(2) ALIAS 24 APRILE 2015 QUANTO PIÙ PAGANO PIÙ DEVONO GALEANO POETA POLITICO Membro attivo nella giuria del Tribunale permanente dei popoli di SALVATORE SENESE e GIANNI TOGNONI* Nei numerosi articoli che la stampa nazionale ha dedicato alla scomparsa di Eduardo Galeano manca qualsiasi cenno ad un’esperienza significativa della sua vita e della sua poliedrica attività. Ci riferiamo alla partecipazione attiva di Galeano al Tribunale Russell II sull’America latina organizzato e presieduto da Lelio Basso agli inizi degli anni ’70, le cui tre sessioni si sono tenute dal 1974 al 1976. La convinta adesione di Galeano agli obiettivi e al metodo del Tribunale Russell II lo indussero a proseguire il proprio impegno anche nella giuria del Tribunale permanente dei popoli (TPP), che Basso aveva voluto come prosecuzione del Tribunale Russell e che vide la luce nel giugno del 1979 a Bologna, pochi mesi dopo la scomparsa dello stesso Basso. Eduardo Galeano non è solo uno dei protagonisti più originali della letteratura latinoamericana, ma anche e soprattutto il creatore di una visione del mondo capovolta, «patas arriba», a testa in giù, che non accetta la dipendenza dalla logica reiterata del mercato e delle guerre. Forse spetta al TPP e alla Fondazione Lelio e Lisli Basso evidenziare un aspetto ulteriore che completa il profilo di questo grande amico e compagno di oltre quarant’anni di lotte e cammini. Dalla sua fondazione il TPP ha avuto il privilegio di avere Eduardo tra i suoi membri più attivi, non solo come presenza nei lavori della Sessione, ma piuttosto come colui che sapeva sovrapporre agli aspetti tecnici e politici del Diritto internazionale la sfida fondamentale di recuperare una memoria «de fuego y de viento», simile a quella che lui ha cercato di restituire con le sue «palabras andantes» ai popoli dell’America Latina e del mondo. I due testi che si allegano a questo piccolo ringraziamento per tutto ciò che Eduardo ci ha donato - che fanno riferimento alla sua «visione» delle Politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e della Conquista dell’America Latina e il Diritto internazionale, due lavori centrali del TPP realizzati a fine anni ’80 e inizi ’90. *Presidenza e Segreteria Generale del Tribunale Permanente dei Popoli Il popolo finanzia la repressione che lo colpisce e lo sperpero che lo tradisce. I prestiti internazionali diventano debito estero dei paesi e in forma di capitale trafugato dai padroni IL TRIBUNALE Da quel processo nacquero i movimenti «no global» di LUCIANA CASTELLINA Questo è il discorso conclusivo del processo che il Tribunale dei popoli celebrò a Berlino nel 1988: era la prima volta che imputato non era solo un governo, ma istituzioni internazionali, le più importanti: il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale che, in quegli stessi giorni, tenevano nella non ancora capitale tedesca i loro summit. La partecipazione dei berlinesi fu straordinaria, a migliaia collaborarono a rendere possibile le udienze e la partecipazione dei testimoni di accusa che arrivavano in aereoporti ancora collocati al di qua e al di là del Muro.Fra loro personaggi nel frattempo diventati celebri, come una giovanissim Vandana Shiva, che aveva appena abbandonato per protesta il suo qualificato posto in seno alla Banca mondiale, o Aloysio Mercadante, allora sindacalista brasiliano, poi ministro con Lula.. Persino il prof. Triffin che accettò il ruolo di avvocato difensore delle due istituzioni (un difensore critico, ovviamente). E ancora economisti e contadini, deputati ed operai. Fu, quell'evento, a dare il via ad un movimento che negli anni successivi diventò grandissimo, quello dei «no global», che avevano colto la nuova dimensione dell'oppressione. Possiamo ben dire che fu Galeano a tenerlo a battesimo. di EDUARDO GALEANO Essi possono più dei re e dei signori e più dello stesso Papa di Roma. Onorevoli filantropi, praticano la religione monetarista, che adora il consumo nel più alto dei suoi altari. Non si sporcano mai le mani. Non uccidono nessuno: si limitano ad applaudire lo spettacolo. Le loro imposizioni si chiamano raccomandazioni. Le intimidazioni le chiamano lettere di intenti. Quando dicono «stabilizzare», vogliono dire: rovesciare. Chiamano austerità la fame e cooperazione l’aiuto che la corda offre al collo. I grandi banchieri e i maggiori tecnocrati del mondo si sono riuniti a Berlino alla fine di Settembre. Immense manifestazioni di protesta si sono succedute, giorno dopo giorno, durante l'assemblea del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Contro il terrorismo del denaro hanno risuonato i tamburi dell 'indignazione popolare, tormentando orecchie più abituate alle litanie dei mendicanti con colletto e cravatta. Parallelamente, all università si è riunito un tribunale simbolico, composto dai premi Nobel Adolfo Perez Esquivel e George Wald e da vari giuristi, uomini di scienza, artisti, politici, ecologisti e attivisti peri diritti umani. Davanti a loro, davanti a noi hanno testimoniato le vittime dei banchieri, arrivate da diversi paesi del Terzo Mondo. Le ¡oro denunce non hanno suonato su campane di legno. Le vittime: Quanto più pagano, più devono/ Quanto più ricevono, meno possiedono/Quanto più vendono, meno incassano/ Impiegano sempre più ore di lavoro per guadagnare sempre meno/ impiegano sempre più prodotti propri/per ricevere sempre meno prodotti altrui. Il vescovo Eamonn Casev ci ha raccontato che in Irlanda la crisi finanziaria attuale impoverisce i poveri, rovina il servizio sanitario, l'educazione pubblica e i servizi sociali, e Andrea Szego, dell 'Accademia delle Scienze di Ungheria, ci ha detto che i paesi dell'est Europa non sfuggono alla trappola del debito. Ha indicato il pericolo di destabilizzazione politica dell’est e ci ha parlato di un possibile «socialismo prigioniero» della gabbia del Fondo Monetario. Ma sono i paesi sottosviluppati, storicamente travolti dallo sviluppo degli sviluppati, a essere stati condannati alla schiavitù per debiti. Su di loro la polizia finanziaria internazionale vigila e comanda: fìssa abitualmente il livello dei salari e della spesa pubblica, gli investimenti e i disinvestimenti, gli interessi, i dazi doganali, le imposte interne e tutto il resto, eccetto l ’ora in cui sorge il sole e la frequenza delle piogge. I trafficanti vendono la droga ma non la consumano. I paesi ricchi, che impongono ai poveri la libertà di mercato, praticano il protezionismo più rigoroso. Gli Stati Uniti sono il paese che più deve, nel mondo. Il loro debito estero equivale, quasi, a quello di tutta l'America Latina. Ma essi non applicano la ricetta del FMI per la semplice ragione che il FMI, come la Banca Mondiale, gli appartengono: hanno il venti per cento dei voti, e ciò equivale al diritto di veto. Nello stesso modo, e come dice una vecchia e veritiera barzelletta, negli Stati Uniti non ci sono golpes militari perché lì non c’è l'ambasciata degli Stati Uniti. La febbre guerriera del presidente Reagan ha impoverito molta gente, in quel paese, ma un’operaia di una fabbrica di Chicago ancora guadagna in un'ora quello che una cuoca di Lima guadagna in un mese. Che succederebbe se il FMI consigliasse di stringere la cinghia? André Gunder Frank ci ha risposto: «Il Congresso degli Stati Uniti respingerebbe con alte grida questa inaccettabile violazione della sovranità». «Il debito estero è una questione di sovranità», ci ha detto l'economista filippino Manuel Montes, parlando di un paese che destina circa la metà delle sue esportazioni al pagamento degli interessi della fortuna che si portò via il dittatore Marcos. Il governo democratico argentino, che ha ereditato dalla dittatura militare un debito moltiplicato per sei, discute la previsione di bilancio nazionale con il Fondo Monetario a Washington, prima di sottoporlo al potere legislativo a Buenos Aires. Anche Alfredo Eric Calcagno ha denunciato che negli attuali contratti di debito l'Argentina rinuncia esplicitamente alla sua immunità di Stato sovrano, consacra l'usura e regala settecento milioni di dollari di imposte annuali. A Berlino, davanti al tribunale. Calcagno si è chiesto fino a quando la candida Erendira continuerà ad obbedire alla sua nonna senz'anima. «Ci insegnano che non possiamo essere padroni del nostro destino - ci ha spiegato David Abdulah, sindacalista di Trinidad e Tobago -. Così, i paesi IL DISCORSO BERLINO 29 SETTEMBRE 1988 Fmi e Banca mondiale, il paradosso amaro di Don Dinero ricchi possono esportare tranquillamente la loro crisi e finanziare la loro modernizzazione. Il debito estero sta finanziando la seconda rivoluzione industriale in occidente». Togba Nah Ttpoteh è stato ministro in Liberia, e presidente del gruppo africano dei governatori del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. «È il nuovo colonialismo - ci ha detto. In che consiste la loro politica nel mio paese? Consiste nel ridurre i costi di produzione delle imprese multinazionali e aumentare i loro tassi di profitto». L’ex - ministro della Pianificazione in Tanzania Abdulrahman Babu ci ha detto che questa politica implica crimini «peggiori di quelli del colonialismo». I tecnici del suo paese stimano in cento milioni di dollari al giorno, niente di meno, il contributo che l'Africa porta, per le vie diverse, alla prosperità dell'Occidente. In Perù la sfida del presidente Alan Garcia non è andata più in là della retorica, e oggi egli sta applicando la devastante formula di stabilizzazione del FMI. Nella sua esposizione, Javier Mujica, consigliere dei sindacati peruviani, ha affermato che agli organismi finanziari internazionali bisognerebbe applicare la norma giuridica internazionale che definisce e condanna il genocidio. Tutti pagano quello che pochi spendono. Per pochi, la festa. Per tutti gli altri, i piatti rotti. Si privatizzano i profitti, si socializzano le bancarotte. Il popolo finanzia la repressione che lo colpisce e lo sperpero che lo tradisce. I prestiti internazionali diventano debito estero dei paesi e in forma di capitale trafugato dai padroni dei paesi: milionari latino-americani, per esempio, la cui capacità di sperpero provoca incurabili complessi di inferiorità agli sceicchi arabi; o dittatori qualsiasi. La finanza internazionale si preoccupa della libertà del denaro, non della libertà delle persone. Quando si riferisce al ALIAS 24 APRILE 2015 generale Pinochet il Financial Times fatica a nascondere la bava. Tra poco la Dichiarazione Universale dei diritti umani compirà quarant’anni, e non sarebbe sbagliato ricordarlo a chi ricompensa i colpi di stato erogando generosi flussi di dollari ai generali che abbattono i costi di produzione mediante il violento crollo dei salari operai. Le dittature militari di Argentina, Cile ed Uruguay ricevettero numerose dichiarazioni d'amore e consistenti prestiti, e cosi moltiplicarono il debito estero dei loro rispettivi paesi. Il debito estero del Brasile crebbe trenta volte, negli anni della dittatura militare. La Banca Mondiale e il FMI elogiarono con il massimo entusiasmo «la politica modello» del vorace Marcos, nelle Filippine. In Zaire, Mobutu ha ricevuto quanto ha chiesto, e ha rubato quanto ha ricevuto. Qualche giorno prima della sua fuga, mentre cadevano le bombe sul popolo dei Nicaragua, tra le mani di Somoza continuava ad arrivare il denaro del Fondo Monetario Internazionale. Poi, il paese svuotato dovette farsi carico di questi regali di addio e dei molti prestiti concessi a Somoza per fare guerra contro il suo paese e rubare ciò che rimaneva. Invece adesso il Nicaragua non riceve un centesimo. È diventato, per la finanza mondiale, un paese paria. L’ambasciatore Carlos Arguello ci ha letto una lettera rivelatrice. Il 30 Gennaio del 1985, lo statunitense George Shultz ordinò al messicano presidente del Banco Interamicano de Desarrollo di cancellare un credito già Al centro: frammento del murale «Conquista y sometimiento» de Diego Rivera, a pag 2 Galeano con donne Mapuche, a pag 3 una donna e un uomo Mapuche concesso al Nicaragua, il credito fu cancellato. Per i governi del Terzo Mondo che vogliono trasformare la realtà invece che amministrarla, viene chiusa la borsa. Non c'è che da ricordare quella frase di Henry Kissinger, al tempo di Salvador Allende: «Faremo sì che la economia cilena urli di dolore». Attraverso il prestito, la tecnocrazia impone un modello di sviluppo estraneo alle necessità reali di ogni paese, che promuove il consumo artificiale e stimola un modo di vita importato, spreca le risorse naturali, idolatra la moneta e disprezza la gente e la terra. a parlato Vandana Shiva e per bocca sua ha parlato l'India: «Il FMI, la Banca Mondiale e il loro concetto di sviluppo hanno violato la mia integrità, essi hanno fatto dello sviluppo una parola sacra, ma in nome dello sviluppo hanno violato i cicli e le leggi della natura, hanno distrutto boschi e creato deserti, hanno avvelenato il mio suolo, la mia acqua, la mia aria. La medicina di Bretton Woods sta uccidendo l’India». I progetti per stimolare le esportazioni del Brasile, con finanziamento diretto o con la luce verde di questo organismo, stanno spianando la foresta amazzonica e sterminando indigeni. Secondo quanto ci ha detto padre Angelo Pansa, che vive nella regione: l'anno scorso le grandi imprese multinazionali hanno attaccato uno spazio delle dimensioni della Germania Federale. Analoga testimonianza ci è stata offerta da Ana Maria Fernandez, per il Paraguay: «La Banca Mondiale sta finanziando progetti di sviluppo che implicano un etnocidio contro le comunità indigene». Dal punto di vista dominante, sviluppo equivale a esportazione, allo stesso modo in cui cultura equivale a importazione. Da fuori, dai grandi centri metropolitani, vengono, a prezzi carissimi, le idee e i simboli che danno prestigio e potere, mentre sul mercato mondiale si vendono prodotti economici e braccia economiche. L'africano Ahdulrahman Habu ci ha raccontato l 'Etiopia, dove un milione di persone sono morte di fame, vende carne all’Inghilterra. L'economista Aloysio Mercadante ha osservato che il Brasile è il quarto esportatore mondiale di alimenti, ma due su tre brasiliani mangiano meno del necessario. Lo sviluppo, sviluppo verso l ’esterno, dissimula le sue feroci contraddizioni negli schemi astratti nel feticismo dei numeretti. Davison Budhoo, che ha rinunciato al suo alto incarico nel FMI, ci ha fatto notare i rischi della sacralizzazione di certi indici economici come il prodotto nazionale lordo: il PNL della Nigeria è, in proporzione alla popolazione, quattro volte maggiore di quello della Tanzania, ma la Tanzania ha meno analfabetismo e meno mortalità infantile della Nigeria, e ha più aspettativa di vita, più letti d’ospedale e più donne all'università. Il sacerdote gesuita Xabier Gorostiaga ci ha fatto notare, con ragione, che la violenta e disperata crisi in America Centrale è esplosa in una regione che dal 1050 fino al 1978 aveva ostentato gli indici di crescita economica più alti del mondo. In questi ventotto anni, l’America Centrale ebbe, nelle statistiche, il maggior sviluppo regionale di tutta la storia economica dell 'umanità. Le statistiche se la passavano molto bene, la gente, invece, molto male. Chi fa ammalare, vende la medicina. Improbabile medicina, questo salasso che dice di curare l'anemia. Il rimedio è un altro nome della malattia. Nuovi prestiti pagano i vecchi prestiti e il debito si moltiplica misteriosamente. Tra il 1973 e il 1985, il Brasile pagò abbastanza di più di ciò che aveva ricevuto, ma nel 1985 il Brasile doveva nove volte di più che nel 1973. La Citybank, che ha il sei per cento dei suoi investimenti in Brasile, riceve dal Brasile, il 25 per cento dei suoi profitti mondiali. In Argentina e Messico, la maggior parte del debito corrisponde a denaro che non è mai entrato in quei paesi. Il denaro svanì prima di arrivare, per arti magiche, lungo il cammino. Riferendosi alle arti da giocoliere dei banchieri, Paulo Schilling ci ha descritto un tipico paradiso fiscale, l'isola del Gran Cayman, nel mar dei Caraibi, che ha 21.000 abitanti: laggiù operano 17.500 imprese finanziarie multinazionali. Tutti i testimoni che abbiamo ascoltato a Berlino hanno concordato nell’attribuire piaghe e peste al Fondo Monetario e alla sua sorella gemella, la Banca Mondiale: rovina della moneta, caduta dei salari e del tenore di vita popolare, liquidazione del servizio sanitario e dell‘educazione pubblica, distruzione della natura. Ma i paesi ricchi usano di solito il FMI per tirare il sasso e nascondere la mano, e spesso i governi del Terzo Mondo invocano questo satanico super padre per giustificare la propria impotenza: «Il Fondo non lo permette... ». Per gli uni e per gli altri, il FMI opera come un perfetto alibi. «È tutto il sistema sotto processo, e non solo le sue istituzioni finanziarie », ci ha avvertito Yash Tandon, dello Zimbawe. in realtà, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale non sono più che ingranaggi di un sistema mondiale di potere. Questo sistema, che sta giocando pericolosamente alla roulette russa della speculazione sfrenata, ruba con una mano molto più di ciò che presta con l’altra. Nella sua relazione del 6 Agosto del 1987, il segretario generale delle Nazioni Unite afferma che nel 1986 i paesi poveri hanno perso 94.000 milioni di dollari per il deterioramento dei prezzi nel commercio con i paesi ricchi. I prodotti del cosiddetto Terzo Mondo stanno ricevendo, nel cosiddetto mercato Internazionale, i peggiori prezzi dell 'ultimo mezzo secolo. Sì, il FMI è uno strumento. È formato da 150 paesi, ma i dieci paesi più ricchi del mondo dispongono di più della metà del voti. La grande finanza internazionale è un monopolio di potere, una dittatura del nord sul sud. Ma questo carattere strumentale, al servizio di un sistema maggiore, non implica innocenza. La tecnocrazia suole rivendicare il privilegio della irresponsabilità. Il tecnico, il tecnocrate, fa lo gnorri, Tuttavìa, benché nelle lettere di intenti non figurino esplicitamente la concentrazione della ricchezza, nè lo smantellamento della sovranità nazionale, tutto questo è implicito. E benché sia vero che i desaparecidos e i torturati non sono menzionati nei piani di risanamento, è anche vero che ne sono la conseguenza naturale. Quelli che programmano il sacrificio dei salari non sono innocenti della conseguente repressione contro il movimento operaio. La ricetta del FMI richiede un prezzo di sangue e fuoco e i tecnocrati fanno parte, in questo senso, della stessa squadra dei torturatori, dei boia e degli inquisitori. Credo che non sia troppo ricordare questa responsabilità della tecnica e della scienza. Infine e col dovuto rispetto, non posso non segnalare una casualità, forse significativa: questa riunione, la nostra riunione, è stata celebrata a pochi metri dal luogo in cui Joseph Mengeie faceva i suoi esperimenti, in nome della scienza, con bambini portati dai campi di concentramento. (3) Cinque secoli dopo l’Europa non riesce a guarire da un’antica malattia chiamata razzismo, un salvacondotto efficace per fuggire dala storia GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola LA CONQUISTA Nella sua infinita generosità il sistema concede a noi tutti la libertà di scegliere tra il capitalismo e il capitalismo di EDUARDO GALEANO Fine del secolo, fine del millennio, festa di compleanno. Il mondo del nostro tempo - mondo trasformato in mercato, tempo dell’uomo ridotto a mercanzia celebra i suoi cinquecento anni. Il 12 ottobre del 1492 nacque la realtà che oggi viviamo su scala universale: un ordine naturale nemico della natura, e una società umana che chiama «umanità» il venti per cento dell'umanità. Nella loro lettera pastorale, i vescovi della chiesa cattolica del Guatemala hanno chiesto perdono ai popolo maya e hanno reso omaggio alla religione indigena «che vedeva nella natura una manifestazione di Dio Ma il Vaticano festeggia i cinquecento anni dell 'arrivo della fede al continente americano». Ma la fede non esisteva in America prima di Colombo? La conquista impose la sua fede come unica verità possibile, e cosi calunniò il Dio dei cristiani riducendolo al ruolo di Capo Universale di Polizia e attribuendogli l'ordine di invasione delle terre infedeli. In quei tempi profeticamente si cominciò a chiamare libertà di comunicazione il diritto dell'invasore, signore della parola, contro i conquistati senza voce. Gli indios furono condannati per il fatto di essere «indios» o perché continuavano ad esserlo. I barbari che non si lasciavano civilizzare meritavano la schiavitù. Quanti bruciarono sui roghi per il delitto di credere che ogni terra è sacra? Adorando la natura gli indios pagani praticavano l'idolatria e offendevano Dio. Offendevano Dio o il capitalismo nascente? Da allora è nata l’identificazione della proprietà privata con la libertà: libertà di usare il mondo come fonte di guadagno e oggetto di consumo. Da Carlo V alla dittatura elettronica: cinque secoli dopo, il pianeta è terra bruciata. E cinque secoli dopo l ’Europa non riesce a guarire da un antica malattia chiamata razzismo. Missione di evangelizzazione, dovere di civilizzazione, orrore della diversità, negazione della realtà: il razzismo era ed è un salvacondotto efficace per fuggire dalla storia. CONTINUA A PAGINA 4 redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719557 e 0668719339 [email protected] http://www.ilmanifesto.info impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. 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Se il destino è iscritto nei geni, la ricchezza dei ricchi è innocente di cinque secoli di delitti e saccheggio e la povertà dei poveri non è un prodotto della storia ma una maledizione della biologia. Se i vincitori non hanno di che pentirsi, i perdenti non hanno di che lamentarsi. Fine del secolo, fine del millennio, tempo dei disprezzo. Pochi possidenti, molti posseduti; pochi giudicano, molti sono giudicati: pochi quelli che consumano, molti sono consumati; pochi gli sviluppati, molti i travolti. E i pochi, sempre meno, i molti sempre più: in ogni paese e nel mondo. Lungo questo secolo. Il divario che separa i paesi poveri dai paesi ricchi si è moltiplicato per cinque. Il mondo dei nostri giorni è il capolavoro di una scuola che potremmo chiamare il realismo capitalista. Nella sua infinita generosità il sistema concede a noi tutti la libertà di scegliere tra il capitalismo e il capitalismo, ma all’ottanta per cento dell’umanità è proibito l'ingresso nella società del consumo. La si può guardare in televisione, questo sì: chi non consuma cose, consumi fantasie di consumo. Il mondo assomiglia ora a una qualunque delle metropoli latino-americane: immense periferie assediano le fortezze inespugnabili dei quartieri di lusso. Non restano ormai neppure le macerie del passeggero muro di Berlino; ma è ogni giorno più alto e più massiccio il muro mondiale che da cinque secoli separa coloro che hanno da quelli che vorrebbero avere. Quanti sono caduti, e quanti cadono ogni giorno per volerlo saltare? Nessuno li ha contati, nessuno li racconta. Fine del secolo, fine del millennio, tempo della paura. Il Nord è in panico al solo pensiero che il Sud possa prendere sul serio le promesse della sua pubblicità, così come l'Est ha creduto all’invito in Paradiso. Un sogno impossibile: se l'ottanta per cento dell'umanità potesse consumare con la voracità del venti per cento, il nostro povero pianeta, già moribondo, morirebbe. Se lo sperpero non fosse un privilegio, non esisterebbe. L’online internazionale che predica la giustizia, si fonda sull’ingiustizia e ne dipende. Non è per caso che l'industria della paura garantisce oggi gli affari più redditizi: il commercio delle armi e il traffico della droga. Le armi, prodotti della paura di morire: e le droghe, prodotti della paura di vivere. Tempo della paura: grandi buchi nella fascia di ozono, buchi ancora più grandi nell 'anima. Cinque secoli fa nacque questo sistema che ha mondializzato lo scambio ineguale e ha fissato un prezzo al pianeta e al genere umano. Da allora trasforma in fame e denaro tutto ciò che tocca. Per vivere, per sopravvivere ha bisogno della organizzazione diseguale del mondo così come i polmoni hanno bisogno dell 'aria. Oggigiorno la debolezza dei deboli, persone deboli, paesi deboli, è motivo di scherno o di pena. La solidarietà è passata di moda. Però, quanto è forte la fortezza dei forti? Il potere, ciglio della violazione, è pieno di violenza, è pieno di paura. Corpo muscoloso spaventato dalla sua stessa ombra, corpo senz’anima, società disanimata. Corpo cieco di sé, smarrito da sé: proprietario di tutto, non è ormai padrone di sé. Non può più permettersi altra passione se non la passione del consumo. Ha sacrificato il diritto alla vita, la sua propria vita sugli altari del diritto di proprietà: e già ha cominciato a consumare se stesso. Donne e uomini del Sud e del Nord ci siamo riuniti a Padova, questa settimana, per una nuova tappa del Tribunale dei Popoli. Abbiamo discusso il diritto internazionale. Alla luce dei cinquecento anni dalla conquista dell'America, perchéil diritto internazionale è figlio del diritto di conquista ed è segnato sulla fronte da quello che François Rigaux chiama «il suo peccato originale». Ci hanno abituato a dimenticare ciò che merita memoria e a ricordare ciò che merita oblio: ma ci siamo riuniti nella certezza che il mondo non è «questo» mondo, né il diritto è «questo» diritto. Ci hanno abituato a ignorare la storia per obbligarci ad accettare iI tempo presente come destino; ma ci siamo riuniti nella certezza che il mondo può e deve essere, la casa di tutti, e nella certezza che che un altro diritto possibile, che non è quello che legittima l'ingiustizia e garantisce l'impunità di coloro che comandano, servendo da alibi a un sistema che mai dice quello che fa né fa quello che dice. Questo è il nostro minuscolo contributo a un compito immenso: la riconquista della pienezza mutuata e della umana dignità della condizione umana. Un nuovo secolo nasce, nasce un nuovo millennio. Tempo di speranza. In viaggio per I ’Italia sono passato per l'Andalusia. E là ho ascoltato il ritornello di un canto flamenco, el canto jondo, il canto profondo che in tre brevissimi versi risponde nel modo più vero alla civiltà che confonde l'essere con l'avere. Il ritornello mi è rimasto dentro, e ancora canta dentro dì me. In questi giorni, durante le sedute del Tribunale, l'ho risentito varie volte, e ogni volta pensavo: a Lelio sarebbe piaciuto. E ho pensato: a Sergio, a Antonis sarebbe piaciuto. E adesso, pensando a loro, e sentendo con loro, lo dico a voi: Ho le mani vuole, tanto ho dato senza avere, ma le mani sono mie. di MARIA GROSSO Un cielo ingabbiato. Dipingono sbarre e continuano a intingere il pennello solo nel nero. L’insegnante ha chiesto a una classe elementare dell’UNRWA Boys School del campo profughi di Balata, Palestina, di raccontarsi in una immagine. Perché sempre nero? Per l’ingiustizia, risponde uno, mentre il compagno sta usando anche un po’ di verde. Ancora: Hareali, scuola nazionale secondaria di Haifa. Come immagini Israele tra 20, 30 anni? C’è troppo odio, non riesco a vedere oltre, è la risposta di un ragazzo. «Non sono tanto addentro alla religione, me ne andrò. La cosa che mi fa più male è la paura», interviene un altro. E guardano in macchina: serissimi tesi, preoccupati tristi, senza la minima luce. E ancora: scuola elementare di Ramallah, West Bank, dal tema/lettera a un coetaneo ebreo francese: «Caro amico, le cose non vanno bene qui, gli israeliani ci hanno preso la terra, il pane il sale l’acqua. Ti prego, di’ a tuo padre, che è un uomo importante anche in Israele, di far finire il nostro dolore». Sono «epifanie» da This is my land, il documentario di Tamara Erde, proposto in anteprima italiana nei giorni scorsi dal Middle East Now FF di Firenze. Titolo omonimo al lavoro di Giulia Amati e Stephen Natanson (2010), intorno a Hebron, territori occupati della West Bank, il doc ha un focus dichiarato fin dall’incipit dalla regista stessa - giovane israeliana - ossia l’indagine sul modo in cui in Israele e in Palestina si insegni la storia del conflitto. Cercare il come, dunque, non solo a rimarcare la crucialità ineludibile dell’istruzione nel determinare il presente e il dopo che verrà, ma innanzi tutto a porre la questione, preliminare e tutt’altro che scontata, della necessità di una pedagogia critica, aliena da strumentalizzazioni o trasmissioni dogmatiche, una pedagogia che, in questo tracciato atavico e acuminato, insegni prima di ogni cosa a porsi domande. In una quiescente accettazione di quanto le viene proposto cresce l’autrice del film («non conoscevo nulla della storia della Palestina»), finché durante il servizio militare, si innesca in lei la molla dell’interrogarsi. Così, qualche anno dopo eccola tornare a Tel Aviv, contattare insegnanti (a diversi il Ministero dell’Istruzione non consente di essere filmati), immergersi per un anno nella vita di sei classi in altrettanti istituti (per israeliani, per palestinesi e misti), dove il montaggio è la strada in macchina che li separa, tragitto assolato di direzioni interdette, muri, contiguità incandescenti e convivenze da decifrare. Che cosa è libertà. Che cosa è diritto e cosa violazione del diritto. Ricadute psicologiche dell’occupazione: «Ci toglie il rispetto di noi stessi, distorce l’autopercezione». Un insegnante palestinese lavora sul filo dell’immaginazione: essere reclusi e sentire lo scotch sulla bocca, visualizzando il volo senza confini degli uccelli, e dando calci al muro della scuola. Un’altra, a Neve Shalom, la scuola non governativa mista, in compresenza con un collega israeliano, indaga su cosa sia «homeland». E ancora le responsabilità di Ben Gurion verso i palestinesi, che cosa sia Olocausto e se ha inciso sulla creazione dello Stato di Israele, un viaggio al campo di concentramento di Belzec in Polonia e suoi effetti sulle identità israeliane. Uno studioso palestinese e una israeliana riflettono su curriculum scolastici zeppi di guerre e di massacri, programmi che, complice una educazione sempre più religiosa da entrambi i lati, tendono a rimuovere la storia l’uno dell’altro (mentre alcuni insegnanti lasciano i volumi governativi censurati per materiali autoprodotti e si sperimentano cooperazioni israelo-palestinesi – vedi La storia dell’altro). Nodale dunque, per gli insegnanti palestinesi, pur parlando da un punto di vista oppresso e minoritario, gestire la rabbia e il senso di inferiorità latente nei ragazzi; per gli israeliani, lavorare sul trauma non come via di trasmissione del ruolo della vittima, ma come accesso a empatia e immedesimazione. Emerge allora un bisogno assoluto di una narrazione storico-pedagogica attendibile e critica, così come di un racconto mediatico altrettanto lucido e non deformato da interessi internazionali deviati, volti a sotterrare la storia e la memoria del popolo palestinese, nonché a occultare lo stato insostenibile di non vita in cui si trova costretto. Su questo filo, lo scorso 15 aprile, quarto anniversario dell’uccisione di Vittorio Arrigoni, al teatro Ghirelli di Salerno nell’ambito della rassegna «Femminile Palestinese», a cura di Maria Rosaria Greco, si è agito un lungo serratissimo incontro/report da Gaza, a colloquio con Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme per il manifesto e con il giornalista Pietro Falco. Oggetto, lo stato delle cose post «Margine protettivo», l’ultimo intervento israeliano dell’estate 2014, con 2220 morti, 100mila senzatetto (tra cui secondo l’allarme Onu 40mila donne incinte), con le risorse idriche e elettriche gestite in modo totale da Israele, a distruggere le gallerie sotterranee che permettono l’ingresso di alimenti e carburanti, e a lanciare, contro tutte le convenzioni internazionali, «bombe avvertimento» sulle abitazioni civili, previa telefonata e due minuti per lasciare la casa … Ancora si è analizzata l’astrusa mappa geopolitica delle connivenze internazionali (quanto distante dalle esigenze degli esseri umani, come sottolinea l’accoratissimo intervento di Omar Suleiman, cuoco palestinese della serata, a rammentare il centenario della questione mediorientale), tra cui le responsabilità dei confinanti egiziani nel precludere una via di fuga all’esistenza blindata dei palestinesi (nemmeno poter morire in mare). E ancora l’osare della Flottilla e dell’Arca per Gaza, le letture da Arrigoni a toccare il cuore di tutto e le testimonianze di due attiviste, Sara Cimmino e Rosa Schiano, sulla lotta sociale delle donne palestinesi, che sempre più inesorabilmente si fa politica (in diverse scuole nel doc vediamo solo maschi). A una bambina israeliana che dice che bisogna cacciare gli arabi, Tamara Erde chiede come crede parlino di lei e del conflitto nelle scuole palestinesi. Che significa conflitto, è la risposta. [email protected] VISIONI ARABE Riflessioni post primavere, drammi femminili e post coloniali, passioni e possessi, sono le tracce su cui si é mossa la sesta edizione del festival del cinema arabo di Berlino dall´8 al 15 aprile: una rassegna fervida, che attraversa l´attualità senza concedere facile gioco ai cliché dell´orientalismo. Néjib Belkadhi è un regista tunisino che con Bastardo, scritto prima della primavera nel suo paese, attraversa la parabola e le tenaglie del potere, potenzialmente anche al di là del mondo arabo, con la storia di Mohsen, figlio di nessuno ritrovato in una pattumiera. Il racconto è da subito rilanciato in medias res, trent´anni dopo, quando Mohsen è un adulto, guardiano di una fabbrica di scarpe, e nel suo squallido e povero quartiere chiamato da tutti bastardo. Il microcosmo è quello di una società corrotta, fondata sul terrore della prevaricazione dell´altro, dove la violenza è l´ultimo dei dettagli e il degrado umano la regola quotidiana. La svolta (forse) alla vita del protagonista arriva, paradossalmente, dall´avvento della modernizzazione, con un´antenna GSM installata sul tetto di casa. La potenza visiva del film di Belkadhi ha accenti grotteschi nel registro e nella rappresentazione degli animali: bestie squartate in macelleria, insetti sui corpi. Dov´è la primavera araba? Per dovere di metafora sembra investita da un definitivo cinismo. Al di là della politica è Décor, capolavoro egiziano di Ahmad Abdalla, dove un rarefatto bianco e nero segue la protagonista Maha, donna in carriera, set designer per produzioni cinematografiche locali. Il confine tra realtà e finzione del set si sgretola quando Maha inizia a proiettarsi nella vita del personaggio del film in cui sta lavorando, una casalinga dalla vita banale, e diventa patologico nel momento in cui lo spettatore non sa più dove finisce la realtà e inizia il sogno. Il film di Abdalla, scritto con suprema maestria, è un lavoro sulla scelta, sul melodramma interiore in cui non è difficile identificarsi. Goodbye Morocco di Nadir Moknèche è un omaggio noir alle passioni di Almodóvar (un personaggio va persino al cinema a vedere Parla con lei) in cui la femme fatale é Dounia, figlia della Tangeri bene, che cerca di approfittare di un prezioso ritrovamento archelogico nel cantiere edile dove lavora per lasciare il paese con il figlio. Ma la molla in cui ogni buon noir che si rispetti, e il film di Moknèche non fa eccezione, precipita non si fa attendere nel momento in cui un migrante africano che lavora illegamente nel cantiere muore. Ogni intrigo crea un effetto domino sull´evento successivo e il regista ritaglia, nel frattempo, una precisa descrizione del contesto geografico sociale post coloniale, nella storia del Marocco, della Francia e, per forza di attualitá, anche d´Europa. Ghadi di Amin Dora é una storia libanese, dolce come una fiaba, ma realistica nella descrizione di come la diversitá possa essere accettata da una societá tradizionale e machista. Leba, un insegnante di musica di un piccolo villaggio, trova un espediente, al limite del circense, per far accettare suo figlio, affetto dalla sindrome di Down, all´interno di una comunità variopinta, con i propri personaggi tipici, forse un po´ granitici e con poche sfumature, ma raccontati con sano divertimento e la malinconia inevitabile di ogni vicenda umana. @NatashaCeci ALIAS 24 APRILE 2015 di LEONARDO GREGORIO È stata tante cose, «la Mara», nata nel centro storico di Lecce nel 1932. Si chiamava Antonio Lanzalonga e, adolescente, scopriva la propria omosessualità; partiva per Roma, sognando Cinecittà e invece finiva a Genova a prostituirsi, ribattezzandosi Mara, perché un giorno aveva letto il nome dell’attrice viennese Mara Lane su un manifesto, al cinema Universale. Tornò poi in Puglia, per diventare così il travestito più famoso di Lecce. Rifiutata tutta una vita dalla sua famiglia, muore nel 2001, nel testamento lascia gran parte del suo patrimonio – 70 appartamenti e 4 miliardi di lire – alle monache di clausura del convento di San Giovanni Evangelista. Un’immensa ricchezza accumulata a partire dagli anni in carcere, dai piccoli traffici all’acquisto di moltissime case del centro storico poi affittate a prostitute e stranieri. Abitazioni messe successivamente in vendita dalle suore, con i vecchi inquilini soprattutto immigrati - diventati occupanti. Mara, prostituta e affarista, capace di gesto nobile e di meschinità, respinta e desiderata, sola e scandalosa, amata e odiata. Un nodo straordinario di dicotomie. Come e «più di una sorella» per l’amica Anna, che a fatica racconta il proprio passato di prostituzione e reclusione e un presente di smarrimento nonostante l’amore arrivato in tarda età. «Era l’unica che poteva darci la casa» dice Vanda, perché Mara – aggiunge – non aveva pregiudizi ma sapeva essere anche «disumana», e «a fine mese dovevi portarle i soldi». Per Principessa, nata in un corpo maschile come Vanda, era lo «sciamano del Salento». Lola, invece, non nasconde risentimento tradendo tuttavia un affetto nato da ragazzina, e parla di sé, di quando faceva la vita, di sentimento, delle carezze date ai clienti, si emoziona ascoltando musica napoletana, ricorda l’amore. Sono loro che raccontano Mara e diventano racconto di se stesse, di un tempo, di un mondo, in Amara, documentario di Claudia Mollese che sarà proiettato il 30 aprile al Torino Gay & Lesbian Film Festival, dopo la presentazione al Festival del Cinema Europeo di Lecce da poco concluso. Classe 1983, laureata in Economia internazionale a Roma e in seguito trasferitasi a Parigi, all’'EHESS (École des hautes études en sciences sociales) si avvicina all’antropologo e cineasta Jean-Paul Colleyn. Dopo l’esperienza con un collettivo artistico in una ex fabbrica trasformata in galleria, si sposta poi a Marsiglia e si unisce al gruppo di cineasti Film Flamme, che insieme all'associazione Lignes d'erre la supporterà nel montaggio e nella post-produzione di Amara, nato come progetto di scrittura proprio in Francia e premiato con il Prix de l'atelier d'écriture documentaire EHESS-CNRS Images (Centre national de la recherche scientifique). Spiega la regista: «Sono sempre stata attratta dai luoghi e, per questo documentario, c’era una domanda in particolare che mi ponevo: come si può filmare una città, filmare quello che è invisibile? Ero tornata a Lecce dopo anni di assenza, il centro storico aveva assunto una veste diversa, turistica, nuova. Inizialmente mi interessava soprattutto un’ indagine etnografica, focalizzarmi sulla trasformazione, ma pian piano è arrivata la figura di Mara, perché in molti mi chiedevano se l’avessi conosciuta. In effetti, la sua storia era anche la storia del centro storico, erano due mondi inevitabilmente intrecciati. Avevo un ricordo molto vago di lei, l’immagine della piazzetta della Chiesa Greca, le luci molto basse, A pag 4: Galeano, Tamara Erde, una scena da «This is my Land». A pag 5 Una scena di «Amara», sotto: Lola e un ritratto della regista Claudia Mollese una sagoma che s’intravedeva oltre la porta. Nel film, Mara è un paradigma indiziario, le protagoniste ci dicono di lei, ma andando avanti diventa una specie di fantasma». E con pudore, la Mollese, ascolta, osserva i suoi personaggi, i dettagli, i gesti, quelle figure: «Vanda –prosegue la regista – mi ha detto sin da subito che non voleva che le riprendessi il volto, ’riprendi le mani’ mi diceva, ed è vero che parlavano. Anche con Lola l’inizio è stato simile: non le piaceva essere ripresa, poi ha scelto di entrare da sola nell’inquadratura, come hanno fatto anche Principessa e Anna. Si è venuta a creare una vicinanza emotiva. A parte loro, ho incontrato molte altre persone, che però non volevano partecipare al film e ho rispettato la loro scelta, ma anche alcune cose delle protagoniste ho voluto tenerle nascoste, credo per un senso di protezione. La stessa Anna, ad esempio, nei suoi silenzi racconta molto di più di quello che ascoltiamo». E ancora, ritroviamo Mara che, in una vecchia intervista televisiva, prova a definirsi, a mettere in parole per il pubblico la sua vita. E lei, parrucca bionda e pelliccia, appare come oggetto mai identificato, il cuore di tenebra che sembra battere ancora nei vicoli di giorno e di notte, come in un tempo sospeso. «Ovviamente c’è un immaginario, che va da De André a Fassbinder fino ad Amara terra mia di Domenico Modugno, per me importante – commenta la Mollese – ma il tentativo è stato soprattutto quello di interrogarmi sul corpo della città, sui corpi. Del resto, ancora oggi, se cammini per le strade del centro storico, tanti elementi puoi non coglierli immediatamente ma ci sono, c’è ancora uno spazio del segreto, clienti che frequentano prostitute, trans, travestiti, una macchina del desiderio percepita ma non manifesta». In Amara la regista cerca, desidera ricordi per arrivare alla memoria, la sua, quella dei personaggi, difende la loro esistenza difficile, dura, come quella di Lola che dice proprio di essere diventata «amara», quando parla di un corpo e un cuore che, negli anni, hanno perso la loro metà. E la memoria soffia anche nei ricami di pietra della Lecce barocca. «Mi sono chiesta proprio come rappresentare certe facciate storiche – aggiunge l’autrice – certi monumenti che per me andavano oltre se stessi, che in un certo senso erano pieghe». E ha scelto infine uno sguardo altro, quello di un cineamatore, che è stato anche fotografo e proiezionista storico in città, Pasquale «Lino» Ciccarese, utilizzando passi in Super 8 di un suo documentario del 1977, Lecce barocca. E poi, in chiusura, l’oggi di una folla del Venerdì Santo: «Questa gente che porta sulle sue spalle il Cristo e la Vergine è un altro segmento ancora che mi sembrava potesse racchiudere tutto. Le zone dove Mara viveva e lavorava sono sempre state prossime a luoghi religiosi, c’è sempre stata una vicinanza fisica tra questi universi». Presentato in anteprima al Festival del cinema europeo di Lecce «Amara» di Claudia Mollese è in programma al TGLFF DOCUMENTARIO LUOGHI E CORPI RACCONTATI DA CLAUDIA MOLLESE Sentimenti e cuori di tenebra, vite in prestito su tacco 12 (5) NEL PROFONDO DEL DELIRIO Gisèle Preville. In una abitazione vittoriana è riunito un gruppo di rappresentanti della buona società, chiamato a partecipare ai festeggiamenti per il fidanzamento del dottor Jekyll con Fanny Osbourne. Ma l’uomo improvvisamente si dilegua, e al suo posto il consesso si ritrova alla presenza del violento Hyde, ben deciso a insidiare sessualmente i suoi ospiti. Piuttosto che assumere una pozione malefica, Jekyll si immerge in una vasca riempita di sangue, trasformandosi nel modello di perversione Hyde, mimesi perfetta di ferocia erotica da parte di una «nuova carne»: «Lunga vita alle mie nuove sensazioni!». La benemerita Arrow Video presenta in combo import blu-ray/dvd Strange Case of Dr Jekyll and Miss Osbourne (Nel profondo del delirio, 1981), la morbosa versione di Walerian Borowczyk del romanzo breve di Robert Louis Stevenson: la ghiotta occasione non si limita al recupero di un titolo difficile, offrendo inoltre una copiosa quantità di materiali extra, tra i quali l’omaggio di Marina e Alessio Pierro al maestro erotissimo, Himorogi (2012), e il raro, curioso Jouet Joyeux, uno short di Boro del ’79 basato sulla tecnica del prassinoscopio di Charles-Emile Reynaud. India Hair. Aprile 1957: durante la notte, Albertine, 19 anni, salta giù dal muro del carcere dove sconta una condanna, procurandosi sfortunatamente la rottura dell’osso di un piede: l’astragalo. Soccorsa da Julien, altro soggetto noto alla giustizia, è accompagnata e nascosta da questi presso un’amica, a Parigi. Mentre l’uomo prosegue nella sua condotta di piccolo malvivente di provincia, Albertine impara a muoversi sulla scena della capitale, anche se le cose si rimettono presto male: Julien viene arrestato e sbattuto in galera. Sola e con la polizia alle calcagna, la ragazza si prostituisce per sopravvivere e, tra molteplici incontri e nascondigli, lotta audacemente per difendere una fragile libertà e sopportare l’assenza di Julien. Apparso questo mese nelle sale francesi, L’astragale di Brigitte Sy (attrice per Garrel e regista di Les mains libres) riprende il romanzo di Albertine Sarrazin già portato sullo schermo nel 1968 da Guy Casaril (con Marlène Jobert) per una dichiarazione di autonomia romantica - attraverso le scelte stilistiche della voce off e del bianco e nero - realizzata nel purgatorio di delinquenza e prostituzione, aggiornando l’ideale di Marcel Carné di Una vie à belles dents. Produce Paulo Branco. Roxy Miéville. Dal blog Fear of the velvet curtain la lista dei 10 (più 1) film in 3D che hanno spostato l’attuale tecnologia e «formato» verso direzioni e soluzioni inaspettate, ritornando alle origini o infondendo nuova energia al dispositivo visivo totalizzante, rispetto all’usurata ripetizione del «sorprendente» a misura del blockbuster standard contemporaneo. I titoli: A Very Harold and Kumar 3D Christmas, U2 3D, Piranha 3D (il delirante e mortifero remake di Alexandre Aja del classico di Joe Dante), Pina e Monster House, il mellifluo Vita di Pi e Katy Perry: Part of Me, insieme alla neo-dimensione hitchcockiana di The Hole (Dante), al buco visionario retrò e glitterato del Grande Gatsby (Baz Luhrmann) e alla archeologia ipnotica di Cave of Forgotten Dreams (Herzog). Ma il più importante è naturalmente l’undicesimo: Adieu au langage (2014), l’ennesima prova - se ancora ce ne fosse bisogno - di come Jean-Luc Godard possa assumere a sé l’evoluzione permanente del cinema. (6) ALIAS 24 APRILE 2015 BRERA di PASQUALE COCCIA Prima del giornalista sportivo Gianni Brera, ci fu il Gioann partigiano che armi in pugno difese la Repubblica partigiana della Val d’Ossola. Un aspetto sconosciuto della sua controversa biografia. Firmò come direttore la prima copia de L’Unità delle valli liberate. Il Pci voleva farne un intellettuale di sinistra, ma Brera scelse la Gazzetta dello Sport, che diresse a 30 anni. Ne parliamo con Sergio Giuntini, autore di Il Partigiano Gianni (sedizioni, euro 23). Gianni Brera partigiano, un passato sconosciuto? Nella biografia di Gianni Brera, come ha sostenuto il prof. Franco Contorbia, studioso del giornalista, ci sono ancora alcune zone d’ombra. Una fase complessa della sua vita va dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla Liberazione. Si laurea a Pavia in scienze politiche, fa il militare come sottufficiale a Barletta, scrive. Intuisce che un corpo dove può fare il capo ufficio stampa, è quello della Folgore perché in via di organizzazione, a Tarquinia si sta costituendo la prima scuola di paracadutisti, perciò chiede di essere trasferito. Era interessato al volo, ma aveva anche paura di lanciarsi con il paracadute, alla fine la vive come una di quelle esperienze virili, che a lui non dispiaceva. A Tarquinia scrive sul giornale della Folgore, effettua otto lanci con il paracadute, e racconta queste sue esperienze anche attraverso due articoli sul Popolo d’Italia, il quotidiano del fascismo. Dopo Tarquinia? Dopo l’8 settembre del ’43 anche Gianni Brera è tra gli sbandati, comincia il periodo più discutibile della sua vita. Tornato a Pavia, sembra che avesse preso qualche contatto con gli ambienti antifascisti, ma non vi sono certezze. I Brera erano antifascisti, suo padre era stato consigliere comunale socialista a San Zenone Po, paese natio di Brera, e non ha mai preso la tessera fascista. Insieme al fratello, che rispetto a Gianni era più vicino alle posizioni socialiste, visse quel periodo in maniera confusa, si rende conto di che cosa era il fascismo attraverso la Repubblica di Salò. In quel periodo commette un errore gravissimo, nel marzo del ’44 il federale fascista di Pavia lo convoca e gli propone di dirigere Il Popolo Repubblicano il settimanale del fascio repubblichino di Pavia. Brera è indeciso, ma alla fine accetta, perché il federale gli lascia intendere che il fascismo della Repubblica di Salò era molto meno dogmatico e che avrebbe goduto di una certa libertà nella direzione, vi avrebbero potuto Assegnato alla brigata Garibaldi, lavorava all’ufficio stampa del governo provvisorio con un ruolo militare importante scrivere anche fascisti non dichiarati. Brera lo dirige per quattro numeri, dopo si dimette o è costretto a farlo. L’ipotesi più plausibile è che la sua direzione, meno dogmatica e ortodossa, non fosse piaciuta ai fanatici del fascismo pavese. Le dimissioni non interrompono la collaborazione al settimanale, che continua ancora per qualche mese. Dopo questo periodo per Brera l’aria di Pavia si fa irrespirabile. Perché? Possiamo ipotizzare due motivi: il primo che avendo diretto quel settimanale fascista, fosse nel mirino degli antifascisti, mentre dall’altra parte i fanatici repubblichini lo vedevano come un frondista. Il 16 giugno del ’44 Brera cambia aria e passa clandestinamente il confine svizzero, viene assegnato al campo di internamento di Balerna, dove c’erano gli esuli antifascisti. Le condizioni di vita non erano facili, mangiavano poco, conobbe diversi antifascisti, in particolare i comunisti Attilio Bonacina e Cino Bemporad, i quali gli fecero capire che per lavare la macchia di aver diretto una testata repubblichina, cosa che nell'Italia successiva alla Liberazione non sarebbe passata inosservata, avrebbe dovuto rifarsi una verginità politica. Penso che Brera abbia vissuto una crisi interiore profonda, che si sia reso conto della gravità della direzione di quel settimanale fascista pavese, d’altro canto aveva una vera malattia dello scrivere, era un grafomane poliedrico, non lo fece per soldi o ambizioni personali, Partigiano Gioann in Val d’Ossola nella sua vita non desiderava altro che scrivere. Bonacina e Bemporad gli dicono che in Italia c’è un’esperienza partigiana importante come la Repubblica della Val d’Ossola, dove molti esuli italiani, tra i quali Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini, rientravano per difenderla dagli attacchi nazisti. E Brera che fa? Accetta la proposta. Arriva a Domodossola nel settembre del ’44, il mese della Repubblica dell’Ossola, viene ricevuto all’albergo Terminus, dove c’era lo stato maggiore della repubblica partigiana, e sottoposto a un interrogatorio-processo da parte di Cino Moscatelli e Giulio Seniga, due figure importantissime della Resistenza. Avevano già acquisito informazioni, sapevano del suo passato e della direzione della rivista fascista, volevano accertarsi che non fosse un infiltrato, gli chiedono perché aveva fatto quella scelta e al termine dell’interrogatorio Giulio Seniga garantisce per Brera. Si conoscevano? No, probabilmente Seniga aveva capito che la scelta di Brera era stata vissuta all’insegna della confusione, in modo travagliato, e gli dà la possibilità di riabilitarsi, in realtà aveva ricevuto buone referenze da Cino Bemporad, che era un importante dirigente del partito comunista di Lugano, città dove vi era una forte concentrazione di comunisti espatriati, e da Attilio Bonacina, nome di battaglia Catilina. Brera fu assegnato alla brigata Garibaldi, quella dei comunisti, 2^ divisione d’assalto, 83^ brigata Luigi Comoli, intitolata a un partigiano fucilato dai fascisti nel ’44 nella piazza di Forni. Lavora all’ufficio stampa del governo provvisorio con il grado di aiutante maggiore, un ruolo militare importante, avendo alle spalle un corso di allievo ufficiale e l’esperienza nei paracadutisti, aveva un’idea di tattica e strategia militare. Tutto così liscio? No, in realtà il 1 dicembre del ’44 al comandante Iso, Aldo Aniasi, arriva la lettera di un certo Sandro Chiodi, ex compagno di università e tra i paracadutisti di Brera, il quale informa non solo della direzione del settimanale repubblichino di Pavia, ma lo accusa di essere stato un delatore grazie al quale sarebbe finito in carcere, ma sulla delazione non ci sono prove, infine accusa Brera di essere un doppiogiochista. Chiodi chiede ad Iso di poterlo interrogare o comunque di espellerlo dalla formazione partigiana. Aniasi finge di ascoltarlo mantiene la corrispondenza con Chiodi, ma alla fine si assume la responsabilità e chiude il caso. La riabilitazione «politica» di Brera si limita al lavoro all’ufficio stampa? Brera non si riteneva un eroe, non sceglie un nome di battaglia, continua a chiamarsi Gianni, anzi Gioann del Po, ha partecipato a operazioni belliche, è stato ferito anche al naso, infatti dopo la Liberazione scrisse il romanzo Naso Bugiardo. Il 6 aprile del ’45 è con altri partigiani in una casa a Valpiana, circondato dai nazisti riesce a salvarsi dopo uno scontro a fuoco. I nazifascisti volevano far saltare le principali centrali idroelettriche dell’Ossola, determinando una gravissima crisi del sistema industriale, inoltre avrebbero fatto saltare una parte del traforo del Sempione per coprirsi la ritirata e interrompere i collegamenti con la Svizzera. I partigiani vengono a sapere del piano e dei grandi quantitativi di esplosivo fatti affluire a Varzo, in val d’Ossola. Nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1945, Brera e altri partigiani si fanno carico di far saltare i depositi di esplosivo. Brera disegna molti schizzi in cui mostra le azioni da fare, individua le centrali da salvare, partecipa a tutta l’operazione di attacco e ad altre azioni rischiose. Il 23 aprile a Crodo per controllare una centralina telefonica, sfugge per un pelo ai nazisti. Il 24 aprile del 1945, per festeggiare la Liberazione, insieme al comandante Catilina, Gianni Brera firma come direttore l’edizione straordinaria dell’Unità delle valli ossolane, scrive parecchi pezzi, ma non li firma. Dopo il 25aprile? Tra il maggio e il giugno del 1945, gli viene affidata la stesura del diario storico partigiano della divisione d’assalto GaribaldiRedi, che va dal marzo del ’44 all’aprile del ’45, un lavoro di circa 150 pagine, che raccoglie i diari delle varie organizzazioni partigiane sui quali scrivevano le azioni che avevano fatto, le perdite avute, le zone conquistate. Al suo fianco «vigila» il commissario politico Bellelli, nome di battaglia Modena. Brera ALIAS 24 APRILE 2015 Sergio Giuntini racconta la storia del direttore della «Gazzetta dello Sport» che chiuse con la politica dopo il 25 aprile «abatino», per il suo modo di giocare incarnava la società industriale. Brera amava molto Gigi Riva, quando si frattura la gamba lo paragona a Ettore, l’eroe dell’Iliade, amava la scuola calcistica italiana improntata alla difesa legata alle zolle, diceva che «l’italianuzzo» doveva difendersi più che attaccare. Perché detestava Sacchi? Era l’incarnazione di un calcio ricco, potente, aggressivo, industriale. Brera è sempre stato coerente con le sue idee. rimette insieme tutto il materiale e mese per mese traccia i bilanci operativi, il diario esce anonimo ma la scrittura è sua. Che cosa scrive Brera nel diario partigiano? Usa spesso metafore sportive, sostiene che la lotta partigiana deve caratterizzarsi con azioni di guerriglia, non con lo scontro aperto frontale, perché non vi sono mezzi, usa l’espressione «fugone» partigiano, un termine che userà spesso nei suoi articoli sul calcio. Emerge forte la polemica politica con le divisioni partigiane cattoliche, che Brera chiama «l’opera Pia», e monarchiche definite semicollaborazioniste. L’impronta politica di questi diari è fortissima, emerge un Brera laico, ateo e liberale. Dopo la Liberazione cosa gli resta della lotta partigiana? Alcuni anni dopo la Liberazione Gianni Brera voleva scrivere un libro sulla sua esperienza in Val d’Ossola, il titolo era In Svizzera senza le scarpe. Una storia partigiana. Scrive solo alcuni capitoli, vi sono contenute interessanti descrizioni di comandanti partigiani, Cino Moscatelli è chiamato il ciclista, ma non è chiaro il motivo. Nell’immaginario partigiano Cino Moscatelli viene associato a un’automobile rossa, che in realtà non è mai esistita, si spostava in auto, ma non era rossa, visto che Brera lo chiama il ciclista non è escluso che Moscatelli si muovesse anche in bicicletta. L’esperienza partigiana è rimasta per sempre nella sua vita, è stato un periodo formativo fondamentale. Come non rinnega il periodo da paracadutista nella Folgore, altrettanto fa con l’esperienza partigiana, non ama vantarsene, ma gli è rimasta dentro. Dopo la Liberazione, il Pci vuole affidargli la direzione di un quotidiano comunista di Novara, ma Gianni Brera non accetta, anche perché contemporaneamente gli arriva la proposta di Bruno Roghi di lavorare alla Gazzetta dello Sport, lui voleva scrivere di sport e con la fine della Resistenza considera chiusa la sua esperienza politica. Brera arriva alla Resistenza faticosamente, l’ha considerata una parentesi della sua vita, un modo per riabilitarsi e mettersi in pace con la coscienza, ma il Brera partigiano non dimentica e lo si capisce nel 1954. Nel 1954? Giulio Seniga è in rotta con il Pci, perché lo considera un partito revisionista, che non fa mai la rivoluzione annunciata. Seniga era responsabile del servizio d’ordine del Pci e braccio destro di Pietro Secchia, il vicesegretario del Pci. Il partito gli aveva fatto prendere il patentino di pilota, perché in caso di colpo di stato in Italia, Seniga aveva il compito di portare Palmiro Togliatti in Albania, in Austria o in Cecoslovacchia. Il Pci aveva acquistato un aereo cecoslovacco, il Sokol, che era costantemente parcheggiato all’aeroporto di Centocelle. Nel 1954 Seniga entra in rotta di collisione con il Pci togliattiano, ha un colpo di testa, ruba una parte della cassa del Pci, e dei documenti molto importanti, sperando che Pietro Secchia lo segua ed entri in rotta con Togliatti, ma Secchia lo sconfessa, è il 25 luglio del 1954. Seniga vorrebbe scappare in Svizzera, raggiunge Milano, la mattina del 26 luglio telefona a Brera, che allora era direttore della Gazzetta dello Sport, e in nome di un passato in cui Seniga si era fatto garante di Brera presso Moscatelli in Val d’Ossola, chiede di tenerlo nascosto in casa per qualche giorno, cosa che avviene. Brera non stava aiutando un rinnegato, un traditore, ma il partigiano «Nino» che aveva fatto la Resistenza con lui. Seniga e Brera erano due figure simili, che hanno buttato a mare una quantità di occasioni, il primo si bruciò definitivamente la carriera politica, Brera si dimise da direttore della Gazzetta a 35 anni, quando era in carriera, cambiò diversi giornali, passò al Giorno dove ritrovò Pietrino Bianchi un suo amico partigiano, che aveva fatto la Resistenza nell’Oltrepò pavese. L’ultimo Brera che strizza l’occhio alla Lega? È un’altra parentesi della sua vita controversa. Personalmente non credo che fosse un leghista ante litteram, aveva delle concezioni antropologiche molto discutibili, sosteneva che l’umanità si dividesse in razze. I leghisti erano troppo rozzi per Brera, era un intellettuale, non ha mai avuto abboccamenti con la Lega, è stato manipolato, lo hanno considerato un padre nobile, un loro precursore. Brera più volte su Repubblica ha voluto distinguere nettamente le sue posizioni padane dal leghismo. Però anche questa è una delle zone d’ombra della biografia di Brera. Ci giocava o era convinto? Era convinto, certo non si era reso conto che queste sue teorie per certi versi erano un po’ pericolose, che potevano essere facilmente strumentalizzabili, sotto il profilo scientifico insostenibili, non voglio dire che fosse fermo a Lombroso, ma non era andato molto oltre. Per lui c’era il nord, il sud era un’altra cosa. Era una personalità originale, non era facile andare d’accordo con lui, alla Gazzetta fece a cazzotti con Gino Palumbo, memorabili i suoi scontri con Antonio Ghirelli. È stato un uomo fuori dal suo tempo? Era un uomo lontano dalla civiltà industriale urbana, molto legato a un’idea di società rurale, per lui la vita era quella della Bassa padana, era legato alla vita contadina, gli piaceva andare a caccia, il cibo molto grasso, mangiare e bere molto, fare le ore piccole, uno che ha consumato la sua vita. È morto come avrebbe voluto, dopo una sera trascorsa con gli amici a mangiare e bere, raccontare storie, fumare. Scrivere di sport lo ha spinto a viversi la società industriale? Era un aspetto complementare del suo lato contadino, a lui piacevano i calciatori rudi, quelli che avevano poca tecnica, ma menavano. Rivera è definito Ha pagato per questo? Si dimise da direttore della Gazzetta, se non lo avesse fatto forse gli avrebbero affidato la direzione di un grande quotidiano, anche se lui era un disordinato, non era un grande organizzatore, però sarebbe stato in grado di dirigerlo, gli uomini li sapeva scegliere bene. Nella vita ha sempre avuto un grande rammarico, emergere come scrittore, ma non aveva il tempo, era schiavo della sua Olivetti, doveva produrre una gran quantità di articoli, perché era uno spendaccione, offriva lui quando si ritrovava tra amici a bere e mangiare. Non è diventato un grande scrittore perché in Italia un giornalista sportivo è sempre considerato uno scrittore di serie B? Un po’sì. Tutti i lunedì, anche gli intellettuali più snob andavano a leggere che cosa scriveva Brera, magari non leggevano tutto, solo le prime venti-trenta righe, davano un’occhiata al linguaggio, a che cosa si inventava. Umberto Eco in modo sprezzante definì Brera il Gadda dei poveri, invece Pasolini e Mario Soldati lo amavano molto. Brera mancato scrittore non pubblica con una casa editrice di prestigio perché dopo la Liberazione non si schiera con il Pci? Penso di sì. Se lui avesse continuato la sua «militanza» con la stesura del diario partigiano e avesse scritto un romanzo partigiano, sarebbe stato incoraggiato a proseguire e avrebbe trovato anche un importante editore che glielo avrebbe pubblicato. C’era allora un’editoria a sinistra molto forte. Il Pci aveva manifestato interesse per lui, voleva farne un proprio intellettuale, gli voleva affidare la direzione di un giornale politico, gli riconosceva delle qualità, ma fu Brera a rifiutare. (7) A pag 6 la copertina del libro di Giuntini, un ritratto di Gianni Brera, sotto: partigiani di Val d’Ossola. A pag 7 Brera con Gianni Mura e Gianni Brera cacciatore MONUMENTO AL DITO MEDIO Sbucati in piazza Affari, provenendo da via Torino, ci si trova di fronte all’ingombro possente della Borsa. Ciò che cattura l’attenzione, nonostante la presenza della scultura di Maurizio Cattelan che troneggia nel mezzo, è l’accozzaglia di auto in sosta che l’assediano e che sfregiano l’insieme. Il monumento al dito medio, alto una dozzina di metri e in marmo bianco, quasi si mescola col candore del fondale in blocchi di travertino del palazzo della Borsa. Specie nelle giornate uggiose, e non sono poche, la monocromaticità l’appiattisce su quello sfondo. In molti arrivano a Milano, anche dal resto d’Europa, apposta ad ammirare il dito di Cattelan. Peccato che l’ammirazione venga presto smorzata dall’incuria nei confronti di una piazza trasfigurata in garage. In seguito all’insediamento nel 2010 dell’ormai famoso monumento, il contesto pare abbia acquisito una dimensione aggregativa; più spesso, è divenuto luogo di installazioni (la prua di una nave, per significare l’ingresso in Borsa di Fincantieri) che lo ravvivano e lo fanno rientrare nei circuiti turistici della città. Ma si può immaginare piazza Affari ravvivata turisticamente? Prima della collocazione del dito, la piazza era anonima, uniforme, deturpata (come ora) dalle auto lasciate alla rinfusa. Dinanzi a quella situazione, nessuno veniva sfiorato dall’idea di andare a visitarla. Attraversandola, si camminava di fretta, senza soffermarsi a osservare alcunché. Men che mai, coloro che quotidianamente vi si recano per lavoro, avevano motivo a scrutare quell’impianto regolare, squadrato dai geometrici palazzoni d’epoca. Il luogo, riservato e isolato nella sua monumentalità, nel cuore di Milano, è una tipica piazza del Novecento. L’edificio più noto che la cinge, palazzo Mezzanotte (dal nome del progettista) sede della Borsa fin dai primi anni ’30, è un esempio di architettura del classicismo novecentista. Le auto che nei decenni l’hanno profanata sono sagome fisse, immobili. Vi arrivano o ripartono senza fragori: manca il flusso continuo del traffico, come invece nel vicino e convulso snodo di Cordusio. Uno scenario inespressivo e muto, fuori dal tempo, quello di piazza Affari. Illusorio. Con persone e cose, ancorché presenti, in apparenza assenti. Ogni volta che ci andavamo, di proposito, si percepiva un’atmosfera di straniamento aleggiare sul vuoto-pieno (di auto) della piazza. Un contrasto netto con l’interno del palazzo della Borsa italiana, nel quale, fino agli anni ’90, le contrattazioni azionarie «a chiamata», da parte degli operatori, subissavano la grande sala delle «grida». Il mercato borsistico gridato, con l’enorme quadro luminoso che riportava le quotazioni dei titoli, non esiste più e, nella memoria, resta il fascino delle cose andate. Anche nell’ambiente esterno macchine o non macchine - spira un’altra aria. Quel senso di sbalordimento, che ci accoglieva nella solenne e metafisica piazza Affari, lascia spazio alla spudoratezza che quel dito vigoroso spiattella alla faccia(ta) della Borsa. (8) ALIAS 24 APRILE 2015 SAGGIO NORBERTO BOBBIO E CLAUDIO PAVONE Le illustrazioni delle pagine sono tratte da «Festa d’aprile» storie partigiane scritte e disegnate a cura di Leo Magliacano e Tiziano Riverso (Tempesta editore) con i contributi di Airaghi, Allegra, Bertolotti, Biani, Borrelli, Burato, Kappa, Carioli, Ciarallo, Cozzi, Cracolici, Darix, Kurt, Fontana, Forelli, Garonzi, Gubitosa, Jannil, Lo Bocchiaro, Magliacano, Magnani, Gun Moretti, Negri, Pagliaro, Passamani, Pozzi Riverso, Romaniello, Stefanon, Stivali, Tussi, Vachino, Valle, Vernazza Guerra civile, una difficile lettura storica di ALESSANDRO BARILE e SAMIR HASSAN Gli anniversari e le celebrazioni di eventi storici, come sappiamo, favoriscono una certa produzione memorialistica di varia qualità. Non poteva sottrarsi a questa dinamica il settantesimo della Liberazione, evento che ha stimolato le più diverse celebrazioni, soprattutto in campo bibliografico. Una vera e propria superfetazione editoriale ha inondato librerie ed edicole. Romanzi e saggi hanno cercato di riproporre l’attualità di una vicenda che, dopo tanti decenni, è sempre più svincolata dal racconto politico del nostro paese e delle nostre «origini», relegata ad una memorialistica imbalsamante più che ad Le illustrazioni delle pagine sono tratte da «Festa d’aprile» a cura di Leo Magliacano e Tiziano Riverso (Tempesta editore) storie partigiane scritte e disegnate, ispirate anche a piccole storie di famiglia, testimonianze da non dimenticare una difesa delle ragioni ideali, e attualissime, che produssero quel processo politico. Tra la varia pubblicistica apparsa in questi mesi, un testo si distingue tra gli altri, capace di presentare un discorso storico decisamente più alto dei tempi che corriamo. Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri, 177 pp, 15 euro) è un antologia a due voci, quelle di Norberto Bobbio e Claudio Pavone. Una raccolta di testi già pubblicati, e che però oggi hanno ancora la forza di rappresentare una visione illuminata e contraria a una certa pacificazione storiografica e politica sul discorso resistenziale. Un testo, avremmo detto un tempo, necessario. Come sappiamo i due autori, in particolare Pavone, sono conosciuti in campo storiografico per aver affermato e provato la natura civile della guerra di Resistenza sviluppatasi in Italia tra il 1943 e il 1945. Un discorso forte, che ruppe una certa tradizione politico-culturale affermatasi circa negli anni sessanta e promossa in primo luogo proprio dal Pci, e che ancora fatica a divenire senso comune, nonostante la più che dimostrata tesi che lo scontro prodotto nella Resistenza fu soprattutto tra italiani, e non (solo) tra questi e l’invasore tedesco-nazista. Un’ovvietà che per ragioni politiche tutt’ora viene negata, almeno a livello culturale mainstream. Siamo di fronte ad un paradosso della ricerca storica. Sebbene la storiografia legata al Pci sia stata quella che più ha indagato le vicende della Resistenza, dato il carattere «fondante» che l’episodio riveste nella costruzione politico-immaginaria del «partito nuovo» togliattiano, proprio questa ha contribuito a una certa «monumentalizzazione» il 2 5 Emerge dalle pagine del libro di Bobbio e Pavone che la guerra civile italiana sia stata un movimento storico di emancipazione sociale della guerra partigiana, impedendo alla ricerca di sviscerare quei tratti storicamente meno spendibili in termini di legittimazione politica. Non è un caso che la guerra civile sia un discorso prodotto da uno storico non legato al Pci come Pavone, e portato avanti da altri, come lo stesso Bobbio, appartenenti a tutt’altra formazione politica. Il fatto è che il carattere civile della guerra partigiana era ampiamente fatto proprio dai combattenti e dai dirigenti politici durante la Resistenza. È solo dopo che tale segno viene negato. In particolare, è la convergenza di due interessi politici. Da un lato la Democrazia Cristiana non volle appaltare unicamente alle forze comuniste il ricordo politico di quell’evento, spingendo alla costruzione di una «memoria condivisa» volta a individuare nella Resistenza soprattutto un moto popolare contro lo straniero. L’altro interesse convergente è quello appunto del Partito comunista, volto a legittimarsi politicamente come partito della difesa dell’ordine costituzionale sfruttando l’esempio della Resistenza, momento in cui invece di «lottare per il potere» contribuì alla liberazione di tutti gli italiani. Più interessante è capire se il discorso sulla guerra civile sia ancora utile per comprendere la vicenda storica nel suo complesso. Come sappiamo, l’espressione «guerra civile» è una sintesi di un ragionamento più complessivo. Per Pavone infatti durante la Resistenza si combatterono tre guerre: una guerra di liberazione nazionale contro lo straniero invasore, una guerra civile tra fascisti e antifascisti, una guerra di emancipazione sociale, o di classe, tra lavoratori e padroni. Tali caratteri, nei combattenti, a volte si sommavano a vicenda, a volte erano esclusivi. La sintesi, determinata anche da ragioni editoriali, fu intitolare il saggio di Pavone Una guerra civile, contribuendo così alla fortuna della sua tesi schiacciando però tutto il discorso sul carattere civile, appunto. Anche per Pavone, in ogni caso, il dato dello scontro civile tra italiani costituiva il carattere dominante del conflitto. Trent’anni dopo è però possibile problematizzare alcune parti di questo ragionamento. In realtà, come peraltro affermano lo stesso Pavone e Bobbio, la guerra civile italiana si inserisce in una più generale guerra civile europea iniziata nel 1914 e terminata con i trattati di pace del 1945. La risposta reazionaria di massa rappresentata dal fascismo e dal nazismo altro non era che l’estremo tentativo di contenere la partecipazione delle masse diseredate alla politica. Masse popolari per la prima volta affacciatesi nel cielo della politica con l’obiettivo di un’emancipazione sociale non più rimandabile. È la questione dell’emancipazione sociale, allora, che si impose sulla scena europea per un trentennio, e le articolazioni che questa prese nei diversi contesti nazionali produssero anche lo scontro civile che si materializzò durante la Seconda guerra mondiale. I tentativi rivoluzionari in Germania, in Ungheria, in Cecoslovacchia, così come la guerra civile spagnola, il biennio rosso in Italia, il Fronte Popolare in Francia, non fecero altro che spostare l’asse della politica a sinistra producendo un cedimento dei sistemi politici liberali tradizionali. Un rischio sociale e politico che contribuì a generare quel terreno culturale su cui fecero leva i diversi regimi reazionari. Fascismo e nazismo altro non sarebbero che il tentativo di contenere questo protagonismo popolare ingabbiandolo in una costruzione nazionale autoritaria. Ci sembra dunque che il caso particolare della guerra civile italiana sia da legare ad un contesto e ad un clima politico generale che ne determinò le circostanze. Non una semplice guerra civile allora, ma un movimento storico di emancipazione sociale che trovò nei vari contesti le sue ricadute politiche. Discorso che emerge con forza dalle pagine di questo libro, che potrebbe assumere oggi il valore di punto fermo nella ricerca storiografica, quantomeno sul terreno della divulgazione scientifica capace di rompere il muro dell’accademismo. Un’opera, questa, destinata a superare la sua origine commemorativa. Augurandoci che l’esempio di questi due intellettuali venga raccolto da una nuova generazione di storici capaci di indagare quegli angoli ancora poco illuminati che ancora compongono il grande quadro della Resistenza al nazi-fascismo. ALIAS 24 APRILE 2015 ap rile 194 5 (9) (10) ALIAS 24 APRILE 2015 FAR EAST Fino al 2 maggio Udine si trasforma nella città più asiatica del pianeta con il suo tradizionale festival dedicato all’estremo oriente. Jackie Chan dalla Cina con Dragon Blade di MATTEO BOSCAROL TOKIO Sembra ieri quando ci recammo alle prime edizioni del Far East di Udine, edizioni ruspanti ma sempre molto vive ed eccitanti, eppure le candeline sulla torta per la manifestazione festivaliera sono diciasette. Un'età alla soglia della maturità ma che porta ancora con sè la voglia di ribellione e la libertà creativa della gioventù, un periodo, anche per un festival, che non è ancora età matura ma che non ha neanche più la fragilità e l'inesperienza degli inizi. Al di fuori di metafora, ancora una volta il capoluogo friulano sarà per alcuni giorni la cittadina occidentale più asiatica del pianeta, ospitando un evento cinematografico che molti appassionati di tutto il mondo ci invidiano, un ineguagliabile showcase di cinematografie pop e di genere provenienti da tutto il continente asiatico che gli organizzatori assieme a tutti i consulenti sparsi per l'estremo oriente hanno saputo in costruire, far evolvere e consolidare in quasi due decenni di attività. Venti anni che hanno visto gli equilibri geopolitici ed economici del mondo intero e quindi anche dell'Asia stessa venir stravolti e riplasmarsi in forme diverse, con la creazione di nuove ed inevitabili fratture sociali e faglie politiche, con il cinema e più che mai quello popolare e di largo consumo che funziona come spesso accade in questi casi, come sonda privilegiata, almeno per lo spettatore più attento, per captare nuovi possibili scenari e linee di fuga con cui allo stesso tempo mappare il presente e cercarvi delle vie d'uscita. Anche per questa edizione come sempre più spesso è accaduto recentemente, il panorama è allargato, più ampio di quello degli inizi e non può essere altrimenti in una contemporaneità tecnologica a cui tutti i paesi cercano avidamente di partecipare. Si vedranno infatti al Far East numero diciasette lavori da ben 11 realtà produttive differenti, Hong Kong, Cina, Taiwan, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Vietnam, Indonesia, Filippine, Singapore e la debuttante Cambogia. Naturalmente quantitativamente faranno la parte del leone i paesi con una tradizione cinematografica più forte, ma a maggior ragione opere mainstream da paesi quali Cambogia, Vietnam o Indonesia saranno altrettanto, se non di più, interessanti. Il festival è stato ufficialmente aperto ieri dall'attesissimo concerto di Joe Hisaishi, il maestro giapponese compositore delle musiche di molti film di Takeshi Kitano e Miyazaki ha infatti diretto la RTV Slovenia Symphony Orchestra in un concerto i cui biglietti sono stati venduti, sorprendentemente, in meno di 24 ore. Ma ancora oggi, venerdì 24, sul tappeto rosso del festival sfilerà nientemeno che Jackie Chan, a Udine per presentare al pubblico il kolossal Nella foto grande «Dragon Blade» di Daniel Lee, nelle altre due immagini Sakura Ando in «100 Yen Love» di Masaharu Take Dragon Blade di Daniel Lee, una mega produzione cinese che nel cast oltre al famoso attore asiatico vede anche Adrien Brody e John Cusack. Tutta da gustare è naturalmente la presenza sud coreana al festival, una cinematografia definitivamente esplosa e non solo a livello di art house film ma che ha saputo portare qualità anche nel cinema cosiddetto popolare e che il Far East ha visto, e forse anche contribuito, a portare dove si trova oggi. Una delle opere più attese della manifestazione è senza dubbio The Continent, anteprima internazionale e opera prima di Han Han, uno dei blogger cinesi più popolari in patria dove gode di un seguito oceanico, 450 milioni di accessi all’anno e circa 15.000 commenti giornalieri. Han Han, definito uno dei personaggi più influenti dell’intera Cina, con la sua attività in rete e quella letteraria indaga e ed esplora le vite e le problematiche dell’attuale generazione dei trentenni cinesi e di un paese più che mai in flusso, tematiche che ha provato a trasporre in immagini con questo suo debutto cinematografico. The Continent è stato definito come «un insolito road movie» che descrive «lo svuotamento delle campagne e l’urbanizzazione sfrenata delle metropoli, il benessere come detonatore di contraddizioni sociali e la corruzione degli apparati statali», insomma gli argomenti che lo rendono un lavoro tutto da scoprire ci sono tutti. Sul versante giapponese, le opere interessanti sono più d'una, Il documentario dedicato allo Studio Ghibli, per la verità al solo Miyazaki, The Kingdom of Dreams and Madness, ma anche il dittico Parasyte 1 e 2, opere ispirate al manga omonimo e dirette da Takashi Yamazaki, il re mida del cinema giapponese i cui film negli ultimi anni sono stati spesso campioni d’incassi nel Sol Levante. Parasyte è un SF horror con lampi di comicità di buonissima fattura, almeno per quel che riguarda il primo episodio che abbiamo avuto modo di vedere qui in Giappone nel 2014, con effetti speciali all’altezza, curati dallo stesso Yamazaki, e con delle prove attoriali convincenti, soprattutto quella del protagonista Shota Sometani, ancora una volta molto bravo nell’interpretare Shinichi, il ragazzo che si ritrova improvvisamente catapultato in un mondo orrorifico con un parassita/mostro al posto della mano destra e costretto a salvare l’umanità da un’invasione aliena. Sometani che ricordiamo è stato lanciato proprio in Italia quando nel 2011 vinse il premio Mastroianni a Venezia per la sua interpretazione in Himizu di Sion Sono e che sempre di più sta diventando l’attore giapponese più richiesto, nonostante ciò il giovane resta ancora molto legato ale sue «origini» indie ed underground, lo vedremo ad esempio nell’ultimo lavoro di Ishii Gakuryu (ex Sogo), That’s It che uscirà nelle sale giapponesi in maggio. In questo senso la sua carriera sembra ricalcare in parte, con tutte le differenze del caso, quella di Asano Tadanobu, volto della nuova onda del cinema giapponese degli anni novanta e che ha una parte importante, quella del malvagio di turno, proprio nel secondo capitolo di Parasyte. Restando sempre in Giappone ma spostandoci da un campione d’incassi ad una produzione indipendente e da un attore emergente/emerso ad una attrice di grande spessore che si sta dimostrando sempre più talentuosa, al Far East sarà presentato 100 Yen Love, film diretto da Masaharu Take ed interpretato da Sakura Ando. L’attrice giapponese, anche lei lanciata da Sion Sono in quel capolavoro che è Love Exposure, interpreta qui una ragazza di 32 anni che vive ancora con i genitori, una nullafacente che passa le sue giornate a giocare ai videogiochi e a dormire. Dopo un violento litigio con la sorella, ritornata a casa con il figlio dopo un matrimonio fallito, Ichika, questo il suo nome, decide di andare a vivere da sola e di trovarsi un lavoro. Comincia così a fare il turno notturno in un 100 Yen Shop dove viene a contatto con una serie di persone fallite e stralunate come lei. Passando ogni giorno accanto ad una piccola palestra dove si insegna pugilato, la ragazza si sente attratta da un uomo che lì si allena prima e dallo sport in particolare poi. Tutto il film, che ricordiamo è per produzione e per stile visivo un lavoro indipendente girato con pochi mezzi economici, si regge sull'incredibile performance d'attrice che Ando riesce a donare all'opera, 100 Yen Love è un film che può piacere o non piacere, alcune scene in particolare hanno sollevato più di qualche critica per la loro gratuità ed un velato maschilismo, ma non si può non rimaner affascinati dalla trasformazione fisica che la performance dell’attrice nipponica porta con sè. Sakura Ando nel corso delle quasi due ore del film infatti muta letteralmente e fisicamente in un altro personaggio/persona da quello da cui era partita ed è proprio questa trasformazione a sostenere i 30-40 minuti battenti finali del film, un'accelerazione filmica ed una cavalcata adrenalinica sostenuta ed amplificata anche grazie alla rabbiosa musica dei CreeoHyp. Importante e quasi storica è la partecipazione al Far East poi di un film cambogiano, The Last Reel, la prima volta di un’opera del paese asiatico a Udine, che inevitabilmente, seppur in una trama incentrata sulla bobina mancante di un vecchio film, finisce con il confrontarsi con il tragico passato, purtroppo sempre molto presente, della dittatura dei Khmer rossi. Film che cerca quindi anche di far rinascere attraverso aiuti produttivi australiani, una filmografia, quella cambogiana, che fra il 1965 ed il 1975 riuscì a sfornare bel 300 pellicole. Dieci giorni di Asia e cinema a Udine, dieci giorni in cui il Far East coinvolgerà la cittadina friulana e tutti gli appassionati che vi si riverseranno dalla mattina a notte fonda, con la settima arte naturalmente ma anche con una serie di attività collaterali quali workshop, incontri ed una serie praticamnete illimitata di eventi a tema asiatico. Che la festa abbia inizio. ALIAS 24 APRILE 2015 SINTONIE LO STRANO CASO DEL CANE UCCISO A MEZZANOTTE DI MARIANNE ELLIOTT, CON LUKE TREADAWAY, MATTHEW BARKER, GRAN BRETAGNA 2015 0 Tratto dall'omonimo romanzo di Mark Haddon questa pièce teatrale racconta la storia di Christopher, ragazzo affetto dal morbo di Asperger che gli permette di essere un genio della logica e della matematica ma totalmente incapace di provare simpatia per le relazioni umane. Un giorno decide di indagare sull'uccisione del cane della vicina, finirà invece per cercare di risolvere il mistero della morte della madre. non giungerà mai a destinazione. Dignitoso film d’azione claustrofobico. Il sottomarino è un autentico reperto sovietico ancorato nel Kent, l’equipaggio è una sorta di sporca dozzina aldrichiana e internazionalista dotati di motivazioni credibili, Jude Law si produce in una prestazione inconsueta che mette in luce un talento articolato. (g.a.n.). CITIZENFOUR DI LAURA POITRAS, CON EDWARD SNOWDEN, GLENN GREENWALD. USA 2014 1 Torna nelle sale il capolavoro Sci-fi di Ridley Scott, nell'ultima versione rimasterizzata. Il poliziotto Deckard viene richiamato in servizio nell'unità Blade Runner per scovare degli androidi del tutto uguali agli umani ed eliminarli da strade affollate e piovose di una città immersa in un futuro non troppo lontano. Oscar come migliore documentario dell’anno, primo film su Snowden realizzato dalla prima persona che ha contattato quando ha deciso di rendere pubblici i documenti sulla sorveglianza segreta Nsa. Ambientato tra il gennaio 2013 e il luglio scorso in occasione dell’incontro con il giornalista inglese Glenn Greenwald. Girato nel mood freddo, preciso della spy story con intrigo internazionale, una costruzione studiatissima, ambizioni, ritmi e texture diverse dal documentario inchiesta. E si chiude con un messagggio chiaro: Snowden non è (più) solo. (g.d.v.) CAKE FAST &FURIOUS 7 DI DANIEL BARNZ, CON JENNIFER ANISTON, ANNA KENDRICK, STATI UNITI 2015 DI JAMES WAN, CON VAN DIESEL, PAUL WALKER. USA 2015 BLADE RUNNER DI RIDLEY SCOTT, CON HARRISON FORD, RUTGER HAUER, USA 1982 0 0 Claire Simmons ha sofferenze fisiche e morali e la sua antipatia la fa allontanare da tutti compreso il marito. Solamente la sua badante rimane al suo fianco. Un giorno quando una ragazza che fa parte del suo gruppo di supporto muore suicida, Claire inizia infine a porsi domanda sulla vita e sulla morte. FORZA MAGGIORE DI RUBEN OSTLUND, CON JOHANNES BAH KUHNKE, LISA LOVEN KONSLI, SVEZIA 2015 0 Come comportarsi quando una calamità naturale si abbatte sulla propria famiglia? Secondo Tomas, di fronte ad una valanga in montagna si deve fuggire! Una scelta che manderà in crisi il suo matrimonio e lo porterà a cercare risposte e riscatto per il coraggio mancato. FUORI DAL CORO DI SERGIO MISURACA, CON IVAN FRANEK, AURORA QUATTROCCHI, ITALIA 2015 0 La vita di Dario, un giovane palermitano che è solito passare le giornate insieme all'amico Nicola a fumare spinelli, cambia quando un giorno è fermato dai carabinieri e dovrà recapitare un misterioso pacco a Roma per conto del «professore». AVENGERS - AGE OF ULTRON DI JOSS WHEDON, CONROBERT DOWNEY JR, SCARLET JOHANSSON. USA 2015 1 Una sitcom da alcune centinaia di milioni di dollari. Whedon, amante dei Monthy Pyton è il candidato ideale per trasformare in blockbuster il complesso intrico di storie, mitologie e personaggi che sta dietro all’idea stessa degli Avengers supereroi che si riuniscono per salvare il mondo. In questo capitolo 2 la trama ruota attorno a Ultron intelligenza artificiale dotata di autocoscienza che individua l’uomo come nemico della terra e decide di eliminarlo. GLI Avengers devono fermarlo. (g.d.v.) BLACK SEA DI KEVIN MACDONALD, CON JUDE LAW, TOBIAS MENZIES. GB 2014 6 Prima che Hitler infrangesse il patto di non aggressione con Stalin questi invia un sommergibile carico d’oro che però 1 Settimo episodio della serie sulle corse e battaglie automobilistiche iniziata nel 2001 da Rob Cohen. Dopo aver ucciso Owen Shaw nel sesto film, Dom, Brian e la loro squadra sono in grado di tornare negli Usa. Ma il fratello maggiore di Owen, Ian Shaw (Jason Statham) cerca vendetta per la morte di suo fratello. L’effetto extra è dato dalla morte effettiva di Paul Walker schiantatosi a bordo della sua Porsche a 150 all’ora. (g.d.v.) THE FIGHTERS DI THOMAS CALLEY, CON KEVIN ANAIZ, ANTOINE LAURENT. FRANCIA 2014 7 Esordio sorprendente da Cannes 2014. Inizia come un teen ager film, quindi spiazza le aspettative di chi guarda. Arnaud e Madeleine si incontrano, ma il loro rapporto non dovrà essere soltanto sessuale. Armand lascia il lavoro con il fratello per seguire Madeleine in un addestramento militare per quindici giorni e qui i due combattenti (Les combattents è il titolo originale) troveranno nell’amore la logica della sopravvivenza. La domanda che pone Calley è: cosa significa essere ragazzi oggi. Nella trama scorre un sentimento doloroso che illumna le immagini.(c.pi.) IL FIGLIO DI HAMAS DI NADAV SCHIRMAN, CON MOSAD HASSAN YOUSSEF. GERMANIA ISRAELE, USA GB 2015 4 Una storia «vera» che lascia nello spettatore più dubbi di quanti non risolva. Mosab, palestinese figlio di un dirigente di Hamas, si converte alla causa dei «buoni» contro gli attacchi suicidi. A guidarlo è un agente israeliano. L’approccio del regista banalizza terribilmente tutte le questioni e solo a metà film lo spettatore si rende conto che coloro che parlano in macchina non corrispondono ai corpi che si vedono nei filmati d’archivio. Ma l’aspetto più problematico è che si presenta come un apologo dell’amicizia in grado di scavalcare fedi e ideologie, un conflitto ridotto a romanzo d’appendice. (g.a.n.) HUMANDROID DI NEILL BLOMKAMP, CON SHARITO COPLEY, DEV PATEL. USA MESSICO 2015 6 Chappie è il robot poliziotto frutto dell’immaginazione di Blomkamp. Alla sua stranezza A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON ANTONELLO CATACCHIO, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, GIONA A. NAZZARO, CRISTINA PICCINO IL FESTIVAL TORINO GAY&LESBIAN FILM FESTIVAL contribuisce la presenza di Ninja Yo-landi Visser il duo hip hop sudafricano Die Antwoord, una coppia di piccoli criminali. Poliziotti robot vegliano sulla città. L’ingegnere che li ha disegnati è al lavoro su un modello più evoluto che li fa simile agli esseri umani. I due criminali rubano un prototipo difettoso e lo educano al crimine. Un’implausibile miscela di sentimentalismo e iperviolenza, una parabola per bambini che però non possono andare a vederla. (g.d.v.) TORINO, MULTISALA MASSIMO 29 APRILE - 4 MAGGIO RIVA INQUIETANTE MIA MADRE DI NANNI MORETTI, CON NANNI MORETTI, GIULIA LAZZARINI, MARGHERITA BUY, JOHN TURTURRO. ITALIA 2015 7 Un film stranissimo, spiazzante nel movimento emozionale, sbilenco nella grana dell’immagine volutamente opaca (Arnaldo Catinari) e nel montaggio. Proprio in questo spaesamento accade la rottura degli schemi morettiani. Il riferimento è alla madre del regista, Agata Apicella indimenticata professoressa di latino al liceo Visconti di Roma, morta durante il montaggio di Habemus Papam. La protagonista Margherita Buy è una regista spigolosa e severa. Somiglia a Moretti ma non è lui. Moretti è il fratello Giovanni, il suo opposto, quasi un’altra parte di sé, si mette accanto alla sorella quasi a guardare da fuori sé stesso, né demiurgo né io narrante. (c.pi.) SARÀ IL MIO TIPO? DI LUCAS BELVAUX, CON ÉMILIE DEQUENNE, LOÏC CORBERY, FRANCIA BELGIO 2014 7 Un regista belga mette in scena un duello amoroso tra un giovane professore di filosofia parigino mandato a insegnare in provincia e una parrucchiera che conosce gli uomini, ma non gli intellettuali. Lui ama più le frasi dei libri che la vita, conosce più gli autori che i sentimenti, lei si difende bene. Nel film scorre parallelo e sommerso un dialogo con il pubblico spinto a scegliere tra riferimenti colti e love story. Strepitosa Émilie Dequenne, la Rosetta dei Dardenne, Loic Corbery è un affermato regista e attore teatrale (il Cid, Shakespeare...). (s.s.) SHORT SKIN - I DOLORI DEL GIOVANE EDO DI DUCCIO CHIARINI, CON MATTEO CREATINI, FRANCESCO AGOSTINI. ITALIA IRAN GB 2014 7 Esordio sviluppato all’interno di Biennale College. È quasi sempre la ragazza che con le amiche parla della «prima volta», questa volta è un ragazzo che parla, punto di vista che Chiarini non lascia mai. Il romanzo di formazione di Edo è narrato dall’interno contro il luogo comune svelando fragilità e incertezze maschili. Scrittura tesa, mai superflua, pur con un materiale letterario di ogni tempo, l’adolescenza, altamnente incandescente. (c.pi.) WHITE GOD - SINFONIA PER HAGEN DI KORNELI MUNDRUCZO, CON ZSÓFIA PSOTTA, SANDOR ZSOTER. UNGHERIA GERMANIA 2014 7 Lili ha un solo amico, il suo cane Hagen, ma una legge impone l’eliminazione dei cani non di razza, così il labrador abbandonato dal padre sulla circonvallazione andrà incontro a una serie di esperienze violentissime, allenato per combattere prima di finire in un canile e architettare una fuga di massa culminante in una serie di atroci vendette. Lo stile folgorante di Mundruczo fa attraversare le immagini dallo stato delle cose in un’Europa attanagliata dalla paura e dalla crisi non solo economica. (11) RIVA (RESTART THE GAME) Francia, 2015, 4’27”, musica: Klingande feat Broken Back, regia: Johan Rosell & Michael Johansson, fonte: MTV 7 Una comunità di uomini e donne, ragazzi e ragazze, isolata nella neve e soprattutto dalla civiltà. Siamo dalle parti degli hamish, insomma, anche se qui non sono abbigliati in abiti ottocenteschi bensì piuttosto vagamente «congelati» all’era beat. Ma quando i giovani cominciano a subire il richiamo del progresso (simboleggiato prima da una vecchia radio poi da una wolkswagen, con cui invano sogna di fuggire una adolescente) hanno inizio i guai. Inquietante questo Riva – tratto dall’album omonimo – basato su colori spenti e sostenuto da una narrazione piena di allusioni (giocata solo sugli sguardi dei personaggi) che sfociano in un finale scioccante, malgrado la hit del duo elettronico francese, formato da Cédric Steinmyller e Edgar Catry, sia briosa e ballabile. VOID Germania, 2015, 3’50”, musica: Fritz Kalkbrenner, regia: autore ignoto, fonte: MTV 6 Fratello del più affermato Paul, Fritz Kalkbrenner è anche il protagonista del video del suo brano Void. Ambientato in un paesaggio innevato di montagna, il clip alterna le immagini di un maestoso rapace con quelle del musicista mentre si prepara la colazione del mattino nella sua baita, fino a che i due esseri non si congiungono. Nel finale, attraverso la soggettiva in bianco e nero del falco, sorvoleremo Parigi. Clip soprattutto intriso di suggestioni, ma senza un’idea forte, Void punta tutto sulla somiglianza tra uomo e uccello, accomunati dallo stesso spirito solitario. Anche un altro lavoro di Kalkbrenner, Back Home (tratto sempre dallo stesso album, Ways Over Water) è basato sostanzialmente sul paesaggio, forse ancor più suggestivo di quello presente in Void. THE WORLD IS NOT ENOUGH Usa, 1999, 4’, musica: Garbage, regia: Philipp Stölzl, fonte: Youtube 8 Leit-motiv del diciannovesimo episodio della saga di 007, il video di Stölzl evita di essere un banale clip-trailer (frutto di una mescolanza tra il performer che canta e alcuni spezzoni del film). Nel video, ambientato a Chicago nel 1964, la vocalist Shirley Manson, si sdoppia in due: è una replicante costruita in laboratorio, dal bacio mortale e con una bomba a orologeria incorporata, che si sostituisce alla cantante esibendosi al posto suo in teatro. Terminato il brano, la sosia inesorabilmente esplode. Il raffinato video, splendidamente girato dal regista monacense (autore anche del lungometraggio Baby nel 2002), allude alle atmosfere hi-tech tipiche dei film di James Bond, ma la memoria va naturalmente anche a Blade Runner. Da notare che in quello stesso anno Björk viene «robotizzata» nel video di Cunningham All Is Full of Love. Molto brava Shirley Manson, sensuale e magnetica, nell’affrontare il personaggio di una donna tanto «fatale». MAGICO Trentesima edizione del TGLFF diretto da Giovanni Minerba con 115titoli di cui 9 anteprime mondiali, che concorrono per i premi «Ottavio Mai» per il miglior lungometraggio, premio Queer e miglior cortometraggio più due premi assegnati dal pubblico. Un festival per tutti, con film dalle tematiche più varie, dai grandi temi etici, sociali e civili all’analisi dei rapporti familiari e individuali. L’iniziativa «Cinema con Bebé» la mattina di domenica 3 maggio propone il film d’animazione di Rob Minkoff Mr. Peabody & Sherman. In occasione di Torino 2015 capitale europea dello sport il festival pone un’attenzione particolare anche a questo tema (tra i film anche Fuori di Chiara Tarfano e Ilaria Luperini che ha come protagonista Nicole Bonamino, giocatrice di hockey che ha fatto coming out a Sochi. Tra i film fuori concorso e in anteprima internazionale da segnalare Boulevard di Dito Montiel, un regista lanciato dalla Settimana della critica, uno degli ultimi interpretati da Robin Williams. Madrina della manifestazione sarà Carolina Crescentini, la serata inaugurale avrà come ospite Irene Grandi e la proiezione di 54: The director’s Cut di Mark Christopher alla presenza del regista. Nella serata di chiusura ospite d’onore sarà Zibba, interessante realtà della scena musicale italiana e a seguire la proiezione di Six Dance Lessons in Six Weeks di Arthur Allan Seidelman (Ungheria 2014) con il ritorno sullo schermo dell’ottantacinquenne Gena Rowlands. info: www.tglff.it IL LIBRO STUDIO GHIBLI DI ENRICO AZZANO E ANDREA FONTANA, ED. BIETTI, COLLANA HETEROTOPIA, 20 EURO Dopo «Satoshi Kon, il cinema attraverso lo specchio» (Bietti), sul più famoso dei registi giapponesi di animazione della nuova generazione, firmato da Azzano Fontana e Tarò, esce il libro sul celebre «Studio Ghibli» (con prefazione di Jurij Norštejn), da cui sono usciti capolavori come Il mio vicino Totoro, La città incantata, La storia della principessa splendente: «Studio Ghibli è sinonimo di eccellenza tecnica, un’idea di cinema incantata e meravigliosa, grazie alle sue narrazioni struggenti realizzate con cura maniacale e attenzione a colore, linea, dettagli, che uniscono arte e botteghino, ideale e concretezza, scrittura e immagine». Il volume ripercorre l’intera evoluzione dello Studio, dai film dei fondatori Hayao Miyazaki e Isao Takahata ai loro eredi, parallelamente alla storia del Giappone dal 1985 a oggi, con i contributi critici d i alcuni dei più importanti fumettisti, artisti e studiosi di cinema italiani. Enrico Azzano cofondatore e direttore editoriale di Quinlan.it, ha curato tra l’altro i volumi e le rassegne Nihon Eiga. Storia del Cinema Giapponese, Andrea Fontana è autore e curatore di diversi volumi dedicati al mondo del cinema, animato e non (Robert Zemeckis, Ridley Scott, M. Night Shyamalan). IL SEMINARIO RINALDO CENSI BOLOGNA SPAZIO MENOMALE, VIA DE’ PEPOLI 1/A, 8-9-10 MAGGIO Nomadica, circuito autonomo per il cinema di ricerca presenta «Rinaldo Censi (Fuori) programma», terzo appuntamento con l'Atelier per le arti e il cinema di ricerca, ciclo di seminari e incontri coi protagonisti della settima arte promosso a Bologna. L'8, 9 e 10 maggio Rinaldo Censi, scrittore e storico del cinema, condurrà il seminario Fuori programma - film storie del cinema proiezioni montaggi: un viaggio nella storia - o meglio nelle storie - del cinema, di cui Censi è profondo e raffinato conoscitore, finalizzato all'acquisizione di competenze nell'ambito della programmazione cinematografica di festival, rassegne e retrospettive, ovvero: «ogni programmazione è una presa di posizione teorica e un atto artistico». Dopo i primi due appuntamenti -con Enrico Ghezzi e Franco Piavoli- dedicati al pensiero del e sul cinema, e Rinaldo Censi, gli incontri dell’Atelier di Nomadica riprendono dopo l’estate con Franco Maresco, Boris Lehman, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Artur Aristakisjan, Michelangelo Frammartino, Saul Saguatti e altri. Costo: 80 euro; studenti 60 euro. [email protected] I POETI POETITALY ROMA, TEATRO PALLADIUM, 28 APRILE ORE 18 E 20.30 Terzo appuntamento al Palladium con Poetitaly che si apre al confronto tra le arti con «Interazioni» di poesia, musica, performance, videoarte, rassegna curata da Simone Carella in collaborazione con Andrea Cortellessa, Gilda Policastro e Lidia Riviello. In programma le esibizioni poetico-musicali di Gabriele Frasca e ResiDante, Tommaso Ottonieri con Gabriele Coen, Gilda Policastro con Massimiliano Sacchi, Acchiappashpirt (Jonida Prifti con Stefano Di Trapani), e le performance di Laura Wihlborg, Weronika Lewandowska e Sergio Garau, artisti che nella loro pratica hanno esplorato instancabilmente le varie possibilità della parola e del suo stare in scena, facendo della contaminazione tra le arti la base teorica del proprio lavoro creativo. . Alle 18 la serata sarà preceduta da una presentazione di Gabriele Frasca, «La letteratura nel reticolo mediale. La lettera che muore» coordinata da Andrea Cortellessa con Alberto Abruzzese, Corrado Bologna, Luca Sossella e da un omaggio alla poetessa Patrizia Vicinelli. Realizzati in collaborazione con l’Università di Roma Tre, tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito e fruibili anche in streaming sul sito www.poetitaly.it (12) ALIAS 24 APRILE 2015 STORIE TANTE LE RAGIONI, GRUPPI AI FERRI CORTI, PRODUZIONI SBALLATE, CRITICHE FEROCI Il fascino della vergogna. Band e artisti che hanno rinnegato canzoni e album di GUIDO MARIANI RADIOHEAD Nel 1929 lo scrittore russo Nikolaj Gogol pubblicò su una rivista un poema in versi con uno pseudonimo. L’opera fu accolta malissimo e lo scrittore si decise a comprare tutte le copie esistenti della pubblicazione e le bruciò, cancellando dalla storia il suo infortunio letterario. Gli artisti non di rado hanno un atteggiamento molto ambiguo nei confronti della propria creazione, spesso col senno di poi un’opera viene ripensata e rinnegata. Questo è successo nel mondo della letteratura, dell’arte e ovviamente anche nell’universo del pop e del rock. Rifiutare una propria canzone o un intero album o un periodo della propria carriera è assai più frequente di quanto si pensi. Nel mondo delle canzoni c’è chi ha visto un suo lavoro come non all’altezza, c’è chi è rimasto scottato da recensioni negative, c’è chi è si è sentito frainteso o c’è chi semplicemente si è sentito oppresso da una canzone di troppo successo che ha finito per mettere in ombra il resto della sua carriera. C’è poi il dramma dell’artista, sempre ad inseguire una perfezione che non riesce a trovare. Come cantavano Simon & Garfunkel in Homeward Bound: «Stanotte canterò di nuovo le mie canzoni e giocherò il gioco, fingendo. Ma tutte le mie parole ritornano indietro in ombre di mediocrità come se fossero vuote di armonia». DAVE MATTHEWS BAND THE LA’S La loro storia rappresenta sicuramente uno dei casi più curiosi di artisti che hanno odiato così tanto la propria musica da boicottarla (ne abbiamo parlato anche in Alias del 28/9/2013). La band di Liverpool alla fine degli anni Ottanta arrivò a incidere un album dopo un singolo molto ben accolto come There She Goes. Il lavoro in studio fu lungo ed estenuante, si alternarono diversi produttori tra cui il celebrato Steve Lillywhite. Ma quando l’album, intitolato come il nome del gruppo, finalmente fu pronto nell’ottobre del 1990, i membri della band erano già ai ferri corti. Il cantante Lee Mavers dichiarò senza mezzi termini di odiare il disco, di considerarlo «una merda», «un serpente a cui è stato spezzato il collo» e di non riconoscere le scelte prese dai produttori. Con queste premesse, la band arrivò all’esordio senza un futuro e sparì dalle scene l’anno dopo. Mavers scomparve letteralmente dalla circolazione per anni. L’album oggi è universalmente (e giustamente) giudicato uno dei classici del brit pop. I membri della band si sono riformati per suonare live nei festival riproponendo il repertorio che tanto avevano rinnegato. «Fuck Off! Ci siamo stancati di quella canzone!» così un giorno Thom Yorke rispose dal palco al pubblico che chiedeva a gran voce la loro prima hit, Creep. Il brano pubblicato come singolo nel 1993 mise i Radiohead sulla mappa del rock, ma per tanti motivi la band non ha mai amato la canzone. Innanzitutto il pezzo, scritto da Yorke quando era ancora studente, era, in parte, un plagio volontario della canzone The Air that I Breathe degli Hollies. Si mossero gli avvocati, ma il tutto fu risolto amichevolmente (Albert Hammond e Mike Hazlewood degli Hollies vennero accreditati come autori). Il chitarrista Jonny Greenwood ha dichiarato di non averla mai apprezzata neppure quando la incideva e il riff di chitarra secco e duro era un suo modo per sabotarla sin dalle prime registrazioni. L’intera band si stufò presto tanto da ribattezzarla «Crap» (schifezza) e cancellarla per diversi anni dalle scalette dei concerti. «Sono solo canzoni che ispirano pietà per il triste bastardo che le ha scritte». Una recensione spietata e crudele che proviene dall’autore stesso dei brani, Dave Matthews. Oggetto di tanto disprezzo è il repertorio che l’artista incise nel 1999 e nel 2000 con la sua band in uno studio casalingo in Virginia agli ordini del produttore Steve Lillywhite (un nome ricorrente nelle opere rinnegate...). La Dave Matthews Band ai tempi era al culmine della popolarità. Tre album alle spalle, più di quindici milioni di dischi venduti, stabilmente in testa alle classifiche per numeri di biglietti venduti ai concerti negli Stati Uniti. Ma il successo aveva i suoi lati oscuri. Matthews era schiavo della bottiglia e quello che doveva essere il quarto album del gruppo era la storia della sua depressione da alcolista. Dopo mesi di prove, sbronze e registrazioni decise così, con l’accordo dei musicisti del suo gruppo di abbandonare tutto il lavoro, metterlo da parte e rimandare l’uscita di un nuovo disco. Era troppo tardi: qualcuno (lo stesso Lillywhite?) aveva diffuso su internet il materiale registrato (ancora grezzo, ma perfettamente fruibile) che divenne un enorme successo clandestino con il titolo The Lillywhite Session. I fan lo adorarono, Matthews e la band furono molto delusi, Lillywhite disse sibillino di essere «tremendamente orgoglioso del lavoro svolto». La band pubblicò l’anno dopo l’album Everyday accolto con freddezza dai fan. Le canzoni di The Lillywhite Session vennero ristampate in parte nell’album ufficiale Busted Stuff del 2002. Per molti The Lillywhite Session è stato l’ultimo grande album della band. Lo stesso Matthews anni dopo ha riconosciuto: «È stato frustrante, ma quel che è accaduto è accaduto. Non so chi lo diffuse, non mi interessa più, ma ci sono forse alcune delle migliori canzoni che abbia scritto». WEEZER Può capitare di produrre un album che si ritiene così imbarazzante da provare costante vergogna per averlo inciso? È accaduto per molti anni a Rivers Cuomo cantante e leader degli Weezer. L’oggetto del suo rimorso è stato Pinkerton, secondo lavoro della band datato 1996. Dopo il grandissimo successo dell’esordio, il quartetto americano era atteso a una grande conferma. Appena pubblicato, il disco deluse tutti, il pubblico non lo comprò. I critici lo stroncarono. Lo stesso Cuomo si convinse di aver sbagliato tutto. «Un disco orribile - disse in un’intervista del 2001 -. Un errore così doloroso commesso davanti a centinaia di migliaia di persone che continua a perpetrarsi sempre di più. Sembra che non vada mai via. È come ubriacarsi a una festa, vomitare l’anima davanti a tutti credendo di aver fatto qualcosa di catartico e grandioso e poi svegliarsi la mattina dopo scoprendo che figura da idioti si è fatto davanti a tutti!». L’album fu anche al centro di una causa da parte dell’agenzia investigativa Pinkerton anche se il titolo si ispirava al personaggio di Madama Butterfly. Ma questa storia ha un lieto fine a sorpresa. Il disco nel corso degli anni è stato al centro di una clamorosa rivalutazione, diventando album di culto. Ha venduto più di un milione di copie, i critici hanno fatto pubblica ammenda e l’opera è finita in molte classifiche come uno degli album più importanti del decennio. Si è guadagnato una versione deluxe nel 2010. Dopo tanti anni, lo stesso Cuomo ha fatto finalmente pace con se stesso: «È stato un disco così personale ed è stato fonte di tanto dolore per me nel corso degli anni». THE BEASTIE BOYS «Un brano che non ha mai rispecchiato i nostri valori». Il trio rap di Brooklyn ha sempre considerato uno dei loro primi e più grandi successi Fight for Your Right (to Party) una barzelletta finita male. Nata come parodia degli inni rock, divenne un onnipresente tormentone votato al disimpegno più cafone. Adam Horovitz, Michael Diamond e Adam Yauch non volevano certo prendersi troppo sul serio, ma l’assenza di ironia con cui il brano era stato adottato in tutti i party più selvaggi d’America li convinse, come scrissero sulle note di un loro greatest hits, che il pezzo fosse uno «schifo». Il singolo proiettò l’album Licensed to Ill al primo posto della classifica e a vendite milionarie nel 1986. Per evitare di essere per sempre la band di Fight For Your Right i tre cercarono di reinventare la propria immagine e la propria carriera pubblicando tre anni dopo l’album Paul’s Boutique, disco sperimentale e innovativo che fu accolto male dal mercato, ma che dimostrava che i ragazzi bestiali in realtà facevano sul serio. ALIAS 24 APRILE 2015 Spesso i pezzi diseredati sono anche quelli più apprezzati dal pubblico. Ecco le riabilitazioni o i «serpenti da schiacciare» BOB DYLAN XTC Spesso il rifiuto degli artisti per la propria opera scaturisce da rapporti di lavoro a dir poco non sereni. È quello che accadde nel 1986 al leader degli inglesi Xtc, l’imperscrutabile Andy Partridge, in occasione della registrazione di un album oggi considerato un classico, Skylarking. Il disco venne inciso a New York con un produttore vulcanico e sopra le righe come Todd Rundgren. I rapporti in studio degenerarono presto e Partridge ha sempre associato quel disco all’odio che provò a lavorare con Rundgren. «Era maledettamente sarcastico - ha ricordato il leader della band inglese -, una cosa rara per un americano. Ma lui riusciva ad essere davvero crudele. Dopo aver inciso una parte cantata, lui mi diceva: ‘Fa davvero schifo. Se vuoi la incido io e tu puoi sentire come si deve cantare’. Era così offensivo». Fu una guerra. Partridge finirà per disprezzare il prodotto di quella sgradevole collaborazione. Così ricorderà la vicenda il chitarrista del gruppo Dave Gregory: «Le cose andavano di male in peggio. Andy continuava a dire che odiava il disco e quando tornammo a casa era depresso. Nonostante tutto per me Skylarking rimane il miglior album degli Xtc». (13) BLACK SABBATH Non solo musica. Nel 1983 i Black Sabbath rimasti ormai orfani di Ozzy Osbourne e poi di Ronnie James Dio decisero di reclutare come cantante Ian Gillan che pare avesse accettato di cantare con loro in preda ai fumi dell’alcol. La collaborazione tra l’ex Deep Purple e la band di Tony Iommi produsse l’album Born Again, disco che lasciò il segno soprattutto per una copertina che è stata definita una delle peggiori della storia del rock. La grafica, firmata dal grafico Steve «Krusher» Joule, ritraeva un orripilante feto demoniaco e fu odiata da tutti. L’unico che l’aveva approvata era stato Iommi. Ma non aveva avvertito nessuno. Gillan la vide a disco stampato e dichiarò di averci vomitato sopra. Il batterista Bill Ward la disprezzò sin dall’inizio. Il manager della band Don Arden, ai tempi ai ferri corti con Osbourne, litigò con l’ex leader della band dicendogli che i suoi figli sembravano la copertina di Born Again. Un piccolo capolavoro di pessimo gusto. Spesso gli artisti hanno ottimi motivi per rinnegare i lavori che portano la loro firma. Uno dei casi più rappresentativi è quello capitato al menestrello di Duluth. Nel 1973 Dylan decide di lasciare la storica etichetta Columbia Records che lo aveva lanciato e con cui collaborava dal 1961. Approdò in una nuova casa discografica fondata da David Geffen, la Asylum Records. La sua vecchia scuderia decise di vendicarsi, raccogliendo del materiale su cui aveva mantenuto i diritti e dando alle stampe alcune registrazioni raffazzonate di brani scartati dalle session degli album Self Portrait e New Morning. Il disco fu intitolato dapprima Dylan e successivamente A Fool Such as I e fu messo in diretta concorrenza con il vero nuovo lavoro di Dylan, Planet Waves. Dylan non gradì l’operazione e disconobbe l’album, neppure il pubblico apprezzò. Ma la tattica aggressiva della Columbia pagò. Dylan ritornò poco dopo nei ranghi della casa discografica e produsse uno dei suoi dischi più belli Blood on the Tracks. A Fool Such as I scomparve anche dalle ristampe. NIRVANA Kurt Cobain ha vissuto la sua brevissima parabola artistica tormentato da demoni interiori che lo portarono nell’abisso. Parte di questa sofferenza era dovuta anche al rapporto che ebbe con la celebrità, con i suoi fan e con la sua stessa opera. Nevermind era il disco che lo aveva reso un divo e un simbolo generazionale, ma che il rocker spesso vedeva anche come la fonte della sua inquietudine. Dichiarò di odiare il disco, di non ascoltarlo mai e che gli appariva troppo «elegante nei suoni». L’esercito di nuovi fan che il disco gli aveva procurato venne una volta bollato come «un gruppo di stupidi, idioti ‘rednecks’ che credevamo di esserci lasciati alle spalle». Smells like Teen Spirit divenne spesso il parafulmine della sua angoscia. Un brano che aveva scritto cercando di suonare Debaser dei Pixies e che si era trasformato in un inno epocale. «Sono quasi imbarazzato a suonarla», «ci sono sere in cui non riesco neppure a sopportarla» dichiarò in diverse interviste. Forse era un modo solo per difendersi e ritrovare quella pace che la fama gli aveva tolto. TORI AMOS BAD RELIGION Sono i paladini del punk americano da più di trent’anni, ma nel 1983 sembravano già al capolinea. Dopo l’esordio al fulmicotone di How Could Hell Be Any Worse? i Bad Religion, ancora alle prime armi, erano indecisi su come proseguire la carriera. Il cantante Greg Graffin assunse il comando e spinse per realizzare un disco che si allontanava dal punk virando verso sonorità progressive ed elettroniche. Ne nacque un lavoro ambizioso e mal riuscito da tutti i punti di vista intitolato Into the Unknown. Stampato in diecimila copie, rimase invenduto. Fu così mal accolto che la band si sciolse. Dopo pochi mesi tutti si resero conto di aver fatto un colossale errore e decisero di rimettersi insieme. Da allora non hanno più sgarrato e non hanno mai abbandonato la strada maestra del punk. Il disco non esiste in cd, ed è diventato un oggetto di culto per collezionisti e oggi ricordato dai membri della band come un divertente passo falso giovanile che ormai ricordano con indulgenza. Nell’ottobre del 2010 per la prima volta nella loro carriera la band ha suonato dal vivo una canzone di quella raccolta rinnegata. Dagli annali della musica è stata cancellata la memoria di una synthpop band degli anni Ottanta, gli Y Kant Tori Read. Questa rimozione è dovuta in gran parte al desiderio della leader di quella formazione, Tori Amos, di cancellare quella fase acerba della propria carriera. La cantautrice rock esordì infatti come aspirante diva pop dance con questo gruppo di cui faceva parte anche Matt Sorum (poi approdato ai Guns N' Roses). Le premesse sembravano esserci e, a parte il nome incomprensibile, la band pareva avere le carte in regola per sfondare. Tori era una rossa sexy e di talento, l’etichetta era la potente Atlantic, le canzoni erano facili, vivaci e accattivanti. Ma la Amos litigò subito con il resto del gruppo e il primo album omonimo, datato 1988, dopo due singoli di scarso successo fu dimenticato. La Amos ripartì da zero. Due anni dopo il suo lavoro solista Little Earthquakes diventava un successo internazionale. Tori chiese alla Atlantic di far svanire anche il ricordo del suo tentativo di essere la nuova Madonna e le canzoni degli Y Kant Tori Read sono scomparse dagli archivi. (14) ALIAS 24 APRILE 2015 RITMI LOU REED SHOCK di FRANCESCO ADINOLFI In occasione della recente ammissione di Lou Reed alla Rock’n’Roll Hall of Fame, la sorella Merrill Reed Weiner (psicoterapeuta dell’infanzia, in foto con Lou) ha voluto chiarire alcuni punti oscuri della vicenda personale del fratello. Il trasferimento dalla vivace Brooklyn a Freeport (paesino sulla costa sud di Long Island) incupirà il carattere di Lou acuendo attacchi di panico e angosce esistenziali. Alle medie Lou racconta di subire angherie; si saprà che era spesso provocatorio con i compagni. Al liceo avvia band musicali e sperimenta con le droghe. A 16 anni è sempre solo, chiuso in stanza, a volte rannicchiato sotto la scrivania. Litiga sovente con i INTERVISTA LA CANTANTE TEDESCO-NIGERIANA Nneka, l’arte possibile della resistenza «My Fairy Tales», nuovo disco, è un mix di soul, pop e hip hop. «Racconto cosa significa vivere a Warri, la città del petrolio, e in un paese dilaniato da Boko Haram e tensioni etniche» di SIMONA FRASCA Nneka è una giovane cantante di origine nigeriana e una parte dell’interesse che desta la sua musica nel mondo europeo deriva oltre che dalle doti musicali maturate nell’ambito dell’hip hop e del soul anche dalle sue radici etniche. 34 anni di padre nigeriano e madre tedesca Nneka Egbuna, questo il suo nome per intero, è nata e ha vissuto fino a 18 anni a Warri, una delle principali città portuali situata sul delta del fiume Niger in una delle maggiori aree petrolifere della Nigeria meridionale. I contrasti etnici acuiti se non alimentati dalla presenza di interessi economici delle multinazionali del petrolio sono stati i temi ricorrenti negli anni della sua formazione come cittadina nigeriana, musicista e studentessa di antropologia. In Nigeria la povertà alimenta l’ignoranza e la violenza, gli attacchi del gruppo terrorista islamico Boko Haram diffondono odio e paura dal nord del paese su tutto il territorio ricorrendo forse al cannibalismo ma sicuramente a pratiche di persuasione di una ferocia sconcertante. Se Boko Haram significa «l’educazione occidentale è bandita» si spiega probabilmente così anche la difficoltà della famiglia tedesco-nigeriana di Nneka di restare a Warri in pianta stabile nel momento in cui la disgregazione del paese sembrava un fenomeno sempre più evidente. Abbiamo contattato la cantante nei giorni scorsi in occasione della pubblicazione del suo ultimo album My Fairy Tales (Bushqueen/ Kartel/Audioglobe) cogliendo l’occasione di scambiare con lei anche qualche opinione sull’attuale situazione nel suo paese. «I continui attacchi in Nigeria - ci dice raggiunta nella sua abitazione in Germania - non fanno altro che mettere in evidenza che il problema va affrontato solo se cominciamo a porci la domanda come nazione, evitando di dare ai nostri leader tutta la responsabilità della gestione di questa situazione. Sono sempre più convinta che se la smettiamo di guardarci come appartenenti a tribù differenti, se superiamo questa concezione identitaria etnica potremo costruire uno spazio unitario, condiviso, una nazione vera e propria». La «madre migliore» è la traduzione del suo nome in lingua igbo e secondo alcuni studiosi certi aspetti caratteristici del blues sono da rintracciarsi proprio in questa parte dell’Africa occidentale, presso questo gruppo etnico tra i più numerosi del continente. Tutto questo suona quasi come una predestinazione per Nneka che dopo il trasferimento ad Amburgo ha continuato i suoi studi musicali e antropologici facendo della prima la sua attività professionale. La La cantante tedesco-nigeriana Nneka in due scatti di Hugues Lawson sua anima musicale e culturale è divisa tra Germania e Nigeria, una condizione che in sé offre grandi combinazioni da un punto di vista creativo. «Gli aspetti sincretici tra la cultura dell’Europa e quella dell’Africa occidentale - continua Nneka - sono ovviamente infiniti, soprattutto se parliamo della religione occidentale, quella cristiano-cattolica e le tradizioni africane. Questioni che risalgono all’epoca dei missionari e delle colonie, il cristianesimo è mescolato alle credenze africane tradizionali ed è praticato proprio come il Candomblè in Brasile o la Santeria a Cuba. Per quello che riguarda la mia personale posizione io credo in un solo dio, un dio che si manifesta in differenti forme di vita, organismi e individui, nonostante la nostra percezione come esseri umani». Per Nneka il successo giunge nel 2008 con il brano Heartbeat che raccoglie 10 milioni di visualizzazioni su youtube. Il singolo appare nella top 20 britannica ed è campionato dalla cantante inglese di origine kosovare Rita Ora nel singolo R.I.P. «Dall’uscita di Heartbeat molto è cambiato nella mia vita, in termini di impegni professionali, amicizie e collaborazioni. Ma forse la cosa più importante è stato il modo in cui ho cominciato a vedermi come artista. Sono diventata più consapevole e attenta, si è attivata in me la capacità di affrontare le cose in maniera più personale e di genitori che non gradiscono che si esibisca a Manhattan. A casa non si sapeva come gestirlo e tutto veniva tenuto sotto silenzio. «Al tempo non esistevano terapie familiari, i genitori erano sempre colpevolizzati e le anomalie caratteriali sovente trattate con l’elettroshock che fu consigliato ai miei genitori da medici incauti e superficiali; si è spesso detto che fu per ’guarire’ l’omosessualità che Lou impegnarmi di più nella direzione che mi interessa. Non c’è nessun modo per far funzionare le cose se prima non cominciamo noi stessi a farle funzionare». La musica per Nneka ritorna a svolgere una funzione quasi civile, sicuramente sociale e aggregativa. Il cuore dei suoi brani ha una motivazione legittima perché diffonde la voce di una collettività che soffre e ha voglia di reagire e la musica fornisce un’indicazione importante in questo senso. «My Fairy Tales offre un approccio più groovie delle mie canzoni precedenti, secondo alcuni è un album più pop ma io non sono d’accordo. Non ci vedo un approccio commerciale, anzi è un disco che va dritto al cuore e che proviene da lì, direi di facile ascolto questo sì ma dalle radici profonde, molto più consapevole del passato». La consapevolezza della storia del proprio popolo ma anche di se stessa è una delle cifre dell’album e la questione biografica, sociale e politica affrontata in molti testi è la riprova di questo. Local Champion è una dedica a Warri, la città natale, Babylon racconta la propria idea dell’Africa, un racconto interiore lontano da una lettura sociologica talvolta cucita addosso. «In effetti My Fairy Tales affronta varie questioni - riprende a raccontare Nneka - che riguardano la mia storia come donna e cittadina nigeriana nata e cresciuta a Warri, città famosa per il suo petrolio. Ci sono stati molti problemi nella mia regione proprio a causa del petrolio e al problema direttamente collegato all’inquinamento causato dalla presenza delle compagnie petrolifere e della loro attività estrattiva. A tutto ciò dobbiamo aggiungere le perenni tensioni tra gruppi etnici differenti. Il mio album racconta un po’ tutto questo, racconta come nonostante tutto ancora riusciamo a sorridere di fronte agli ostacoli e alla sofferenza. Babylon che tu citavi parla di resistenza e perseveranza, di come siamo in grado di evitare di essere distrutti emotivamente da tutti questi problemi che ci circondano». Seguendo il solco di Neneh Cherry, Erika Badu e Lauryn Hill, Nneka delinea il suo orizzonte musicale. Negli anni colleziona collaborazioni importanti con Massive Attack, Lenny Kravitz, Tricky, Ziggy Marley, tournée in America a partire dal 2010 insieme con Nas e Damian Marley come Distant Relatives, apparizioni in tv come quella al David Letterman Show. «Sono state tutte esperienze magnifiche, ho imparato tanto da Tricky e soprattutto da Ziggy, un uomo dotato di uno spirito leggero e positivo, è importante restare sempre umili e rispettosi». La stampa internazionale descrive Nneka come una donna molto impegnata contro le ingiustizie e i soprusi, militante in numerose organizzazioni non governative, ambasciatrice dell’Awdf, African Woman’s Development Fund e sostenitrice dell'Occupy Nigeria Movement. In questo quadro appare ben radicata la sua opinione di considerare la musica come un linguaggio universale capace di emancipare i popoli, di smascherare fanatismi religiosi e politici. «La guerra - conclude - non si vince per le strade o nei vicoli delle città nigeriane ma alimentando la consapevolezza nelle fabbriche e tra i ragazzi, creando posti di lavoro. Le esperienze in cui la musica diventa un veicolo di promozione sociale sono fondamentali soprattutto in contesti di grande confusione sociale come in alcuni paesi africani o in Sud America. Non posso che dirmi completamente d’accordo quando si parla di investire nella diffusione della musica nei percorsi di studio scolastici. È un buon modo di insegnare ad amare e in generale di avere un approccio creativo alla vita. Inoltre è molto più facile tenere a memoria informazioni e nozioni quando lo fai attraverso le canzoni. In Nigeria un numero crescente di scuole ha cominciato ad aggiungere la musica come materia di insegnamento, questo grazie anche al lavoro svolto da alcune ong che supportano questa piattaforma. Questa per me è la strada giusta per un cambiamento che duri nel tempo». ALIAS 24 APRILE 2015 ULTRASUONATI DA aveva confessato a casa. Falso, eravamo una famiglia liberale, tutt’altro che omofoba, così come è falso che papà fosse violento. Mai una mano su Lou o altri. Dopo lo shock andò meglio e tornò alla Syracuse University. Il resto è storia. Ci siamo sempre amati. Forse mitizzare l’adolescenza gli è servito per il suo mestiere». Qui: https://medium.com/cuepoint STEFANO CRIPPA LUCIANO DEL SETTE GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE ROBERTO PECIOLA MARCO RANALDI ALESSIO BONDI' SFARDO (Malitenti Dischi) Autore palermitano, già vincitore del Premio De André, al suo esordio colpisce per una maturità compositiva non comune fatta di amore viscerale per il folk che attualizza con suoni moderni. Suggestioni letterarie, grande potenza vocale emergono in molti momenti del disco, da consigliare: Rimmillu ru voti, solo chitarra voce e armonica incisa in una session pomeridiana e volutamente non ritoccata. (s.cr.) JAZZ Brillanti morbidi, un po’ misteriosi Chissà, forse la continua vicinanza con un cantautore folk rock d'eccellenza come Thomas Dybdahl, sui palchi e in studio, suggerisce al trombettista norvegese Mathias Eick le campiture lunghe, ariose, sempre incastonate su tempi medi o lenti che fanno brillare le sue composizioni. Il nuovo disco, Midwest (Ecm/Ducale), è di un'eleganza severa e asciutta, e soprattutto i temi, quando vengono proposti, sembrano subito richiamare qualcosa, alludono e raccontano assieme. Formazione timbricamente insolita, con tromba, violino, piano, contrabbasso, percussioni. Restiamo in zone nordiche con Gefion, debutto da leader per l'Ecm del giovane chitarrista danese Jakob Bro. Suona un jazz elettrico dilatato e diafano, morbido e misterioso, con accorto uso di effetti elettronici: al contrabbasso c'è Thomas Morgan, alla batteria il grande Jon Christensen, che illumina con piccole luci di metalli il tutto. Un altro giovane, italiano, e in casa Ecm: Giovanni Guidi, pianista ascoltato spesso al fianco di Enrico Rava, che torna con This is the Day. Il bassista è lo stesso di Bro, Morgan, alla batteria João Lobo: jazz che riesce ad essere impervio e comunicativo al contempo. (Guido Festinese) ON THE ROAD The Answer La hard rock band inglese, sulla scia dei Led Zeppelin. Pinarella di Cervia (Ra) SABATO 25 APRILE (ROCK PLANET) Beth Hart La talentuosissima cantante rock blues losangelina per una data italiana. Milano MARTEDI' 28 APRILE (ALCATRAZ) White Hills Hard rock psichdelico per la band di New York. Mezzago (Mb) SABATO 25 APRILE (BLOOM) Varazze (Sv) DOMENICA 26 APRILE (RAINDOGS) Kenny Wayne Shepherd Il bravissimo chitarrista blues americano in Italia. Mezzago (Mb) DOMENICA 26 APRILE (BLOOM) Roma LUNEDI' 27 APRILE (PLANET) Scott Matthew Il cantautore australiano è spesso nel nostro paese, dove vanta un buon numero di aficionados. Milano DOMENICA 26 APRILE (BIKO) Max & Laura Braun I fratelli di Stoccarda presentano il loro secondo lavoro, sempre (15) CHAMPS VAMALA (Pias/Self) A circa un anno dal debutto tornano i fratelli Champion. Questa volta le pulsioni alt folk sono mitigate e «imbastardite» con sonorità elettroniche e una scelta melodica sicuramente più virata al pop. Magari opera del produttore che hanno scelto per questo secondo disco, Dimitri Tikovoi, già al lavoro con Goldfrapp e Placebo. Ma alla fine dei giochi ci sembra un passo indietro, forse non c'era tutta questa fretta di tornare con un nuovo album. Almeno a parer nostro. (r.pe.) FAIRPORT CONVENTION MYTHS & HEROES ((Matty Grooves) Il consiglio è di dedicare parecchi ascolti a Myth & Heroes, magari cercando di scacciare via il pensiero che sono passati quasi cinquant'anni dalla costituzione del nome storico del folk rock inglese. E loro se lo ricordano, perché già la copertina rimanda al «leggendario» Full House. Parecchi ascolti, perché la miscela sonora raffinatissima di questi anziani signori British che sembrano i nonni felici del Mulino Bianco si coglie solo con ascolti successivi: dallo skiffle alla polka, dall’eleganza di ballate intense e frementi ai ricordi di reel. Classe e leggerezza. (g.fe.) FEMINA RIDENS SCHIAFFI (Autoprodotto/Audioglobe) Eccola di nuovo qui, Francesca Messina alias Femina Ridens. O il contrario, se preferite Francesca nei panni di un’artista dalla spensieratezza solo apparente. Schiaffi, rispetto al primo album intitolato a se stessa e realizzato in studio, ha visto la luce sul palco dei concerti e lì è stato corretto e affinato. Spensieratezza solo apparente, si diceva, su un tessuto a motivi folk, canzone d’autore, trame minimaliste, r'n'b. Femina schiaffeggia stereotipi, donne copertina, uomini tanto vanesi quanto inutili, esibizionismi, protesi cibernetiche dell’io. E lo fa con bella sicurezza di mestiere. (l.d.s.) DI GUIDO FESTINESE JAZZ/2 POP ROCK LATIN Parrini, violino da sperimentare La promessa di Barnett Brevi nostalgie di tango e samba La Rudi Records di Massimo Iudicone porta avanti con rigore un catalogo ricco di artisti di più generazioni, attivi nel jazz, che guardano al passato ma si rivolgono decisamente all’avanguardia. Il violinista Emanuele Parrini con Are You Ready? Viaggio al centro del violino Vol. 2 prosegue un discorso iniziato con un album in solo. Qui, con un formidabile sestetto (Bittolo Bon, Innarella, Mirra, Bolognesi, Tononi) integrato da voci recitanti, combina tre suite che uniscono brani scritti dal leader con B. Scardino a composizioni di A. Shepp, R. Rudd e J. Tchicai. Avanguardia «storica» e contemporanea si fondono con eversiva creatività. È quanto accade anche in Sounds of Hope dove Daniele Cavallanti guida il Milano Contemporary Art Ensemble (cd realizzato con crowd founding e «manifesto sonoro» dell’avantgarde meneghina). L’orchestra omaggia J. Henderson, S. Rivers, A. Braxton, R. Mitchell, M. Feza e W. Shorter, esaltando collettivo e solisti. Ottima l’accoglienza internazionale per il trasversale Honest John del gruppo norvegese Canarie, guidato dal violinista-compositore contemporaneo Ole-Henrik Moe. (Luigi Onori) La voce di Annie Woodward non è certo originalissima, può ricordare Emiliana Torrini come Janis Joplin e così via, ma ha una sua anima e quel «certo non so che» che attira l'attenzione. E la nostra l'ha attirata con Two Faces of a Clown (Amp/-Er Records), suo debutto. Registrato negli Stati Uniti, il disco ci presenta questa cantante e autrice norvegese attraverso dodici brani che vanno dalla ballata acustica a quella elettrica, dal gusto un po' rétro. Dalla Scandinavia all'Australia, a Melbourne, dove alberga una cantante e autrice, anche lei all’esordio, promettente, Courtney Barnett. Sometimes I Sit and Think, Sometimes I Just Sit (House Anxiety/Self) ce la fa scoprire come una rocker d'antan, nonostante la giovane età. Canzoni che richiamano gli anni Settanta, Suzie Quatro, Joan Jett ma anche Chrissie Hynde. Altro viaggio transoceanico, per trasferirci a San Francisco, casa di Hannah Cohen, modella e figlia d'arte al secondo lavoro con Pleasure Boy (Bella Union/PiasCoop/Self). Canzoni morbide, delicate, piene di sfumature, qualcuna grigia, ma più spesso dai colori tenui o intensi, tra il blu cobalto e il viola purpureo. Proprio come la sua voce. Affascinante. (Roberto Peciola) Brasile e Argentina sono vicini anche musicalmente per la fama mondiale che samba e tango hanno conquistato. Nessuno smetterà mai di suonarli; di comporre adottandone ritmi e sonorità. Dodicilune Dischi viaggia nel samba e nel tango con tre novità. Gabriele Mirabassi al clarinetto e Roberto Taufic alla chitarra sono splendidi autori e interpreti dei tredici brani di Um Brasil diferente. Mostrando di aver capito alla perfezione cosa significhi dar suono alla saudade, deliziano l’ascoltatore sia quando firmano in proprio che quando si misurano con Vinicius de Moraes, Chico Buarque, Cartola, Baden Powell. Gabriel Oscar Rosati e BrazilLatAfro Project, con Live at the Philarmonic Hall in Arad, virano il Brasile su colorazioni jazz e atmosfere solo in apparenza estranee. Vedi O mundo funk carioca. Mischiare le carte si rivela ottima scelta. Chitarra, voce e buoni compagni di palco hanno positivi effetti su Paolo Giaro e il suo Tango nuevo latin jazz. Il discorso è analogo a quello fatto per Mirabassi e Taufic. Preludio a un applauso convinto che Giaro si merita come autore e come interprete. (Luciano Del Sette) STEVE HACKETT WOLFLIGHT (Inside Out) Il mitico chitarrista dei Genesis, quelli buoni, torna con un nuovo album di inediti... Beh, chiamarli inediti è un po' un azzardo. Non perché siano già stati pubblicati, ma perché suoni, scelte armoniche, stilistiche e melodiche sono rintracciabili in decine di produzioni simili. Lo si può perdonare, ma ascoltare il disco - se si eccettuano un paio di brani - più di una volta è impresa superflua. (r.pe.) ADAM LEVIN BEGIN AGAIN (Universal) Commedia straromantica, musica straromantica per un film che forse non sarà un capolavoro ma che tutto sommato funziona. Adam Levin, il titolare dello score, scrive qui pagine belle e accattivanti che trasportano l’ascoltatore con leggerezza. Il tutto poi è condito da una serie di canzoni affidate addirittura alla voce dell’attrice inglese Keira Knightley, ed è tutto molto pulp! (m.ra.) THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND SO DELICIOUS! (Yazoo/Shanachie) Una label di prestigio, una formazione al top della potenza e della creatività. La banda del Rev. Peyton non perde colpi. Solo un po’ meno muscolari e più solari rispetto all'ultimo album. Pot Roast and Kisses è perfetta per l'airplay, We Live Dangerous è una bomba da ballare nei live. Ma non basta, dietro la parvenza bucolica, c'è sostanza. Blues, con dentro tutto il possibile. (g.di.) A CURA DI ROBERTO PECIOLA SEGNALAZIONI: [email protected] EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ giocato su atmosfere delicate, slowcore. Avellino DOMENICA 26 APRILE (GODOT) James Taylor Si chiude il lunghissimo tour italiano per il songwriter americano. Milano SABATO 25 APRILE (TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI) Matthew E. White Il cantautore e produttore di Richmond, Virginia. Torino GIOVEDI' 30 APRILE (EL BARRIO) Is Tropical Il trio electro inglese di nuovo dalle nostre parti. Colle Val d'Elsa (Si) SABATO 25 APRILE (SONAR) Selah Sue Torna nel nostro paese la vocalist belga. Milano MERCOLEDI' 29 APRILE (TUNNEL) John Scofield Il chitarrista scoperto da Miles Davis. Cremona GIOVEDI' 30 APRILE (AUDITORIUM GIOVANNI ARVEDI) Milano VENERDI' 1 MAGGIO (BLUE NOTE) Verdena La rock band bergamasca torna dopo cinque anni con un nuovo disco, Endkadenz Vol. 1. Genova SABATO 25 APRILE (FESTIVAL SUPERNOVA) Trieste LUNEDI' 27 APRILE (TEATRO MIELA) Caparezza Il rapper di Molfetta ancora on the road. Taranto VENERDI' 1 MAGGIO (PARCO ARCHEOLOGICO DELLE MURA GRECHE) Post-Csi Massimo Zamboni, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli e Giorgio Canali di nuovo insieme per celebrare i 20 anni di Ko de Mondo, con la voce di Angela Baraldi. Correggio (Re) SABATO 25 APRILE (PARCO DELLA MEMORIA) Marlene Kuntz Torna dal vivo la rock band di Cuneo, che ha da poco pubblicato il nuovo Pansonica, in occasione del ventennale del loro album d'esordio, Catartica. Teramo GIOVEDI' 30 APRILE (AREA EX VILLEROY & BOCH) Taranto VENERDI' 1 MAGGIO (PARCO ARCHEOLOGICO DELLE MURA GRECHE) Zu Torna dal vivo il trio romano, tra jazz sperimentale e punk. Madonna dell'Albero (Ra) SABATO 2 MAGGIO (BRONSON) Ardecore Riprende l’attività live la band «romanesca» capitanata dal folksinger Giampaolo Felici. Latina GIOVEDI' 30 APRILE (SOTTOSCALA) Tre Allegri Ragazzi Morti Il trio indie rock friulano in un tour acustico. Carpi (Mo) DOMENICA 26 APRILE (SCHEGGE DI TEMPESTA RESISTENTE) Napoli GIOVEDI' 30 APRILE (COMICON) Tito (Pz) VENERDI' 1 MAGGIO (CECILIA) Catania SABATO 2 MAGGIO (MERCATI GENERALI) Crossroads La sedicesima edizione della rassegna «Jazz e altro in Emilia Romagna» continua la sua programmazione itinerante con i concerti di Raul Midon; Quintorigo & Roberto Gatto play Frank Zappa; Italian Jazz Orchestra & Silvia Donati feat. Fabrizio Bosso in un omaggio a Marlene Dietrich. Rimini SABATO 25 APRILE (TEATRO DEGLI ATTI) Russi (Ra) GIOVEDI' 30 APRILE (TEATRO COMUNALE) Forlì VENERDI' 1 MAGGIO (TEATRO DIEGO FABBRI) Ravenna Jazz Al via il festival di musica afroamericana nella città romagnola. Si parte con la performance in esclusiva italiana del duo voce e tromba tra Dee Dee Bridgewater e Irvin Mayfield con The New Orleans 7. Ravenna SABATO 2 MAGGIO (TEATRO ALIGHIERI) Handmad(e)s Festival Torna la rassegna cinematografica e musicale dedicata alla cultura del «do it yourself» La programmazione musicale ha in programma il live set di Teho Teardo e, nell'ultima serata, Squadra Omega e Ossatura. Roma SABATO 25 E DOMENICA 26 APRILE (CASA DELLA CULTURA) Bologna Festival La rassegna di musica classica si chiude con l'Accademia Bizantina, violino solista Viktoria Mullova, in un repertorio di musiche di J.S. Bach. Bologna MERCOLEDI' 29 APRILE (TEATRO MANZONI) Lugano Festival La rassegna di musica colta nel Canton Ticino ospita il concerto di musica da camera per pianoforte, violino e violoncello con Anna Kravtchenko, Pavel Berman e Enrico Dindo, su opere di Brahms e Dvorak. Lugano (CH) MERCOLEDI' 29 APRILE (CONSERVATORIO DELLA SVIZZERA ITALIANA) OPERAZIONE JANNACCI Ci sono persone speciali che assomigliano alle grandiose figure dei replicanti immaginati da Philip Dick: sono candele che ardono da due parti, vivono con un'intensità travolgente e caotica, se ne vanno prima degli altri, ma gli altri, per quanti anni più mettano in conto, non potranno neppure arrivare a metà di quel percorso. Un «Blade Runner» con l’aria svanita e feroce allo stesso tempo è stato il magnifico Enzo Jannacci, uno che sembrava fare tutto a tempo pieno, come se il tempo fosse una fisarmonica e il sonno non esistesse: Siùr dutùr, ovvero chirurgo di vaglia, altruista con l'incorreggibile vizio di tenere sempre un occhio e un orecchio consapevole sui più deboli e i più sfortunati, cabarettista, musicista di jazz, cantautore e attore, insegnante di karate. E, sullo sfondo, una Milano che veramente non c'è più: quella del Derby messo su dal jazzista Enrico Intra, degli altri locali dove passava la mala e la meglio intelligenza critica e comica libertaria, la Milano di Dario Fo, del jazz, di Cochi e Renato, e di tante altre figure grandi: tutte che devono un pezzo della loro grandezza all’omino con gli occhialoni, la voce al limite della stonatura, le idee fulminanti che sembravano infilate di nonsense (e spesso lo erano!), e invece riuscivano ad essere comunque sintesi fulminee di ragionamenti speciali che altri avrebbero messo su a forza di giri di frasi. A fine vita avrebbe messo su un altro laboratorio di creatività, Enzo, il Bolgia Umana: ma erano davvero altri tempi. Sandro Paté ha fatto in tempo a conoscere bene Enzo Jannacci: ci ha scritto sopra una corposa tesi di laurea. E il giorno della discussione c'era anche il dutùr, pronto a un abbraccio e a dirgli un «bravo», ma «peccato l’argomento», cioè Jannacci stesso. Paté poi s’è messo in caccia di tutta la costellazione di persone che hanno avuto a che fare con l’autore di Quelli che, a tutti ha chiesto di raccontare un pezzo di Enzo, e alla fine ha ricomposto un prisma dalle infinite rifrazioni in Peccato l’Argomento/ Biografia a più voci di Enzo Jannacci (Log Edizioni). Non saprete tutto, come non è possibile saperlo, di Enzo: ma avrete di tutto, vedrete foto splendide, ed è un bel sapere e un bel vedere. ¶¶¶ E magari il libro spingerà qualcuno a chiedere di ristampare i grandi dischi di Enzo, spesso conosciuti solo dagli addetti ai lavori. Sono ventotto, per complessive 233 canzoni: le analizza nel dettaglio una per una Andrea Pedrinelli in Roba minima (mica tanto), Tutte le canzoni di Enzo Jannacci (Giunti). Un affresco da gustare nei più minuti dettagli sviscerati con intelligente puntualità.
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