introdotto nel linguaggio cinematografico l’uso della parabola e della metafora. Per quanto riguarda i film che mi hanno dato molto piacere da giovane ci sono stati quelli di Fassbinder, poi i primi film espressionisti sovietici, Più in là, come i miei coetanei ho amato i colossal di Hollywood come Blade Runner, Terminator ecc. Gli anni Ottanta e Novanta mi hanno portato il cinema post-apocalittico cui nessuno poteva resistere. MIDDLE EAST NOW La sedicesima edizione del Festival del Cinema Europeo si tiene a Lecce dal 13 al 18 aprile nella multisala Massimo, sostenuta dalla Regione Puglia attraverso l’attivissima Apulia Film Commission. Si apre con un film italiano, Wax di Lorenzo Corvino e la presenza del regista Bertrand Tavernier. Nel programma comprende film in concorso, la personale del regista turco Fatih Akin che realizzò nel Salento Solino nel 2002, l’omaggio a Milena Vukotic e Paola Cortellesi, due focus su omosessualità ed emigrazione, il convegno cndotto da Marco Giusti sullo statogli stati generali della commedia all’italiana tra cinema e web. La famiglia Verdone (i fratelli Carlo, Luca e Silvia) assegneranno il premio Mario Verdone istituito in ricordo del padre (che amava Lecce ed era amico di Carmelo Bene, ha ricordato Carlo Verdone) al miglior esordio italiano. ALIAS 11 APRILE 2015 Lo Yemen di Sara Ishaq al festival del medio oriente di Firenze Qui accanto la regista Sara Ishaq di MARIA GROSSO FESTIVAL DI LECCE Speranze e riflessioni che ci riguardano con La Grecia è vicina di Enzo Rizzo di S.S. Il periodo di tempo in cui si svolgono i fatti sono il 25, 26 e 27 gennaio di quest’anno, i tre giorni che culminano con gli straordinari risultati elettorali in Grecia. Enzo Rizzo ha colto questa occasione per il suo La Grecia è vicina che sarà presentato al Festival del Cinema Europeo di Lecce il 16 aprile. Non a caso ha scelto come guida, a fare da collegamento tra i due paesi, un’amica greca residente in Italia tornata a votare ad Atene. In Italia queste elezioni hanno avuto un significato quasi speculare, un valore di rivincita, l’indicazione di una linea. Questa Grecia così vicina parla a un’Italia che sembra narcotizzata attraverso le parole di gente colta nei luoghi più diversi, nei quartieri più poveri e nei quartieri alti, in una farmacia solidale (ce ne sono 40 in tutta la Grecia, 4 ad Atene) che procurano medicine da distribuire a chi non le può pagare procurate da gente comune che le ha in casa, nei bar e nei ristoranti, nei seggi elettorali. Chiediamo a Rizzo di darci un’idea complessiva di questa città così provata: «La povertà non era visibile, ci dice, la gente che abbiamo intervistato non si lamentava, era dignitosa. Ci siamo resi conto che il meccanismo di solidarietà messo in moto da Syriza funzionava e, pur consapevoli della situazione critica, la gente esprimeva speranza nel voto». Il film si apre con i materiali di repertorio di La gente deve partecipare. Syriza non è comparsa come un fulmine a ciel sereno, è stata plasmata dai movimenti In alto una scena di "La Grecia è vicina" e foto del Politecnico di Atene nel 1967 un’epoca che sembrerebbe conclusa, ma la cui eredità pesa ancora nella situazione attuale, l’epoca delle lotte e dell’occupazione del Politecnico e della presa del potere dei colonnelli. Come è assai bene raccontato da uno dei testimoni dell’epoca, una presenza che fa pensare ai film di Anghelopoulos, la storia stessa del paese ha portato alla vittoria di Tsipras, rispetto alla situazione italiana: «Noi abbiamo alle spalle una guerra civile, ci sono state lacerazioni che sono riaffiorate. Questo ci ha dato una volontà di lottare che forse in Italia non c’è. Anche in Italia c’è stata una guerra civile, ma è durata solo due anni e poi i comunisti hanno cominciato a collaborare con il governo, mentre qui eravamo divisi, da una parte i «buoni» che hanno preso posizioni estremiste e dall’altra i «cattivi» appoggiati da forze esterne, prima gli inglesi, poi gli americani». Il risultato delle elezioni è stata una risposta, dice chiaramente il film, a tutti quelli che descrivevano un futuro pieno di pericoli, un’indicazione rivolta anche ad altri paesi (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia) che aspettano che qualcuno faccia il primo passo. «La cosa straordinaria di queste interviste è stato il livello di risposte elaborate politicamente che non ci aspettavamo, dice Rizzo, da parte di appartenenti a qualunque classe sociale, dal semplice passante, al cameriere, alla gente incontrata per caso nei ristoranti. Fanno eccezione alcune studentesse che hanno dichiarato di essere senza speranza nel futuro, che probabilmente non andranno a votare o preferiscono non rispondere. Proprio al Politecnico, dove ci è stato impedito di entrare con la telecamera e forse per effetto dei duri scontri di novembre i pochi che hanno risposto hanno preferito non parlare». Certo una reazione ben diversa rispetto ai balbettamenti irosi che siamo abituati a sentire nelle nostre trasmissioni televisive pilotate. nel film ci sono riprese sul palazzo della televisione greca, l’Ert (ora ha cambiato nome, si chiama Nerit) che da un giorno all’altro (l’11 giungo 2013) spense la trasmissione e proprio di fronte si trova la sede dove gli ex dipendenti hanno aperto la loro redazione alternativa e trasmettono in rete, voce libera al servizio della comunità. « Spingere i tasti del telecomando e vedere tutto nero fa Guardare il mondo dall’interno di una casa yemenita, con gli occhi di una donna yemenita. Tra l’altro una donna che custodisce in sé anche una radice europea. In questi giorni di lutti, bollettini concitati, allarmi umanitari: ci rende forse un po’ meno estranei, anestetizzati, distanti, e ancora capaci di empatia. Un dono raro di questa piccola cinematografia e del Middle East Now Film Festival, la rassegna su tematiche culturali sociali e politiche del Medio Oriente, guidata da Lisa Chiari e Roberto Ruta, ora, fino al 13 aprile, a Firenze. Ecco, sentiamo il cuore andare oltre la cortina gelida e spersonalizzante dei report di guerra, per tornare a un momento essenziale nella storia tormentata del Paese, la rivoluzione del 2011, quando la corrente delle rivolte nordafricane accende la miccia di antichi conflitti anche nel lembo più meridionale della penisola arabica. Passato prossimo e podromi dell’attuale e complessa guerra civile yemenita. «Una rivoluzione incompiuta», «la più grande della storia dello Yemen, in cui a un tiranno immorale corrotto e bugiardo (Saleh), segue la sua ombra (Hadi)», fino a oggi, fino al ritorno di Saleh a fianco dei ribelli sciiti Houti, a sottrarre terreno al presidente Hadi, e a innescare il domino degli interventi dei colossi alleati. Processi talmente intricati che per meglio comprenderne gli ingranaggi storico-politici, nonché quelli squisitamente psicologici, è impressione», dice una ragazza. Lucidamente emerge il primo elemento della democrazia, la partecipazione: «Non sappiamo se Tsipras farà quello che ha promesso», dice una ragazza seduta al tavolo di un ristorante, dove la convivialità non è stata cancellata, proprio come nell’Argentina del default, tutti fuori dall’isolamento delle case e tutti insieme «ma è necessario che la gente partecipi. Syriza non è comparsa come un fulmine a ciel LA GRECIA A LECCE L’archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico sarà presente a Lecce con La Grecia è vicina di Renzo Rizzo che contiene anche materiali di repertorio d’epoca e con Attenzione Grecia realizzato da Ennio Lorenzin nel 1969, reportage sulla Grecia dei colonnelli, la penetrazione economica americana, l’alto clero ortodosso, la repressione, la resistenza, dalla notte del colpo di stato, agli arresti, ai campi di concentramento negli stadi e negli ippodromi, le parate militari e religiose e l’inizio della lenta riorganizzazione clandestina. I due film si potranno richiedere all’Aamod. Sseguirà un incontro con Luciana Castellina (all’epoca inviata di Paese Sera ed espulsa dal paese), la deputata europea Eleonora Forenza, Renzo Rizzo e Paola Scarnati dell’Aamod. Tra i film in concorso al festival ci sarà anche Anemistras, di Dimitri Bitos esplosivo dramma domestico. (5) più che mai beneaccetto un rewind a quel cruciale 2011. Ecco il bene immane del cinema, riportarci a quell’allora, a quella casa. Sana’a, la favolosa capitale dai palazzi «ricamati» di bianco, che Pasolini amò e riprese, e una casa con «finestra sul cortile», tra gatti, vociare di bambini, un giardino e un albero con frutti dal sapore indescrivibile d’infanzia, succose gocce rosse sul viso. La casa della famiglia Ishaq, The Mulberry house, quella del gelso, appunto. «Gruppo di famiglia in un interno» per cibo convivialità e discussioni di politica e società, matrimoni ancora inconsapevoli e l’emergere di una coscienza altra. Stai riprendendo? Allora togli quella brocca che impalla e portami il velo. Mentre gli occhi di cui sopra, gli occhi che osservano, sono i suoi, di Sara Ishaq, regista del documentario, un tempo bambina tenerissima negli homemovie spensierati col padre, sul «tappeto volante sonoro» di musiche alla Piovani, e voce over che racconta come, dopo il divorzio dei suoi, a 17 anni lasci «il soffocante contesto yemenita», per la Scozia, terra d’origine della madre, pur promettendo al padre di non recidere le proprie radici arabe. Così dieci anni dopo eccola tornare, in uno scenario tra i più provati da miseria e disoccupazione dell’area sereno, è stata plasmata dai movimenti». Questo, secondo Enzo Rizzo è uno dei punti chiave del suo lavoro che intende come materiale da far circolare il più possibile tra circoli di Sel, sedi dell’Arci e tutti i possibili luoghi di aggregazione perché valga come materiale di discussione: «Buona parte dei discorsi sono anche rivolti all’Italia, un po’ per le origini della ragazza italogreca e della sua famiglia che fa da filo conduttore e soprattutto per le indicazioni che possiamo trarre. Non tanto per la formula del partito Syriza che ha messo 25 anni per costituirsi, ma per l’indicazione dei principi di solidarietà e partecipazione senza avere come punto di riferimento un’élite politica. Non sono i leader che cambiano le cose, ma la gente. E in Italia al contrario si ostenta distacco dai movimenti, siano quelli dei No Tav, o del No Muos (NoMuosfilm è un suo documentario sul movimento contro la base della marina americana a Niscemi in Sicilia, si può vedere su youtube ndr) o di tutti gli altri, dove la gente è presente perché non può non farlo, perché la politica non si fa solo in Parlamento e, come si dice nel film, bisogna ristabilire il diritto della gente e il compito di un governo è occuparsi dei problemi della gente, non dei problemi delle banche». Prodotto dall’Aamod, con le musiche originali di Matilde Politi e Tumastui project. mediorientale: nel frattempo si è ulteriormente aggravato, tra l’altro da mesi nessuna notizia del cugino, incarcerato e torturato, mentre il padre di Sara scrive un appello su Facebook, cercando di spiegare al proprio padre, come funziona coi social. E lei che voleva «solo» girare un doc tra quelle care mura, si ritrova in quel luogo del tempo – gennaio 2011 in cui insieme a Tunisia ed Egitto tutto sta per accadere anche nello Yemen. Allora, in uno straniante circolo della visione, attraverso lo specchio del suo obiettivo, vediamo la famiglia riunita con gli occhi fissi al fuoricampo della tv, fino allo strazio delle news sulla strage di civili del 18 marzo. Allora, tra i timori affettuosi del nonno che ancora si affida al Corano e l’apertura supportante del padre (inaspettatamente una genealogia al maschile tutt’altro che oppressiva), che la sprona orgoglioso a imbracciare il coraggio e la competenza di filmmaker per disvelare al mondo le sofferenze e l’azione delle yemenite e degli yemeniti, sarà reporter dal suo Paese per la BBC e blogger. Tutti insieme affronteranno il buio, rischiarato solo da candele, dei bombardamenti, e insieme cucineranno un meraviglioso pasto per i rivoluzionari, mentre Sara e il nonno si scambieranno gesti di cura, tra innesti in giardino e piccole riparazioni alla videocamera di lei … Ancora acrobaticamente su filo delle rivolte in soggettiva femminile, sotterranee ma gigantesche, il Middle East Now lavora con sapienza sull’incompiuto di quelle «Rivoluzioni violate» di cui ha scritto Giuliana Sgrena, a gravare per lo più sul corpo di noi donne (solo percependo la continuità trasversale del «noi», come ha detto Azar Nafisi, possiamo uscirne), con il documentario di Alexandra Schneider Private revolutions: Young, Female, Egyptian. Ancora un riavvolgere il nastro alla scintilla del 2011, ancora uno sguardo altro, che muove da Vienna, assetato del coraggio delle donne egiziane, di apprenderne l’anomala conciliazione tra rivoluzione famiglia e quotidianità. Così, per due anni, Schneider non lascia quattro di loro: Sharbat, un «kit» da rivoluzionaria con maschera e forbici antistupro e tre figli che porta con sé perché sappiano cosa accade a Tahrir alle manifestanti, oltre le mistificazioni della scuola (restiamo pietrificati innanzi al racconto del figlio adolescente, arrestato e seviziato con elettroshock), a Amani, temeraria fondatrice di una radio solo per ragazze - perché siano sempre più consapevoli dei loro diritti, ribelli ad aberranti pratiche di mutilazione del loro corpo editora in una società dove ancora parlare di divorzio provoca incendi di libri e spedizioni punitive di un sistema repressivo parallelo; a May, un tempo bancaria e ora pronta a tutto per dare un senso ai suoi luoghi retrogradi in Nubia, progetto di sviluppo culturale tra mille sabotaggi e resistenze, fino a Fatema, attivista e madre, un master in Scienze Politiche, e dopo la caduta di Mubarak, parte del comitato elettorale di Morsi (in cui Sharbat e Amani, con lungimiranza, non credono). Lì Schneider la vedrà l’ultima volta. Non le sarà più possibile entrare in contatto con lei. Ecco, avendo visto lo sguardo di Fatema, noi chiediamo fortemente di sapere. E cosa ne è stato dei bambini della casa del gelso e del padre di Sara, ora che a Sana’a manca l’acqua e tutto, per le piante e per gli esseri umani. [email protected] (6) ALIAS 11 APRILE 2015 L’AQUILA di SILVANA SILVESTRI Si inaugura a Perugia il 15 aprile una mostra multimediale dal titolo «L’Aquila frammenti di memoria», realizzata dagli allievi del corso di Reportage Audiovisivo della sede Abruzzo del Centro Sperimentale di Cinematografia diretto da Daniele Segre. Fanno parte di questo materiale i reportage radiofonici che sono in questi giorni trasmessi da Radiotre (e che si possono ascoltare in podcast) come Ritratto di un giornalista di Eleonora Gasparotto sull’impegno civile di Giustino Parisse caporedattore del quotidiano Il Centro e la sua drammatica esperienza che si esprime con parole da brivido, la morte dei figli e del padre a causa del terremoto. I giornali nazionali dice, sono latitanti, dell’Aquila non se ne occupa più nessuno. Lui ha continuato a raccontare giorno dopo giorno tutti quegli eventi che passerebbero sotto silenzio. Parliamo con Daniele Segre, che in Italia fu tra i primi a usare il video con la sua casa di produzione I Cammelli, della mostra e della scuola: «È una mostra multimediale, fotografica, di reportage radiofonici e video oltre a reportage scritti, le quattro discipline della nostra scuola». Questo in linea con le richieste che vengono fatte oggi ai giornalisti che devono scrivere, fotografare, filmare e postare. «Esatto, l’ordine dei giornalisti ci sta anche chiedendo dei corsi di aggiornamento per i giornalisti, per adeguarli alle nuove richieste di mercato che sono sulle quattro forme principe del reportage. È un modo di utilizzare al massimo le potenzialità di intervento, documentazione e racconto di alcune situazioni. I risultati che sono espressi nella mostra sono stati ottenuti nel corso di base tenuto da settembre a dicembre che serviva a valutare le attitudini degli allievi. Il primo anno è iniziato a gennaio, adesso è finito il primo trimestre e i radiodocumentari che si sentono su Radiotre sono frutto dei laboratori del primo trimestre, mentre «L’Aquila frammenti di memoria» è relativo a settembre-dicembre 2014 quando è stato fatto il corso di base. Ho subito testato gli allievi, ho dato questo obiettivo che per fortuna è stato raggiunto. Il corso di base deve valutare le attitudini per comprendere se tutti quelli che sono stati ammessi sono adatti a essere ammessi al corso regolare. Gli allievi vengono da varie parti d’Italia, abbiamo friulani, veneti pugliesi, campani, abruzzesi, uno dell’Aquila e uno di Pescara. L’unico straniero era georgiano ma si è ritirato, probabilmente perché non era quello il suo indirizzo. La più giovane allieva ha 26 anni e il più anziano ha 27 Reportage dai non luoghi Daniele Segre che dirige la Scuola di Reportage Audiovisivo del Centro Sperimentale sede Abruzzo parla della mostra che si inaugura a Perugia il 15 aprile e che testimonia il lavoro dei giovani allievi anni» sono quindi perfetti per le nuove tecnologie, sono nativi informatici: «Sulla carta sì, però per fortuna è sempre importante il cervello e le abilità intellettuali che devono essere alla base dell’attività del reporter». I reportage che ho sentito sono impressionanti, tra l’altro si parlava del silenzio della stampa, perché ora succedono solo «fatti minimi» che non interessano: «La situazione all’Aquila non è delle migliori, perché dopo sei anni poco è stato fatto. La mia attenzione rispetto all’attività didattica era lavorare per il territorio per rappresentare un punto di riferimento di riflessione adeguato per maturare delle consapevolezze, per valorizzare la dignità stessa degli aquilani oltre che dare visibilità al nostro corso, ma innanzi tutto essere al servizio del territorio e produrre un’azione di sensibilizzazione, perché per gli aquilano è una situazione delicata e anche pesante». Che impatto avete voi che venite da fuori? «È un impatto forte perché è una città che ha il centro storico semidistrutto tutto puntellato, non c’è vita di aggregazione come in tutte le città del mondo. Ora hanno aperto alcuni pub il giovedì venerdì e sabato e c’è il giovedì dell’universitario, un’occasione per ritrovarsi, bere e divertirsi. La città in questi luoghi non vissuti si anima, ma è una situazione problematica, perché ci sono i problemi dei servizi pubblici, come si dice in uno dei radioreportage: i mezzi LA MOSTRA L’Aquila frammenti di memoria «L'Aquila, frammenti di memoria» si inaugura a Perugia il 15 aprile, installazione multimediale, risultato del lavoro svolto dagli allievi del Corso di base di Reportage Audiovisivo (settembre/dicembre 2014) del Centro sperimentale di cinematografia sede Abruzzo all’interno dell’evento PerSo for #IJF15 – Documentari d’Inchiesta, rassegna curata dal PerSo – Perugia Social Film Festival che si inserisce nel cartellone del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. A sinistra il centro dell’Aquila prima del terremoto, le altre foto fanno parte della Mostra ALIAS 11 APRILE 2015 pubblici prima avevano come punto di riferimento il centro storico, adesso il baricentro è il centro commerciale. Il nuovo luogo di aggregazione è il centro commerciale L’Aquilone. Poi ci sono le situazioni nei moduli abitativi provvisori dove hanno praticamente deportato tutti e dove gli anziani hanno perso gli amici di una vita, hanno perso il riferimento del bar, dell’osteria, scoprono gli amici leggendo gli annunci funerari e si fanno accompagnare almeno al funerale. Ma anche per andare in farmacia o fare la spesa hanno bisogno che qualcuno li accompagni in macchina perché questi moduli abitativi sono privi di servizi. Altri servizi radiofonici parlano dei progetti positivi che stanno immaginando per dare un senso al loro futuro di aquilani, quindi non è solo uno sguardo critico, è uno sguardo rivolto al futuro. «L’Aquila frammenti di memoria» che è la prima tappa non poteva che partire dalla tragedia del terremoto, anche per ribadire il concetto della memoria, per avere un punto di riferimento su cui riflettere che ti si presenta davanti tutti i giorni come una scenografia di Cinecittà con queste case puntellate e di notte se cammini è una situazione spettrale. Non so quanti decenni ci vorranno per riportarla come era allora». Realizzerete reportage anche su altri luoghi? «Anche se siamo sostenuti dalla Regione Abruzzo, dal comune e dal Mibact, gli allievi verranno attivati su altri temi che potranno nascere aprendo il giornale e destinandoli a un intervento immediato. Non c’è niente di preordinato. Lavoriamo come in una redazione di giornale, con tempi serrati e con docenti che vengono da tutta italia e che sono tra i migliori, come Goffredo Fofi, Lorenzo Pavolini, Daria Corrias di Radiotre, Luciana Castellina, Giuliana Sgrena, verrà Giorgio Meletti del Fatto, è venuto Alessandro Leogrande, Massimo Raffaeli, chi cura la materia storia del cinema è Tullio Masone, come fotografi Mario Dondero e Tano D’Amcico, Roberto Perpignani per il montaggio e un ex allievo del Centro, Matteo Passerini, un altro ex allievo del Centro tecnico del suono Edgar Iacolenna, è venuto Luca Bigazzi. Il sindaco Cialente ha introdotto ’Conoscere l’Aquila’, sono intervenuti Casacchia luminare della psichiatria aquilana, lo storico aquilano Walter Cavalieri. Tutti quelli a cui ho chiesto di fare da docenti hanno accolto l’invito con entusiasmo». HPSCCRD XING / LIVE ARTS WEEK BOLOGNA, 21 APRILE Clavicembalo, la sfida infernale di John Cage di MARIO GAMBA Il clavicembalo non gli piaceva per niente. Una insofferenza pari a quella per il vibrafono («melenso») ma con motivazione diversa: «Mi ricorda una macchina per cucire». Eppure nell’anno 1967 John Cage si mise all’opera con l’obiettivo di elaborare un brano «mostruoso» al cui centro dovevano esserci ben sette clavicembali. Che cosa era successo? Come aveva rotto gli indugi che gli avevano fatto rimandare una risposta all’invito della clavicembalista svizzera Antoinette Vischer di scrivere, appunto, un pezzo per il suo strumento? Mica un invito platonico: si trattava di una commissione pagata, simile a quelle che la concertista aveva assegnato o avrebbe assegnato in futuro a compositori come Luciano Berio, Earle Brown, Hans Werner Henze, Duke Ellington. Ma Cage nicchiava. Dando poco ascolto a un’altra clavicembalista, Sylvia Marlowe, americana, pure lei smaniosa di avere un regalo musicale dal compositore compagno d’arte e d’amore del divo della danza Merce Cunningham. L’agente segreto che fece decidere Cage per il sì si chiamava computer. Sulla carta c’entrava poco col clavicembalo, che questo strumento fosse usato per matematiche/delicate Fughe o Partite sei-settecentesche o per meccaniche/inquiete indagini come quella che il novecentesco György Ligeti, proprio nello stesso periodo, stava completando con la scrittura del clavicembalistico Continuum (1968). Sulla carta. In pratica era tutto da vedere. Intanto bisogna precisare che il sì Cage non lo disse ad Antoinette, o meglio non solo a lei: lo disse a Lejaren Hiller, direttore del Dipartimento di Computer Music all’Università dell’Illinois e compositore a sua volta. Gli disse che era interessato a sfornare una composizione impiegando il computer e gli chiese la sua consulenza. Hiller lo convocò per un anno alla sua università e Cage si mise al lavoro insieme a lui. Ma già prima di cominciare Cage aveva avuto un’idea luminosa: perché non mettere assieme il progetto di un’opera ambiziosa fatta al computer con la soddisfazione della richiesta di una brava concertista, Antoinette Vischer? Cage era anarchico e situazionista ma non per questo mancava di spirito imprenditoriale. Era anche un’anima gentile. Arrivò a Urbana-Champaign, Illinois, all’Università, con in tasca il piano di HPSCHD, titolo che altro non era che la contrazione della parola harpsichord, clavicembalo. Nei giorni, mentre esplorava le risorse del computer che Hiller gli metteva a disposizione, aiutandolo, anzi distillando idee compositive in tandem con lui e regalandogli l’assistenza dei tecnici suoi collaboratori al Dipartimento, si accorse che i suoni sintetici, artificiali, che faceva sprigionare da quella macchina potevano congiungersi efficacemente, dialogare, assimilarsi, soprattutto sovrapporsi in maniera stimolante ai suoni destinati al clavicembalo ma prodotti col computer stesso. Ed ecco prendere forma un’opera spettacolare e folle. La stessa che Xing/Live Arts Week, il cenacolo bolognese di arti visive/sonore/performative, farà rivivere il 21 aprile dalle nove di sera a mezzanotte e oltre in una sala della galleria MAMbo della capitale emiliana. Cage e Hiller – in duo fino a un certo punto, difficile stabilire un ordine inventivo gerarchico, ma è accettato comunemente che la firma effettiva finisse per essere quella di Cage e che lui avesse voluto associare quella del compagno e guida – elaborarono sette parti musicali per altrettanti clavicembali e 51 nastri magnetici di suoni artificiali. I brani per i clavicembali erano ricavati (con modifiche varie), tranne uno, il primo, da battute di opere di Mozart. In uno degli assoli per clavicembalo apparivano battute di altri compositori: Beethoven, Chopin, Schumann, Gottschalk, Busoni, Cage (da Winter music), Hiller. La scelta delle battute di Mozart e degli altri compositori, e delle loro modifiche, era affidata al caso, o meglio, al metodo dell’I-Ching (usato da Cage per la prima volta per Music of change nel 1951) e al metodo di Mozart del «gioco dei dadi», Musikalisches Würfelspiel, assai apprezzato da Cage. La stessa cosa avveniva per quanto riguarda la scelta dei suoni e lo svolgimento dei brani dei nastri magnetici. Tutto veniva assemblato da un software programmato per operare, appunto, scelte e modifiche casuali. Le parti dei clavicembali e quelle dei nastri magnetici avevano una durata di venti minuti e potevano, anzi dovevano nelle intenzioni di Cage e Hiller, essere ripetute, sovrapposte, accostate per un tempo indefinito. L’obiettivo era una musica che avesse l’effetto della moltiplicazione degli episodi e nello stesso tempo contenesse la reiterazione di quegli episodi. Ripetizione abbinata all’espansione senza limiti. «Alla fine non si sentiva distintamente nulla», racconta Philip Corner, ottantenne compositore americano da anni residente a Reggio Emilia (un suo lavoro entusiasmante, I’deal Orchestra, è stato presentato in prima assoluta nel settembre 2012 a Bologna nell’esecuzione dell’Orchestra del Comunale diretta da Tonino Battista). «Nulla delle varie componenti dell’opera, in particolare delle battute riprese da Mozart e dagli altri compositori. Un caos totale, il suono dell’assieme era fitto e denso e prodotto con criterio stocastico, diciamo col calcolo delle probabilità. Statisticamente il flusso sonoro cambiava di rado e ciò permetteva al pubblico di andare e venire». Ovviamente era proprio questo che gli autori si proponevano di ottenere. Corner – nell’équipe di clavicembalisti che suonerà HPSCHD all’imminente Live Arts Week IV bolognese - non è un testimone qualsiasi: era uno dei sette clavicembalisti convocati da Cage per la prima mondiale dell’opera la sera del 16 maggio 1969 alla Assembly Hall dell’Università dell’Illinois. Tra gli altri alla tastiera dell’antico/moderno strumento si trovavano David Tudor, il grande solista (pianista, per la verità) che ha accompagnato Cage in tante imprese della sua carriera, e – guarda guarda! – Antoinette Vischer, la committente-interprete. L’evento durò cinque ore circa davanti a 7.000 fruitori. Ma quello che non si è ancora detto è che l’opera era diventata multimediale. Non è chiaro se Cage e Hiller l’avessero pensata così fin dall’inizio, sta di fatto che il gigantesco apparato sonoro era immerso o avvolto, insomma in rapporto comunicativo-espressivo strettissimo e assai significativo, in una gran massa di immagini e film proiettate su uno schermo circolare che occupava i lati di tutta la sala. E il gruppo di artisti visivi, videomaker, grafici A Bologna si ripete l’opera nata da un’idea «monstruosa» messa in scena dal musicista per la prima volta nel 1967 (7) LA MOSTRA Philip-Corner al piano, Villa Croce 2002; HPSCHD, shirt disegnata da Gary Viskupic 1969 La pittura prima e dopo tutto: l'arte di Ull Hohn in una personale a Peep Hole, Milano di GIANLUCA PULSONI implicati nello spettacolo/performance/happen ing aveva adottato gli stessi criteri di casualità dei compositori per elaborare e poi montare i propri lavori. Il fattore multimediale sarà esaltato nella messa in scena di Live Arts Week IV. Ben diciannove videoartisti di tutto il mondo saranno della partita e, una volta conclusa la rappresentazione di HPSCHD, i loro lavori rimarranno in mostra al MAMbo. E i clavicembalisti? Questa volta saranno cinque e si alterneranno su tre strumenti (le versioni «alleggerite» dell’opera furono previste da subito, chiaro che tutte le parti originali, strumentali e digitali, a Bologna saranno eseguite). Sono Philip Corner, Luciano Chessa, Anthony Pateras, Salvatore Panu e Marco Dalpane. Dice Dalpane, tastierista e compositore di gran pregio, votato alla sperimentazione sul fronte di una musica anti-cerebrale che cattura elementi della cultura di massa: «HPSCHD è un lavoro anomalo per Cage, è quello dove ha tentato di mettere in atto la sua idea anarchica di caos attraverso la moltiplicazione supercaotica delle fonti di suono. A me tocca la parte di clavicembalo più complessa, credo, frutto di una scrittura volutamente forzata, più che altro dimostrativa, ogni nota è preceduta da un’alterazione, abbondano i bequadri». A Corner, invece, in occasione della prima del 1969, toccò la parte «libera» tra le sette per clavicembalo. Il solista può suonare qualsiasi composizione di Mozart o riprendere le parti dei suoi colleghi alla tastiera, e può adottare i criteri di successione e di dinamica che preferisce in un dato momento. «Proprio in quei giorni stavo lavorando sul Concerto in do minore di Mozart», racconta. «Estrapolai sei misure di quel Concerto, le suonai dapprima lentamente, poi sempre più velocemente procedendo verso la fine delle sei misure. Il brano che suonai io era l’unico in cui l’autore classico era riconoscibile, tutti gli altri erano un reticolo di suoni in cui di mozartiano non si sentiva nulla. Ero affascinato dall’idea di collaborare a una grande opera di Cage». Ora la palla passa ai protagonisti di Live Arts Week IV. Magnifica sfida. Forse infernale. Si inaugura oggi (ore 18.30) – per poi durare fino al 6 giugno 2015 – painting, painting, la prima mostra in Italia dell'artista tedesco Ull Hohn (1960-1995), con un intervento dell'artista statunitense Tom Burr. Il luogo designato è un piccolo e prezioso centro d'arte di Milano, in Via Stilicone 10, cioè Peep Hole (sito in rete: www.peep-hole.org): centro d'arte contemporanea che dal 2009 lavora focalizzando l'attenzione su pratiche artistiche contemporanee diverse, con programmi agili composti anche di lectures, conversazioni ed eventi. Ora, perché la scelta di Hohn? La direttrice della galleria Bruna Roccasalva spiega: «perché in un momento storico in cui si faceva strada l'istitutional critique e si guardava con sospetto alla pittura, Ull Hohn ha portato avanti una ricerca in grado di far convivere questa pratica con l'approccio teorico predominante in quel momento, e perché al di là del valore che ha avuto all'interno di quel contesto storico-artistico la sua ricerca è ancora attuale se ricondotta a un più generale dibattito sulla pittura.» Nella breve biografia dell'artista tedesco, a voler essere schematici, due esperienze sembrano essere alla base della sua formazione: gli studi iniziali, quelli all’Accademia di Düsseldorf con il grande Gerhard Richter e l’esperienza del «Whitney Independent Study Program» a New York. E in merito, si potrebbe suggerire che con la prima ci sia l'acquisizione di un saper-fare pittorico come condizione si base e che con la seconda, invece, ci sia l'acquisizione di una specifica consapevolezza teorica e concettuale. La mostra presenta una disposizione non cronologica di una selezione di opere dell'artista che attinge da due importanti serie da lui realizzate nel 1988, cioè Nine Landscapes e Off The Wall, poste in due pareti diametralmente opposte all'inizio e alla fine dello spazio espositivo. Fra questi due limiti sono poi presentate le fasi del lavoro e quindi della ricerca di Hohn, in un percorso in dialogo con l'opera di Tom Burr – al di là del rapporto di natura privata tra l'artista tedesco e l'artista americano, l'affinità si basa anche sul medesimo contesto storico-artistico (la presenza di entrambi nel Whitney Program). Alla fine, quel che si mostra è un insieme di stili e registri diversi dove, nella sperimentazione dell'artista, si può vedere la pratica pittorica come orizzonte di senso, eterno ritorno di una azione che passa, per esempio, attraverso la mediazione della pittura di paesaggio: dai riferimenti all'arte di Albert Bierstadt e all'Hudson River School agli esercizi didattici memori del programma televisivo di Bob Ross, Joy of Painting. In fondo, un qualcosa di perfettamente coerente con la ricerca di Peep Hole, come conferma di una necessità di guardare al futuro da diversi punti di vista, solidi quanto una tradizione e però aperti all'immaginazione: come, appunto, lo sguardo tramite uno spioncino. (8) ALIAS 11 APRILE 2015 TUTTI IN PISTA SE IL CIRCO EL GRITO INCONTRA WU MING Letteratura da sfogliare sotto un tendone rigorosamente a strisce completamente altra. Non si può disattendere la spettacolarità che impone un tendone da circo. Non passare per delle categorie già conosciute non vi pone dei freni nella costruzione dello spettacolo? Giacomo: Per niente, anzi. Il fatto che in scena a rischiare la pelle ci sia Wu Ming 2 che, diciamocelo, non è propriamente un circense doc, si fa più interessante proprio in quanto rottura degli schemi. Se ci fosse un attore non funzionerebbe». WM2: Il valore in più è che lo scrittore si fa sparare addosso e spara a sua volta, c’è una sua drammaticità viva, rafforzata dall’accerchiamento del pubblico. è una serata al circo sotto al tendone, ma è qualcosa di unico, completamente nuovo nello scenario artistico, in cui il numero acrobatico va di pari passo con il messaggio. di LUCA PAKAROV Sebbene ci sia una grande tradizione di circo, in Italia è stato relegato nei parcheggi di periferia, sempre più aderente all’immaginario di nomadismo che a quell’epifania di cui parlava Fellini. Perché da noi lo si associa unicamente a clown, saltimbanchi e animali in gabbia. Se nel resto d’Europa esistono centinaia di compagnie con una tradizione artistica che girano per teatri e chapiteau, che si incontrano per discutere delle normative che regolamentano gli spettacoli, in Italia siamo ancora all’anno zero. Il circo una volta apriva il proprio strano mondo direttamente nel cuore delle città, nelle piazze sotto casa, dove lo chapiteau permetteva a tutti di confrontarsi con una cultura anomala. Spazi di cui si sta riappropriando la compagnia El Grito, una delle poche compagnie italiane di circo contemporaneo orientate alla sperimentazione artistica, per far conoscere nel nostro Paese un circo diverso, con una funzione sociale e legato ai contenuti. Così la stravaganza circense ha incontrato la letteratura: Giacomo di El Grito ha creato con Wu Ming 2 lo spettacolo Piccolo circo magnetico libertario, sulle tracce de L’armata dei sonnambuli. Non è la presentazione di un libro, non Il circo ha una coreografia e una regia, ma cosa c’entra la letteratura? WM2: La nostra attitudine è quella di raccontare storie con tutti i mezzi possibili. A me il circo non sarebbe mai venuto in mente se non avessi conosciuto Giacomo e El Grito. La base di riferimento in Piccolo circo magnetico libertario ce l’ha data uno spettacolo che avevamo eseguito con il mentalista Mariano Tomatis. Il nostro ultimo romanzo parla di magnetismo animale, ipnosi, suggestione e, come accaduto con Tomatis, si poteva trovare il modo di incrociare letture del libro e numeri di magia e illusionismo. Questo è stato un po’ il canovaccio, senza però incollare la letteratura sopra un altro genere di espressione; sia chiaro: non abbiamo agito come lo scrittore che legge i suoi testi e i musicisti di sottofondo. Giacomo: Il circo contemporaneo è nato dalla sintesi di diversi linguaggi, la multidisciplinarietà è una sua prerogativa. Solitamente, si esprime attraverso un linguaggio di tipo non verbale con il compito di evocare piuttosto che descrivere o raccontare una storia. Il Piccolo circo magnetico libertario non trae semplicemente ispirazione da un opera letteraria, ma ne porta in scena il suo autore tra colpi di pistola e acrobazie magnetiche. È un esperimento di circo e letteratura in cui l’autore del libro, matrice del significato, diventa significante». Come si può avvicinare un pubblico che, soprattutto in Italia, non è abituato a un circo concettuale? WM2: Quanto avviene nel numero non è didascalico al reading, il numero di circo ha lo stesso tema, ma non è un gioco in cui uno illustra dell’altro. Fondamentale è stato calibrare i tempi delle letture: ci siamo resi conto che il potenziale non sta nella presentazione di un libro spettacolarizzata, ma in uno spettacolo ispirato, tanto che, in fin dei conti, potrebbe anche non esserci il romanzo. Giacomo: Nonostante ci sia una componente concettuale, il nostro resta un circo contemporaneo «all’antica», autenticamente popolare, le cui proposte sono adatte a ogni genere di pubblico. Per i suoi forti esperimenti di mesmerismo in questo caso lo spettacolo è sconsigliato ai minori di 14 anni, ma si rivolge sia al pubblico attratto dalla letteratura di Wu Ming, che a quello spettatore che, ancora oggi, in Italia è affascinato dalla piazza che di notte diventa circo. Al di là del suo valore concettuale, per noi la pista circense deve essere una terra lontana, una bolla temporale all’interno della quale ci si ritrova in un paese straniero. Non c’è il pericolo di disattendere le aspettative? Giacomo: Credo che con il Piccolo circo magnetico lo spettatore abbia la libertà di scegliere se fermarsi ad un primo grado, e godersi le immagini surreali e i virtuosismi circensi, oppure se scendere in profondità nel racconto, nel suo significato». WM2: Bisogna evitare uno spettacolo troppo incongruo al contesto in cui ti trovi, magari un po’ strano ma non una cosa Ne «L’armata dei sonnambuli» siamo a Parigi, sotto il Regime del Terrore della Rivoluzione francese, e ci sono due praticanti di mesmerismo: cosa avete rappresentato? WM2: Uno di questi è un rivoluzionario che crede che mesmerismo, suggestione e proto ipnosi possano aiutare la rivoluzione stessa e le sue cause. L’altro invece è un controrivoluzionario che vorrebbe lo stesso strumento al servizio del potere, per dar vita a un esercito di soldati invincibili. Un po’ come ogni tecnologia. Le letture riguardano diversi aspetti del magnetismo, per esempio a quei tempi si era convinti che un individuo magnetizzato diventasse più forte fisicamente e, nello spettacolo, questa credenza viene associata a un numero che riguarda la forza fisica… è così che mi ritrovo con un coltello sopra la testa». Giacomo: In scena ci sono dei circensi che si sottopongono ad esperimenti di mesmerismo. Dobbiamo però capirci bene: non è magia con il trucco, ma si tratta di esercizi di concentrazione. C’è il rituale dell’ipnosi collettiva e l’acrobatica aerea di una donna in trance. E c’è uno scrittore che mentre legge si fa sparare addosso tenendo dei bersagli per poi, da vittima, diventare carnefice. Tutto è capovolto. Il mesmerismo applicato è una buona quanto triste metafora della società: la facilità di essere ipnotizzati… WM2: Ad un certo punto, con una serie di esercizi, mesmerizzo il pubblico... Attenzione però, ci si può opporre all’ipnosi collettiva, fondamentale è l’intenzionalità a concedersi. Molto spesso la nostra è servitù volontaria, come diceva La Boétie noi la scegliamo perché, chi ci asservisce, magari ci «Il nostro ultimo romanzo parla di magnetismo animale, ipnosi, suggestione: bisognava incrociare letture del libro e numeri di magia e illusionismo» promette qualcosa in cambio. In altre parole lo spettacolo invita a chiunque si senta asservito a ragionare su quanto, almeno all’inizio, sia stato complice, di quanta consapevolezza c’era e che cosa sperava di ottenere in cambio da quella cessione di volontà. C’è molto mesmerismo nella società. Giacomo: Il pubblico si presta all’ipnosi perché sa che è in un contesto giocoso, in un certo senso è come se ci fosse un atto di fiducia verso di noi, ma a pensarci bene è la stessa fiducia che viene data all’istituzione e all’autorità costituita. Questo spettacolo è un invito a prendere coscienza sul proprio stato di libertà. http://www.elgrito.net/ A pag.8 e 9, alcuni numeri dello spettacolo del circo El Grito. Fotografie di Natalia Bavar Le immagini degli spettacoli di Constanza Macras (in alto "Open for everything" e in basso "Berlin Elsewhere" sono di Thomas Aurin ALIAS 11 APRILE 2015 (9) di GIANNI MANZELLA Constanza Macras non ha più voglia di giocare. La danza si è arrestata, seduti a formare un semicerchio i nove interpreti danno voce a memorie lontane, che settant’anni dopo ancora dicono di un dolore non sanato. Potrebbe essere di istintiva sorpresa la prima reazione dello spettatore davanti a The past, la più recente creazione che la coreografa ha presentato alla Schaubühne di Berlino. Sarà anche per l’asprezza delle musiche composte da Oscar Bianchi, eseguite in scena da una violinista e da un percussionista che mette alla prova le capacità sonore di tutto ciò che capita sotto le sue mani, non solo le due batterie a disposizione con cui si lancia in fragorosi assoli. Ci aveva conquistato, la giovane artista porteña, anche per quella sorta di giocosità con cui metteva in scena uno spaesamento che non è evidentemente soltanto suo. Quel piacere di condividere lo spazio del teatro che ritroviamo intatto nel trascinante Open for everything che arriva per due sere sul palcoscenico del Teatro nuovo Giovanni da Udine. Ecco infatti, in quest’altro spettacolo, una variopinta comunità Rom proveniente dall’Europa centrale fondersi con i suoi canti e i suoi balli con i passi dei danzatori della compagnia Dorky Park, fino ad annullare ogni distinzione. Sono giovani e no, anche bambini. Sono ungheresi e cechi e slovacchi. Ciascuno con una propria abilità individuale che vien fuori da una storia collettiva. Si era parlato altre volte di un immaginario fusion, a proposito della capacità di Constanza Macras mettere in danza la globalizzazione in cui siamo immersi. Non per gusto postmoderno, malgrado l’innato eclettismo o la voracità con cui sembra addentare ogni immagine. Ma perché così non può che essere, sembra dirci. Ecco per esempio che quel violino così connotato nelle sue sonorità gitane può piegare a supporto di una danza molto simile a un rock’n roll. E quei panni colorati, quei ciaffi che dilagano sulla scena sono poi il corrispettivo di un disordine del mondo, della sua inevitabile entropia. Di cui si fa specchio la scena, che altre volte qualcuno ha definito sguaiata – in senso dispregiativo, ma forse all’artista il termine non dovrebbe dispiacere, se si intende la sua sconvenienza come scarsa attenzione alle convenzioni del décor. Qui domina nel mezzo un container di lamiera che funge da porta di comunicazione con il mondo esterno e da un lato una vecchia automobile di grossa cilindrata, e passerà anche una zebra impagliata. Constanza nelle città. Ogni spettacolo della sua compagnia parte con un viaggio e diventa a sua volta un viaggio, in cui viene coinvolto lo spettatore. A volte il viaggio ha coordinate geografiche precise, come l’India di Big in Bombay – qui sono i campi Rom nei pressi di Praga o Budapest, che la compagnia ha girato per un paio d’anni mentre raccoglieva i nuovi compagni (lo spettacolo ha debuttato nel 2012). Altre volte il viaggio si arresta all’apparenza sotto casa, come il popolare quartiere di immigrati visitato in Scratch Neukölln. Oppure assume caratteri più mentali, e perturbanti, come l’inoltrarsi nella Una variopinta comunità di Rom dell’Europa centrale si fonde con i passi dei danzatori della compagnia Dorky Park tropicale foresta di No Wonder, in cui l’artefice aveva scelto di rimettersi in gioco impudicamente in prima persona, o nell’immaginario paradiso artificiale di Brickland dove una comunità agiata replicava i suoi riti. E ogni viaggio comporta necessariamente l’incontro con l’altro, o bisognerebbe dir meglio: con l’immagine dell’altro. È che agli stereotipi non si può girare intorno, bisogna per forza andarci a cozzare. E allora ti accorgi che il teatro di Constanza Macras si dipana tutto attorno ad alcuni fili molto solidi, che tengono anche quando lo spettacolo sembra allontanarsi, come in The past. Non è solo per via di un riconoscibile linguaggio coreografico che si trasmette da un lavoro all’altro – quel rotolare a terra facendo perno su un braccio in appoggio, quel saltare inarcando la schiena... Con una sorta di forza gravitazionale, capace com’è di assorbire la street dance dei ragazzini di Scratch Neukölln, tanto quanto le danze gitane di Open for everything. Nel teatro di Constanza Macras, la danza non è mai un esercizio di stile fine a se stesso. Perché possa svilupparsi, qualcosa deve caricarsi fino a rischiare di esplodere. La danza è ciò che resta dopo che tutto si è consumato. Quando non c’è più nulla da comunicare e bisogna invece esprimere. È che dietro l’eclettica voracità con cui si consumano le immagini della nostra quotidianità, dietro il gusto divertito e divertente per le commistioni pasticciate, l’indisciplinato giocare a cavallo dei generi, ci sta anche un severo bisogno etico di «tornare al presente», come suggeriva il titolo del suo primo successo, Back to the present appunto, che vedemmo ad Avignone una decina d’anni fa. Che non è soltanto il difficile «ritorno al presente» che segue la fine di un amore; può essere una buona metafora di quella fragilità della memoria che sta, fin dall’inizio, nell’insegna di Dorky Park (la memoria è fragile, l’immondizia resta per sempre – dice con TEATRO OPEN FOR EVERYTHING, UDINE 17-18 MARZO Immaginario fusion di Costanza Macras tra i nomadi qualche ironia il loro motto). La memoria è dichiaratamente il tema di The past. Lo rivela già il titolo. (C’è sempre un tema all’origine di uno spettacolo di Constanza Macras, o forse una meta da raggiungere. E lo spettacolo non è allora che il percorso da compiere per riempire questa distanza, e la somma dei detriti che ogni storia si lascia dietro). Lo spettacolo programmaticamente esplora l’ars memoriae, le tecniche della memoria studiate già durante l’antichità classica e riportate in vita in epoca rinascimentale. E infatti la drammaturgia, firmata com’è ormai abitudine da Carmen Mehnert, fa proprie le parole di Frances Yates, la massima studiosa della tradizione ermetica; sfiora Giordano Bruno e cita l’arduo «teatro della memoria» di Giulio Camillo, mentre si disserta anche del concetto fuorviante del tempo e del rapporto esistente fra la parola «gatto» e il suo oggetto. E nel tessuto drammaturgico si insinuano anche Walter Benjamin e Hannah Arendt. Ma la dissertazione accademica si intreccia, in maniera un po’ derisoria, con gag da comica slapstick o con le prove di un film d’azione, sopra e sotto un’impalcatura metallica a più piani collegati da rampe di scale come in un’incisione di Escher, però fornita di parabole televisive che danno l’idea di una modernità relegata in periferie marginali o emarginate. L’arte della memoria che qui più interessa è quella portata dagli stessi interpreti, come già avveniva in I’m not the only one. Ricordi familiari. Un casa troppo piccola. Un’anziana donna che danza seminuda. E tramite di loro, si diceva, quella di quattro anziane donne sopravvissute alla distruzione di Dresda, nel tardo inverno del 1945, incontrate dalla compagnia durante la preparazione dello spettacolo. Gli allarmi. I primi raid nella notte. Il passato. Detriti. Serve questa memoria? Non c’è bisogno di preservare tutto – risponde Sophie Calle; bisognerebbe semplicemente lasciare le cose come stanno, come tracce. E forse non vale solo per la rimozione della statua di Lenin a Berlino o per la ricostruzione della Frauenkirche uguale a com’era, prima che Dresda fosse rasa al suolo. Un teatro che lascia delle tracce. Potrebbe essere una buona definizione di quel che Constanza Macras va cercando. A cominciare dalla domanda che ci pone Open for everything: chi sono i nomadi di oggi? Perché, vale la pena ripeterlo, Constanza Macras è fra i pochi artisti in grado di porre il problema del posizionamento dell’artista, ma anche dello spettatore, nei confronti della realtà contemporanea. Senza smettere di divertirci. (10) ALIAS 11 APRILE 2015 SPORT Il futuro segretario del partito comunista scrisse in favore del foot-ball come gioco che rappresentava la modernità contrapposto allo scopone simbolo di corruzione e imbroglio. Apprezzarono in seguito anche Togliatti e Berlinguer, entrambi juventini Gramsci, il calcio e lo scopone di PASQULE COCCIA Se Antonio Gramsci fosse vivo, la domenica andrebbe allo stadio. Non sappiamo se frequenterebbe lo Juventus Stadium, il gioiellino di casa Agnelli, edificato sulla scia degli stadi di proprietà delle più grandi squadre europee, per seguire le imprese calcistiche dei bianconeri, oppure andrebbe più volentieri a vedere le partite del Torino, che il semplicismo calcistico vorrebbe essere la squadra degli operai della Fiat, oggi di proprietà di Cairo, il patron di La 7. Circa un secolo fa, nelle sue rubriche di costume sull’ Avanti! poi raccolte nel volume Sotto la Mole, Antonio Gramsci invitava gli operai a frequentare lo stadio, esaltando il mondo del calcio come espressione della modernità. Il futuro segretario del partito comunista analizzò due aspetti del tempo libero degli operai: il calcio e il gioco delle carte. Lo scritto gramsciano pubblicato sotto il titolo emblematico Il Football e lo scopone è l’occasione Nella foto il "magico trio": Sivori, Boniperti e John Charles. Gramsci con alcuni giornalisti di Ordine Nuovo per analizzare i vizi e le virtù degli italiani attraverso il gioco del calcio, che metaforicamente rappresentava la società liberale, quella anglosassone e patria del calcio, contrapposta alla società della corruzione e dell’imbroglio italiana-giolittiana: «Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l’individualismo economico del regime ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell’opposizione». Gramsci in realtà parte da una lunga premessa sul modo di essere degli italiani, che preferiscono lo stile di vita pantofolaio, confermato un secolo dopo da una recente indagine di Eurobarometro, l’istituto di ricerca dell’Ue, che classifica gli italiani tra i più sedentari d’Europa dopo i greci e i bulgari. «Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All’aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo» premette Gramsci, prima di addentrarsi in un’analisi interessante che mette a confronto la cultura del calcio e quella dello scopone, espressione di due modi contrapposti di concepire la società: «Osservate una partita di football: essa è un modello di società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge. Le personalità si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama lealtà e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione di aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi I DUE PELLEGRINI all’azione». Quando Antonio Gramsci scriveva queste note il campionato di calcio era ancora sospeso per via degli ultimi mesi della Grande Guerra, ma nonostante l’interruzione dei campionati egli aveva potuto cogliere l’essenza del foot-ball, come si scriveva allora, grazie al proliferare di squadre di calcio dilettantistiche su tutto il territorio nazionale e al fatto che il suo osservatorio fosse Torino, città che sin dalla fine dell’800 aveva ospitato in un unico giorno il primo campionato italiano di calcio, vinto dal Genoa, che si aggiudicò il primo scudetto. Se per Gramsci la partita di calcio è l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico, che può distinguere e apprezzare i calciatori per capacità, di tutt’altro spirito è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario…o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei pedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi». Se per il futuro segretario del partito comunista italiano che sarà fondato a Livorno tre anni dopo queste note, nel gennaio del 1921 «lo sport suscita anche in politica il concetto di ‘gioco leale’» secondo il dirigente politico sardo la cultura dello scopone è l’espressione più retriva della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato). Lo scopone produce i signori che fanno mettere alla porta dal principale l’operaio che nella libera discussione ha osato contraddire il loro pensiero». L’interesse di Gramsci verso il calcio non fu un fatto isolato, anche altri segretari del partito comunista manifestarono, seppur segretamente, una vera e propria passione per il calcio che in più occasioni si trasformò in tifo per la Juventus. Dopo la Liberazione, Palmiro Togliatti ogni lunedì chiedeva al vicesegretario del Pci, Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima, e Secchia che si era formato alla ferrea scuola del Pci e mai si era interessato di calcio, spiazzato dalla richiesta del segretario assumeva un’espressione interrogativa, in quel preciso momento Palmiro Togliatti gli diceva con aria bonaria: «Vuoi fare la rivoluzione senza sapere i risultati delle partite di calcio?». Anche Enrico Berlinguer, pur avendo nel cuore il Cagliari, alle cui partite assisteva quando andava in Sardegna per impegni politici, si tenne sul solco del tifo bianconero, attribuendo questa scelta, quasi scusandosi, a un peccato di gioventù. Enrico Berlinguer, confessò il suo tifo per la Juve a un sardo d’adozione, che rappresentava la punta di diamante del Cagliari e della nazionale di calcio, Gigi Riva, il quale anni dopo rivelò la passione bianconera del segretario del Pci nel corso di una trasmissione radiofonica. Poche primule gialle, verde brillante nei prati, cinquettio matttutino: aria di primavera. Qui al cohousing gli animali stanno bene: è nata ieri Pasqualina, la quarta pecorella. Fra noi umani c’è cambiamento: Luana va via, ritorna in città. Nella famiglia e nei gruppi umani istituzionali le entrate e le uscite sono regolate e celebrate in fasi definite. I «fuori programma» sono eventi critici. In questa piccola comunità, negli ecovillaggi e nelle comunità «intenzionali» ogni realtà è diversa e forse i passaggi sono ancora poco studiati. Ci troviamo a pensarci. Anna commenta: «si bisticcia, ma poi è importante costruire insieme un luogo dove sai che nella terra , nelle case e persone c’è qualcosa che è sempre li e ti aspetta». Rino viaggia e poi torna da Anna: «c’è poco da dire: è un fatto personale stare a capire e cercare i propri legami e le proprie radici». Ernesto, sempre in piena avanguardia, afferma: «È bene che ci sia gente che passa. Per me è importante che questo sia un ’non luogo’: quei luoghi della postmodernità di circolazione, di comunicazione, come stazioni, areoporti, campi di restringimento planetario», Sbotta Smirna: «Si Ernesto, vallo a dire alla Pasqualina». Poi silenzio. Meglio parlarne, svelarsi, cercare codici di unione e comprensione per sostenere insieme la vita ed i suoi eventi. Olga a bassa voce rimprovera: «Ci sono persone che difficilmente tollerano i conflitti e cercano climi più tranquilli. Se non ci fosse sempre continua discussione, forse, non sarebbe successo». Sgradevole da accettare per animi che professano solidarietà e vicinanza. Pier rassicura: «ci si può voler bene profondamente anche se vi sono malumori». Aurora richiama a responsabilità e impegno ed il resto che accada. Il nostro cohousing si trova sulla Via Francigena, itinerario di pellegrinaggio che nel medioevo univa Canterbury a Roma. Sigerico, arcivesco di Canterbury, nel 990, si reca a piedi a Roma da Papa Giovanni XV ed in un diario di viaggio annota 79 tappe di quel cammino, chiamato oggi via Francigena. Succede che alcuni giorni fa bussano alla porta due pellegrini francesi. Lei ha la febbre e non riescono ad arrivare al posto tappa prefissato. Io e Lola li accogliamo nelle stanze ospiti. Farmaci, alimenti e Lola offre loro la pastiera di Pasqua. Qualche giorno dopo, in forma, caricano sulle spalle gli zaini. Ci abbracciano e ci donano il loro bordone (il bastone del pellegrino). Nel legno è inciso «per andare dove non si sapeva di poter arrivare». Li guardo allontanarsi e mi sento in cammino con loro e con i miei compagni di cohousing. Penso a questa casa, come rifugio di un nostro pellegrinaggio di vita. Non è sufficiente la responsabilità per il luogo e le cose, è necessaria anche per le persone. Significa che ognuno si affida a qualcuno ed ognuno ha in affido qualcuno, che sia single, coppia, famiglia. Solo così, se luogo di legami e accudimento reciproci, possiamo salutare con serenità chi riprende il cammino della propria leggenda personale. ALIAS 11 APRILE 2015 SINTONIE ADELINE - L'ETERNA GIOVINEZZA DI LEE TONLAND KRIEGER, CON BLAKE LIVELY, HARRISON FORD, 2015 0 Il film narra la misteriosa storia di Adeline che dopo un incidente automobilistico smette all'improvviso di invecchiare. La donna percorre tutto il XX secolo, cercando di trovare se stessa e finisce per trovare l'amore di tutta una vita. I BAMBINI SANNO DI WALTER VELTRONI, DOCUMENTARIO. ITALIA 2015 0 Il nuovo documentario di Walter Veltroni cerca di raccontare il mondo dal punto di vista dei bambini, parlando di futuro, di speranza e della situazione del paese, raccogliendo testimonianze sulla propria esperienza, la propria famiglia, con storie di migrazioni, omosessualità, l'idea di Dio e dei sogni. IL FIGLIO DI HAMAS - THE GREEN PRICE DI NADAV SHIRMAN, CON MOSAB HASSAD YOUSEF, GONEN BEN YITZHAK, GERMANIA UK ISRAELE 2015 0 Docufiction sulla vera storia di Mosab Hassad Yousef, seguace di Hamas, che per manifestare contro le azioni suicide decide di agire per conto dello Shin Bet, intelligence israeliana, fornendo informazioni come agente inflitrato. IN THE BOX DI GIACOMO LESINA, CON ANTONIA LISKOVA, NICCOLÒ ALAIMO. ITALIA 2015 0 Svegliatasi in un garage, una giovane donna scopre di essere in una trappola mortale. Un lento rilascio di anidride carbonica la costringe a pensare in fretta a come salvare la propria vita e quella di sua figlia. LE FRISE IGNORANTI DI ANTONELLO DE LEO, CON PIETRO LOPRIENO, CON NICOLA NOCELLO. ITALIA 2015 0 Il pugliese Luca è membro di una band musicale chiamata «Le Frise ignoranti» composta dagli amici di sempre, scapestrati ed eccentrici. Insieme decidono di percorrere un tour in Puglia dove oltre alla ricerca del padre di Luca, svanito nel nulla, affronteranno situazioni sempre più improbabili. SAMBA DI ERIC TOLEDANO, OLIVIER NAKACHE, CON OMAR SY, CHARLOTTE GAINSBOURG. FRANCIA 2015 0 Samba, un clandestino senegalese emigrato in Francia in cerca di fortuna e di una vita regolare incontra Alice, dirigente d'azienda che dopo un forte stress decide di dedicarsi al volontariato. I due diversi mondi si intrecciano in una romantica e divertente storia d'amore. LA SQUOLA DI BABELE DI JULIE BERTUCCELLI. DOCUMENTARIO. FRANCIA 2014 0 Da una regista che è stata assistente di Otar Iosseliani, Kieslowski, Tavernier un film che contiene grazia e profondità, girato in una scuola di accoglienza per emigranti adolescenti in attesa di entrare nelle classi normali. Alle paure del nuovo paese, della nuova lingua si aggiungono i problemi della giovane età, guidati e appianati da una professoressa di rara sensibilità. Il titolo originale è «La cour de Babel» (il titolo italiano allude a una lingua ancora da imparare alla perfezione). Nelle sale dal 23 aprile. BLACKHAT DI MICHAEL MANN CON CHRIS HEMSWORTH, WEI TANG. USA 2015 Un virus sta per colpire il sistema di raffreddamento di una centrale nucleare. La trama non ha molto di avveniristico, è quasi da western classico. Film sconclusionato, ambiziosissimo e di strana urgenza, tradurre la purezza del cinema astratto in grande spettacolo hollywoodiano. Dietro l’ossessione ipertecnologica c’è un trasporto romantico che salva un film sbalestrato come questo. (g.d.v.) 7 FAST &FURIOUS 7 DI JAMES WAN, CON VAN DIESEL, PAUL WALKER. USA 2015 1 Settimo episodio della serie sulle corse e battaglie automobilistiche Iniziata nel 2001 da Rob Cohen. Dopo aver ucciso Owen Shaw e la sua squadra di mercenari nel sesto film, Dom, Brian e la loro squadra sono in grado di ritornare negli usa. Ma il fratello maggiore di Owen, Ian Shaw (Jason Statham) alle spalle di Dominic, cerca vendetta per la morte di suo fratello. L’effetto extra è dato dalla morte effettiva di paul walker schiantatosi a bOrdo della sua Porsche a 150 all’ora. Già dal primo piano iniziale è un fantasma ed è così che aleggia nel film.Incassi stratosferici negli Usa. (g.d.v.) FIN QUI TUTTO BENE DI ROHAN JOHNSON, CON ALESSIO VASSALLO, PAOLO CIONI. ITALIA 2014 6 Il dopo laurea di un gruppo di amici addensa i problemi della maturità, di umorismo ce n’è poco e della cattiveria di una toscanità a cui il regista fa abbastanza riferimento pure. Tutto è prevedibile, risata sempre rassicurante sempre riconoscibile come i personaggi schematizzati nelle loro reazioni. Regia ammiccante attenta a non deludere nessuno. (c.pi.) FRENCH CONNECTION DI CÉDRIC JIMENEZ, CON JEAN DUJARDIN, GILLES LELLOUCHE. FRANCIA 2014 6 French Connection era il titolo originale di Il braccio violento della legge di Friedkin, nome del filone di inchiesta del commercio di eroina verso gli Usa, un film ambientato non più a New York ma a Marsiglia e che fa da controcampo a quello di Friedkin. Corretto film d’azione che omaggia il cinema civile italiano e sembra guardare ai classici di Verneuil, Boisset, Lautner. Un onesto esercizio di stile prevedibile. (g.a.n.) HO UCCISO NAPOLEONE DI GIORGIA FARINA, CON MICAELA RAMAZZOTTI, PAMELA VILLORESI. ITALIA 2015 6 Anita, manager in carriera, donna di ghiaccio, è licenziata dal suo capo e amante quando scopre che è incinta. Racconto di una società precaria, composta da famiglie disastrate e dirigenti in continua lotta per il potere, con grande abbondanza di colpi bassi. Parecchi film italiani raccontano lo stesso panorama, qui lo atile si ispira ai manga e anche un po’ alla strega di Biancaneve, con un pizzico di Almodovar, ma la sostanza resta il nostro desolante panorama pur abbellito dalla vivacità. (s.s.) HUMANDROID DI NEILL BLOMKAMP, CON SHARITO COPLEY, DEV PATEL. USA MESSICO 2015 6 Chappie, robot poliziotto frutto dell’immaginazione di Blomkamp potnziato di qualità quasi umane da un genio del computer è l’ultimo eroe di Johannesburg sul cui sfondo l’autore sudafricano ha ambientato i suoi precedenti film District 9 e Elysium. Alla stranezza e all’alterità di Chappie contribuisce ancora di più la presenza di Ninja Yo-landi Visser il duo hip hop sudafricano Die Antwoord, una coppia di piccoli criminali che vivono ai margini di una metropoli del futuro la cui violenza viene arginata da poliziotti robot. L’ingegnere che li ha disegnati è al lavoro su un modello più evoluto che li fa simile agli esseri umani. I due criminali rubano un prototipo difettoso e lo educano al crimine. Ha dalla sua la cattiva coscienza sociale, ma anche un’implausibile miscela di sentimentalismo e iperviolenza. Una parabola per bambini che però non possono andare a vederla. (g.d.v.) INTO THE WOODS DI ROB MARSHALL, CON MERYL STREEP, JAMES CORDEN. USA GB CANADA 2014 5 Rob Marshall cineasta che non riesce mai a evitare di mostrare la sua formazione intelletuale tenta di agganciare da un lato il pubblico di Cenerentola branaghiana e dall’altro rimettere in circolo le proprie credenze cinefile. Ciò che non convince fino in fondo è la letterarietà della messa in scena, non abbraccia mai fino in fondo la vertigine del suo progetto, opta per l’evidenza della struttura e scontenta tutti. (g.a.n.) N-CAPACE DI E CON ELEONORA DANCO. ITALIA 2015 7 Nel viavai tra Terracina luogo dell’infanzia e Roma medita su cosa significa crescere, sull’inadeguatezza di fronte alla vita. Esordio di Eleonora Danco, autrice e attrice di teatro che ha ricevuto molti premi dopo Torino e il marchio dei film scelti dal Sncci. Film di libertà geometrica e di continue invenzioni, che spiazza lo sguardo sul modo di raccontare e costruire gli spazi. Il suo entrare e uscire dal bordo delle immagini è forse la cifra più forte dl film le cui improvvisazioni mettono alla prova le nostre abitudini di spettatori. (c.pi.) IL PADRE DI FATIH AKIN, CON TAHAR RAHIM, SIMON ABKARIAN. GERMANIA TURCHIA 2014 4 Cinematograficamente «brutto» per costruzione narrativa, scelte visuali, format da produzione internazionale. Un film sul tabù turco, il genocidio armeno. Nel 1915, mentre l’Europa è in guerra, i turchi deportano ed eliminanomigliaia e migliaia di armeni cittadini dell’impero ottomano. Akin all’interpretazione storica preferisce il punto di vista della «vittima» non solo degli armeni, ma delle vittime tout court che finiscono per somigliarsi tutte, mettendosi al riparo da ogni assunzione di responsabilità. Non assume un preciso punto di vista, il genocidio alla fine coincide con l’identità migrante. (c.pi.) WILD DI JEAN-MARC VALLÉE, CON REESE WITHERSPOON, THOMAS SADOWSKI. USA 2014 4 Reese Whiterspoon cammina dalla punta più a sud della California a quella più a nord dell’Oregon. Ambientato sullo sfondo di scenari da cartolina, così come il regista posizionato Julia Roberts in Mangia prega ama tra l’Italia e l’India, gli unici paesaggi a cui sembra interessato sono quelli interiori. È quasi inaccettabile che un film dedicato a una catarsi interiore abbia così poco amore e sensibilità estetica nei confronti della wilderness. Un film dall’orizzonte meschino. (g.d.v.) (11) A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON ANTONELLO CATACCHIO, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, GIONA A. NAZZARO, CRISTINA PICCINO PALESTINA FEMMINILE PALESTINESE SALERNO, TEATRO ANTONIO GHIRELLI, 15 APRILE, ORE 20 TORNANO LE TARTARUGHE HANDSOME UK, 2015, 5’59”, musica: The Vaccines, regia: Guerson Aguerri, fonte: MTV Hits 1 Si vede il tocco stilistico e produttivo del collettivo CANADA in questo video della band londinese, girato a Brooklyn, pieno di azione ma soprattutto di ironia. I quattro membri della band, trovatosi nel bel mezzo di una rissa in un locale cinese tra personaggi dal volto mostruoso (tipo delle tartarughe ninja), vengono istruiti a dovere per potersi vendicare alla prima occasione. Justin Young e compagni, sottoposti a duri esercizi sul tetto di un palazzo, avranno naturalmente la meglio sulla gang rivale. Handsome gioca con i classici stereotipi del cinema di arti marziali in modo efficace e divertente, con qualche misurato effetto speciale. Il singolo fa parte dell’album English Graffiti prodotto da David Fridmann. CENTURIES Usa, 2014, 4’32”, musica: Fall Out Boy, regia: Syndrome, fonte: Youtube 7 I membri della band di Chicago vengono condotti dentro il Colosseo come gladiatori. Il violento scontro ha inizio, tra la polvere, sotto un cielo plumbeo e minaccioso e il pubblico esaltato. Al centro c’è lui, il classico invincibile combattente, anche se i Fall Out Boy hanno un’arma segreta: delle piccole pietre dai poteri magici che gli sono state date prima di entrare nell’arena da un misterioso personaggio (San Pietro? Un angelo barbuto? Dio?). Alla fine avranno la meglio, ma un nuovo inquietante gladiatore si prepara a entrare in campo e la storia ricomincia. Spettacolare clip molto “all’americana”, in stile neo-peplum digitale, zeppo di scenografie virtuali ed effetti speciali, Centuries è intervallato anche da alcuni tableaux vivants, volutamente kitsch, con allegorie dei martiri cristiani. COLLEGE BOY Francia, 2013, 5’59”, musica: Indochine, regia: Xavier Dolan, fonte: Youtube 8 Spietato, feroce, altamente simbolico, ma elegante e ricercato nella sua perfetta costruzione (bianco e nero coniugato all’anomalo formato quadrato del mascherino), questo clip del giovane canadese Xavier Dolan (l’attore e regista di Mommy per intenderci) per la storica formazione new wave francese. Le angherie subite da un collegiale adolescente da parte dei suoi compagni, fino alla sua violenta crocefissione, di fronte alla quale non è difeso ma ulteriormente massacrato dalle istituzioni. Una cura per ogni inquadratura, carrellate, contreplongée, uso inevitabile del ralenti per esaltare ancora di più la dimensione rarefatta e onirica di una situazione che non lascia scampo. Inevitabili i paralleli con la nouvelle vague e con il free cinema (If di Lindsay Anderson per tutti), ma Dolan dimostra comunque – con la sua vena surrealista non disgiunta da un realismo brutale – di avere il tocco da maestro, pur trattando un soggetto ampiamente abusato. MAGICO Terzo appuntamento della rassegna «Femminile Palestinese di storia in storia» a cura di Maria Rosaria Greco con un appuntamento speciale: Michele Giorgio, il nostro corrispondente da Gerusalemme incontra il pubblico per un approfondimento su Gaza nel quadro delle strategie e interessi nella regione, sulle ultime elezioni legislative israeliane e sulle prospettive di indipendenza dei palestinesi. Parlerà poi di resistenza popolare al femminile e ricorderà la figura dell'attivista italiano Vittorio Arrigoni a 4 anni dalla sua uccisione. Nel 2010 Michele Giorgio ha fondato l’Agenzia di Stampa Vicino Oriente (Nena News, www.nena-news.it). È autore di Nel Baratro: i Palestinesi, l’occupazione israeliana, il Muro, il sequestro Arrigoni. Edizioni Alegre, 2012. Con lui dialogano Pietro Falco, giornalista, e Maria Rosaria Greco. Segue un reading dedicato a Vittorio Arrigoni nel quarto anniversario della sua uccisione con lettura di alcuni articoli e brani a cura delle attiviste Rosa Schiano e Sara Cimmino. Intervento musicale a cura di Maria Cristina Galasso, voce e Romano Michelacci, chitarra: «Naci en Palestina». La rassegna è promossa dalla Fondazione Salerno Contemporanea, dal Comune di Salerno, dall’Università di Salerno e fa parte della campagna nazionale per la Palestina che l’Associazione Cultura è Libertà ha lanciato a Roma nel dicembre 2013. Cena palestinese a buffet, a cura di Omar Suleiman - Ristorante arabo Amir, presso la Fornace del Teatro Antonio Ghirelli, info: facebook Femminile palestinese IL DOCUMENTARIO LE COSE BELLE ROMA, CINEMA NUOVO SACHER (LARGO ASCIANGHI 1), 12 APRILE Napoli, 1999, una città in grande fermento. All'abituale vivacità sembra essersi aggiunta finalmente una speranza per il futuro. E lì, in quel momento, Agostino Ferrente e Giovanni Piperno stanno realizzando Lettera a mia madre, un documentario per Raitre. Magnifiche figure materne, osservate attraverso i figli. Si parla, si balla, si sogna, si spera. Un mondo pervaso da canzoni neomelodiche e da aspettative. Sono passati poco più di dieci anni, è cambiato il millennio, è cambiata la città sono cambiate le aspettative. Ferrente e Piperno sono andati di nuovo a cercare quei quattro ragazzini intervistati, ora giovani adulti. La disoccupazione, soprattutto giovanile, morde come un cancro una società togliendo ogni energia, la città è come sprofondata nelle viscere di quella Napoli sotterranea speculare a quella di superficie, ma dove la luce non potrà mai arrivare. I nostri quattro giovani fanno parte di un'intera generazione cui è stato sottratto il futuro. Film importante per quanto doloroso, perché significa guardare in faccia la realtà di una città e di un paese incapaci di trovare qualsiasi prospettiva nonostante le sue infinite risorse di creatività, intelligenza, talento. (a.ca.) LA SATIRA IL NUOVO MALE N.23 E FRIGIDAIRE, PER TUTTO IL MESE DI APRILE In edicola Il nuovo Male n.23 di aprile e, nell’interno, l’edizione straordinaria di Frigidaire n.252 e la presentazione della mostra dell’Arte Maivista di Frigidaire che si inaugura l’11 aprile a Piacenza con invenzioni grafiche della rivista dall’80 ad oggi. Il mensile indipendente di satira e idee diretto da Vincenzo Sparagna, coordinato e impaginato da Maila Navarra, propone l’editoriale di Tersite dal titolo «Molti Caino, troppi Abele», nell’interno vignette di Giuliano, Ugo Delucchi, Bicio Fabbri, Cecigian, Frago, Paolo Marengo, Giuseppe Del Buono, Pietro Vanessi, Antonio Vinci, Massimo Bandini. Tra i fumetti: si conclude il viaggio fantascientifico di «Survival» disegnato da Maurizio Ercole, l’operaio Nicola di Marco Pinna e Carlo Gubitosa, Giorgio Franzaroli racconta in «Relatività» il demansionamento di un impiegato. Due i racconti: «Gli incappucciati» di Walter de Stradis accompagnato da una illustrazione di Giulio Laurenzi e «Lupo al forno», nuovo fantahorror di Guido Giacomo Gattai con un disegno di Gianni Cossu. Un articolo dell’Arcidiavolo Gabriele si occupa di «Matteo Salvini, solo e male accompagnato». info: www.frigolandia.eu LA MOSTRA ARMATA INNOCENZA MOSTRA DI FRANCO CENCI, INTERNO 14, VIA CARLO ALBERTO 63, ROMA Presso Interno 14 di Roma, lo spazio dell’Aiac, si aprirà giovedì la mostra dal titolo «Armata Innocenza» di Franco Cenci, a cura di Manuela De Leonardis (vernissage il16 aprile, ore 18.30, visitabile poi fino al 25 aprile, su appuntamento). Una pinacoteca che presenta bambini con armi giocattolo: non piccoli soldati col fucile, ma ironici ex voto dell’infanzia che imbracciano cucchiai, stampelle, scope e vasi da fiori. Immagini in cui si improvvisa un luogo del fiabesco e si incontrano ambigui folletti. A testimoniare la discesa di quell’esercito di irregolari sognatori c’è un cuore dai fili espansi, tessuto. «Un cuore che unisce, cuce e rimanda a sentimenti innocenti. Un universo parallelo a quello degli adulti, il mondo dell’infanzia e della preadolescenza di cui Franco Cenci trova l’essenza in quel cuore ricamato. A generare il ritmo di ’Armata Innocenza’ non possono che essere pulsazioni. L’idea delle pulsazioni in quanto espansioni ritmiche delle arterie può essere utile, quanto quella della frequenza temporale, come ideale metafora di questo viaggio», scrive la curatrice. Dieci anni di indagini sul tema, nutriti dall’amore per «Les Enfants Terribles» di Cocteau, ma anche per «I ragazzi della via Paal», con fotografie, disegni, installazioni, video e molti ricordi. (12) ALIAS 11 APRILE 2015 NEW YORK 30 ANNI FA NASCEVA UNA DELLE SCENE PIÙ ESALTANTI Il jazz dentro Downtown Tra mini arpe e i ritmi estremi della fusion di GUIDO MICHELONE Esattamente trent'anni fa il sassofonista John Zorn, all'epoca trentaduenne, con un decennale passato di sperimentatore radicale, inizia le registrazioni di The Big Gundown, un album tributo alle colonne sonore di Ennio Morricone, con riletture ultra-avanguardiste, che subito riceve stroncature pesanti e al contempo apprezzamenti spassionati, imprimendo comunque una svolta epocale alla musica statunitense, perché fa «ufficialmente» conoscere a livello internazionale la Downtown Scene newyorkese, fino ad allora relegata a circuiti minoritari e nicchie alternative. Ma cos'è precisamente la Downtown Scene? Per dirlo occorre una breve premessa teorico-linguistica, benché, all'epoca, l'espressione non venga ancora usata né dal pubblico né da studiosi o cronisti. In tal senso è abbastanza facile rilevare come nel vocabolario delle musiche urbane dal 1900 a oggi la critica lanci spesso espressioni o etichette, il cui destino può essere l'imperituro successo - il termine r'n'r, rock and roll, coniato dal dj Alan Freed per lanciare cantanti di rhythm and blues in radio - o al contrario il dimenticatoio o il travisamento a causa di modifiche di senso in prospettiva storico-critica. Sotto quest'ultimo aspetto l'elenco sarebbe lunghissimo, ad esempio la jungle music «inventata» da Duke Ellington negli anni Venti, oggi indica un settore della techno; oppure underground che, sul finire dei Sixties, è sinonimo di rock alternativo (sotterraneo, appunto), mentre oggi si riferisce a un sottogenere da discoteca. Un destino analogo succede ora all'uso gergale di Downtown Scene (letteralmente scena del centrocittà) che viene impiegato un po’ come una retrospettiva, dai giornalisti statunitensi a indicare via via il punk newyorkese, la successiva new wave e le tendenze più o meno giovanili che dagli anni Ottanta/Novanta a oggi ambiscono a un ruolo di ricerca, di rottura, di reinvenzione dell'immaginario contemporaneo, talvolta in stretto connubio con altri linguaggi performativi (qui ad esempio cinema, video, fotografia, danza, pittura, spray art). Come ogni scuola, tendenza, manifestazione artistica, anche la Downtown Scene nella Grande Mela ha simbolici protagonisti, identificabili con persone fisiche, opere riconosciute, locali notturni, case discografiche; per iniziare da un caso emblematico è proprio la musica di John Zorn in quella seconda metà degli anni Ottanta a spopolare. Il biondo altista dall'aria un po' nerd un po' fricchettona infatti registra non solo The Big Gundown ma gli altrettanto influenti Spy vs Spy e Spillane, fonda il gruppo Cobra (al cui interno ruotano una ventina di celebri improvvisatori), si esibisce regolarmente alla Knitting Factory (aperta tra il 1987 e il 1995 al 47 di Houston Street), inizia a comporre i primi «Filmworks», debutta con la neonata Elektra Nonesuch (fusione di due label poi acquisite dalla Warner, non a caso nel momento della creazione della propria Tzadik, quale indipendente). È Zorn dunque a rappresentare al meglio la Downtown Scene in cui, allora come oggi, il jazz si apre al rock (persino grindcore e death metal) e alla contemporanea (minimalismo e noise music), in un coloratissimo ventaglio di situazioni inventive, che sono difficilmente riassumibili nella loro complessità. A partite dal John Zorn incide «The Big Gundown» nel 1985 e avvia un sincretismo musicale che tiene dentro rock, contemponea e visioni sperimentali 1985 seguono simbolicamente le orme artistiche di Zorn, in una sorta di originalissimo avant-jazz, almeno tre chitarristi americani nella Dowtown Scene: Elliott Sharp viene notato per l'attenzione a sperimentare, con sempre nuove tecniche esecutive in ogni suo album, mentre le composizioni sono un esempio di sintesi, dissonanza, ripetitività e improvvisazione sui quattro assi cardine di jazz, classica, rock, avanguardia; il funambolico Eugene Chadbourne mescola ingredienti di free jazz con aromi di musica bianca di origine rurale; Henry Kaiser invece raccoglie l'influenza di Derek Bailey e di Captain Beefheart per creare un sound connotato da improvvisazioni atonali e caratteri psichedelici, sino a progettare, assieme al trombettista Wadada Leo Smith (già caposcuola della creative music nera), il gruppo Yo Miles! dedito a radicalizzare ulteriormente le suite del Miles Davis più electro funk, rifacendo interamente alcuni storici album doppi del trombettista. Nella Downtown agiscono anche molti artisti stranieri: parlando ancora di chitarre elettriche, dal 1979 è a New York, da Londra, Fred Frith, già leader del gruppo prog Henry Cow, ora attento a scandagliare un nuovo rumorismo. Per contro l'irlandese Christy Doran porta il proprio quartetto New Bag verso un jazz rock astratto. Anche il violoncellista Tom Cora, prematuramente scomparso, è responsabile di una serie di opere fortemente sperimentali in cui lo strumento adotta tempi e funzioni della chitarra (come pure delle percussioni). Nell’avant jazz il contributo numericamente maggiore resta ancora a stelle e strisce: il trombettista Lesli Dalaba contribuisce al rinnovamento linguistico del proprio strumento, con un mood che trasforma liricamente i brani più cerebrali. Il batterista Joey Baron debutta con un trio di musica imprevedibile assieme a Bill Laswell e Ellery Eskelin. Il Microscopic Septet è un gruppo creativo che scioglie influenze free, prog rock e rhythm and blues con elementi circensi, un po' come Frank Zappa faceva anni prima. Già a fine anni Novanta, c'è un’ennesima rivoluzione sulla Downtown Scene che si muove piuttosto tra post jazz e hyper fusion e che artisticamente riguarda sia il tipo di materiali ALIAS 11 APRILE 2015 RUBEI, AUF WIEDERSEHEN di LUIGI ONORI È scomparso a Roma il 2 aprile scorso Giampiero Rubei, inventore e animatore, a Roma, del club Alexanderplatz e del festival di Villa Celimontana «Jazz & Image». Aveva 75 anni ed era stato ricoverato in ospedale a metà marzo. I funerali si sono svolti il 4 aprile a S. Maria Regina Pacis, quartiere Monteverde, alla presenza di molti jazzisti tra cui Marcello Rosa, Ada Montellanico, Stefano Di Battista, Gegè Munari. Rubei è stato anche sonori sia le tecniche per improvvisare. Vanno anzitutto citati quattro personaggi. In tal senso il pluristrumentista Ned Rothenberg è in prima linea con una nuova generazione di improvvisatori avanzati, usando spesso differenti tipologie di ancia per una lunga serie di lavori influenti nell’immediato futuro. Sam Bennett presenta opere in cui la sua batteria è l'unico strumento anche se integrato con l'elettronica spinta. Il trombonista Jim Staley sperimenta con diverse formazioni, mentre il sassofonista Marty Fogel lavora fondendo 1985-2015, I CLUB E I LUOGHI DA VISITARE Chandelier 120 Ave. C C.U.A.N.D.O. community center Houston St. & 2nd Ave. Inroads 150 Mercer St. Life Café 343 E. 10th St. Neither/Nor 73. E. 6th St. P.S. 122 First Avenue & 9th St. Roulette 228 West Broadway Studio Henry 1 Morton St. The Kitchen 59 Wooster St. The Saint 206 E. 7th St. suoni postmoderni assai eterogenei. Ciò che si ascolta tra post jazz e hyper fusion è un campo vasto e multicolore in cui, come nel decennio precedente, scorrazzano altre sei figure rilevanti, a partire da Tom Varner, virtuoso del corno francese, il quale si erge compositore tra i più originali della propria generazione, mentre il fisarmonicista Guy Klucevsek offre un interessante contributo alla testa di versatili formazioni. Il bassista Marc Johnson, che lavora con Frisell e Scofield, sottolinea ulteriormente il linguaggio sincretista, mentre David Torn viene a colmare il divario che esiste nel mondo della chitarra tra Jimi Hendrix e Sonny Sharrock. Notevoli sono pure da un lato l’arte di violoncellista di Hank Roberts a incorporare elementi di free, soul, blues o musica classica e dall’altro quella di Mike Shrieve (ex batterista di Santana) con elementi onirici basati su suoni percussivi. E si deve continuare a discutere sempre e ancora di Downtown Scene intendendo altresì il sound newyorkese che magari non rientra direttamente nell’avant jazz, nel post-jazz o nell’hyper fusion, ma che rifiuta ogni filologico revivalismo alla Wynton Marsalis, ma che assapora di continuo la voglia di sperimentare, fino a guardare oltre gli steccati intellettuali: sono Downtown Scene, in tal modo, ad esempio Jim O'Rourke, Jamie Saft, Christian Howes o la versatilissima violinista Regina Carter, ultimamente approdata a rivisitare il country bianco. Se ancora ci si accosta a un jazz impegnato e oltranzista, allora la Downtown Scene è degnamente simboleggiata da Zeena Parkins che è la prima arpista a introdurre uno strumento in apparenza poco consono nel contesto dell'improvvisazione creativa in un suono poi seguito da molti altri, mentre lei continua a esplorare i contatti fra camerismo, improvvisazione e elettronica. Il flautista Robert Dick svolge un lavoro parallelo con lo strumento in differenti situazioni espressive, come fa anche ad esempio il trombonista Peter Zummo. Su versanti scoscesi agiscono poi altri quattro originali performer: da un lato il trombettista Toshinori Kondo a investigare i rapporti fra strumenti ed elettronica; e dall'altro il chitarrista Alan Licht direttore della Casa del Jazz dal 2011 al 2013 e di recente era stato chiamato a far parte del Comitato di gestione della struttura. L’Alexanderplatz, la sua prima creatura, è stata a lungo l’epicentro della scena jazzistica romana e non solo, prima che iniziasse l’attività del Parco della Musica. Nel locale di via Ostia (firme e dediche alle pareti lo testimoniano ancora) hanno trovato spazio numerosi jazzisti stranieri (da Michel Petrucciani a Joe Lovano) e italiani (da Enrico Pieranunzi a Rosario Giuliani), progetti, debutti. Oltre a ciò Rubei è stato motore di tante iniziative tra cui la serie di recital FUORI I DISCHI Joey Baron Tongue in Groove (1991) Don Byron No-Vibe Zone: Live at the Knitting Factory (1996) Uri Caine Sphere Music (1992) Regina Carter Southern Comfort (2014) Robert Dick Irrefragable Dreams (1994) Dave Douglas & Uri Caine Present Joys (2014) Joe Lovano & Dave Douglas Soundprints (2014) Marty Fogel Many Bobbing Head at Once (1989) Bill Frisell, Marc Ribot, Tim Sparks Masada Guitars (2003) Vijay Iyer & Rudresh Mahanthappa, Raw Materials (2006) Toshinori Kondo Panta Rhei-An Alchaic Comedy In Chaos (1993) Alan Licht Well (2000) Denman Maroney Hyperpiano (1998) Masada First Live 1993 (2002) Zeena Parkins Something Out There (1987) Ivo Perelman Cama de terra (1996) Ted Rothenberg's Sync with Strings Inner Diaspora (2007) Matthew Shipp Nu-bop (2000) John Zorn Simulacrum (2015) Peter Zummo Experimenting with Household Chemicals (1991) A sinistra Dewa Bujana, Eugene Chadbourne e le sue ferraglie, sopra John Zorn, Tom Cora al violoncello, Jason Kao Hwang al violino, Joey Baron alla batteria. Qui accanto Regina Carter, a destra un pensieroso Elliott Sharp, David Krakauer al clarinetto, Henry Kaiser alla chitarra e Susie Ibarra (13) Jazz italiano a New York (nella Big Apple) e la raccolta di fondi nel 2005 per la ricostruzione del Museo della Storia del Jazz di New Orleans, dopo Katrina. Dagli anni Ottanta si era dedicato all’organizzazione concertistica mentre nei secondi Settanta - da «rautiano atipico», come è stato definito, affascinato da Julius Evola - fu l’organizzatore del primo Campo Hobbit per il Fronte della Gioventù. Nel jazz, secondo la sua concezione, c’era il «messaggio adrenalico del Novecento». Ritmo futurista e popolare, note per restare «in piedi tra le rovine» (Secolo d’Italia, 2/4/’15, articolo di A. Terranova). lavora con suoni maggiormente psycho-anarchici tra dada e radical. Sul piano del solismo, tanto Denman Maroney introduce nuovi concetti pianistici, quanto il brasiliano Ivo Perelman, tenorista stabilitosi a New York, tributa duri omaggi alle proprie radici, incrociando Heitor Villa-Lobos e Albert Ayler. E proprio partendo dai sodalizi con Zorn, vale inoltre la pena di ricordare l'escalation fra i grandi del jazz di almeno tre solisti già attivi negli anni Novanta ma che nel XXI secolo diventano simboli della Downtown Scene a tutto tondo: Uri Caine, pianista di formazione classica, esplora le sinergie tra melodismo colto e le dissonanze free jazz, non senza richiami talvolta al soul e alla dj culture; alla tromba Dave Douglas, già con John e nel 2015 con Joe Lovano in uno splendido album, vanta invece una prolifica carriera suonando un mix personalissimo di hard bop, new thing e rimandi classici; Tim Berne, sax alto, collega un fraseggio nevrotico con questioni dove i confini tra composizione e improvvisazione restano labili. Alla fine del XX secolo, l'eredità del free jazz è ancora molto avvertibile nella comunità nera degli improvvisatori ancora una volta ascrivibili alla Downtown Scene poiché, nella Big Apple, ad esempio David S. Ware, sassofonista di scuola coltraniana, dopo la gavetta con Cecil Taylor e Andrew Cyrille prosegue una carriera da solista che si estende per decenni facendone uno dei solisti più significativi del recente movimento free collegabile a un sound futuristico. Craig Harris, irriverente al trombone, risulta anch'egli una figura importante così come il pianista Matthew Shipp, che, attraverso una lunga serie di album che appaiono nel corso degli anni, flirta anche con l'hip hop. Sulle loro tracce, ci sono inoltre le conferme di Don Byron nonché di Roy Nathanson e Curtis Fowlkes (entrambi già nei Jazz Passengers) e il successo del gruppo B Sharp Jazz Quartet proteso tra hard bop e free jazz. La Downtown Scene negli anni Duemila è persino in grado di assorbire e rielaborare culture musicali eterogenee anche a partire da gruppi etnici o religiosi fortemente connotati. Si tratta, anche qui, di un sound modernissimamente jazzistico, che si estrinseca anzitutto nella cosiddetta «radical jewish culture», la quale è una realtà vasta e polimorfa, che si riconduce in primis alla musica klezmer così come si evolve lungo il Novecento in America. Ma la nuova musica ebraica si gira verso le contaminazioni, le fusioni, le sovrapposizioni del nuovo e del vecchio klez con scelte appunto più rivoluzionarie e massimaliste, purché facciano parte di una cultura ebraica (più laica-civile che mistico-religiosa) abbracciata dunque da musicisti eterogenei a partire dal «solito» Zorn. Circa dieci anni fa, infatti, John da un lato crea il quartetto Masada con Dave Douglas, Greg Cohen, Joey Baron, dall’altro fonda l’etichetta Tzadik per lanciare la «cultura ebraica radicale»: per essa registrano almeno un album a testa jazzisti come Jack DeJohnette, Steve Coleman, Cyro Baptista, Erik Friedlander, Julius Hemphill, il trio Martin Medeski & Wood, gli inglesi Evan Parker e Tony Oxley e l’italiano Gabriele Cohen. Oltre Tzadik, la radical jewish culture della Downtown Scene è lungamente rappresentata, da David Kracauer a Frank London, da Anthony Coleman a Ben Goldberg, dai Klezmatics a Andy Statman, oltre lo stesso Byron nel fenomenale tributo a Mickey Katz. Già dal 2000 si parla inoltre di asian-american jazz, perché nella Downtown Scene i vari Jason Kao Hwang, Jon Jang e Fred Ho (Cina), Ikue Mori (Giappone), Rusesh Mahharappa e Vijay Iyer (India), Susie Ibarra (Filippine) conoscono assai bene i linguaggi improvvisativi occidentali e al contempo vanno a fondo dei legami con le culture delle loro origini, fra visuali inedite e concetti innovativi. Con loro, come già visto, l'idea binaria nero/bianco nella musica americana è ormai fuorviante, visto che un sempre maggior numero di asiatici di passaporto americano offre un contributo importante all'evoluzione jazzistica medesima. Ancora e sempre dalla Downtown Scene grazie a una label coraggiosa - la Moonjune di Leo Pavkovic giunge la scoperta di una scena fusion in Indonesia con chitarristi di talento come Jeff Arwadi, Tesla Manaf, Tohpati, Dewa Budjana, Balawan - oltre Indra Lesmana (pianoforte), Windy Setiadi (fisarmonica), Ika Ratih Poespa e Sierra Soetedjo (entrambe cantanti) - spesso registrati a Giacarta oppure chiamati a suonare in America: frequenti le influenze, più o meno esplicitate, dei gamelan balinesi o di altre variegate sonorità di Giava o Sumatra. Non manca tuttavia, proprio in anni recenti, una risposta indirettamente polemica nei confronti della Dowtown Scene: a New York, presso il Birdland Jazz Club, il 5 gennaio 2012 si tiene la prima conferenza organizzata dal movimento denominato BAM (Black American Music), nato dall'idea di alcuni musicisti di punta della scena mainstream (Nicholas Payton, Gary Bartz, Orrin Evans, Marcus Strickland, Ben Wolfe) che vorrebbe tutelare i canoni tipici della musica nera improvvisata (e non) rafforzandone un'identità che, a detta loro, sempre più spesso si disperde attraverso operazioni commerciali. Payton e compagni non vogliono rinnegare o sminuire altre musiche oggi annoverate sotto il termine «jazz», piuttosto cercare un altro termine che possa racchiudere la musica nera, la Black American Music, appunto e per loro Bam è la proposta che da allora a oggi ottiene un buon riscontro fra pubblico e critica. Ma la querelle con la Downtown Scene estremista (avant jazz e dintorni) è forse solo un falso problema: non a caso il movimento Bam vanta l’inizio ufficiale proprio nel mitico Birdland - il locale patria di tutto il modern jazz dal dopoguerra a oggi - dove si ritrovano per l’occasione molti altri musicisti, nonché intellettuali, reporter, appassionati e operatori del settore. Gli adepti Bam sono pure animati da un profondo senso di appartenenza a un preciso ambito socioculturale e da un orgoglio etnico molto forte, benché, artisticamente, si rispecchino nell’amore incondizionato verso il jazz nero degli anni Cinquanta (lo stile degli ellepì Blue Note, per intendersi), nel periodo in cui esiste una forte contrapposizione fra bianchi e neri, tra il languido redditizio cool jazz e il nuovo pimpante hard bop afroamericano; ma sarà proprio quest’ultimo il retroterra necessario per ulteriori sviluppi avanguardistici (il free jazz in primis) che a loro volta coinvolgeranno musicisti europei in ottica sovversiva, democratica e internazionalista, anticipando la crescente realtà musicale multietnica, di cui la Downtown Scene, con o senza Bam, è ancor oggi l’espressione più compiuta e lungimirante. (14) ALIAS 11 APRILE 2015 RITMI ELITA FESTIVAL di LAURA SARTI Dal 14 al 19 aprile Milano ospiterà la Design Week, che da tempo ha superato il concetto di semplice «fiera di settore», diventando un appuntamento con la cultura che coinvolge l'intero tessuto metropolitano. L'offerta è ricca, tra cui l'Elita Design Festival, evento ufficiale del Fuorisalone arrivato quest'anno alla decima edizione. Live dj set, showcase, performance, ma anche workshop di approfondimento sul tema del networking, del sound design, dell'editoria musicale e della discografia. Il tema dell'edizione 2015 è #borderless, «senza confini»: la line-up internazionale è più che mai caratterizzata da contaminazioni di ogni tipo, a dimostrare quanto i di LUCIANO DEL SETTE LE FOTO ASTI Gig è una parola inglese con qualche difficoltà di traduzione nella nostra lingua. Concerto sarebbe troppo per bene. Meglio «serata», «ingaggio». Gig, slang musicale, venne coniata nel mondo del jazz degli anni Venti del Novecento. Con un salto temporale, la sentiamo rimbalzare a Dublino, è il 1978, in un paese stagnante, prigioniero di una crisi economica che ha reso ricordo lontanissimo il boom spendaccione del 1960. All’epoca felice dei Sixties appartengono giovani artisti e scrittori come Bill Graham. Fermamente decisi a reinventare la creatività irlandese, facendola circolare dentro luoghi che, fisicamente e mentalmente, prendano accurate distanze da quelli in cui si dà appuntamento il Pensiero ufficiale e mondano dell’intellighenzia. Bill fa il giornalista, ed è tra i fondatori di Hot Press, magazine dedicato al rock. Secondo lui, e non solo, la musica deve giocare un ruolo di primo piano nella nuova creatività, esprimendosi in spazi come quelli del Project Arts Centre, fabbrica dismessa dove sono presenze abituali lo scrittore Mannix Flynn, gli attori Gabriel Byrne, Liam Neeson, Colm Meaney, e con loro artisti visuali e performer. Oppure contribuendo a restituire vita a una dimensione urbana vuota e desolata, che rinasce ogni fine settimana nel Dandelion Market. Ulteriori luoghi si aggiungeranno all’elenco: McGonagle’s, in South Anne Street; il Granary Bar e The Buttery; lo Stardust, nel quartiere di Artane, distrutto da un incendio all’alba di San Valentino del 1981. In un altro quartiere, Ballymun, periferia nord di Dublino, soprannominato il Bronx irlandese, era comparso, il 25 settembre 1976, un annuncio affisso sulla bacheca della Mount Temple School. Il giovanissimo alunno e batterista Larry Mullen cercava coetanei per formare una band. Risposero in otto, rimasero in tre: David Evans (The Edge), chitarra; Adam Clayton, basso; Paul David Hewson, voce. Paul si portava dietro un nomignolo, Bono Vox, assegnatogli da Fionan Hanvey, amico e compagno della Lypton Village, gang di adolescenti ribelli che nel Bellymun scorrazzava senza far gravi danni. Paul/Bono cantava discretamente, ma soprattutto si intuiva in lui la capacità di essere protagonista sul palco e trascinatore di pubblico. Durante un’intervista di alcuni anni dopo, Larry ricorderà «...È stata la band di Larry Mullen per circa dieci minuti, poi è comparso Bono e ogni possibilità che fossi io il leader è sfumata». Con il nome di Feedback, la band si esibisce nel suo gig di esordio (cover di confini della musica elettronica siano sempre più evanescenti. In scena, tutti rigorosamente live, tanti big della club culture che hanno saputo rinnovarsi e rinnovare: i pionieri Ryoji Ikeda, Gilles Peterson, Benny Benassi, Henrik Schwarz e Cerrone, assieme a giovani talenti come il berlinese Dixon, Guy Boratto, Enroll aka Rame, Mecna dal mondo dell'hip hop, Kate Tempest, Yakamoto Kotzuga, Youarehere, U2 1978-1991, Photographs by Patrick Brockebank’ è ospitata a Palazzo Ottolenghi, corso Alfieri 350, Asti, fino al 4 maggio. Informazioni 0141/399050. Organizzatori per l’Italia le Officine Carabà e Libellula Press, come anticipazione del prossimo FuoriLuogo Festival, San Damiano d’Asti, dal 25 al 28 giugno. Una sala della mostra è dedicata a memorabilia delle tournée degli U2. Completano la piccola esposizione alcuni video. (l.d.s.) Peter Frampton, dei Rolling, di Bowie) alla Temple School, 1977. Secondo gig e secondo nome, The Hype, in una discoteca di Sutton. Paul/Bono, carattere difficile, viene espulso dalla scuola, e allora diventa colui che va a cercare date, ascolta musica in grado di far crescere il gruppo, matura l’idea che siano The Hype a scrivere i loro pezzi. Quando, nel settembre 1978, si presentano in qualità di supporter degli Stranglers, a Dunlagohaire, lo fanno con il terzo e definitivo nome, U2, forse suggerito loro dal cantante dei Radiators Steve Averill pensando all’aereo spia MITI GLI ESORDI DELLA BAND IRLANDESE Gli U2 sopra Dublino. Ecco la mostra americano abbattuto in Unione Sovietica il 6 maggio 1960. Bono e compagni arrivano entusiasti della scena punk di quegli anni, ma la serata si rivela un disastro. Chiamati all’ultimo momento, non possono fare il sound check; le corde della chitarra di Evans saltano per aria quasi subito; il pubblico, punk duri e puri, si mette a lanciare loro sigarette e sputi. Le cose iniziano a cambiare quando gli U2 vincono una gara allo Stella di Limerick. Il premio consiste in 500 sterline e nella produzione di un demo con l’etichetta Cbs Ireland. Il compenso se ne va tra servizi fotografici e vestiti di scena. Dietro queste scelte, con ogni probabilità, c’è già lo sguardo lungo di Bono. Al Project Arts Centre, dove un altro gruppo molto interessante, i Virgin Prunes, si esibisce abitualmente, gli U2 incontrano Bill Graham insieme a Paul McGuinnes. Bill vuole che Paul ne diventi il manager. Sulla band si punta l’obiettivo della macchina fotografica di Patrick Brocklebank, collaboratore di Hot Press, In Dublin e del Sunday Tribune. Il 18 settembre, Patrick mette bianco su nero il gig e il duetto di Bono Asti ospita fino al 4 maggio, i primi anni della carriera di Bono Vox e compagni attraverso gli scatti di Patrick Brocklebank alle bevande servite. Ecco, allora, i volti di Paul McGuinness, manager fino al 2014, anno di uscita del disco Songs of Innocence; dell’enigmatica Elsie, definizione dello stesso Brocklebank, sempre al seguito degli U2 e dei Prunes; di Philip Byrne, cantante dei Revolver; di Bill Graham in uno scatto collettivo alla Rowen House, affittata per organizzare party e custodire le attrezzature. Vanità, vezzi, senso dell’umorismo, idee tanto più brillanti perché venute all’improvviso ai suoi committenti, caratterizzano i lavori di Patrick dentro e dietro la scena del Dark Space Punk Festival, del Dandelion Market, del The Buttery. Adam Clayton sfoggia al Project un paio di pantaloni leopardati, in vendita nel negozio No Romance delle sorelle Mylett, Susan e Regina, quest’ultima ancora oggi collaboratrice degli U2; Bono mostra i piedi inguantati dentro un paio di stivaletti, i Bono Boots, dal tacco decisamente troppo alto per un uomo; i quattro impugnano armi (finte), prese da una stanza deposito del Project; tentano di sradicare un paio di estintori da una parete del Trinity College; davanti a un muro dipinto da Robert Ballagh, Bono fa avances poco eleganti alla figura di una donna vista di spalle. C’è spazio anche per la cronaca, ad esempio nella foto del pubblico all’interno di un ambiente spoglio e disadorno del Dandelion; nei due scatti di The Edge e Larry mentre escono solitari dal McGonagle’s all’alba; nell’incontro a un tavolino del Granary Bar con McGuinness per discutere il primo contratto. Intensi e spiazzanti al pari delle foto nella diversità del linguaggio, furono i due album usciti nel triennio: Boy, 20 ottobre 1980, filo conduttore il cammino verso l’età adulta; October, 12 ottobre 1981, riflesso di un periodo di crisi della band dovuto all’adesione di Bono e The Edge alla setta religiosa Shalom Bible Group. Il 5 giugno 1983 vedrà la pubblicazione di War e il trionfo planetario di Sunday Bloody Sunday. Ma questa è un’altra storia, questi sono e saranno altri U2. con Gavin Friday dei Prunes. Da lì nasce un rapporto testimoniato in centinaia di scatti che documentano gli U2 sul palco, oppure protagonisti di servizi destinati ai giornali e alla promozione. Parte di questo materiale è divenuto una mostra, U2 1978-1981, approdata da Dublino e Cleveland ad Asti, Palazzo Ottolenghi. Quei tre anni, scrive il fotografo nell’introduzione al catalogo della mostra, videro gli U2 «...diventare veri musicisti, scrivere i loro brani; sviluppare il potere di comunicare ai loro fan un entusiasmo contagioso». Va detto subito che il valore delle immagini non risiede soltanto nella rappresentazione visiva della forza, del talento scenico, della personalità di Bono e soci. A ciò si unisce, come annota John Stephenson, allora direttore del Project, la capacità «...di esprimere l’energia di quel periodo: insolente, ricca di improvvisazione, fiduciosa in se stessa». Se, infatti, gli U2, i Virgin Prunes, i Boomtown Rats, i Thin Lizzy sono i soggetti principe, attorno a loro, o all’interno di altri contesti che non siano strettamente musicali, gravitano personaggi importanti, «narratori» di un’epoca cui calzava perfettamente l’aggettivo «filthy», sporco, riferito alle condizioni igieniche di certi locali; o i termini «vinaccio» e «ignobile sidro» rivolti ON THE ROAD Godspeed You! Black Emperor Torna in Italia una delle più influenti band del panorama indie rock internazionale. Bologna SABATO 11 APRILE (ESTRAGON) Soak La giovanissima cantante e autrice di Belfast. Sulle orme di Cat Power e Laura Marling. San Costanzo (Pu) SABATO 11 APRILE (TEATRO DELLA CONCORDIA) The KVB Il drone rock del duo inglese. Forlì MERCOLEDI' 15 APRILE (DIAGONAL) Milano GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO FRANCO PARENTI-ELITA) Perugia VENERDI' 17 APRILE (URBAN) Firenze SABATO 18 APRILE (TENDER) Jethro Tull's Ian Anderson Il leader della storica band britannica in tour per presentare il meglio della sua produzione ultraquarantennale e il suo lavoro solista, Homo Erraticus. Padova GIOVEDI' 16 APRILE (GRAN TEATRO GEOX) Milano VENERDI' 17 APRILE (GRAN TEATRO rock portoghese. Roma GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO QUIRINETTA) Firenze SABATO 18 APRILE (FLOG) Dry the River Una sola data per la giovane indie folk rock band inglese. Milano MARTEDI' 14 APRILE (BIKO) Mike Stern L’artista di Boston è unanimemente riconosciuto come uno dei migliori chitarristi sulla scena. Milano SABATO 11 APRILE (BLUE NOTE) Kate Tempest Per la prima volta in Italia la poetessa e rapper inglese. Milano VENERDI' 17 APRILE (TEATRO FRANCO PARENTI-ELITA) Roma SABATO 18 APRILE (TEATRO QUIRINETTA) The Once Il trio folk canadese torna in Italia a distanza di pochi mesi. Bologna SABATO 18 APRILE (COVO) Cody Chesnutt LINEAR4CIAK) Cesena (Fc) SABATO 18 APRILE (NUOVO Uno dei più interessanti interpreti neosoul in un concerto «unplugged». Ferrara MERCOLEDI' 15 APRILE (SALA TEATRO CARISPORT) ESTENSE) Frankie Chavez Il nuovo fenomeno della scena blues Firenze GIOVEDI' 16 APRILE (SALA VANNI) San Ginesio (Mc) VENERDI' 17 APRILE (TEATRO LEOPARDI) ALIAS 11 APRILE 2015 ULTRASUONATI DA Aucan, Popoulos e via dicendo. Non solo house, insomma: elettronica dalle influenze rock, techno, lounge, minimal, jungle e disco si mescolano tra loro, rendendo superflua ogni caratterizzazione di genere. Magazzini Generali, Tunnel, Fabrique, Rocket, Tom, sono tra le location scelte per ospitare i dj set, mentre headquarter del festival resta il Teatro F. Parenti. Info:http://www.designweekfestival.com/ STEFANO CRIPPA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE GUIDO MICHELONE LUIGI ONORI ROBERTO PECIOLA MARCO RANALDI AA. VV. THE HUNGER GAME (Mockingjay/Decca) Per un film di grossi movimenti extra o molto terrestri una soundtrack d’attrazione verso il centro della terra. È così che la produzione del film ha messo insieme anche Lorde, Chemical Brothers, Stromae per una colonna sonora interessante, dal colore elettronico e sintetico niente male. Certamente non è un film che salva l’apporto mediatico della musica, ma ascoltando il cd si scopre come certe sonorità cinematografiche siano ancora molto interessanti. (m.ra.) INDIE ITALIA Incontenibile isolazionismo Usually Nowhere (La Tempesta) è il primo album di Yakamoto Kotzuga (al secolo Giacomo Mazzucato), giovanissimo produttore e musicista veneziano. 11 tracce nate in un piccolo studio, tra chitarra e computer. Possibili colonne sonore per fughe dal mondo reale. Elettronica glaciale e d’ambiente. Isolazionista. In un posto solitario, appartato, pensano il loro disco d’esordio anche Nü Shu. Nü Shu (titolo del disco, letteralmente «scrittura delle donne») è un altro modo per ribadire quello che dicevano i Germs; «what we do is Secret». E quello che porta a termine il duo salentino sono 10 momenti infuocati di suoni ed energia allo stato puro, un viaggio introspettivo che attraversa l'anima di chi lo ascolta, fino ad arrivare alla redenzione. Un po’ più solari ma anche loro lontani da ogni cliché sono Fratelli Calafuria. Prove complesse, il loro ultimo disco, segna un'inversione di rotta verso un sound ruvido tipicamente Nineties. Power trio senza compromessi, eclettico, visionario e senza regole. Tra la no wave newyorkese, il punk e il pop italiano. Con una vena demenziale sempre incontenibile. (Viola De Soto) BUENA VISTA SOCIAL CLUB LAST AND FOUND (World Circuit) Da Compay Segundo a Omara Portuondo, da Ibrahim Ferrer a Ruben Gonzales (e altri dieci), ci sono proprio tutti i reduci della più fenomenale riscoperta di archeologia sonora del ventunesimo secolo: in questo nuovo album di inediti - molti dei quali dalla mitica session con Ry Cooder - in studio o dal vivo i «nonnetti» dell'Avana tengono alto il vessillo della moderna tradizione (nera e creola) in 13 brani, da Bruca manigua a Como siento yo, rigogliosi, spumeggianti, colorati, che vanno da un languido carezzevole romanticismo a un sano divertimento ritmico. (g.mic.) MICHELE CAMPANELLA/ JAVIER GIROTTO MUSIQUE SANS FRONTIÈRES (CamJazz) Esalta la lettura che il titolato pianista classico e il navigato plurisassofonista danno di pagine celebri di Debussy e Ravel, composizioni che molto hanno donato e ricevuto dal jazz. Incanta l’assoluta libertà dei due musicisti e «l’assenza di confini creativi tra composizione e improvvisazione» (Brian Morton). Profondo e personale il senso del tempo di Campanella, originalissimo il suono di Girotto per un album in cui chi compone, interpreta e improvvisa sfugge a qualsiasi frontiera. (l.o.) MUSICA NUDA LITTLE WONDER (Warner Bros) Hanno voluto tornare alle origini - e lo spiegano nel booklet del disco - Petra Magoni e Ferruccio Spinetti che per i dodici anni del loro sodalizio, lo riportano al significato originario: solo contrabbasso e voce e un pugno di pezzi ripresi dal passato e riletti nel 2015. All'insegna, come al solito, dell'estrema varietà di generi: c'è spazio per Is This Love di Marley così come per la cover morandiana di Sei forte papà... (s.cr.) DI GUIDO FESTINESE TRIBUTI INDIE ROCK JAZZ Il coraggio del progressive Le fortune di Tobias Classico alternativo Molto spesso i tributi sono poco più che pretesti per mascherare carenze d’ossigeno creativo, e il discorso è vieppiù vero quando si parla del terreno minato del prog rock. Quando però il tributo ha senso e coraggio, e vede coinvolti i musicisti giusti, il pregiudizio svanisce. Consideriamo ad esempio I cancelli della memoria, sottotitolo Tributo anni ’70 a Franco Battiato (Ams Records), registrazione eccellente dal vivo al Teatro di Castellanza, Varese del 2010. Cd e dvd. Due protagonisti di questa incisione erano davvero nella band che accompagnava il gran siculo negli anni Settanta, quelli della sperimentazione e dei suoni inauditi: Mario Dalla Stella, chitarrista, e Gianfranco D’Adda, batterista. Bella la scelta di una voce femminile, per evitare fastidiosi confronti. In viaggio tra Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries e Clic. Non tributo, ma prezioso recupero per due tasselli perduti del prog italiano che stava per diventare world music: i due dischi del 1980 dei Futuro Antico, uno omonimo, l’altro intitolato Dai primitivi all’elettronica (Black Sweat). Con Walter Maioli, Riccardo Sinigaglia e Gabin Dabiré. Da riscoprire con amore. (Guido Festinese) I Libertines di Pete Doherty e Carl Barât sono stati una delle band più promettenti e discusse, amate e odiate dell'indie britannico. Storie personali sempre sull'orlo dell'abisso e un sound non certo originalissimo ma che sapeva come colpire. La reunion è vicina, ma intanto i due hanno dato libero sfogo alle loro carriere soliste. E il secondo ora torna con una nuova formazione reclutata su internet, The Jackals, e con un disco, Let it Reign (Cooking Vinyl/Edel) che non dice molto di nuovo e diverso rispetto al passato. Clash, brit pop e punk sono i motivi cui gira intorno. Prima, e meglio, di lui troppi... Una spanna sopra il nuovo di Chaz Bundick, in arte Toro y Moi. What for? (Carpark/Goodfellas) va a pescare nel rock anni Settanta, quello venato di r'n'b, e lo fa con credibilità e ottime capacità compositive. Un disco senza tempo ma ben inserito negli anni 2.1. E sembra arrivare da chissà quando anche Goon (True Panther Sounds/Self), esordio per Tobias Jesso Jr. che pubblica un disco di «canzoni», pure, semplici, dirette. Lui, bassista senza fortuna, si riscopre pianista e cantante ed è già sulla bocca di tutti. Randy Newman e Paul McCartney aleggiano sulla e nella sua testa riccioluta. (Roberto Peciola) Jazz americano 1956-1961, grande, classico, alternativo: è il caso anzitutto di Ray Charles in The Great (Poll Winners): abbandonati per un attimo i panni di rabbioso cantante soul, al pianoforte, sforna due album strumentali, in trio, sestetto, big band, cimentandosi in note canzoni altrui, con un approccio mainstream dalle forti tinte swing. Duke Ellington in Jazz Party (Poll Winners), come sempre, dirige o meglio «suona» la propria orchestra rinforzandola con il sostituto Jimmy Jones, il fedele Johnny Hodges, il funambolico Dizzy Gillespie (il bopper per definizione) e il bluesman Jimmy Rushing (già cantante nei gruppi di Count Basie): lo swing ellingtoniano sui generis eccellente sia nelle parti arrangiate sia in quelle soliste. Infine il meno noto Dave Bailey in Feet in the Gutter Sessions (Phoenix) raduna attorno alla propria batteria solisti di prestigio già con Ellington o Monk o liberi battitori per brevi lp consecutivi (sui cinque da lui realizzati in totale come leader) in quintetto/sestetto, riprendendo umori al contempo swing, be bop, mainstream. (Guido Michelone) SPEAK NO EVIL TRIO A SHORTER MOMENT (Notami Jazz) Da qualche tempo si moltiplicano citazioni, riferimenti, progetti, dedicati a Wayne Shorter. Sia onore alle intenzioni, perché scrittura e suono del sassofonista americano seguono logiche stringenti e non ancora messe del tutto a fuoco. Questo lavoro degli italiani Speak No Evil Trio, indaga su sette composizioni. Con esiti particolarmente convincenti quando il suono si impenna e diventa più carico. (g.fe.) STAR HIP TROOPERS PLANET E (Parco della Musica/Egea) Formazione composta da alcuni dei migliori jazzisti italiani del momento che assieme a Mess Morize, già noto come Knuf, mettono in gioco se stessi in territori electro. Tra atmosfere minimal e reminiscenze dei primi anni Duemila, quando il jazz continentale e non solo si mescolava con l'elettronica. La professionalità non difetta in un lavoro ben suonato, che però non scalda, su cliché già andati nel tempo. Sarà per la prossima. (g.di.) TWO GALLANTS WE ARE UNDONE (Ato/Pias/Self) Il duo di San Francisco colpisce ancora. Non guardano tanto per il sottile, e in due sparano rock senza fronzoli con quel tanto di blues trasversale e di country non convenzionale che non guasta mai. E quando si fanno un po' più cupi e si affidano al piano anziché alla chitarra elettrica (vedi Invitation to a Funeral) le cose vanno anche meglio. Poi che in giro ci sia di meglio è fuor di dubbio, ma intanto, ce ne fossero... (r.pe.) A CURA DI ROBERTO PECIOLA SEGNALAZIONI: [email protected] EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ Mezzago (Mb) SABATO 18 APRILE (BLOOM) A Place to Bury Strangers Da New York, sulla scia di Jesus and Mary Chain. Bologna VENERDI' 17 APRILE (LOCOMOTIV) Eyehategod In arrivo la sludge metal band di New Orleans. Roma VENERDI' 17 APRILE (INIT) Livorno SABATO 18 APRILE (TEATRO Ben Frost L'elettronica industriale e sperimentale del musicista australiano di stanza in Islanda. Milano SABATO 11 APRILE (BUKA) Dub Inc. La reggae, e non solo, band francese è nel nostro paese. Milano SABATO 11 APRILE (CS LEONCAVALLO) Pentatonix MASCAGNI) Un’unica data per il gruppo vocale texano. Milano MARTEDI' 14 APRILE (FABRIQUE) Satyricon Flying Lotus Torna il black metal della band norvegese. Pordenone SABATO 18 APRILE (DEPOSITO GIORDANI) Peter Kernel L'indie rock della band svizzero-canadese. Milano SABATO 11 APRILE (LIGERA) Ghostpoet Una sola data per il rapper sperimentale londinese. Bologna SABATO 18 APRILE (TPO) Asaf Avidan Il talentuoso cantante di origine israeliana. Milano DOMENICA 12 APRILE (ALCATRAZ) (15) L'hip hop nella sua forma più astratta e psichedelica. Milano DOMENICA 12 APRILE (FABRIQUE) David Rodigan Nato in Germania da padre scozzese e madre irlandese, ha vissuto i primi anni in Nord Africa per trasferirsi ancora bambino in Inghilterra. Probabilmente il sound system per eccellenza del reggae contemporaneo. Roma SABATO 11 APRILE (INIT) Torino SABATO 18 APRILE (LAPSUS) Verdena La rock band bergamasca è tornata dopo cinque anni con un nuovo disco, Endkadenz Vol. 1. Madonna dell'Albero (Ra) Grottammare (Ap) VENERDI' 17 Napoli VENERDI' 17 APRILE (LANIFICIO 25) Modena SABATO 18 APRILE (OFF) APRILE (CONTAINER) Perugia SABATO 18 APRILE (URBAN) Elita SABATO 11 APRILE (BRONSON) Marlene Kuntz Ancora dal vivo la rock band di Cuneo, che ha da poco pubblicato il nuovo Pansonica, in occasione del ventennale del loro album d'esordio, Catartica. In questo tour teatrale accompagnano un corpo di ballo in Il vestito di Marlene, spettacolo che racconta l'universo femminile attraverso la danza e la musica. Mestre (Ve) GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO TONIOLO) Vicenza VENERDI' 17 APRILE (TEATRO COMUNALE) Tre Allegri Ragazzi Morti Il trio indie rock friulano in tour. Brescia SABATO 11 APRILE (LATTERIA MOLLOY) Milano MERCOLEDI' 15 APRILE (LA SALUMERIA DELLA MUSICA) Legnano (Mi) GIOVEDI' 16 APRILE (CIRCOLONE) Bologna VENERDI' 17 APRILE (COVO) Colle Val d'Elsa (Si) SABATO 18 APRILE (SONAR) Cristina Donà La cantante e autrice di Rho è tornata sui palchi con uno Special Acoustic Tour. Il «Design Week Festival» torna con un cartellone musicale di tutto rispetto. Tra gli artisti presenti, in varie location del capoluogo lombardo, si possono ricordare Aucan, Benjamin Clementine, Bob Moses, Brooke Fraser, Dardust, Gilles Peterson, Henrik Schwarz, Ice One, Kate Tempest, Kiasmos, Kindness, Machinedrum, Populous, Ryoji Ikeda, Shabazz Palaces, The Kvb e molti altri ancora. Milano DA MARTEDI' 14 A SABATO 18 APRILE (VARIE SEDI) Crossroads La sedicesima edizione della rassegna «Jazz e altro in Emilia Romagna» continua la sua programmazione itinerante con i concerti di Rita Marcotulli Septet feat. Andy Sheppard, Raiz, Fausto Mesolella, Ares Tavolazzi, Alfredo Golino, Pasquale Minieri in un omaggio ai Pink Floyd; Diane Schuur Quartet in un tributo a Frank Sinatra e Stan Getz; Steve Lehamn Trio. Russi (Ra) GIOVEDI' 16 APRILE (TEATRO COMUNALE) Rimini VENERDI' 17 APRILE (TEATRO DEGLI ATTI) Ferrara SABATO 18 APRILE (JAZZ CLUB TORRIONE SAN GIOVANNI) Bam Festival La musica di New York nel capoluogo pugliese, tra concerti serali, jam session notturne (al Bohemien Jazz Club), masterclass e incontri con gli artisti. In cartellone: Johnny O'Neal e Orrin Evans Trio; Saul Zubin Zebtet e Johnny O'Neal Trio; Fabio Morgera & NY Cats e Nicholas Payton Trio. Bari DA GIOVEDI' 16 A SABATO 18 APRILE (SHOWVILLE) Waterface Uno spettacolo narrativo musicale che ripercorre la storia e la carriera di Neil Young - ideato da Marco Grompi, Pasquale De Fina e Pier Angelo Cantù. Agrate Brianza (Mb) VENERDI' 17 APRILE (TEATRO DUSE) No Go Terzo appuntamento per l'«Ultimate Contemporary Music Festival». Una serata dedicata alla musica elettronica e alle installazioni sonore. Roma SABATO 18 APRILE (EX C ARTIERA LATINA) Bologna Festival La rassegna di musica classica prosegue con la Orpheus Chamber Orchestra su musiche di Wagner, Mozart, Haydn e del pianista Fazil Say, solista per l'occasione. Bologna MERCOLEDI' 15 APRILE (TEATRO MANZONI) PENSIERI URBANI Massimo Urbani il folle, che non si preparava mai, e per qualche misterioso motivo conosceva ogni singolo brano e griglia accordale della storia del jazz. Massimo Urbani che non aveva fatto studi regolari, ma se si metteva a parlare di Roma antica lo faceva con la competente acribia di un archeologo a tempo pieno, spiegando toponimi e genealogie. Massimo Urbani che non guidava mai, ma che (in anni non sospetti) faceva da tom tom umano nei viaggi, conoscendo a memoria apparentemente per scienza infusa ogni uscita, ogni svincolo, ogni scorciatoia da usarsi sulla rete stradale e autostradale. Massimo Urbani generoso fino alla dissipazione, vitale come un gatto, e come un gatto sornione e capace di grandi assenze e reticenze, non spiegabili solo con quella maledetta eroina che se lo portò via troppo presto. Massimo Urbani il «Bird» d'Italia senza velleità da protagonista: un accostamento tutt'altro che casual, perché anche lui si trasfigurava, quando imbracciava il sax contralto. E le note volavano, e il pensiero non ce la faceva a star dietro a quel fiotto inarrestabile, palpitante, magmatico di note che erano tutto tranne che casualità. «È vero, combino tanti guai, però ricordatevi di tutto l'amore che ho dato ai musicisti», hanno giustamente messo come frase epigrafe sul retro di copertina. Massimo Urbani, il genio, insomma. C'è tutto questo, e parecchio d'altro, nell’appassionato ritratto che al jazzista romano dedica Carola De Scipio, in Massimo Urbani/L'avanguardia è nei sentimenti (Arcana Jazz). Nuova edizione che raccoglie ben quaranta testimonianze di chi Massimo Urbani l’ha conosciuto, una discografia ai limiti del possibile curata da Roberto Arcuri, le magnifiche foto di Roberto Masotti. ¶¶¶ Amari Accordi (scritto però con due colori diversi nei caratteri, in modo che dalle due parole si possa ricavare anche «Amarcord» è invece il libro (Arcana) che raccoglie esperienze di musica e di vita di Marcello Rosa, il trombonista tanto signorile nei modi e nelle espressioni (e nello splendido approccio al suo strumento padroneggiato con rara competenza) quanto spietatamente diretto nei giudizi su cosa sia jazz e cosa non lo sia. E con un odio da alzo zero per tutte le volte che il jazz s'è avvicinato a questioni politiche, il che nella realtà tende ad accadere inevitabilmente. Rosa però è più che convinto di ciò che scrive e dice, e bisogna dargliene atto: a costo di inseguire qualche luogo comune di troppo, nella pretesa invece di demolirlo, e con qualche laudatio temporis acti. Peccati veniali, per una figura centrale nella complicata storia del jazz d'Italia. (16) ALIAS 11 APRILE 2015 GRAFFITI di GERALDINA COLOTTI ROMA Al Forte Prenestino, i writer sono di casa. Il centro sociale romano (occupato e autogestito dal 1986) custodisce le tracce di grandi artisti di strada. Da venerdì scorso, su una delle pareti del vecchio forte militare è rimasta incisa anche l'opera del celebre writer newyorchese – scrittore, musicista, idolatrato dal cinema indipendente - George Sen One Morillo. Un artista impegnato nella difesa dei diritti della comunità nera, diventato un simbolo e anche un brand per borse e tessuti. Sen One è venuto in Italia insieme ad altri 3 attivisti legati alle Black Panther: Dequi Odinga, insegnante, esponente del Sekou Odinga Defense Committee e moglie di Sekou Odinga, un prigioniero politico arrestato nell'81 e ora in libertà condizionale; Yaa Asantewaa Nzingha, attrice, educatrice e a sua volta attiva nel Committee, e il rapper militante Mutulu Olugbala aka M1, from «dead prez». Al Forte, hanno animato una serata di dibattito e informazione sul «prezzo della libertà», pagato dagli africani nati in Nordamerica che, nei '60 e '70 hanno deciso di dire basta al razzismo e alla sopraffazione. Un prezzo che, nel secolo delle rivoluzioni, hanno scelto di pagare in molti, di qua e di là dell'oceano. E di questo ha ascoltato e discusso la stracolma sala cinema con persone di tutte le generazioni. Il Black Panther Party nasce ufficialmente a Oakland, in California, nell'ottobre del 1965, per iniziativa di Bobby Seale e di Huey P. Newton. I due marxisti iniziano un lavoro politico nel ghetto partendo dai bisogni concreti ed elaborano una piattaforma del partito in dieci punti che si propone di raggiungere tutta la comunità nera. Ai primi punti del loro programma, le Black Panther mettono i diritti basilari – casa, lavoro, istruzione – e «la libertà e il potere di determinare il destino» della propria comunità nera. Poi chiedono la fine della repressione e degli assassinii e la libertà dei prigionieri politici. Al decimo, dicono fra l’altro di volere: «Terra, pane, case, istruzione, giustizia e pace». In seguito, uno dei principali dirigenti, sarà George Jackson, autore del libro I fratelli di Soledad, scritto durante la detenzione in carcere. L'intento era quello di dotare la comunità nera di un'organizzazione di autodifesa. Nel 1965 era stato ucciso Malcom X, un importante simbolo di rivolta per la comunità nera, ma che – secondo il Plack Panther – non aveva prodotto un programma di riforme sociali ed economiche che avesse come orizzonte il socialismo rivoluzionario. Ne seguono, però, l'indirizzo per quel che riguarda l'internazionalismo e la ricerca di unità con altre minoranze, e con i gruppi radicali bianchi. Con questa idea, il partito – Incontro romano con l’artista newyorchese, impegnato nella difesa dei diritti della comunità nera diventato un simbolo. E anche un brand va ai principi originari del gruppo. Mi sono unito a loro. Allora c'era il sindaco Rudolph Giuliani, quello della «tolleranza zero». A partire dal '94, per due mandati, ha scatenato una guerra contro i poveri che occupavano le case, contro i senza fissa dimora, la polizia aveva il permesso di uccidere. Siamo andati ad Harlem a fare dei video seguendo le pattuglie della polizia, come il Black Panter delle origini. Abbiamo formato dei giovani che poi hanno deciso di andare per conto loro. Ora mi dò da fare anche per la liberazione dei prigionieri politici. Siamo riusciti a tirar fuori Sekou Odinga, ma dentro ne restano ancora una dozzina. George Sen One Morillo e a fianco alcune sue creazioni come artista e poi creativo nel suo brand di calzature BLACK PANTHER GEORGE SEN ONE MORILLO «Mi ha salvato la passione per la politica» all'origine un piccolo gruppo – si estenderà in tutti gli Stati uniti, fino a diventare un punto di riferimento per le comunità nere. Allora, George Morillo non era ancora venuto al mondo. Ed era appena nato nell'ottobre di due anni dopo quando gli atleti neri statunitensi, Tommy Smith (24 anni, del Texas), e John Carlos (23 anni, di Harlem), de- cidono di dare un segnale al mondo salendo sul podio a piedi nudi e a pugno chiuso, col guanto nero simbolo del Black Power. Sei mesi prima è stato ammazzato Martin Luther King. George non può ricordare direttamente, ma dice di «essere stato adottato dalle Pantere nere» e mostra il tatuaggio che le rappresenta inciso sull'avambraccio. Prima del dibattito, lo abbiamo guardato dipingere. E all'improvviso, la galleria del centro sociale diventa una pista del Parkour, un frammento dei ghetti neri attraversati dallo skateboard e dalla musica, di rabbia e di sogni. Diventa, anche, una mostra d'arte vivente e una scuola di quartiere. Fin dall'inizio, il Black Panther party ha messo al centro del suo programma l'educazione popolare. Sen One ci racconta che, come esponente del Collettivo delle Pantere Nere ha insegnato per diverso tempo l'arte di strada ai ragazzini del Bronx, di età compresa tra i 9 e i 15 anni: «L'autodifesa – dice – comincia con il prendere coscienza delle proprie potenzialità». Com'è cominciata la sua avventura artistica? Sono nato in un quartiere povero di New York, un posto duro per crescere quando non hai niente. Ho cominciato facendo hip hop insieme alle gang negli anni '80, l'epoca doro della cultura hip hop. Ho fatto parte del gruppo Ibm, Incredible Bombing Masters, pionieri nello stile dei graffiti. Con un «bombardamento» di stili diversi sovrapposti e un tocco astratto abbiamo cominciato a disegnare sui treni. Abbiamo disegnato sui campi di pallamano nel cortile della scuola. Ci siamo appropriati dello spazio di una scuola allo sbando. Abbiamo imparato gli uni dagli altri e da chi aveva capito prima di noi. Abbiamo sviluppato uno stile e messo insieme tanti talenti artistici. Eravamo una squadra, il gruppo della Upper West Side. Siamo stati l'ultima generazione di writer che ha potuto «bombardare» con la propria creatività i vagoni della metropolitana, scrivere la nostra leggenda. Poi sono arrivati il crack, la coca, la droga ha distrutto tutto. Il governo ha cominciato a dare la caccia agli spacciatori, molti sono finiti in carcere, altri sono morti. Ero sempre in fuga. Alcu- ni di noi si sono salvati facendo graffiti. Io ho visto tutto questo, ne sono stato dentro e poi sono cambiato incontrando la politica. E come? Un giorno ho visto dei ragazzi che vendevano il giornale del Black Panther Party: le Pantere nere non c'erano più, ma era rimasto il giornale e un collettivo che si richiama- La polizia, negli Usa, continua a uccidere i neri anche con Obama alla presidenza. Qual è la reazione della comunità? E' vero che un gruppo di giovani ha ripreso a fare le ronde richiamandosi al Black Panther Party? Obama è un pezzo del sistema. La destra bianca lo odia, ma piace ancora a gran parte dei neri che lo hanno votato. Per noi, invece, è roba vecchia, buona per trafficare con la Cia e fare il solito gioco delle parti. Purtroppo, a causa delle droghe, i giovani delle comunità sono un po' sconnessi, non conoscono molto delle Black Panther. Quelli che si richiamano al Bpp non sono autentici. Il gruppo è stato fondato da un membro della nazione islamica, figuriamoci: per noi la religione è l'oppio dei popoli... Io preferisco il movimento di Occupy. Mi piace quello che fanno in America latina. Mi piace il Venezuela socialista. Non appartengo a nessun partito. Faccio politica con la mia arte. Sono stato adottato dalle Black Panter, rimarrò sempre una pantera.
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