20150424alias2 - Il Manifesto

(2)
ALIAS
24 APRILE 2015
QUANTO PIÙ PAGANO
PIÙ DEVONO
GALEANO
POETA POLITICO
Membro
attivo
nella giuria
del Tribunale
permanente
dei popoli
di SALVATORE SENESE
e GIANNI TOGNONI*
Nei numerosi articoli che la
stampa nazionale ha dedicato alla
scomparsa di Eduardo Galeano
manca qualsiasi cenno ad
un’esperienza significativa della
sua vita e della sua poliedrica
attività.
Ci riferiamo alla partecipazione
attiva di Galeano al Tribunale
Russell II sull’America latina
organizzato e presieduto da Lelio
Basso agli inizi degli anni ’70, le
cui tre sessioni si sono tenute dal
1974 al 1976. La convinta
adesione di Galeano agli obiettivi
e al metodo del Tribunale Russell
II lo indussero a proseguire il
proprio impegno anche nella
giuria del Tribunale permanente
dei popoli (TPP), che Basso aveva
voluto come prosecuzione del
Tribunale Russell e che vide la
luce nel giugno del 1979 a
Bologna, pochi mesi dopo la
scomparsa dello stesso Basso.
Eduardo Galeano non è solo
uno dei protagonisti più originali
della letteratura latinoamericana,
ma anche e soprattutto il creatore
di una visione del mondo
capovolta, «patas arriba», a testa
in giù, che non accetta la
dipendenza dalla logica reiterata
del mercato e delle guerre. Forse
spetta al TPP e alla Fondazione
Lelio e Lisli Basso evidenziare un
aspetto ulteriore che completa il
profilo di questo grande amico e
compagno di oltre quarant’anni di
lotte e cammini.
Dalla sua fondazione il TPP ha
avuto il privilegio di avere
Eduardo tra i suoi membri più
attivi, non solo come presenza nei
lavori della Sessione, ma piuttosto
come colui che sapeva
sovrapporre agli aspetti tecnici e
politici del Diritto internazionale
la sfida fondamentale di
recuperare una memoria «de
fuego y de viento», simile a quella
che lui ha cercato di restituire con
le sue «palabras andantes» ai
popoli dell’America Latina e del
mondo. I due testi che si allegano
a questo piccolo ringraziamento
per tutto ciò che Eduardo ci ha
donato - che fanno riferimento
alla sua «visione» delle Politiche
del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca
Mondiale e della Conquista
dell’America Latina e il Diritto
internazionale, due lavori centrali
del TPP realizzati a fine anni ’80 e
inizi ’90.
*Presidenza e Segreteria
Generale del Tribunale
Permanente dei Popoli
Il popolo finanzia la repressione che lo colpisce
e lo sperpero che lo tradisce. I prestiti
internazionali diventano debito estero dei paesi
e in forma di capitale trafugato dai padroni
IL TRIBUNALE
Da quel processo
nacquero
i movimenti
«no global»
di LUCIANA CASTELLINA
Questo è il discorso
conclusivo del processo che il
Tribunale dei popoli celebrò a
Berlino nel 1988: era la prima
volta che imputato non era
solo un governo, ma istituzioni
internazionali, le più
importanti: il Fondo monetario
internazionale e la Banca
mondiale che, in quegli stessi
giorni, tenevano nella non
ancora capitale tedesca i loro
summit. La partecipazione dei
berlinesi fu straordinaria, a
migliaia collaborarono a
rendere possibile le udienze e
la partecipazione dei testimoni
di accusa che arrivavano in
aereoporti ancora collocati al
di qua e al di là del Muro.Fra
loro personaggi nel frattempo
diventati celebri, come una
giovanissim Vandana Shiva,
che aveva appena
abbandonato per protesta il
suo qualificato posto in seno
alla Banca mondiale, o Aloysio
Mercadante, allora sindacalista
brasiliano, poi ministro con
Lula.. Persino il prof. Triffin
che accettò il ruolo di avvocato
difensore delle due istituzioni
(un difensore critico,
ovviamente). E ancora
economisti e contadini,
deputati ed operai. Fu,
quell'evento, a dare il via ad
un movimento che negli anni
successivi diventò
grandissimo, quello dei «no
global», che avevano colto la
nuova dimensione
dell'oppressione. Possiamo
ben dire che fu Galeano a
tenerlo a battesimo.
di EDUARDO GALEANO
Essi possono più dei re e dei
signori e più dello stesso Papa di
Roma. Onorevoli filantropi,
praticano la religione
monetarista, che adora il
consumo nel più alto dei suoi
altari. Non si sporcano mai le
mani. Non uccidono nessuno: si
limitano ad applaudire lo
spettacolo. Le loro imposizioni si
chiamano raccomandazioni. Le
intimidazioni le chiamano lettere
di intenti. Quando dicono
«stabilizzare», vogliono dire:
rovesciare. Chiamano austerità la
fame e cooperazione l’aiuto che la
corda offre al collo. I grandi
banchieri e i maggiori tecnocrati
del mondo si sono riuniti a
Berlino alla fine di Settembre.
Immense manifestazioni di
protesta si sono succedute, giorno
dopo giorno, durante l'assemblea
del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca
Mondiale. Contro il terrorismo del
denaro hanno risuonato i tamburi
dell 'indignazione popolare,
tormentando orecchie più
abituate alle litanie dei
mendicanti con colletto e
cravatta. Parallelamente, all
università si è riunito un tribunale
simbolico, composto dai premi
Nobel Adolfo Perez Esquivel e
George Wald e da vari giuristi,
uomini di scienza, artisti, politici,
ecologisti e attivisti peri diritti
umani. Davanti a loro, davanti a
noi hanno testimoniato le vittime
dei banchieri, arrivate da diversi
paesi del Terzo Mondo. Le ¡oro
denunce non hanno suonato su
campane di legno. Le vittime:
Quanto più pagano, più
devono/ Quanto più ricevono,
meno possiedono/Quanto più
vendono, meno incassano/
Impiegano sempre più ore di
lavoro per guadagnare sempre
meno/ impiegano sempre più
prodotti propri/per ricevere
sempre meno prodotti altrui.
Il vescovo Eamonn Casev ci ha
raccontato che in Irlanda la crisi
finanziaria attuale impoverisce i
poveri, rovina il servizio sanitario,
l'educazione pubblica e i servizi
sociali, e Andrea Szego, dell
'Accademia delle Scienze di
Ungheria, ci ha detto che i paesi
dell'est Europa non sfuggono alla
trappola del debito. Ha indicato il
pericolo di destabilizzazione
politica dell’est e ci ha parlato di
un possibile «socialismo
prigioniero» della gabbia del
Fondo Monetario. Ma sono i
paesi sottosviluppati,
storicamente travolti dallo
sviluppo degli sviluppati, a essere
stati condannati alla schiavitù per
debiti. Su di loro la polizia
finanziaria internazionale vigila e
comanda: fìssa abitualmente il
livello dei salari e della spesa
pubblica, gli investimenti e i
disinvestimenti, gli interessi, i dazi
doganali, le imposte interne e
tutto il resto, eccetto l ’ora in cui
sorge il sole e la frequenza delle
piogge. I trafficanti vendono la
droga ma non la consumano. I
paesi ricchi, che impongono ai
poveri la libertà di mercato,
praticano il protezionismo più
rigoroso. Gli Stati Uniti sono il
paese che più deve, nel mondo. Il
loro debito estero equivale, quasi,
a quello di tutta l'America Latina.
Ma essi non applicano la ricetta
del FMI per la semplice ragione
che il FMI, come la Banca
Mondiale, gli appartengono:
hanno il venti per cento dei voti,
e ciò equivale al diritto di veto.
Nello stesso modo, e come dice
una vecchia e veritiera
barzelletta, negli Stati Uniti non
ci sono golpes militari perché lì
non c’è l'ambasciata degli Stati
Uniti. La febbre guerriera del
presidente Reagan ha impoverito
molta gente, in quel paese, ma
un’operaia di una fabbrica di
Chicago ancora guadagna in
un'ora quello che una cuoca di
Lima guadagna in un mese. Che
succederebbe se il FMI
consigliasse di stringere la
cinghia? André Gunder Frank ci
ha risposto: «Il Congresso degli
Stati Uniti respingerebbe con
alte grida questa inaccettabile
violazione della sovranità».
«Il debito estero è una
questione di sovranità», ci ha
detto l'economista filippino
Manuel Montes, parlando di un
paese che destina circa la metà
delle sue esportazioni al
pagamento degli interessi della
fortuna che si portò via il
dittatore Marcos. Il governo
democratico argentino, che ha
ereditato dalla dittatura militare
un debito moltiplicato per sei,
discute la previsione di bilancio
nazionale con il Fondo Monetario
a Washington, prima di sottoporlo
al potere legislativo a Buenos
Aires. Anche Alfredo Eric
Calcagno ha denunciato che negli
attuali contratti di debito
l'Argentina rinuncia
esplicitamente alla sua immunità
di Stato sovrano, consacra l'usura
e regala settecento milioni di
dollari di imposte annuali. A
Berlino, davanti al tribunale.
Calcagno si è chiesto fino a
quando la candida Erendira
continuerà ad obbedire alla sua
nonna senz'anima.
«Ci insegnano che non
possiamo essere padroni del
nostro destino - ci ha spiegato
David Abdulah, sindacalista di
Trinidad e Tobago -. Così, i paesi
IL DISCORSO  BERLINO 29 SETTEMBRE 1988
Fmi e Banca mondiale,
il paradosso
amaro di Don Dinero
ricchi possono esportare
tranquillamente la loro crisi e
finanziare la loro
modernizzazione. Il debito estero
sta finanziando la seconda
rivoluzione industriale in
occidente». Togba Nah Ttpoteh è
stato ministro in Liberia, e
presidente del gruppo africano dei
governatori del Fondo Monetario e
della Banca Mondiale. «È il nuovo
colonialismo - ci ha detto. In che
consiste la loro politica nel mio
paese? Consiste nel ridurre i costi di
produzione delle imprese
multinazionali e aumentare i loro
tassi di profitto». L’ex - ministro
della Pianificazione in Tanzania
Abdulrahman Babu ci ha detto che
questa politica implica crimini
«peggiori di quelli del
colonialismo». I tecnici del suo
paese stimano in cento milioni di
dollari al giorno, niente di meno, il
contributo che l'Africa porta, per le
vie diverse, alla prosperità
dell'Occidente. In Perù la sfida del
presidente Alan Garcia non è
andata più in là della retorica, e
oggi egli sta applicando la
devastante formula di
stabilizzazione del FMI. Nella sua
esposizione, Javier Mujica,
consigliere dei sindacati
peruviani, ha affermato che agli
organismi finanziari
internazionali bisognerebbe
applicare la norma giuridica
internazionale che definisce e
condanna il genocidio. Tutti
pagano quello che pochi
spendono. Per pochi, la festa. Per
tutti gli altri, i piatti rotti. Si
privatizzano i profitti, si
socializzano le bancarotte. Il
popolo finanzia la repressione che
lo colpisce e lo sperpero che lo
tradisce. I prestiti internazionali
diventano debito estero dei paesi
e in forma di capitale trafugato dai
padroni dei paesi:
milionari latino-americani, per
esempio, la cui capacità di
sperpero provoca incurabili
complessi di inferiorità agli
sceicchi arabi; o dittatori qualsiasi.
La finanza internazionale si
preoccupa della libertà del
denaro, non della libertà delle
persone. Quando si riferisce al
ALIAS
24 APRILE 2015
generale Pinochet il Financial
Times fatica a nascondere la bava.
Tra poco la Dichiarazione
Universale dei diritti umani
compirà quarant’anni, e non
sarebbe sbagliato ricordarlo a chi
ricompensa i colpi di stato
erogando generosi flussi di dollari
ai generali che abbattono i costi di
produzione mediante il violento
crollo dei salari operai. Le
dittature militari di Argentina, Cile
ed Uruguay ricevettero numerose
dichiarazioni d'amore e
consistenti prestiti, e cosi
moltiplicarono il debito estero dei
loro rispettivi paesi. Il debito
estero del Brasile crebbe trenta
volte, negli anni della dittatura
militare. La Banca Mondiale e il
FMI elogiarono con il massimo
entusiasmo «la politica modello»
del vorace Marcos, nelle Filippine.
In Zaire, Mobutu ha ricevuto
quanto ha chiesto, e ha rubato
quanto ha ricevuto. Qualche
giorno prima della sua fuga,
mentre cadevano le bombe sul
popolo dei Nicaragua, tra le mani
di Somoza continuava ad arrivare
il denaro del Fondo Monetario
Internazionale. Poi, il paese
svuotato dovette farsi carico di
questi regali di addio e dei molti
prestiti concessi a Somoza per
fare guerra contro il suo paese e
rubare ciò che rimaneva. Invece
adesso il Nicaragua non riceve un
centesimo. È diventato, per la
finanza mondiale, un paese
paria. L’ambasciatore Carlos
Arguello ci ha letto una lettera
rivelatrice. Il 30 Gennaio del
1985, lo statunitense George
Shultz ordinò al messicano
presidente del Banco
Interamicano de Desarrollo di
cancellare un credito già
Al centro: frammento del murale
«Conquista y sometimiento» de Diego
Rivera, a pag 2 Galeano con donne
Mapuche, a pag 3 una donna e un uomo
Mapuche
concesso al Nicaragua, il credito
fu cancellato. Per i governi del
Terzo Mondo che vogliono
trasformare la realtà invece che
amministrarla, viene chiusa la
borsa. Non c'è che da ricordare
quella frase di Henry Kissinger, al
tempo di Salvador Allende:
«Faremo sì che la economia
cilena urli di dolore».
Attraverso il prestito, la
tecnocrazia impone un modello
di sviluppo estraneo alle
necessità reali di ogni paese, che
promuove il consumo artificiale e
stimola un modo di vita
importato, spreca le risorse
naturali, idolatra la moneta e
disprezza la gente e la terra. a
parlato Vandana Shiva e per
bocca sua ha parlato l'India: «Il
FMI, la Banca Mondiale e il loro
concetto di sviluppo hanno
violato la mia integrità, essi
hanno fatto dello sviluppo una
parola sacra, ma in nome dello
sviluppo hanno violato i cicli e le
leggi della natura, hanno
distrutto boschi e creato deserti,
hanno avvelenato il mio suolo, la
mia acqua, la mia aria. La
medicina di Bretton Woods sta
uccidendo l’India». I progetti per
stimolare le esportazioni del
Brasile, con finanziamento
diretto o con la luce verde di
questo organismo, stanno
spianando la foresta amazzonica
e sterminando indigeni. Secondo
quanto ci ha detto padre Angelo
Pansa, che vive nella regione:
l'anno scorso le grandi imprese
multinazionali hanno attaccato
uno spazio delle dimensioni della
Germania Federale. Analoga
testimonianza ci è stata offerta da
Ana Maria Fernandez, per il
Paraguay: «La Banca Mondiale sta
finanziando progetti di sviluppo
che implicano un etnocidio
contro le comunità indigene».
Dal punto di vista dominante,
sviluppo equivale a esportazione,
allo stesso modo in cui cultura
equivale a importazione. Da fuori,
dai grandi centri metropolitani,
vengono, a prezzi carissimi, le
idee e i simboli che danno
prestigio e potere, mentre sul
mercato mondiale si vendono
prodotti economici e braccia
economiche. L'africano
Ahdulrahman Habu ci ha
raccontato l 'Etiopia, dove un
milione di persone sono morte di
fame, vende carne all’Inghilterra.
L'economista Aloysio Mercadante
ha osservato che il Brasile è il
quarto esportatore mondiale di
alimenti, ma due su tre brasiliani
mangiano meno del necessario.
Lo sviluppo, sviluppo verso l
’esterno, dissimula le sue feroci
contraddizioni negli schemi
astratti nel feticismo dei
numeretti. Davison Budhoo, che
ha rinunciato al suo alto incarico
nel FMI, ci ha fatto notare i rischi
della sacralizzazione di certi indici
economici come il prodotto
nazionale lordo: il PNL della
Nigeria è, in proporzione alla
popolazione, quattro volte
maggiore di quello della Tanzania,
ma la Tanzania ha meno
analfabetismo e meno mortalità
infantile della Nigeria, e ha più
aspettativa di vita, più letti
d’ospedale e più donne
all'università. Il sacerdote gesuita
Xabier Gorostiaga ci ha fatto
notare, con ragione, che la
violenta e disperata crisi in
America Centrale è esplosa in una
regione che dal 1050 fino al 1978
aveva ostentato gli indici di
crescita economica più alti del
mondo. In questi ventotto anni,
l’America Centrale ebbe, nelle
statistiche, il maggior sviluppo
regionale di tutta la storia
economica dell 'umanità. Le
statistiche se la passavano molto
bene, la gente, invece, molto
male.
Chi fa ammalare, vende la
medicina. Improbabile medicina,
questo salasso che dice di curare
l'anemia. Il rimedio è un altro
nome della malattia. Nuovi
prestiti pagano i vecchi prestiti e il
debito si moltiplica
misteriosamente. Tra il 1973 e il
1985, il Brasile pagò abbastanza di
più di ciò che aveva ricevuto, ma
nel 1985 il Brasile doveva nove
volte di più che nel 1973. La
Citybank, che ha il sei per cento
dei suoi investimenti in Brasile,
riceve dal Brasile, il 25 per cento
dei suoi profitti mondiali. In
Argentina e Messico, la maggior
parte del debito corrisponde a
denaro che non è mai entrato in
quei paesi. Il denaro svanì prima
di arrivare, per arti magiche, lungo
il cammino. Riferendosi alle arti
da giocoliere dei banchieri, Paulo
Schilling ci ha descritto un tipico
paradiso fiscale, l'isola del Gran
Cayman, nel mar dei Caraibi, che
ha 21.000 abitanti: laggiù operano
17.500 imprese finanziarie
multinazionali. Tutti i testimoni
che abbiamo ascoltato a Berlino
hanno concordato nell’attribuire
piaghe e peste al Fondo
Monetario e alla sua sorella
gemella, la Banca Mondiale:
rovina della moneta, caduta dei
salari e del tenore di vita popolare,
liquidazione del servizio sanitario
e dell‘educazione pubblica,
distruzione della natura. Ma i
paesi ricchi usano di solito il FMI
per tirare il sasso e nascondere la
mano, e spesso i governi del Terzo
Mondo invocano questo satanico
super padre per giustificare la
propria impotenza: «Il Fondo non
lo permette... ». Per gli uni e per
gli altri, il FMI opera come un
perfetto alibi. «È tutto il sistema
sotto processo, e non solo le sue
istituzioni finanziarie », ci ha
avvertito Yash Tandon, dello
Zimbawe. in realtà, il Fondo
Monetario e la Banca Mondiale
non sono più che ingranaggi di un
sistema mondiale di potere.
Questo sistema, che sta giocando
pericolosamente alla roulette
russa della speculazione sfrenata,
ruba con una mano molto più di
ciò che presta con l’altra. Nella
sua relazione del 6 Agosto del
1987, il segretario generale delle
Nazioni Unite afferma che nel
1986 i paesi poveri hanno perso
94.000 milioni di dollari per il
deterioramento dei prezzi nel
commercio con i paesi ricchi. I
prodotti del cosiddetto Terzo
Mondo stanno ricevendo, nel
cosiddetto mercato
Internazionale, i peggiori prezzi
dell 'ultimo mezzo secolo.
Sì, il FMI è uno strumento. È
formato da 150 paesi, ma i dieci
paesi più ricchi del mondo
dispongono di più della metà del
voti. La grande finanza
internazionale è un monopolio di
potere, una dittatura del nord sul
sud. Ma questo carattere
strumentale, al servizio di un
sistema maggiore, non implica
innocenza. La tecnocrazia suole
rivendicare il privilegio della
irresponsabilità. Il tecnico, il
tecnocrate, fa lo gnorri, Tuttavìa,
benché nelle lettere di intenti non
figurino esplicitamente la
concentrazione della ricchezza, nè
lo smantellamento della sovranità
nazionale, tutto questo è implicito.
E benché sia vero che i
desaparecidos e i torturati non
sono menzionati nei piani di
risanamento, è anche vero che ne
sono la conseguenza naturale.
Quelli che programmano il
sacrificio dei salari non sono
innocenti della conseguente
repressione contro il movimento
operaio. La ricetta del FMI richiede
un prezzo di sangue e fuoco e i
tecnocrati fanno parte, in questo
senso, della stessa squadra dei
torturatori, dei boia e degli
inquisitori. Credo che non sia
troppo ricordare questa
responsabilità della tecnica e della
scienza. Infine e col dovuto
rispetto, non posso non segnalare
una casualità, forse significativa:
questa riunione, la nostra
riunione, è stata celebrata a pochi
metri dal luogo in cui Joseph
Mengeie faceva i suoi esperimenti,
in nome della scienza, con
bambini portati dai campi di
concentramento.
(3)
Cinque secoli dopo l’Europa non
riesce a guarire da un’antica malattia
chiamata razzismo, un salvacondotto
efficace per fuggire dala storia
GERENZA
Il manifesto
direttore responsabile:
Norma Rangeri
a cura di
Silvana Silvestri
(ultravista)
Francesco Adinolfi
(ultrasuoni)
in redazione
Roberto Peciola
LA CONQUISTA
Nella sua infinita
generosità il sistema
concede a noi tutti
la libertà di scegliere
tra il capitalismo
e il capitalismo
di EDUARDO GALEANO
Fine del secolo, fine del
millennio, festa di compleanno. Il
mondo del nostro tempo - mondo
trasformato in mercato, tempo
dell’uomo ridotto a mercanzia celebra i suoi cinquecento anni. Il
12 ottobre del 1492 nacque la
realtà che oggi viviamo su scala
universale: un ordine naturale
nemico della natura, e una società
umana che chiama «umanità» il
venti per cento dell'umanità.
Nella loro lettera pastorale, i
vescovi della chiesa cattolica del
Guatemala hanno chiesto
perdono ai popolo maya e hanno
reso omaggio alla religione
indigena «che vedeva nella natura
una manifestazione di Dio Ma il
Vaticano festeggia i cinquecento
anni dell 'arrivo della fede al
continente americano». Ma la
fede non esisteva in America
prima di Colombo? La conquista
impose la sua fede come unica
verità possibile, e cosi calunniò il
Dio dei cristiani riducendolo al
ruolo di Capo Universale di
Polizia e attribuendogli l'ordine di
invasione delle terre infedeli. In
quei tempi profeticamente si
cominciò a chiamare libertà di
comunicazione il diritto
dell'invasore, signore della parola,
contro i conquistati senza voce.
Gli indios furono condannati
per il fatto di essere «indios» o
perché continuavano ad esserlo. I
barbari che non si lasciavano
civilizzare meritavano la schiavitù.
Quanti bruciarono sui roghi per il
delitto di credere che ogni terra è
sacra? Adorando la natura gli
indios pagani praticavano
l'idolatria e offendevano Dio.
Offendevano Dio o il capitalismo
nascente? Da allora è nata
l’identificazione della proprietà
privata con la libertà: libertà di
usare il mondo come fonte di
guadagno e oggetto di consumo.
Da Carlo V alla dittatura
elettronica: cinque secoli dopo, il
pianeta è terra bruciata. E cinque
secoli dopo l ’Europa non riesce a
guarire da un antica malattia
chiamata razzismo. Missione di
evangelizzazione, dovere di
civilizzazione, orrore della
diversità, negazione della realtà: il
razzismo era ed è un salvacondotto
efficace per fuggire dalla storia.
CONTINUA A PAGINA 4
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In copertina: una
maschera del Museo
dell’Oro a Bogotà
(Colombia)
(4)
ALIAS
24 APRILE 2015
CINQUECENTO ANNI
DI SOLITUDINE
MIDDLE EAST NOW  LA SCUOLA
Questa è la mia
terra dipinta
di nero
GALEANO DA PAGINA 3
I vincitori sono nati per vincere, i
perdenti sono nati per perdere. Se
il destino è iscritto nei geni, la
ricchezza dei ricchi è innocente di
cinque secoli di delitti e
saccheggio e la povertà dei poveri
non è un prodotto della storia ma
una maledizione della biologia.
Se i vincitori non hanno di che
pentirsi, i perdenti non hanno di
che lamentarsi.
Fine del secolo, fine del
millennio, tempo dei disprezzo.
Pochi possidenti, molti posseduti;
pochi giudicano, molti sono
giudicati: pochi quelli che
consumano, molti sono
consumati; pochi gli sviluppati,
molti i travolti. E i pochi, sempre
meno, i molti sempre più: in ogni
paese e nel mondo. Lungo questo
secolo. Il divario che separa i
paesi poveri dai paesi ricchi si è
moltiplicato per cinque. Il mondo
dei nostri giorni è il capolavoro di
una scuola che potremmo
chiamare il realismo capitalista.
Nella sua infinita generosità il
sistema concede a noi tutti la
libertà di scegliere tra il
capitalismo e il capitalismo, ma
all’ottanta per cento dell’umanità
è proibito l'ingresso nella società
del consumo. La si può guardare
in televisione, questo sì: chi non
consuma cose, consumi fantasie
di consumo. Il mondo assomiglia
ora a una qualunque delle
metropoli latino-americane:
immense periferie assediano le
fortezze inespugnabili dei
quartieri di lusso. Non restano
ormai neppure le macerie del
passeggero muro di Berlino; ma è
ogni giorno più alto e più
massiccio il muro mondiale che
da cinque secoli separa coloro
che hanno da quelli che
vorrebbero avere. Quanti sono
caduti, e quanti cadono ogni
giorno per volerlo saltare?
Nessuno li ha contati, nessuno li
racconta.
Fine del secolo, fine del
millennio, tempo della paura. Il
Nord è in panico al solo pensiero
che il Sud possa prendere sul
serio le promesse della sua
pubblicità, così come l'Est ha
creduto all’invito in Paradiso. Un
sogno impossibile: se l'ottanta
per cento dell'umanità potesse
consumare con la voracità del
venti per cento, il nostro povero
pianeta, già moribondo,
morirebbe. Se lo sperpero non
fosse un privilegio, non
esisterebbe. L’online
internazionale che predica la
giustizia, si fonda sull’ingiustizia
e ne dipende. Non è per caso che
l'industria della paura garantisce
oggi gli affari più redditizi: il
commercio delle armi e il traffico
della droga. Le armi, prodotti
della paura di morire: e le
droghe, prodotti della paura di
vivere.
Tempo della paura: grandi
buchi nella fascia di ozono, buchi
ancora più grandi nell 'anima.
Cinque secoli fa nacque questo
sistema che ha mondializzato lo
scambio ineguale e ha fissato un
prezzo al pianeta e al genere
umano. Da allora trasforma in
fame e denaro tutto ciò che tocca.
Per vivere, per sopravvivere ha
bisogno della organizzazione
diseguale del mondo così come i
polmoni hanno bisogno dell 'aria.
Oggigiorno la debolezza dei
deboli, persone deboli, paesi
deboli, è motivo di scherno o di
pena. La solidarietà è passata di
moda. Però, quanto è forte la
fortezza dei forti? Il potere, ciglio
della violazione, è pieno di violenza,
è pieno di paura. Corpo muscoloso
spaventato dalla sua stessa ombra,
corpo senz’anima, società
disanimata. Corpo cieco di sé,
smarrito da sé: proprietario di tutto,
non è ormai padrone di sé. Non
può più permettersi altra passione
se non la passione del consumo. Ha
sacrificato il diritto alla vita, la sua
propria vita sugli altari del diritto di
proprietà: e già ha cominciato a
consumare se stesso.
Donne e uomini del Sud e del
Nord ci siamo riuniti a Padova,
questa settimana, per una nuova
tappa del Tribunale dei Popoli.
Abbiamo discusso il diritto
internazionale.
Alla luce dei cinquecento anni
dalla conquista dell'America,
perchéil diritto internazionale è
figlio del diritto di conquista ed è
segnato sulla fronte da quello che
François Rigaux chiama «il suo
peccato originale». Ci hanno
abituato a dimenticare ciò che
merita memoria e a ricordare ciò
che merita oblio: ma ci siamo
riuniti nella certezza che il
mondo non è «questo» mondo,
né il diritto è «questo» diritto. Ci
hanno abituato a ignorare la
storia per obbligarci ad accettare
iI tempo presente come destino;
ma ci siamo riuniti nella certezza
che il mondo può e deve essere,
la casa di tutti, e nella certezza
che che un altro diritto possibile,
che non è quello che legittima
l'ingiustizia e garantisce
l'impunità di coloro che
comandano, servendo da alibi a
un sistema che mai dice quello
che fa né fa quello che dice.
Questo è il nostro minuscolo
contributo a un compito
immenso: la riconquista della
pienezza mutuata e della umana
dignità della condizione umana.
Un nuovo secolo nasce, nasce un
nuovo millennio. Tempo di
speranza. In viaggio per I ’Italia
sono passato per l'Andalusia. E là
ho ascoltato il ritornello di un
canto flamenco, el canto jondo, il
canto profondo che in tre
brevissimi versi risponde nel
modo più vero alla civiltà che
confonde l'essere con l'avere. Il
ritornello mi è rimasto dentro, e
ancora canta dentro dì me. In
questi giorni, durante le sedute
del Tribunale, l'ho risentito varie
volte, e ogni volta pensavo: a Lelio
sarebbe piaciuto. E ho pensato: a
Sergio, a Antonis sarebbe piaciuto.
E adesso, pensando a loro, e
sentendo con loro, lo dico a voi:
Ho le mani vuole,
tanto ho dato senza avere,
ma le mani sono mie.
di MARIA GROSSO
Un cielo ingabbiato.
Dipingono sbarre e continuano a
intingere il pennello solo nel nero.
L’insegnante ha chiesto a una
classe elementare dell’UNRWA
Boys School del campo profughi di
Balata, Palestina, di raccontarsi in
una immagine. Perché sempre
nero? Per l’ingiustizia, risponde
uno, mentre il compagno sta
usando anche un po’ di verde.
Ancora: Hareali, scuola nazionale
secondaria di Haifa. Come
immagini Israele tra 20, 30 anni?
C’è troppo odio, non riesco a
vedere oltre, è la risposta di un
ragazzo. «Non sono tanto addentro
alla religione, me ne andrò. La cosa
che mi fa più male è la paura»,
interviene un altro. E guardano in
macchina: serissimi tesi,
preoccupati tristi, senza la minima
luce. E ancora: scuola elementare
di Ramallah, West Bank, dal
tema/lettera a un coetaneo ebreo
francese: «Caro amico, le cose non
vanno bene qui, gli israeliani ci
hanno preso la terra, il pane il sale
l’acqua. Ti prego, di’ a tuo padre,
che è un uomo importante anche
in Israele, di far finire il nostro
dolore». Sono «epifanie» da This is
my land, il documentario di
Tamara Erde, proposto in
anteprima italiana nei giorni scorsi
dal Middle East Now FF di Firenze.
Titolo omonimo al lavoro di Giulia
Amati e Stephen Natanson (2010),
intorno a Hebron, territori
occupati della West Bank, il doc ha
un focus dichiarato fin dall’incipit
dalla regista stessa - giovane
israeliana - ossia l’indagine sul
modo in cui in Israele e in
Palestina si insegni la storia del
conflitto. Cercare il come, dunque,
non solo a rimarcare la crucialità
ineludibile dell’istruzione nel
determinare il presente e il dopo
che verrà, ma innanzi tutto a porre
la questione, preliminare e
tutt’altro che scontata, della
necessità di una pedagogia critica,
aliena da strumentalizzazioni o
trasmissioni dogmatiche, una
pedagogia che, in questo tracciato
atavico e acuminato, insegni prima
di ogni cosa a porsi domande. In
una quiescente accettazione di
quanto le viene proposto cresce
l’autrice del film («non conoscevo
nulla della storia della Palestina»),
finché durante il servizio militare,
si innesca in lei la molla
dell’interrogarsi. Così, qualche
anno dopo eccola tornare a Tel
Aviv, contattare insegnanti (a
diversi il Ministero dell’Istruzione
non consente di essere filmati),
immergersi per un anno nella vita
di sei classi in altrettanti istituti
(per israeliani, per palestinesi e
misti), dove il montaggio è la
strada in macchina che li separa,
tragitto assolato di direzioni
interdette, muri, contiguità
incandescenti e convivenze da
decifrare. Che cosa è libertà. Che
cosa è diritto e cosa violazione del
diritto. Ricadute psicologiche
dell’occupazione: «Ci toglie il
rispetto di noi stessi, distorce
l’autopercezione». Un insegnante
palestinese lavora sul filo
dell’immaginazione: essere reclusi
e sentire lo scotch sulla bocca,
visualizzando il volo senza confini
degli uccelli, e dando calci al muro
della scuola. Un’altra, a Neve
Shalom, la scuola non governativa
mista, in compresenza con un
collega israeliano, indaga su cosa
sia «homeland». E ancora le
responsabilità di Ben Gurion verso
i palestinesi, che cosa sia
Olocausto e se ha inciso sulla
creazione dello Stato di Israele, un
viaggio al campo di
concentramento di Belzec in
Polonia e suoi effetti sulle identità
israeliane. Uno studioso
palestinese e una israeliana
riflettono su curriculum scolastici
zeppi di guerre e di massacri,
programmi che, complice una
educazione sempre più religiosa
da entrambi i lati, tendono a
rimuovere la storia l’uno dell’altro
(mentre alcuni insegnanti lasciano
i volumi governativi censurati per
materiali autoprodotti e si
sperimentano cooperazioni
israelo-palestinesi – vedi La storia
dell’altro). Nodale dunque, per gli
insegnanti palestinesi, pur
parlando da un punto di vista
oppresso e minoritario, gestire la
rabbia e il senso di inferiorità
latente nei ragazzi; per gli
israeliani, lavorare sul trauma non
come via di trasmissione del ruolo
della vittima, ma come accesso a
empatia e immedesimazione.
Emerge allora un bisogno assoluto
di una narrazione
storico-pedagogica attendibile e
critica, così come di un racconto
mediatico altrettanto lucido e non
deformato da interessi
internazionali deviati, volti a
sotterrare la storia e la memoria
del popolo palestinese, nonché a
occultare lo stato insostenibile di
non vita in cui si trova costretto. Su
questo filo, lo scorso 15 aprile,
quarto anniversario dell’uccisione
di Vittorio Arrigoni, al teatro
Ghirelli di Salerno nell’ambito
della rassegna «Femminile
Palestinese», a cura di Maria
Rosaria Greco, si è agito un lungo
serratissimo incontro/report da
Gaza, a colloquio con Michele
Giorgio, corrispondente da
Gerusalemme per il manifesto e
con il giornalista Pietro Falco.
Oggetto, lo stato delle cose post
«Margine protettivo», l’ultimo
intervento israeliano dell’estate
2014, con 2220 morti, 100mila
senzatetto (tra cui secondo
l’allarme Onu 40mila donne
incinte), con le risorse idriche e
elettriche gestite in modo totale da
Israele, a distruggere le gallerie
sotterranee che permettono
l’ingresso di alimenti e carburanti,
e a lanciare, contro tutte le
convenzioni internazionali,
«bombe avvertimento» sulle
abitazioni civili, previa telefonata e
due minuti per lasciare la casa …
Ancora si è analizzata l’astrusa
mappa geopolitica delle
connivenze internazionali (quanto
distante dalle esigenze degli esseri
umani, come sottolinea
l’accoratissimo intervento di Omar
Suleiman, cuoco palestinese della
serata, a rammentare il centenario
della questione mediorientale), tra
cui le responsabilità dei confinanti
egiziani nel precludere una via di
fuga all’esistenza blindata dei
palestinesi (nemmeno poter
morire in mare). E ancora l’osare
della Flottilla e dell’Arca per Gaza,
le letture da Arrigoni a toccare il
cuore di tutto e le testimonianze
di due attiviste, Sara Cimmino e
Rosa Schiano, sulla lotta sociale
delle donne palestinesi, che
sempre più inesorabilmente si fa
politica (in diverse scuole nel doc
vediamo solo maschi). A una
bambina israeliana che dice che
bisogna cacciare gli arabi, Tamara
Erde chiede come crede parlino di
lei e del conflitto nelle scuole
palestinesi. Che significa conflitto,
è la risposta.
[email protected]
VISIONI
ARABE
Riflessioni post primavere, drammi
femminili e post coloniali, passioni e
possessi, sono le tracce su cui si é
mossa la sesta edizione del festival del
cinema arabo di Berlino dall´8 al 15
aprile: una rassegna fervida, che
attraversa l´attualità senza concedere
facile gioco ai cliché dell´orientalismo.
Néjib Belkadhi è un regista tunisino che
con Bastardo, scritto prima della
primavera nel suo paese, attraversa la
parabola e le tenaglie del potere,
potenzialmente anche al di là del mondo
arabo, con la storia di Mohsen, figlio di
nessuno ritrovato in una pattumiera. Il
racconto è da subito rilanciato in medias
res, trent´anni dopo, quando Mohsen è
un adulto, guardiano di una fabbrica di
scarpe, e nel suo squallido e povero
quartiere chiamato da tutti bastardo. Il
microcosmo è quello di una società
corrotta, fondata sul terrore della
prevaricazione dell´altro, dove la violenza
è l´ultimo dei dettagli e il degrado umano
la regola quotidiana. La svolta (forse) alla
vita del protagonista arriva,
paradossalmente, dall´avvento della
modernizzazione, con un´antenna GSM
installata sul tetto di casa. La potenza
visiva del film di Belkadhi ha accenti
grotteschi nel registro e nella
rappresentazione degli animali: bestie
squartate in macelleria, insetti sui corpi.
Dov´è la primavera araba? Per dovere di
metafora sembra investita da un
definitivo cinismo. Al di là della politica è
Décor, capolavoro egiziano di Ahmad
Abdalla, dove un rarefatto bianco e nero
segue la protagonista Maha, donna in
carriera, set designer per produzioni
cinematografiche locali. Il confine tra
realtà e finzione del set si sgretola
quando Maha inizia a proiettarsi nella vita
del personaggio del film in cui sta
lavorando, una casalinga dalla vita banale,
e diventa patologico nel momento in cui
lo spettatore non sa più dove finisce la
realtà e inizia il sogno. Il film di Abdalla,
scritto con suprema maestria, è un
lavoro sulla scelta, sul melodramma
interiore in cui non è difficile identificarsi.
Goodbye Morocco di Nadir Moknèche è
un omaggio noir alle passioni di
Almodóvar (un personaggio va persino al
cinema a vedere Parla con lei) in cui la
femme fatale é Dounia, figlia della
Tangeri bene, che cerca di approfittare di
un prezioso ritrovamento archelogico
nel cantiere edile dove lavora per lasciare
il paese con il figlio. Ma la molla in cui
ogni buon noir che si rispetti, e il film di
Moknèche non fa eccezione, precipita
non si fa attendere nel momento in cui
un migrante africano che lavora
illegamente nel cantiere muore. Ogni
intrigo crea un effetto domino
sull´evento successivo e il regista
ritaglia, nel frattempo, una precisa
descrizione del contesto geografico
sociale post coloniale, nella storia del
Marocco, della Francia e, per forza di
attualitá, anche d´Europa. Ghadi di Amin
Dora é una storia libanese, dolce come
una fiaba, ma realistica nella descrizione
di come la diversitá possa essere
accettata da una societá tradizionale e
machista. Leba, un insegnante di musica
di un piccolo villaggio, trova un
espediente, al limite del circense, per far
accettare suo figlio, affetto dalla
sindrome di Down, all´interno di una
comunità variopinta, con i propri
personaggi tipici, forse un po´ granitici e
con poche sfumature, ma raccontati
con sano divertimento e la malinconia
inevitabile di ogni vicenda umana.
@NatashaCeci
ALIAS
24 APRILE 2015
di LEONARDO GREGORIO
È stata tante cose, «la Mara»,
nata nel centro storico di Lecce
nel 1932. Si chiamava Antonio
Lanzalonga e, adolescente,
scopriva la propria omosessualità;
partiva per Roma, sognando
Cinecittà e invece finiva a Genova
a prostituirsi, ribattezzandosi
Mara, perché un giorno aveva
letto il nome dell’attrice viennese
Mara Lane su un manifesto, al
cinema Universale. Tornò poi in
Puglia, per diventare così il
travestito più famoso di Lecce.
Rifiutata tutta una vita dalla sua
famiglia, muore nel 2001, nel
testamento lascia gran parte del
suo patrimonio – 70 appartamenti
e 4 miliardi di lire – alle monache
di clausura del convento di San
Giovanni Evangelista.
Un’immensa ricchezza
accumulata a partire dagli anni in
carcere, dai piccoli traffici
all’acquisto di moltissime case del
centro storico poi affittate a
prostitute e stranieri. Abitazioni
messe successivamente in vendita
dalle suore, con i vecchi inquilini soprattutto immigrati - diventati
occupanti.
Mara, prostituta e affarista,
capace di gesto nobile e di
meschinità, respinta e desiderata,
sola e scandalosa, amata e odiata.
Un nodo straordinario di
dicotomie. Come e «più di una
sorella» per l’amica Anna, che a
fatica racconta il proprio passato
di prostituzione e reclusione e un
presente di smarrimento
nonostante l’amore arrivato in
tarda età. «Era l’unica che poteva
darci la casa» dice Vanda, perché
Mara – aggiunge – non aveva
pregiudizi ma sapeva essere
anche «disumana», e «a fine mese
dovevi portarle i soldi». Per
Principessa, nata in un corpo
maschile come Vanda, era lo
«sciamano del Salento». Lola,
invece, non nasconde
risentimento tradendo tuttavia un
affetto nato da ragazzina, e parla
di sé, di quando faceva la vita, di
sentimento, delle carezze date ai
clienti, si emoziona ascoltando
musica napoletana, ricorda
l’amore.
Sono loro che raccontano Mara
e diventano racconto di se stesse,
di un tempo, di un mondo, in
Amara, documentario di Claudia
Mollese che sarà proiettato il 30
aprile al Torino Gay & Lesbian
Film Festival, dopo la
presentazione al Festival del
Cinema Europeo di Lecce da poco
concluso. Classe 1983, laureata in
Economia internazionale a Roma
e in seguito trasferitasi a Parigi,
all’'EHESS (École des hautes
études en sciences sociales) si
avvicina all’antropologo e cineasta
Jean-Paul Colleyn. Dopo
l’esperienza con un collettivo
artistico in una ex fabbrica
trasformata in galleria, si sposta
poi a Marsiglia e si unisce al
gruppo di cineasti Film Flamme,
che insieme all'associazione
Lignes d'erre la supporterà nel
montaggio e nella
post-produzione di Amara, nato
come progetto di scrittura proprio
in Francia e premiato con il Prix
de l'atelier d'écriture
documentaire EHESS-CNRS
Images (Centre national de la
recherche scientifique). Spiega la
regista: «Sono sempre stata
attratta dai luoghi e, per questo
documentario, c’era una
domanda in particolare che mi
ponevo: come si può filmare una
città, filmare quello che è
invisibile? Ero tornata a Lecce
dopo anni di assenza, il centro
storico aveva assunto una veste
diversa, turistica, nuova.
Inizialmente mi interessava
soprattutto un’ indagine
etnografica, focalizzarmi sulla
trasformazione, ma pian piano è
arrivata la figura di Mara, perché
in molti mi chiedevano se l’avessi
conosciuta. In effetti, la sua storia
era anche la storia del centro
storico, erano due mondi
inevitabilmente intrecciati. Avevo
un ricordo molto vago di lei,
l’immagine della piazzetta della
Chiesa Greca, le luci molto basse,
A pag 4: Galeano, Tamara Erde, una
scena da «This is my Land». A pag 5
Una scena di «Amara», sotto: Lola e un
ritratto della regista Claudia Mollese
una sagoma che s’intravedeva
oltre la porta. Nel film, Mara è un
paradigma indiziario, le
protagoniste ci dicono di lei, ma
andando avanti diventa una
specie di fantasma».
E con pudore, la Mollese,
ascolta, osserva i suoi personaggi,
i dettagli, i gesti, quelle figure:
«Vanda –prosegue la regista – mi
ha detto sin da subito che non
voleva che le riprendessi il volto,
’riprendi le mani’ mi diceva, ed è
vero che parlavano. Anche con
Lola l’inizio è stato simile: non le
piaceva essere ripresa, poi ha
scelto di entrare da sola
nell’inquadratura, come hanno
fatto anche Principessa e Anna. Si
è venuta a creare una vicinanza
emotiva. A parte loro, ho
incontrato molte altre persone,
che però non volevano
partecipare al film e ho rispettato
la loro scelta, ma anche alcune
cose delle protagoniste ho voluto
tenerle nascoste, credo per un
senso di protezione. La stessa
Anna, ad esempio, nei suoi silenzi
racconta molto di più di quello
che ascoltiamo».
E ancora, ritroviamo Mara che,
in una vecchia intervista
televisiva, prova a definirsi, a
mettere in parole per il pubblico
la sua vita. E lei, parrucca bionda
e pelliccia, appare come oggetto
mai identificato, il cuore di
tenebra che sembra battere
ancora nei vicoli di giorno e di
notte, come in un tempo sospeso.
«Ovviamente c’è un immaginario,
che va da De André a Fassbinder
fino ad Amara terra mia di
Domenico Modugno, per me
importante – commenta la
Mollese – ma il tentativo è stato
soprattutto quello di interrogarmi
sul corpo della città, sui corpi. Del
resto, ancora oggi, se cammini per
le strade del centro storico, tanti
elementi puoi non coglierli
immediatamente ma ci sono, c’è
ancora uno spazio del segreto,
clienti che frequentano prostitute,
trans, travestiti, una macchina del
desiderio percepita ma non
manifesta».
In Amara la regista cerca,
desidera ricordi per arrivare alla
memoria, la sua, quella dei
personaggi, difende la loro
esistenza difficile, dura, come
quella di Lola che dice proprio di
essere diventata «amara», quando
parla di un corpo e un cuore che,
negli anni, hanno perso la loro
metà. E la memoria soffia anche
nei ricami di pietra della Lecce
barocca. «Mi sono chiesta proprio
come rappresentare certe facciate
storiche – aggiunge l’autrice –
certi monumenti che per me
andavano oltre se stessi, che in un
certo senso erano pieghe». E ha
scelto infine uno sguardo altro,
quello di un cineamatore, che è
stato anche fotografo e
proiezionista storico in città,
Pasquale «Lino» Ciccarese,
utilizzando passi in Super 8 di
un suo documentario del 1977,
Lecce barocca. E poi, in
chiusura, l’oggi di una folla del
Venerdì Santo: «Questa gente
che porta sulle sue spalle il
Cristo e la Vergine è un altro
segmento ancora che mi sembrava potesse racchiudere
tutto. Le zone dove Mara viveva e lavorava sono sempre
state prossime a luoghi religiosi, c’è sempre stata una
vicinanza fisica tra questi universi».
Presentato in anteprima
al Festival del cinema europeo
di Lecce «Amara» di Claudia
Mollese è in programma al TGLFF
DOCUMENTARIO  LUOGHI E CORPI RACCONTATI DA CLAUDIA MOLLESE
Sentimenti e cuori
di tenebra, vite
in prestito su tacco 12
(5)
NEL PROFONDO
DEL DELIRIO
Gisèle Preville. In una abitazione
vittoriana è riunito un gruppo di
rappresentanti della buona società,
chiamato a partecipare ai
festeggiamenti per il fidanzamento del
dottor Jekyll con Fanny Osbourne. Ma
l’uomo improvvisamente si dilegua, e
al suo posto il consesso si ritrova alla
presenza del violento Hyde, ben
deciso a insidiare sessualmente i suoi
ospiti. Piuttosto che assumere una
pozione malefica, Jekyll si immerge in
una vasca riempita di sangue,
trasformandosi nel modello di
perversione Hyde, mimesi perfetta di
ferocia erotica da parte di una «nuova
carne»: «Lunga vita alle mie nuove
sensazioni!». La benemerita Arrow
Video presenta in combo import
blu-ray/dvd Strange Case of Dr Jekyll and
Miss Osbourne (Nel profondo del delirio,
1981), la morbosa versione di
Walerian Borowczyk del romanzo
breve di Robert Louis Stevenson: la
ghiotta occasione non si limita al
recupero di un titolo difficile, offrendo
inoltre una copiosa quantità di
materiali extra, tra i quali l’omaggio di
Marina e Alessio Pierro al maestro
erotissimo, Himorogi (2012), e il raro,
curioso Jouet Joyeux, uno short di Boro
del ’79 basato sulla tecnica del
prassinoscopio di Charles-Emile
Reynaud.
India Hair. Aprile 1957: durante la
notte, Albertine, 19 anni, salta giù dal
muro del carcere dove sconta una
condanna, procurandosi
sfortunatamente la rottura dell’osso di
un piede: l’astragalo. Soccorsa da
Julien, altro soggetto noto alla giustizia,
è accompagnata e nascosta da questi
presso un’amica, a Parigi. Mentre
l’uomo prosegue nella sua condotta di
piccolo malvivente di provincia,
Albertine impara a muoversi sulla
scena della capitale, anche se le cose si
rimettono presto male: Julien viene
arrestato e sbattuto in galera. Sola e
con la polizia alle calcagna, la ragazza si
prostituisce per sopravvivere e, tra
molteplici incontri e nascondigli, lotta
audacemente per difendere una fragile
libertà e sopportare l’assenza di Julien.
Apparso questo mese nelle sale
francesi, L’astragale di Brigitte Sy
(attrice per Garrel e regista di Les
mains libres) riprende il romanzo di
Albertine Sarrazin già portato sullo
schermo nel 1968 da Guy Casaril (con
Marlène Jobert) per una dichiarazione
di autonomia romantica - attraverso le
scelte stilistiche della voce off e del
bianco e nero - realizzata nel
purgatorio di delinquenza e
prostituzione, aggiornando l’ideale di
Marcel Carné di Una vie à belles dents.
Produce Paulo Branco.
Roxy Miéville. Dal blog Fear of the
velvet curtain la lista dei 10 (più 1) film
in 3D che hanno spostato l’attuale
tecnologia e «formato» verso direzioni
e soluzioni inaspettate, ritornando alle
origini o infondendo nuova energia al
dispositivo visivo totalizzante, rispetto
all’usurata ripetizione del
«sorprendente» a misura del
blockbuster standard contemporaneo.
I titoli: A Very Harold and Kumar 3D
Christmas, U2 3D, Piranha 3D (il
delirante e mortifero remake di
Alexandre Aja del classico di Joe
Dante), Pina e Monster House, il
mellifluo Vita di Pi e Katy Perry: Part of
Me, insieme alla neo-dimensione
hitchcockiana di The Hole (Dante), al
buco visionario retrò e glitterato del
Grande Gatsby (Baz Luhrmann) e alla
archeologia ipnotica di Cave of
Forgotten Dreams (Herzog). Ma il più
importante è naturalmente
l’undicesimo: Adieu au langage (2014),
l’ennesima prova - se ancora ce ne
fosse bisogno - di come Jean-Luc
Godard possa assumere a sé
l’evoluzione permanente del cinema.
(6)
ALIAS
24 APRILE 2015
BRERA
di PASQUALE COCCIA
Prima del giornalista
sportivo Gianni Brera, ci fu il
Gioann partigiano che armi in
pugno difese la Repubblica
partigiana della Val d’Ossola. Un
aspetto sconosciuto della sua
controversa biografia. Firmò come
direttore la prima copia de
L’Unità delle valli liberate. Il Pci
voleva farne un intellettuale di
sinistra, ma Brera scelse la
Gazzetta dello Sport, che diresse a
30 anni. Ne parliamo con Sergio
Giuntini, autore di Il Partigiano
Gianni (sedizioni, euro 23).
Gianni Brera partigiano, un
passato sconosciuto?
Nella biografia di Gianni Brera,
come ha sostenuto il prof. Franco
Contorbia, studioso del
giornalista, ci sono ancora alcune
zone d’ombra. Una fase
complessa della sua vita va
dall’entrata in guerra dell’Italia
fino alla Liberazione. Si laurea a
Pavia in scienze politiche, fa il
militare come sottufficiale a
Barletta, scrive. Intuisce che un
corpo dove può fare il capo ufficio
stampa, è quello della Folgore
perché in via di organizzazione, a
Tarquinia si sta costituendo la
prima scuola di paracadutisti,
perciò chiede di essere trasferito.
Era interessato al volo, ma aveva
anche paura di lanciarsi con il
paracadute, alla fine la vive come
una di quelle esperienze virili, che
a lui non dispiaceva. A Tarquinia
scrive sul giornale della Folgore,
effettua otto lanci con il
paracadute, e racconta queste sue
esperienze anche attraverso due
articoli sul Popolo d’Italia, il
quotidiano del fascismo.
Dopo Tarquinia?
Dopo l’8 settembre del ’43 anche
Gianni Brera è tra gli sbandati,
comincia il periodo più discutibile
della sua vita. Tornato a Pavia,
sembra che avesse preso qualche
contatto con gli ambienti
antifascisti, ma non vi sono
certezze. I Brera erano antifascisti,
suo padre era stato consigliere
comunale socialista a San Zenone
Po, paese natio di Brera, e non ha
mai preso la tessera fascista.
Insieme al fratello, che rispetto a
Gianni era più vicino alle
posizioni socialiste, visse quel
periodo in maniera confusa, si
rende conto di che cosa era il
fascismo attraverso la Repubblica
di Salò. In quel periodo commette
un errore gravissimo, nel marzo
del ’44 il federale fascista di Pavia
lo convoca e gli propone di
dirigere Il Popolo Repubblicano il
settimanale del fascio
repubblichino di Pavia. Brera è
indeciso, ma alla fine accetta,
perché il federale gli lascia
intendere che il fascismo della
Repubblica di Salò era molto
meno dogmatico e che avrebbe
goduto di una certa libertà nella
direzione, vi avrebbero potuto
Assegnato alla
brigata Garibaldi,
lavorava all’ufficio
stampa del governo
provvisorio con un
ruolo militare
importante
scrivere anche fascisti non
dichiarati. Brera lo dirige per
quattro numeri, dopo si dimette o
è costretto a farlo. L’ipotesi più
plausibile è che la sua direzione,
meno dogmatica e ortodossa, non
fosse piaciuta ai fanatici del
fascismo pavese. Le dimissioni
non interrompono la
collaborazione al settimanale, che
continua ancora per qualche
mese. Dopo questo periodo per
Brera l’aria di Pavia si fa
irrespirabile.
Perché?
Possiamo ipotizzare due motivi: il
primo che avendo diretto quel
settimanale fascista, fosse nel
mirino degli antifascisti, mentre
dall’altra parte i fanatici
repubblichini lo vedevano come
un frondista. Il 16 giugno del ’44
Brera cambia aria e passa
clandestinamente il confine
svizzero, viene assegnato al
campo di internamento di
Balerna, dove c’erano gli esuli
antifascisti. Le condizioni di vita
non erano facili, mangiavano
poco, conobbe diversi antifascisti,
in particolare i comunisti Attilio
Bonacina e Cino Bemporad, i
quali gli fecero capire che per
lavare la macchia di aver diretto
una testata repubblichina, cosa
che nell'Italia successiva alla
Liberazione non sarebbe passata
inosservata, avrebbe dovuto rifarsi
una verginità politica. Penso che
Brera abbia vissuto una crisi
interiore profonda, che si sia reso
conto della gravità della direzione
di quel settimanale fascista
pavese, d’altro canto aveva una
vera malattia dello scrivere, era un
grafomane poliedrico, non lo fece
per soldi o ambizioni personali,
Partigiano Gioann
in Val d’Ossola
nella sua vita non desiderava altro
che scrivere. Bonacina e
Bemporad gli dicono che in Italia
c’è un’esperienza partigiana
importante come la Repubblica
della Val d’Ossola, dove molti
esuli italiani, tra i quali Giancarlo
Pajetta e Umberto Terracini,
rientravano per difenderla dagli
attacchi nazisti.
E Brera che fa?
Accetta la proposta. Arriva a
Domodossola nel settembre del
’44, il mese della Repubblica
dell’Ossola, viene ricevuto
all’albergo Terminus, dove c’era lo
stato maggiore della repubblica
partigiana, e sottoposto a un
interrogatorio-processo da parte
di Cino Moscatelli e Giulio Seniga,
due figure importantissime della
Resistenza. Avevano già acquisito
informazioni, sapevano del suo
passato e della direzione della
rivista fascista, volevano accertarsi
che non fosse un infiltrato, gli
chiedono perché aveva fatto
quella scelta e al termine
dell’interrogatorio Giulio Seniga
garantisce per Brera.
Si conoscevano?
No, probabilmente Seniga aveva
capito che la scelta di Brera era
stata vissuta all’insegna della
confusione, in modo travagliato, e
gli dà la possibilità di riabilitarsi,
in realtà aveva ricevuto buone
referenze da Cino Bemporad, che
era un importante dirigente del
partito comunista di Lugano, città
dove vi era una forte
concentrazione di comunisti
espatriati, e da Attilio Bonacina,
nome di battaglia Catilina. Brera
fu assegnato alla brigata Garibaldi,
quella dei comunisti, 2^ divisione
d’assalto, 83^ brigata Luigi
Comoli, intitolata a un partigiano
fucilato dai fascisti nel ’44 nella
piazza di Forni. Lavora all’ufficio
stampa del governo provvisorio
con il grado di aiutante maggiore,
un ruolo militare importante,
avendo alle spalle un corso di
allievo ufficiale e l’esperienza nei
paracadutisti, aveva un’idea di
tattica e strategia militare.
Tutto così liscio?
No, in realtà il 1 dicembre del ’44
al comandante Iso, Aldo Aniasi,
arriva la lettera di un certo Sandro
Chiodi, ex compagno di università
e tra i paracadutisti di Brera, il
quale informa non solo della
direzione del settimanale
repubblichino di Pavia, ma lo
accusa di essere stato un delatore
grazie al quale sarebbe finito in
carcere, ma sulla delazione non ci
sono prove, infine accusa Brera di
essere un doppiogiochista. Chiodi
chiede ad Iso di poterlo
interrogare o comunque di
espellerlo dalla formazione
partigiana. Aniasi finge di
ascoltarlo mantiene la
corrispondenza con Chiodi, ma
alla fine si assume la
responsabilità e chiude il caso.
La riabilitazione «politica» di
Brera si limita al lavoro
all’ufficio stampa?
Brera non si riteneva un eroe, non
sceglie un nome di battaglia,
continua a chiamarsi Gianni, anzi
Gioann del Po, ha partecipato a
operazioni belliche, è stato ferito
anche al naso, infatti dopo la
Liberazione scrisse il romanzo
Naso Bugiardo. Il 6 aprile del ’45 è
con altri partigiani in una casa a
Valpiana, circondato dai nazisti
riesce a salvarsi dopo uno scontro
a fuoco. I nazifascisti volevano far
saltare le principali centrali
idroelettriche dell’Ossola,
determinando una gravissima
crisi del sistema industriale,
inoltre avrebbero fatto saltare una
parte del traforo del Sempione per
coprirsi la ritirata e interrompere i
collegamenti con la Svizzera. I
partigiani vengono a sapere del
piano e dei grandi quantitativi di
esplosivo fatti affluire a Varzo, in
val d’Ossola. Nella notte tra il 21 e
il 22 aprile del 1945, Brera e altri
partigiani si fanno carico di far
saltare i depositi di esplosivo.
Brera disegna molti schizzi in cui
mostra le azioni da fare, individua
le centrali da salvare, partecipa a
tutta l’operazione di attacco e ad
altre azioni rischiose. Il 23 aprile a
Crodo per controllare una
centralina telefonica, sfugge per
un pelo ai nazisti. Il 24 aprile del
1945, per festeggiare la
Liberazione, insieme al
comandante Catilina, Gianni
Brera firma come direttore
l’edizione straordinaria dell’Unità
delle valli ossolane, scrive
parecchi pezzi, ma non li firma.
Dopo il 25aprile?
Tra il maggio e il giugno del 1945,
gli viene affidata la stesura del
diario storico partigiano della
divisione d’assalto GaribaldiRedi, che va dal marzo del ’44
all’aprile del ’45, un lavoro di circa
150 pagine, che raccoglie i diari
delle varie organizzazioni
partigiane sui quali scrivevano le
azioni che avevano fatto, le
perdite avute, le zone conquistate.
Al suo fianco «vigila» il
commissario politico Bellelli,
nome di battaglia Modena. Brera
ALIAS
24 APRILE 2015
Sergio Giuntini
racconta la storia
del direttore della
«Gazzetta dello
Sport» che chiuse
con la politica
dopo il 25 aprile
«abatino», per il suo modo di
giocare incarnava la società
industriale. Brera amava molto
Gigi Riva, quando si frattura la
gamba lo paragona a Ettore, l’eroe
dell’Iliade, amava la scuola
calcistica italiana improntata alla
difesa legata alle zolle, diceva che
«l’italianuzzo» doveva difendersi
più che attaccare. Perché detestava
Sacchi? Era l’incarnazione di un
calcio ricco, potente, aggressivo,
industriale. Brera è sempre stato
coerente con le sue idee.
rimette insieme tutto il materiale
e mese per mese traccia i bilanci
operativi, il diario esce anonimo
ma la scrittura è sua.
Che cosa scrive Brera nel
diario partigiano?
Usa spesso metafore sportive,
sostiene che la lotta partigiana
deve caratterizzarsi con azioni di
guerriglia, non con lo scontro
aperto frontale, perché non vi
sono mezzi, usa l’espressione
«fugone» partigiano, un termine
che userà spesso nei suoi articoli
sul calcio. Emerge forte la
polemica politica con le divisioni
partigiane cattoliche, che Brera
chiama «l’opera Pia», e
monarchiche definite
semicollaborazioniste. L’impronta
politica di questi diari è fortissima,
emerge un Brera laico, ateo e
liberale.
Dopo la Liberazione cosa gli
resta della lotta partigiana?
Alcuni anni dopo la Liberazione
Gianni Brera voleva scrivere un
libro sulla sua esperienza in Val
d’Ossola, il titolo era In Svizzera
senza le scarpe. Una storia
partigiana. Scrive solo alcuni
capitoli, vi sono contenute
interessanti descrizioni di
comandanti partigiani, Cino
Moscatelli è chiamato il ciclista,
ma non è chiaro il motivo.
Nell’immaginario partigiano Cino
Moscatelli viene associato a
un’automobile rossa, che in realtà
non è mai esistita, si spostava in
auto, ma non era rossa, visto che
Brera lo chiama il ciclista non è
escluso che Moscatelli si
muovesse anche in bicicletta.
L’esperienza partigiana è rimasta
per sempre nella sua vita, è stato
un periodo formativo
fondamentale. Come non rinnega
il periodo da paracadutista nella
Folgore, altrettanto fa con
l’esperienza partigiana, non ama
vantarsene, ma gli è rimasta
dentro. Dopo la Liberazione, il Pci
vuole affidargli la direzione di un
quotidiano comunista di Novara,
ma Gianni Brera non accetta,
anche perché
contemporaneamente gli arriva la
proposta di Bruno Roghi di
lavorare alla Gazzetta dello Sport,
lui voleva scrivere di sport e con la
fine della Resistenza considera
chiusa la sua esperienza politica.
Brera arriva alla Resistenza
faticosamente, l’ha considerata
una parentesi della sua vita, un
modo per riabilitarsi e mettersi in
pace con la coscienza, ma il Brera
partigiano non dimentica e lo si
capisce nel 1954.
Nel 1954?
Giulio Seniga è in rotta con il Pci,
perché lo considera un partito
revisionista, che non fa mai la
rivoluzione annunciata. Seniga
era responsabile del servizio
d’ordine del Pci e braccio destro
di Pietro Secchia, il vicesegretario
del Pci. Il partito gli aveva fatto
prendere il patentino di pilota,
perché in caso di colpo di stato in
Italia, Seniga aveva il compito di
portare Palmiro Togliatti in
Albania, in Austria o in
Cecoslovacchia. Il Pci aveva
acquistato un aereo cecoslovacco,
il Sokol, che era costantemente
parcheggiato all’aeroporto di
Centocelle. Nel 1954 Seniga
entra in rotta di collisione con il
Pci togliattiano, ha un colpo di
testa, ruba una parte della cassa
del Pci, e dei documenti molto
importanti, sperando che Pietro
Secchia lo segua ed entri in
rotta con Togliatti, ma Secchia
lo sconfessa, è il 25 luglio del
1954. Seniga vorrebbe scappare
in Svizzera, raggiunge Milano, la
mattina del 26 luglio telefona a
Brera, che allora era direttore
della Gazzetta dello Sport, e in
nome di un passato in cui
Seniga si era fatto garante di
Brera presso Moscatelli in Val
d’Ossola, chiede di tenerlo
nascosto in casa per qualche
giorno, cosa che avviene. Brera
non stava aiutando un
rinnegato, un traditore, ma il
partigiano «Nino» che aveva
fatto la Resistenza con lui.
Seniga e Brera erano due figure
simili, che hanno buttato a
mare una quantità di occasioni,
il primo si bruciò
definitivamente la carriera
politica, Brera si dimise da
direttore della Gazzetta a 35
anni, quando era in carriera,
cambiò diversi giornali, passò al
Giorno dove ritrovò Pietrino
Bianchi un suo amico
partigiano, che aveva fatto la
Resistenza nell’Oltrepò pavese.
L’ultimo Brera che strizza
l’occhio alla Lega?
È un’altra parentesi della sua vita
controversa. Personalmente non
credo che fosse un leghista ante
litteram, aveva delle concezioni
antropologiche molto discutibili,
sosteneva che l’umanità si
dividesse in razze. I leghisti erano
troppo rozzi per Brera, era un
intellettuale, non ha mai avuto
abboccamenti con la Lega, è stato
manipolato, lo hanno considerato
un padre nobile, un loro
precursore. Brera più volte su
Repubblica ha voluto distinguere
nettamente le sue posizioni
padane dal leghismo. Però anche
questa è una delle zone d’ombra
della biografia di Brera.
Ci giocava o era convinto?
Era convinto, certo non si era reso
conto che queste sue teorie per
certi versi erano un po’ pericolose,
che potevano essere facilmente
strumentalizzabili, sotto il profilo
scientifico insostenibili, non
voglio dire che fosse fermo a
Lombroso, ma non era andato
molto oltre. Per lui c’era il nord, il
sud era un’altra cosa. Era una
personalità originale, non era
facile andare d’accordo con lui,
alla Gazzetta fece a cazzotti con
Gino Palumbo, memorabili i suoi
scontri con Antonio Ghirelli.
È stato un uomo fuori dal suo
tempo?
Era un uomo lontano dalla civiltà
industriale urbana, molto legato a
un’idea di società rurale, per lui la
vita era quella della Bassa padana,
era legato alla vita contadina, gli
piaceva andare a caccia, il cibo
molto grasso, mangiare e bere
molto, fare le ore piccole, uno che
ha consumato la sua vita. È morto
come avrebbe voluto, dopo una
sera trascorsa con gli amici a
mangiare e bere, raccontare
storie, fumare.
Scrivere di sport lo ha spinto a
viversi la società industriale?
Era un aspetto complementare
del suo lato contadino, a lui
piacevano i calciatori rudi, quelli
che avevano poca tecnica, ma
menavano. Rivera è definito
Ha pagato per questo?
Si dimise da direttore della
Gazzetta, se non lo avesse fatto
forse gli avrebbero affidato la
direzione di un grande
quotidiano, anche se lui era un
disordinato, non era un grande
organizzatore, però sarebbe stato
in grado di dirigerlo, gli uomini li
sapeva scegliere bene. Nella vita
ha sempre avuto un grande
rammarico, emergere come
scrittore, ma non aveva il tempo,
era schiavo della sua Olivetti,
doveva produrre una gran
quantità di articoli, perché era
uno spendaccione, offriva lui
quando si ritrovava tra amici a
bere e mangiare.
Non è diventato un grande
scrittore perché in Italia un
giornalista sportivo è sempre
considerato uno scrittore di serie B?
Un po’sì. Tutti i lunedì, anche gli
intellettuali più snob andavano a
leggere che cosa scriveva Brera,
magari non leggevano tutto, solo
le prime venti-trenta righe,
davano un’occhiata al linguaggio,
a che cosa si inventava. Umberto
Eco in modo sprezzante definì
Brera il Gadda dei poveri, invece
Pasolini e Mario Soldati lo
amavano molto.
Brera mancato scrittore non
pubblica con una casa editrice
di prestigio perché dopo la
Liberazione non si schiera con il
Pci?
Penso di sì. Se lui avesse
continuato la sua «militanza»
con la stesura del diario
partigiano e avesse scritto un
romanzo partigiano, sarebbe
stato incoraggiato a
proseguire e avrebbe trovato
anche un importante editore
che glielo avrebbe pubblicato.
C’era allora un’editoria a
sinistra molto forte. Il Pci
aveva manifestato interesse
per lui, voleva farne un
proprio intellettuale, gli
voleva affidare la direzione di
un giornale politico, gli
riconosceva delle qualità, ma
fu Brera a rifiutare.
(7)
A pag 6 la copertina del libro di Giuntini,
un ritratto di Gianni Brera, sotto:
partigiani di Val d’Ossola. A pag 7 Brera
con Gianni Mura e Gianni Brera
cacciatore
MONUMENTO
AL DITO MEDIO
Sbucati in piazza Affari, provenendo da
via Torino, ci si trova di fronte
all’ingombro possente della Borsa. Ciò
che cattura l’attenzione, nonostante la
presenza della scultura di Maurizio
Cattelan che troneggia nel mezzo, è
l’accozzaglia di auto in sosta che
l’assediano e che sfregiano l’insieme. Il
monumento al dito medio, alto una
dozzina di metri e in marmo bianco,
quasi si mescola col candore del
fondale in blocchi di travertino del
palazzo della Borsa. Specie nelle
giornate uggiose, e non sono poche, la
monocromaticità l’appiattisce su
quello sfondo. In molti arrivano a
Milano, anche dal resto d’Europa,
apposta ad ammirare il dito di
Cattelan. Peccato che l’ammirazione
venga presto smorzata dall’incuria
nei confronti di una piazza
trasfigurata in garage. In seguito
all’insediamento nel 2010 dell’ormai
famoso monumento, il contesto pare
abbia acquisito una dimensione
aggregativa; più spesso, è divenuto
luogo di installazioni (la prua di una
nave, per significare l’ingresso in
Borsa di Fincantieri) che lo ravvivano
e lo fanno rientrare nei circuiti
turistici della città. Ma si può
immaginare piazza Affari ravvivata
turisticamente?
Prima della collocazione del dito,
la piazza era anonima, uniforme,
deturpata (come ora) dalle auto
lasciate alla rinfusa. Dinanzi a quella
situazione, nessuno veniva sfiorato
dall’idea di andare a visitarla.
Attraversandola, si camminava di
fretta, senza soffermarsi a osservare
alcunché. Men che mai, coloro che
quotidianamente vi si recano per
lavoro, avevano motivo a scrutare
quell’impianto regolare, squadrato
dai geometrici palazzoni d’epoca. Il
luogo, riservato e isolato nella sua
monumentalità, nel cuore di Milano, è
una tipica piazza del Novecento.
L’edificio più noto che la cinge, palazzo
Mezzanotte (dal nome del progettista)
sede della Borsa fin dai primi anni ’30,
è un esempio di architettura del
classicismo novecentista. Le auto che
nei decenni l’hanno profanata sono
sagome fisse, immobili. Vi arrivano o
ripartono senza fragori: manca il flusso
continuo del traffico, come invece nel
vicino e convulso snodo di Cordusio.
Uno scenario inespressivo e muto,
fuori dal tempo, quello di piazza Affari.
Illusorio. Con persone e cose,
ancorché presenti, in apparenza
assenti. Ogni volta che ci andavamo, di
proposito, si percepiva un’atmosfera di
straniamento aleggiare sul vuoto-pieno
(di auto) della piazza.
Un contrasto netto con l’interno del
palazzo della Borsa italiana, nel quale,
fino agli anni ’90, le contrattazioni
azionarie «a chiamata», da parte degli
operatori, subissavano la grande sala
delle «grida». Il mercato borsistico
gridato, con l’enorme quadro
luminoso che riportava le quotazioni
dei titoli, non esiste più e, nella
memoria, resta il fascino delle cose
andate. Anche nell’ambiente esterno macchine o non macchine - spira
un’altra aria. Quel senso di
sbalordimento, che ci accoglieva nella
solenne e metafisica piazza Affari, lascia
spazio alla spudoratezza che quel dito
vigoroso spiattella alla faccia(ta) della
Borsa.
(8)
ALIAS
24 APRILE 2015
SAGGIO  NORBERTO BOBBIO E CLAUDIO PAVONE
Le illustrazioni delle
pagine sono tratte
da «Festa d’aprile»
storie partigiane
scritte e disegnate
a cura
di Leo Magliacano
e Tiziano Riverso
(Tempesta editore)
con i contributi
di Airaghi, Allegra,
Bertolotti, Biani,
Borrelli, Burato,
Kappa, Carioli,
Ciarallo, Cozzi,
Cracolici, Darix,
Kurt, Fontana,
Forelli, Garonzi,
Gubitosa, Jannil,
Lo Bocchiaro,
Magliacano, Magnani,
Gun Moretti, Negri,
Pagliaro, Passamani,
Pozzi Riverso,
Romaniello, Stefanon,
Stivali, Tussi,
Vachino, Valle,
Vernazza
Guerra civile,
una difficile
lettura storica
di ALESSANDRO BARILE
e SAMIR HASSAN
Gli anniversari e le
celebrazioni di eventi storici,
come sappiamo, favoriscono una
certa produzione memorialistica
di varia qualità. Non poteva
sottrarsi a questa dinamica il
settantesimo della Liberazione,
evento che ha stimolato le più
diverse celebrazioni, soprattutto
in campo bibliografico. Una vera e
propria superfetazione editoriale
ha inondato librerie ed edicole.
Romanzi e saggi hanno cercato di
riproporre l’attualità di una
vicenda che, dopo tanti decenni, è
sempre più svincolata dal
racconto politico del nostro paese
e delle nostre «origini»,
relegata ad una
memorialistica
imbalsamante
più che
ad
Le illustrazioni delle pagine sono
tratte da «Festa d’aprile» a cura
di Leo Magliacano e Tiziano Riverso
(Tempesta editore) storie partigiane
scritte e disegnate, ispirate anche
a piccole storie di famiglia,
testimonianze da non dimenticare
una difesa delle ragioni ideali, e
attualissime, che produssero quel
processo politico. Tra la varia
pubblicistica apparsa in questi
mesi, un testo si distingue tra gli
altri, capace di presentare un
discorso storico decisamente più
alto dei tempi che corriamo. Sulla
guerra civile (Bollati Boringhieri,
177 pp, 15 euro) è un antologia a
due voci, quelle di Norberto
Bobbio e Claudio Pavone. Una
raccolta di testi già pubblicati, e
che però oggi hanno ancora la
forza di rappresentare una visione
illuminata e contraria a una certa
pacificazione storiografica e
politica sul discorso resistenziale.
Un testo, avremmo detto un
tempo, necessario. Come
sappiamo i due autori, in
particolare Pavone, sono
conosciuti in campo storiografico
per aver affermato e provato la
natura civile della guerra di
Resistenza sviluppatasi in Italia tra
il 1943 e il 1945. Un discorso forte,
che ruppe una certa tradizione
politico-culturale affermatasi circa
negli anni sessanta e promossa in
primo luogo proprio dal Pci, e
che ancora fatica a divenire
senso comune, nonostante la
più che dimostrata tesi che
lo scontro prodotto nella
Resistenza fu soprattutto tra
italiani, e non (solo) tra questi
e l’invasore tedesco-nazista.
Un’ovvietà che per ragioni
politiche tutt’ora viene
negata, almeno a livello
culturale mainstream.
Siamo di fronte ad un
paradosso della ricerca
storica. Sebbene la
storiografia legata al Pci
sia stata quella che più
ha indagato le vicende
della Resistenza, dato il
carattere «fondante» che
l’episodio riveste nella
costruzione politico-immaginaria
del «partito nuovo» togliattiano,
proprio questa ha contribuito a
una certa «monumentalizzazione»
il 2
5
Emerge dalle pagine
del libro di Bobbio
e Pavone che la guerra
civile italiana sia stata
un movimento storico
di emancipazione sociale
della guerra
partigiana, impedendo alla
ricerca di sviscerare quei
tratti storicamente meno
spendibili in termini di
legittimazione politica. Non
è un caso che la guerra civile
sia un discorso prodotto da
uno storico non legato al
Pci come Pavone, e
portato avanti da altri,
come lo stesso Bobbio,
appartenenti a tutt’altra
formazione politica. Il fatto è che
il carattere civile della guerra
partigiana era ampiamente fatto
proprio dai combattenti e dai
dirigenti politici durante la
Resistenza. È solo dopo che tale
segno viene negato. In particolare,
è la convergenza di due interessi
politici. Da un lato la Democrazia
Cristiana non volle appaltare
unicamente alle forze comuniste il
ricordo politico di quell’evento,
spingendo alla costruzione di una
«memoria condivisa» volta a
individuare nella Resistenza
soprattutto un moto popolare
contro lo straniero. L’altro
interesse convergente è quello
appunto del Partito comunista,
volto a legittimarsi politicamente
come partito della difesa
dell’ordine costituzionale
sfruttando l’esempio della
Resistenza, momento in cui
invece di «lottare per il potere»
contribuì alla liberazione di tutti
gli italiani. Più interessante è
capire se il discorso sulla guerra
civile sia ancora utile per
comprendere la vicenda storica
nel suo complesso. Come
sappiamo, l’espressione «guerra
civile» è una sintesi di un
ragionamento più complessivo.
Per Pavone infatti durante la
Resistenza si combatterono tre
guerre: una guerra di liberazione
nazionale contro lo straniero
invasore, una guerra civile tra
fascisti e antifascisti, una guerra di
emancipazione sociale, o di
classe, tra lavoratori e padroni.
Tali caratteri, nei combattenti, a
volte si sommavano a vicenda, a
volte erano esclusivi. La sintesi,
determinata anche da ragioni
editoriali, fu intitolare il saggio di
Pavone Una guerra civile,
contribuendo così alla fortuna
della sua tesi schiacciando però
tutto il discorso sul carattere
civile, appunto. Anche per
Pavone, in ogni caso, il dato dello
scontro civile tra italiani costituiva
il carattere dominante del
conflitto.
Trent’anni dopo è però
possibile problematizzare alcune
parti di questo ragionamento. In
realtà, come peraltro affermano lo
stesso Pavone e Bobbio, la guerra
civile italiana si inserisce in una
più generale guerra civile europea
iniziata nel
1914 e
terminata con i trattati di pace del
1945. La risposta reazionaria di
massa rappresentata dal fascismo
e dal nazismo altro non era che
l’estremo tentativo di contenere la
partecipazione delle masse
diseredate alla politica. Masse
popolari per la prima volta
affacciatesi nel cielo della politica
con l’obiettivo di
un’emancipazione sociale non più
rimandabile. È la questione
dell’emancipazione sociale, allora,
che si impose sulla scena europea
per un trentennio, e le
articolazioni che questa prese nei
diversi contesti nazionali
produssero anche lo scontro civile
che si materializzò durante la
Seconda guerra mondiale. I
tentativi rivoluzionari in
Germania, in Ungheria, in
Cecoslovacchia, così come la
guerra civile spagnola, il biennio
rosso in Italia, il Fronte Popolare
in Francia, non fecero altro che
spostare l’asse della politica a
sinistra producendo un
cedimento dei sistemi politici
liberali tradizionali. Un rischio
sociale e politico che contribuì a
generare quel terreno culturale su
cui fecero leva i diversi regimi
reazionari. Fascismo e nazismo
altro non sarebbero che il
tentativo di contenere questo
protagonismo popolare
ingabbiandolo in una costruzione
nazionale autoritaria. Ci sembra
dunque che il caso particolare
della guerra civile italiana sia da
legare ad un contesto e ad un
clima politico generale che ne
determinò le circostanze. Non
una semplice guerra civile allora,
ma un movimento storico di
emancipazione sociale che trovò
nei vari contesti le sue ricadute
politiche. Discorso che emerge
con forza dalle pagine di questo
libro, che potrebbe assumere
oggi il valore di punto fermo nella
ricerca storiografica,
quantomeno sul terreno della
divulgazione scientifica capace di
rompere il muro
dell’accademismo. Un’opera,
questa, destinata a superare la
sua origine commemorativa.
Augurandoci che l’esempio di
questi due intellettuali venga
raccolto da una nuova
generazione di storici capaci di
indagare quegli angoli ancora
poco illuminati che ancora
compongono il grande quadro
della Resistenza al nazi-fascismo.
ALIAS
24 APRILE 2015
ap
rile
194
5
(9)
(10)
ALIAS
24 APRILE 2015
FAR EAST
Fino al 2 maggio
Udine si trasforma
nella città
più asiatica
del pianeta con
il suo tradizionale
festival dedicato
all’estremo
oriente.
Jackie Chan dalla Cina
con Dragon Blade
di MATTEO BOSCAROL
TOKIO
Sembra ieri quando ci
recammo alle prime edizioni del
Far East di Udine, edizioni
ruspanti ma sempre molto vive ed
eccitanti, eppure le candeline
sulla torta per la manifestazione
festivaliera sono diciasette. Un'età
alla soglia della maturità ma che
porta ancora con sè la voglia di
ribellione e la libertà creativa della
gioventù, un periodo, anche per
un festival, che non è ancora età
matura ma che non ha neanche
più la fragilità e l'inesperienza
degli inizi. Al di fuori di metafora,
ancora una volta il capoluogo
friulano sarà per alcuni giorni la
cittadina occidentale più asiatica
del pianeta, ospitando un evento
cinematografico che molti
appassionati di tutto il mondo ci
invidiano, un ineguagliabile
showcase di cinematografie pop e
di genere provenienti da tutto il
continente asiatico che gli
organizzatori assieme a tutti i
consulenti sparsi per l'estremo
oriente hanno saputo in costruire,
far evolvere e consolidare in quasi
due decenni di attività. Venti anni
che hanno visto gli equilibri
geopolitici ed economici del
mondo intero e quindi anche
dell'Asia stessa venir stravolti e
riplasmarsi in forme diverse, con
la creazione di nuove ed
inevitabili fratture sociali e faglie
politiche, con il cinema e più che
mai quello popolare e di largo
consumo che funziona come
spesso accade in questi casi, come
sonda privilegiata, almeno per lo
spettatore più attento, per captare
nuovi possibili scenari e linee di
fuga con cui allo stesso tempo
mappare il presente e cercarvi
delle vie d'uscita. Anche per
questa edizione come sempre più
spesso è accaduto recentemente,
il panorama è allargato, più ampio
di quello degli inizi e non può
essere altrimenti in una
contemporaneità tecnologica a
cui tutti i paesi cercano
avidamente di partecipare. Si
vedranno infatti al Far East
numero diciasette lavori da ben
11 realtà produttive differenti,
Hong Kong, Cina, Taiwan,
Giappone, Corea del Sud,
Thailandia, Vietnam, Indonesia,
Filippine, Singapore e la
debuttante Cambogia.
Naturalmente quantitativamente
faranno la parte del leone i paesi
con una tradizione
cinematografica più forte, ma a
maggior ragione opere
mainstream da paesi quali
Cambogia, Vietnam o Indonesia
saranno altrettanto, se non di più,
interessanti. Il festival è stato
ufficialmente aperto ieri
dall'attesissimo concerto di Joe
Hisaishi, il maestro giapponese
compositore delle musiche di
molti film di Takeshi Kitano e
Miyazaki ha infatti diretto la RTV
Slovenia Symphony Orchestra in
un concerto i cui biglietti sono
stati venduti, sorprendentemente,
in meno di 24 ore. Ma ancora
oggi, venerdì 24, sul tappeto rosso
del festival sfilerà nientemeno che
Jackie Chan, a Udine per
presentare al pubblico il kolossal
Nella foto grande «Dragon Blade» di Daniel Lee, nelle altre due immagini Sakura
Ando in «100 Yen Love» di Masaharu Take
Dragon Blade di Daniel Lee, una
mega produzione cinese che nel
cast oltre al famoso attore asiatico
vede anche Adrien Brody e John
Cusack. Tutta da gustare è
naturalmente la presenza sud
coreana al festival, una
cinematografia definitivamente
esplosa e non solo a livello di art
house film ma che ha saputo
portare qualità anche nel cinema
cosiddetto popolare e che il Far
East ha visto, e forse anche
contribuito, a portare dove si
trova oggi. Una delle opere più
attese della manifestazione è
senza dubbio The Continent,
anteprima internazionale e opera
prima di Han Han, uno dei
blogger cinesi più popolari in
patria dove gode di un seguito
oceanico, 450 milioni di accessi
all’anno e circa 15.000 commenti
giornalieri. Han Han, definito uno
dei personaggi più influenti
dell’intera Cina, con la sua attività
in rete e quella letteraria indaga e
ed esplora le vite e le
problematiche dell’attuale
generazione dei trentenni cinesi e
di un paese più che mai in flusso,
tematiche che ha provato a
trasporre in immagini con questo
suo debutto cinematografico. The
Continent è stato definito come
«un insolito road movie» che
descrive «lo svuotamento delle
campagne e l’urbanizzazione
sfrenata delle metropoli, il
benessere come detonatore di
contraddizioni sociali e la
corruzione degli apparati statali»,
insomma gli argomenti che lo
rendono un lavoro tutto da
scoprire ci sono tutti. Sul versante
giapponese, le opere interessanti
sono più d'una, Il documentario
dedicato allo Studio Ghibli, per la
verità al solo Miyazaki, The
Kingdom of Dreams and Madness,
ma anche il dittico Parasyte 1 e 2,
opere ispirate al manga omonimo
e dirette da Takashi Yamazaki, il
re mida del cinema giapponese i
cui film negli ultimi anni sono
stati spesso campioni d’incassi nel
Sol Levante. Parasyte è un SF
horror con lampi di comicità di
buonissima fattura, almeno per
quel che riguarda il primo
episodio che abbiamo avuto
modo di vedere qui in Giappone
nel 2014, con effetti speciali
all’altezza, curati dallo stesso
Yamazaki, e con delle prove
attoriali convincenti, soprattutto
quella del protagonista Shota
Sometani, ancora una volta molto
bravo nell’interpretare Shinichi, il
ragazzo che si ritrova
improvvisamente catapultato in
un mondo orrorifico con un
parassita/mostro al posto della
mano destra e costretto a salvare
l’umanità da un’invasione aliena.
Sometani che ricordiamo è stato
lanciato proprio in Italia quando
nel 2011 vinse il premio
Mastroianni a Venezia per la sua
interpretazione in Himizu di Sion
Sono e che sempre di più sta
diventando l’attore giapponese
più richiesto, nonostante ciò il
giovane resta ancora molto legato
ale sue «origini» indie ed
underground, lo vedremo ad
esempio nell’ultimo lavoro di Ishii
Gakuryu (ex Sogo), That’s It che
uscirà nelle sale giapponesi in
maggio. In questo senso la sua
carriera sembra ricalcare in parte,
con tutte le differenze del caso,
quella di Asano Tadanobu, volto
della nuova onda del cinema
giapponese degli anni novanta e
che ha una parte importante,
quella del malvagio di turno,
proprio nel secondo capitolo di
Parasyte. Restando sempre in
Giappone ma spostandoci da un
campione d’incassi ad una
produzione indipendente e da un
attore emergente/emerso ad una
attrice di grande spessore che si
sta dimostrando sempre più
talentuosa, al Far East sarà
presentato 100 Yen Love, film
diretto da Masaharu Take ed
interpretato da Sakura Ando.
L’attrice giapponese, anche lei
lanciata da Sion Sono in quel
capolavoro che è Love Exposure,
interpreta qui una ragazza di 32
anni che vive ancora con i
genitori, una nullafacente che
passa le sue giornate a giocare ai
videogiochi e a dormire. Dopo un
violento litigio con la sorella,
ritornata a casa con il figlio dopo
un matrimonio fallito, Ichika,
questo il suo nome, decide di
andare a vivere da sola e di
trovarsi un lavoro. Comincia così
a fare il turno notturno in un 100
Yen Shop dove viene a contatto
con una serie di persone fallite e
stralunate come lei. Passando
ogni giorno accanto ad una
piccola palestra dove si insegna
pugilato, la ragazza si sente
attratta da un uomo che lì si
allena prima e dallo sport in
particolare poi. Tutto il film, che
ricordiamo è per produzione e per
stile visivo un lavoro indipendente
girato con pochi mezzi economici,
si regge sull'incredibile
performance d'attrice che Ando
riesce a donare all'opera, 100 Yen
Love è un film che può piacere o
non piacere, alcune scene in
particolare hanno sollevato più di
qualche critica per la loro gratuità
ed un velato maschilismo, ma non
si può non rimaner affascinati
dalla trasformazione fisica che la
performance dell’attrice
nipponica porta con sè. Sakura
Ando nel corso delle quasi due ore
del film infatti muta letteralmente
e fisicamente in un altro
personaggio/persona da quello da
cui era partita ed è proprio questa
trasformazione a sostenere i 30-40
minuti battenti finali del film,
un'accelerazione filmica ed una
cavalcata adrenalinica sostenuta
ed amplificata anche grazie alla
rabbiosa musica dei CreeoHyp.
Importante e quasi storica è la
partecipazione al Far East poi di
un film cambogiano, The Last
Reel, la prima volta di un’opera
del paese asiatico a Udine, che
inevitabilmente, seppur in una
trama incentrata sulla bobina
mancante di un vecchio film,
finisce con il confrontarsi con il
tragico passato, purtroppo sempre
molto presente, della dittatura dei
Khmer rossi. Film che cerca
quindi anche di far rinascere
attraverso aiuti produttivi
australiani, una filmografia, quella
cambogiana, che fra il 1965 ed il
1975 riuscì a sfornare bel 300
pellicole. Dieci giorni di Asia e
cinema a Udine, dieci giorni in cui
il Far East coinvolgerà la cittadina
friulana e tutti gli appassionati che
vi si riverseranno dalla mattina a
notte fonda, con la settima arte
naturalmente ma anche con una
serie di attività collaterali quali
workshop, incontri ed una serie
praticamnete illimitata di eventi a
tema asiatico. Che la festa abbia
inizio.
ALIAS
24 APRILE 2015
SINTONIE
LO STRANO CASO DEL CANE
UCCISO A MEZZANOTTE
DI MARIANNE ELLIOTT, CON LUKE
TREADAWAY, MATTHEW BARKER, GRAN
BRETAGNA 2015
0
Tratto dall'omonimo romanzo
di Mark Haddon questa pièce
teatrale racconta la storia di
Christopher, ragazzo affetto dal
morbo di Asperger che gli permette
di essere un genio della logica e della
matematica ma totalmente incapace
di provare simpatia per le relazioni
umane. Un giorno decide di indagare
sull'uccisione del cane della vicina,
finirà invece per cercare di risolvere il
mistero della morte della madre.
non giungerà mai a destinazione.
Dignitoso film d’azione claustrofobico.
Il sottomarino è un autentico reperto
sovietico ancorato nel Kent,
l’equipaggio è una sorta di sporca
dozzina aldrichiana e internazionalista
dotati di motivazioni credibili, Jude
Law si produce in una prestazione
inconsueta che mette in luce un
talento articolato. (g.a.n.).
CITIZENFOUR
DI LAURA POITRAS, CON EDWARD SNOWDEN,
GLENN GREENWALD. USA 2014
1
Torna nelle sale il capolavoro
Sci-fi di Ridley Scott,
nell'ultima versione
rimasterizzata. Il poliziotto Deckard
viene richiamato in servizio nell'unità
Blade Runner per scovare degli
androidi del tutto uguali agli umani ed
eliminarli da strade affollate e piovose
di una città immersa in un futuro non
troppo lontano.
Oscar come migliore
documentario dell’anno,
primo film su Snowden
realizzato dalla prima persona che ha
contattato quando ha deciso di
rendere pubblici i documenti sulla
sorveglianza segreta Nsa. Ambientato
tra il gennaio 2013 e il luglio scorso in
occasione dell’incontro con il
giornalista inglese Glenn Greenwald.
Girato nel mood freddo, preciso della
spy story con intrigo internazionale,
una costruzione studiatissima,
ambizioni, ritmi e texture diverse dal
documentario inchiesta. E si chiude
con un messagggio chiaro: Snowden
non è (più) solo. (g.d.v.)
CAKE
FAST &FURIOUS 7
DI DANIEL BARNZ, CON JENNIFER ANISTON,
ANNA KENDRICK, STATI UNITI 2015
DI JAMES WAN, CON VAN DIESEL, PAUL
WALKER. USA 2015
BLADE RUNNER
DI RIDLEY SCOTT, CON HARRISON FORD,
RUTGER HAUER, USA 1982
0
0
Claire Simmons ha sofferenze
fisiche e morali e la sua
antipatia la fa allontanare da
tutti compreso il marito. Solamente la
sua badante rimane al suo fianco. Un
giorno quando una ragazza che fa
parte del suo gruppo di supporto
muore suicida, Claire inizia infine a
porsi domanda sulla vita e sulla
morte.
FORZA MAGGIORE
DI RUBEN OSTLUND, CON JOHANNES BAH
KUHNKE, LISA LOVEN KONSLI, SVEZIA 2015
0
Come comportarsi quando
una calamità naturale si
abbatte sulla propria famiglia?
Secondo Tomas, di fronte ad una
valanga in montagna si deve fuggire!
Una scelta che manderà in crisi il suo
matrimonio e lo porterà a cercare
risposte e riscatto per il coraggio
mancato.
FUORI DAL CORO
DI SERGIO MISURACA, CON IVAN FRANEK,
AURORA QUATTROCCHI, ITALIA 2015
0
La vita di Dario, un giovane
palermitano che è solito
passare le giornate insieme
all'amico Nicola a fumare spinelli,
cambia quando un giorno è fermato
dai carabinieri e dovrà recapitare un
misterioso pacco a Roma per conto
del «professore».
AVENGERS - AGE OF
ULTRON
DI JOSS WHEDON, CONROBERT DOWNEY JR,
SCARLET JOHANSSON. USA 2015
1
Una sitcom da alcune centinaia
di milioni di dollari. Whedon,
amante dei Monthy Pyton è il
candidato ideale per trasformare in
blockbuster il complesso intrico di
storie, mitologie e personaggi che sta
dietro all’idea stessa degli Avengers
supereroi che si riuniscono per
salvare il mondo. In questo capitolo 2
la trama ruota attorno a Ultron
intelligenza artificiale dotata di
autocoscienza che individua l’uomo
come nemico della terra e decide di
eliminarlo. GLI Avengers devono
fermarlo. (g.d.v.)
BLACK SEA
DI KEVIN MACDONALD, CON JUDE LAW,
TOBIAS MENZIES. GB 2014
6
Prima che Hitler infrangesse il
patto di non aggressione con
Stalin questi invia un
sommergibile carico d’oro che però
1
Settimo episodio della serie
sulle corse e battaglie
automobilistiche iniziata nel
2001 da Rob Cohen. Dopo aver
ucciso Owen Shaw nel sesto film,
Dom, Brian e la loro squadra sono in
grado di tornare negli Usa. Ma il
fratello maggiore di Owen, Ian Shaw
(Jason Statham) cerca vendetta per la
morte di suo fratello. L’effetto extra è
dato dalla morte effettiva di Paul
Walker schiantatosi a bordo della sua
Porsche a 150 all’ora. (g.d.v.)
THE FIGHTERS
DI THOMAS CALLEY, CON KEVIN ANAIZ,
ANTOINE LAURENT. FRANCIA 2014
7
Esordio sorprendente da
Cannes 2014. Inizia come un
teen ager film, quindi spiazza le
aspettative di chi guarda. Arnaud e
Madeleine si incontrano, ma il loro
rapporto non dovrà essere soltanto
sessuale. Armand lascia il lavoro con il
fratello per seguire Madeleine in un
addestramento militare per quindici
giorni e qui i due combattenti (Les
combattents è il titolo originale)
troveranno nell’amore la logica della
sopravvivenza. La domanda che pone
Calley è: cosa significa essere ragazzi
oggi. Nella trama scorre un
sentimento doloroso che illumna le
immagini.(c.pi.)
IL FIGLIO DI HAMAS
DI NADAV SCHIRMAN, CON MOSAD HASSAN
YOUSSEF. GERMANIA ISRAELE, USA GB 2015
4
Una storia «vera» che lascia
nello spettatore più dubbi di
quanti non risolva. Mosab,
palestinese figlio di un dirigente di
Hamas, si converte alla causa dei
«buoni» contro gli attacchi suicidi. A
guidarlo è un agente israeliano.
L’approccio del regista banalizza
terribilmente tutte le questioni e solo
a metà film lo spettatore si rende
conto che coloro che parlano in
macchina non corrispondono ai corpi
che si vedono nei filmati d’archivio.
Ma l’aspetto più problematico è che si
presenta come un apologo
dell’amicizia in grado di scavalcare fedi
e ideologie, un conflitto ridotto a
romanzo d’appendice. (g.a.n.)
HUMANDROID
DI NEILL BLOMKAMP, CON SHARITO COPLEY,
DEV PATEL. USA MESSICO 2015
6
Chappie è il robot poliziotto
frutto dell’immaginazione di
Blomkamp. Alla sua stranezza
A CURA DI
SILVANA SILVESTRI
CON ANTONELLO CATACCHIO,
GIULIA D’AGNOLO VALLAN,
MARCO GIUSTI,
GIONA A. NAZZARO, CRISTINA
PICCINO
IL FESTIVAL
TORINO GAY&LESBIAN FILM FESTIVAL
contribuisce la presenza di Ninja
Yo-landi Visser il duo hip hop
sudafricano Die Antwoord, una
coppia di piccoli criminali. Poliziotti
robot vegliano sulla città. L’ingegnere
che li ha disegnati è al lavoro su un
modello più evoluto che li fa simile
agli esseri umani. I due criminali
rubano un prototipo difettoso e lo
educano al crimine. Un’implausibile
miscela di sentimentalismo e
iperviolenza, una parabola per
bambini che però non possono
andare a vederla. (g.d.v.)
TORINO, MULTISALA MASSIMO 29 APRILE - 4 MAGGIO
RIVA
INQUIETANTE
MIA MADRE
DI NANNI MORETTI, CON NANNI MORETTI,
GIULIA LAZZARINI, MARGHERITA BUY, JOHN
TURTURRO. ITALIA 2015
7
Un film stranissimo, spiazzante
nel movimento emozionale,
sbilenco nella grana
dell’immagine volutamente opaca
(Arnaldo Catinari) e nel montaggio.
Proprio in questo spaesamento
accade la rottura degli schemi
morettiani. Il riferimento è alla madre
del regista, Agata Apicella
indimenticata professoressa di latino
al liceo Visconti di Roma, morta
durante il montaggio di Habemus
Papam. La protagonista Margherita
Buy è una regista spigolosa e severa.
Somiglia a Moretti ma non è lui.
Moretti è il fratello Giovanni, il suo
opposto, quasi un’altra parte di sé, si
mette accanto alla sorella quasi a
guardare da fuori sé stesso, né
demiurgo né io narrante. (c.pi.)
SARÀ IL MIO TIPO?
DI LUCAS BELVAUX, CON ÉMILIE DEQUENNE,
LOÏC CORBERY, FRANCIA BELGIO 2014
7
Un regista belga mette in
scena un duello amoroso tra
un giovane professore di
filosofia parigino mandato a insegnare
in provincia e una parrucchiera che
conosce gli uomini, ma non gli
intellettuali. Lui ama più le frasi dei
libri che la vita, conosce più gli autori
che i sentimenti, lei si difende bene.
Nel film scorre parallelo e sommerso
un dialogo con il pubblico spinto a
scegliere tra riferimenti colti e love
story. Strepitosa Émilie Dequenne, la
Rosetta dei Dardenne, Loic Corbery
è un affermato regista e attore
teatrale (il Cid, Shakespeare...). (s.s.)
SHORT SKIN - I DOLORI DEL
GIOVANE EDO
DI DUCCIO CHIARINI, CON MATTEO CREATINI,
FRANCESCO AGOSTINI. ITALIA IRAN GB 2014
7
Esordio sviluppato all’interno
di Biennale College. È quasi
sempre la ragazza che con le
amiche parla della «prima volta»,
questa volta è un ragazzo che parla,
punto di vista che Chiarini non lascia
mai. Il romanzo di formazione di Edo
è narrato dall’interno contro il luogo
comune svelando fragilità e incertezze
maschili. Scrittura tesa, mai superflua,
pur con un materiale letterario di
ogni tempo, l’adolescenza, altamnente
incandescente. (c.pi.)
WHITE GOD - SINFONIA PER
HAGEN
DI KORNELI MUNDRUCZO, CON ZSÓFIA
PSOTTA, SANDOR ZSOTER. UNGHERIA
GERMANIA 2014
7
Lili ha un solo amico, il suo
cane Hagen, ma una legge
impone l’eliminazione dei cani
non di razza, così il labrador
abbandonato dal padre sulla
circonvallazione andrà incontro a una
serie di esperienze violentissime,
allenato per combattere prima di
finire in un canile e architettare una
fuga di massa culminante in una serie
di atroci vendette. Lo stile folgorante
di Mundruczo fa attraversare le
immagini dallo stato delle cose in
un’Europa attanagliata dalla paura e
dalla crisi non solo economica.
(11)
RIVA (RESTART THE GAME)
Francia, 2015, 4’27”, musica: Klingande feat Broken
Back, regia: Johan Rosell & Michael Johansson,
fonte: MTV
7
Una comunità di uomini e
donne, ragazzi e ragazze, isolata
nella neve e soprattutto dalla
civiltà. Siamo dalle parti degli hamish,
insomma, anche se qui non sono
abbigliati in abiti ottocenteschi bensì
piuttosto vagamente «congelati» all’era
beat. Ma quando i giovani cominciano a
subire il richiamo del progresso
(simboleggiato prima da una vecchia
radio poi da una wolkswagen, con cui
invano sogna di fuggire una adolescente)
hanno inizio i guai. Inquietante questo
Riva – tratto dall’album omonimo –
basato su colori spenti e sostenuto da
una narrazione piena di allusioni (giocata
solo sugli sguardi dei personaggi) che
sfociano in un finale scioccante,
malgrado la hit del duo elettronico
francese, formato da Cédric Steinmyller
e Edgar Catry, sia briosa e ballabile.
VOID
Germania, 2015, 3’50”, musica: Fritz Kalkbrenner,
regia: autore ignoto, fonte: MTV
6
Fratello del più affermato Paul,
Fritz Kalkbrenner è anche il
protagonista del video del suo
brano Void. Ambientato in un paesaggio
innevato di montagna, il clip alterna le
immagini di un maestoso rapace con
quelle del musicista mentre si prepara la
colazione del mattino nella sua baita, fino
a che i due esseri non si congiungono.
Nel finale, attraverso la soggettiva in
bianco e nero del falco, sorvoleremo
Parigi. Clip soprattutto intriso di
suggestioni, ma senza un’idea forte, Void
punta tutto sulla somiglianza tra uomo e
uccello, accomunati dallo stesso spirito
solitario. Anche un altro lavoro di
Kalkbrenner, Back Home (tratto sempre
dallo stesso album, Ways Over Water)
è basato sostanzialmente sul paesaggio,
forse ancor più suggestivo di quello
presente in Void.
THE WORLD IS NOT ENOUGH
Usa, 1999, 4’, musica: Garbage, regia: Philipp Stölzl,
fonte: Youtube
8
Leit-motiv del diciannovesimo
episodio della saga di 007, il
video di Stölzl evita di essere un
banale clip-trailer (frutto di una
mescolanza tra il performer che canta e
alcuni spezzoni del film). Nel video,
ambientato a Chicago nel 1964, la
vocalist Shirley Manson, si sdoppia in
due: è una replicante costruita in
laboratorio, dal bacio mortale e con una
bomba a orologeria incorporata, che si
sostituisce alla cantante esibendosi al
posto suo in teatro. Terminato il brano,
la sosia inesorabilmente esplode. Il
raffinato video, splendidamente girato
dal regista monacense (autore anche del
lungometraggio Baby nel 2002), allude
alle atmosfere hi-tech tipiche dei film di
James Bond, ma la memoria va
naturalmente anche a Blade Runner. Da
notare che in quello stesso anno Björk
viene «robotizzata» nel video di
Cunningham All Is Full of Love. Molto
brava Shirley Manson, sensuale e
magnetica, nell’affrontare il personaggio
di una donna tanto «fatale».
MAGICO
Trentesima edizione del TGLFF diretto da Giovanni Minerba con 115titoli di
cui 9 anteprime mondiali, che concorrono per i premi «Ottavio Mai» per il
miglior lungometraggio, premio Queer e miglior cortometraggio più due premi
assegnati dal pubblico. Un festival per tutti, con film dalle tematiche più varie,
dai grandi temi etici, sociali e civili all’analisi dei rapporti familiari e individuali.
L’iniziativa «Cinema con Bebé» la mattina di domenica 3 maggio propone il film
d’animazione di Rob Minkoff Mr. Peabody & Sherman. In occasione di Torino
2015 capitale europea dello sport il festival pone un’attenzione particolare
anche a questo tema (tra i film anche Fuori di Chiara Tarfano e Ilaria Luperini
che ha come protagonista Nicole Bonamino, giocatrice di hockey che ha fatto
coming out a Sochi. Tra i film fuori concorso e in anteprima internazionale da
segnalare Boulevard di Dito Montiel, un regista lanciato dalla Settimana della
critica, uno degli ultimi interpretati da Robin Williams. Madrina della
manifestazione sarà Carolina Crescentini, la serata inaugurale avrà come ospite
Irene Grandi e la proiezione di 54: The director’s Cut di Mark Christopher alla
presenza del regista. Nella serata di chiusura ospite d’onore sarà Zibba,
interessante realtà della scena musicale italiana e a seguire la proiezione di Six
Dance Lessons in Six Weeks di Arthur Allan Seidelman (Ungheria 2014) con il
ritorno sullo schermo dell’ottantacinquenne Gena Rowlands. info: www.tglff.it
IL LIBRO
STUDIO GHIBLI
DI ENRICO AZZANO E ANDREA FONTANA, ED.
BIETTI, COLLANA HETEROTOPIA, 20 EURO
Dopo «Satoshi Kon, il cinema attraverso
lo specchio» (Bietti), sul più famoso dei
registi giapponesi di animazione della
nuova generazione, firmato da Azzano
Fontana e Tarò, esce il libro sul celebre
«Studio Ghibli» (con prefazione di Jurij
Norštejn), da cui sono usciti capolavori
come Il mio vicino Totoro, La città incantata,
La storia della principessa splendente:
«Studio Ghibli è sinonimo di eccellenza
tecnica, un’idea di cinema incantata e
meravigliosa, grazie alle sue narrazioni
struggenti realizzate con cura maniacale e attenzione a colore, linea, dettagli, che
uniscono arte e botteghino, ideale e concretezza, scrittura e immagine». Il volume
ripercorre l’intera evoluzione dello Studio, dai film dei fondatori Hayao Miyazaki e
Isao Takahata ai loro eredi, parallelamente alla storia del Giappone dal 1985 a oggi,
con i contributi critici d i alcuni dei più importanti fumettisti, artisti e studiosi di
cinema italiani. Enrico Azzano cofondatore e direttore editoriale di Quinlan.it, ha
curato tra l’altro i volumi e le rassegne Nihon Eiga. Storia del Cinema Giapponese,
Andrea Fontana è autore e curatore di diversi volumi dedicati al mondo del cinema,
animato e non (Robert Zemeckis, Ridley Scott, M. Night Shyamalan).
IL SEMINARIO
RINALDO CENSI
BOLOGNA SPAZIO MENOMALE, VIA DE’
PEPOLI 1/A, 8-9-10 MAGGIO
Nomadica, circuito autonomo per il
cinema di ricerca presenta «Rinaldo
Censi (Fuori) programma», terzo
appuntamento con l'Atelier per le arti
e il cinema di ricerca, ciclo di seminari
e incontri coi protagonisti della
settima arte promosso a Bologna. L'8,
9 e 10 maggio Rinaldo Censi, scrittore
e storico del cinema, condurrà il
seminario Fuori programma - film
storie del cinema proiezioni montaggi:
un viaggio nella storia - o meglio nelle
storie - del cinema, di cui Censi è profondo e raffinato conoscitore, finalizzato
all'acquisizione di competenze nell'ambito della programmazione
cinematografica di festival, rassegne e retrospettive, ovvero: «ogni
programmazione è una presa di posizione teorica e un atto artistico». Dopo i
primi due appuntamenti -con Enrico Ghezzi e Franco Piavoli- dedicati al
pensiero del e sul cinema, e Rinaldo Censi, gli incontri dell’Atelier di Nomadica
riprendono dopo l’estate con Franco Maresco, Boris Lehman, Antonio Rezza e
Flavia Mastrella, Artur Aristakisjan, Michelangelo Frammartino, Saul Saguatti e
altri. Costo: 80 euro; studenti 60 euro. [email protected]
I POETI
POETITALY
ROMA, TEATRO PALLADIUM, 28 APRILE ORE 18
E 20.30
Terzo appuntamento al Palladium con
Poetitaly che si apre al confronto tra
le arti con «Interazioni» di poesia,
musica, performance, videoarte,
rassegna curata da Simone Carella in
collaborazione con Andrea
Cortellessa, Gilda Policastro e Lidia
Riviello. In programma le esibizioni
poetico-musicali di Gabriele Frasca e
ResiDante, Tommaso Ottonieri con
Gabriele Coen, Gilda Policastro con
Massimiliano Sacchi, Acchiappashpirt
(Jonida Prifti con Stefano Di Trapani), e le performance di Laura Wihlborg,
Weronika Lewandowska e Sergio Garau, artisti che nella loro pratica hanno
esplorato instancabilmente le varie possibilità della parola e del suo stare in
scena, facendo della contaminazione tra le arti la base teorica del proprio
lavoro creativo. . Alle 18 la serata sarà preceduta da una presentazione di
Gabriele Frasca, «La letteratura nel reticolo mediale. La lettera che muore»
coordinata da Andrea Cortellessa con Alberto Abruzzese, Corrado Bologna,
Luca Sossella e da un omaggio alla poetessa Patrizia Vicinelli. Realizzati in
collaborazione con l’Università di Roma Tre, tutti gli eventi sono ad ingresso
gratuito e fruibili anche in streaming sul sito www.poetitaly.it
(12)
ALIAS
24 APRILE 2015
STORIE  TANTE LE RAGIONI, GRUPPI AI FERRI CORTI, PRODUZIONI SBALLATE, CRITICHE FEROCI
Il fascino della vergogna. Band e artisti
che hanno rinnegato canzoni e album
di GUIDO MARIANI
RADIOHEAD
Nel 1929 lo scrittore russo Nikolaj Gogol pubblicò su una rivista un poema in versi con uno pseudonimo.
L’opera fu accolta malissimo e lo scrittore si decise a comprare tutte le copie esistenti della pubblicazione e le
bruciò, cancellando dalla storia il suo infortunio letterario. Gli artisti non di rado hanno un atteggiamento
molto ambiguo nei confronti della propria creazione, spesso col senno di poi un’opera viene ripensata e
rinnegata. Questo è successo nel mondo della letteratura, dell’arte e ovviamente anche nell’universo del pop
e del rock. Rifiutare una propria canzone o un intero album o un periodo della propria carriera è assai più
frequente di quanto si pensi. Nel mondo delle canzoni c’è chi ha visto un suo lavoro come non all’altezza, c’è
chi è rimasto scottato da recensioni negative, c’è chi è si è sentito frainteso o c’è chi semplicemente si è
sentito oppresso da una canzone di troppo successo che ha finito per mettere in ombra il resto della sua
carriera. C’è poi il dramma dell’artista, sempre ad inseguire una perfezione che non riesce a trovare. Come
cantavano Simon & Garfunkel in Homeward Bound: «Stanotte canterò di nuovo le mie canzoni e giocherò il gioco,
fingendo. Ma tutte le mie parole ritornano indietro in ombre di mediocrità come se fossero vuote di armonia».
DAVE MATTHEWS BAND
THE LA’S
La loro storia rappresenta sicuramente uno dei casi più curiosi di artisti
che hanno odiato così tanto la propria musica da boicottarla (ne
abbiamo parlato anche in Alias del 28/9/2013). La band di Liverpool
alla fine degli anni Ottanta arrivò a incidere un album dopo un singolo
molto ben accolto come There She Goes. Il lavoro in studio fu lungo ed
estenuante, si alternarono diversi produttori tra cui il celebrato Steve
Lillywhite. Ma quando l’album, intitolato come il nome del gruppo,
finalmente fu pronto nell’ottobre del 1990, i membri della band erano
già ai ferri corti. Il cantante Lee Mavers dichiarò senza mezzi termini di
odiare il disco, di considerarlo «una merda», «un serpente a cui è stato
spezzato il collo» e di non riconoscere le scelte prese dai produttori.
Con queste premesse, la band arrivò all’esordio senza un futuro e sparì
dalle scene l’anno dopo. Mavers scomparve letteralmente dalla
circolazione per anni. L’album oggi è universalmente (e giustamente)
giudicato uno dei classici del brit pop. I membri della band si sono
riformati per suonare live nei festival riproponendo il repertorio che
tanto avevano rinnegato.
«Fuck Off! Ci siamo stancati di
quella canzone!» così un
giorno Thom Yorke rispose
dal palco al pubblico che
chiedeva a gran voce la loro prima hit, Creep. Il brano
pubblicato come singolo nel 1993 mise i Radiohead sulla
mappa del rock, ma per tanti motivi la band non ha mai
amato la canzone. Innanzitutto il pezzo, scritto da Yorke
quando era ancora studente, era, in parte, un plagio volontario
della canzone The Air that I Breathe degli Hollies. Si mossero
gli avvocati, ma il tutto fu risolto amichevolmente (Albert
Hammond e Mike Hazlewood degli Hollies vennero accreditati
come autori). Il chitarrista Jonny Greenwood ha dichiarato di
non averla mai apprezzata neppure quando la incideva e il riff
di chitarra secco e duro era un suo modo per sabotarla sin
dalle prime registrazioni. L’intera band si stufò presto tanto da
ribattezzarla «Crap» (schifezza) e cancellarla per diversi anni
dalle scalette dei concerti.
«Sono solo canzoni che ispirano
pietà per il triste bastardo che le
ha scritte». Una recensione
spietata e crudele che proviene
dall’autore stesso dei brani, Dave
Matthews. Oggetto di tanto
disprezzo è il repertorio che
l’artista incise nel 1999 e nel 2000
con la sua band in uno studio
casalingo in Virginia agli ordini
del produttore Steve Lillywhite
(un nome ricorrente nelle opere
rinnegate...). La Dave Matthews
Band ai tempi era al culmine della
popolarità. Tre album alle spalle,
più di quindici milioni di dischi
venduti, stabilmente in testa alle
classifiche per numeri di biglietti venduti ai concerti negli Stati Uniti.
Ma il successo aveva i suoi lati oscuri. Matthews era schiavo della
bottiglia e quello che doveva essere il quarto album del gruppo era la
storia della sua depressione da alcolista. Dopo mesi di prove, sbronze e
registrazioni decise così, con l’accordo dei musicisti del suo gruppo di
abbandonare tutto il lavoro, metterlo da parte e rimandare l’uscita di un
nuovo disco. Era troppo tardi: qualcuno (lo stesso Lillywhite?) aveva
diffuso su internet il materiale registrato (ancora grezzo, ma
perfettamente fruibile) che divenne un enorme successo clandestino
con il titolo The Lillywhite Session. I fan lo adorarono, Matthews e la
band furono molto delusi, Lillywhite disse sibillino di essere
«tremendamente orgoglioso del lavoro svolto». La band pubblicò l’anno
dopo l’album Everyday accolto con freddezza dai fan. Le canzoni di The
Lillywhite Session vennero ristampate in parte nell’album ufficiale
Busted Stuff del 2002. Per molti The Lillywhite Session è stato l’ultimo
grande album della band. Lo stesso Matthews anni dopo ha
riconosciuto: «È stato frustrante, ma quel che è accaduto è accaduto.
Non so chi lo diffuse, non mi interessa più, ma ci sono forse alcune
delle migliori canzoni che abbia scritto».
WEEZER
Può capitare di produrre un
album che si ritiene così
imbarazzante da provare
costante vergogna per averlo
inciso? È accaduto per molti
anni a Rivers Cuomo cantante e
leader degli Weezer. L’oggetto
del suo rimorso è stato
Pinkerton, secondo lavoro
della band datato 1996. Dopo il
grandissimo successo
dell’esordio, il quartetto
americano era atteso a una
grande conferma. Appena
pubblicato, il disco deluse
tutti, il pubblico non lo
comprò. I critici lo
stroncarono. Lo stesso Cuomo
si convinse di aver sbagliato tutto. «Un disco orribile - disse in un’intervista del 2001 -. Un errore
così doloroso commesso davanti a centinaia di migliaia di persone che continua a perpetrarsi
sempre di più. Sembra che non vada mai via. È come ubriacarsi a una festa, vomitare l’anima
davanti a tutti credendo di aver fatto qualcosa di catartico e grandioso e poi svegliarsi la mattina
dopo scoprendo che figura da idioti si è fatto davanti a tutti!». L’album fu anche al centro di una
causa da parte dell’agenzia investigativa Pinkerton anche se il titolo si ispirava al personaggio di
Madama Butterfly. Ma questa storia ha un lieto fine a sorpresa. Il disco nel corso degli anni è stato
al centro di una clamorosa rivalutazione, diventando album di culto. Ha venduto più di un milione
di copie, i critici hanno fatto pubblica ammenda e l’opera è finita in molte classifiche come uno
degli album più importanti del decennio. Si è guadagnato una versione deluxe nel 2010. Dopo tanti
anni, lo stesso Cuomo ha fatto finalmente pace con se stesso: «È stato un disco così personale ed è
stato fonte di tanto dolore per me nel corso degli anni».
THE BEASTIE BOYS
«Un brano che non ha mai
rispecchiato i nostri valori». Il trio
rap di Brooklyn ha sempre
considerato uno dei loro primi e
più grandi successi Fight for Your
Right (to Party) una barzelletta
finita male. Nata come parodia
degli inni rock, divenne un
onnipresente tormentone votato al
disimpegno più cafone. Adam
Horovitz, Michael Diamond e
Adam Yauch non volevano certo
prendersi troppo sul serio, ma
l’assenza di ironia con cui il brano
era stato adottato in tutti i party
più selvaggi d’America li convinse,
come scrissero sulle note di un
loro greatest hits, che il pezzo fosse
uno «schifo». Il singolo proiettò
l’album Licensed to Ill al primo
posto della classifica e a vendite
milionarie nel 1986. Per evitare di
essere per sempre la band di Fight
For Your Right i tre cercarono di
reinventare la propria immagine
e la propria carriera pubblicando
tre anni dopo l’album Paul’s
Boutique, disco sperimentale e
innovativo che fu accolto male
dal mercato, ma che dimostrava
che i ragazzi bestiali in realtà
facevano sul serio.
ALIAS
24 APRILE 2015
Spesso i pezzi diseredati sono
anche quelli più apprezzati
dal pubblico. Ecco le riabilitazioni
o i «serpenti da schiacciare»
BOB DYLAN
XTC
Spesso il rifiuto degli artisti per la propria opera scaturisce da rapporti
di lavoro a dir poco non sereni. È quello che accadde nel 1986 al leader
degli inglesi Xtc, l’imperscrutabile Andy Partridge, in occasione della
registrazione di un album oggi considerato un classico, Skylarking. Il
disco venne inciso a New York con un produttore vulcanico e sopra le
righe come Todd Rundgren. I rapporti in studio degenerarono presto e
Partridge ha sempre associato quel disco all’odio che provò a lavorare
con Rundgren. «Era maledettamente sarcastico - ha ricordato il leader
della band inglese -, una cosa rara per un americano. Ma lui riusciva ad
essere davvero crudele. Dopo aver inciso una parte cantata, lui mi
diceva: ‘Fa davvero schifo. Se vuoi la incido io e tu puoi sentire come si
deve cantare’. Era così offensivo». Fu una guerra. Partridge finirà per
disprezzare il prodotto di quella sgradevole collaborazione. Così
ricorderà la vicenda il chitarrista del gruppo Dave Gregory: «Le cose
andavano di male in peggio. Andy continuava a dire che odiava il disco
e quando tornammo a casa era depresso. Nonostante tutto per me
Skylarking rimane il miglior album degli Xtc».
(13)
BLACK SABBATH
Non solo musica. Nel 1983 i Black
Sabbath rimasti ormai orfani di
Ozzy Osbourne e poi di Ronnie
James Dio decisero di reclutare
come cantante Ian Gillan che pare
avesse accettato di cantare con
loro in preda ai fumi dell’alcol. La
collaborazione tra l’ex Deep
Purple e la band di Tony Iommi
produsse l’album Born Again,
disco che lasciò il segno soprattutto per una
copertina che è stata definita una delle
peggiori della storia del rock. La grafica,
firmata dal grafico Steve «Krusher» Joule,
ritraeva un orripilante feto demoniaco e fu
odiata da tutti. L’unico che l’aveva approvata
era stato Iommi. Ma non aveva avvertito
nessuno. Gillan la vide a disco stampato e
dichiarò di averci vomitato sopra. Il batterista
Bill Ward la disprezzò sin dall’inizio. Il
manager della band Don Arden, ai tempi ai
ferri corti con Osbourne, litigò con l’ex leader
della band dicendogli che i suoi figli
sembravano la copertina di Born Again. Un
piccolo capolavoro di pessimo gusto.
Spesso gli artisti hanno ottimi
motivi per rinnegare i lavori che
portano la loro firma. Uno dei
casi più rappresentativi è quello
capitato al menestrello di
Duluth. Nel 1973 Dylan decide di
lasciare la storica etichetta
Columbia Records che lo aveva
lanciato e con cui collaborava dal
1961. Approdò in una nuova casa
discografica fondata da David
Geffen, la Asylum Records. La
sua vecchia scuderia decise di
vendicarsi, raccogliendo del
materiale su cui aveva
mantenuto i diritti e dando alle
stampe alcune registrazioni
raffazzonate di brani scartati
dalle session degli album Self
Portrait e New Morning. Il disco
fu intitolato dapprima Dylan e
successivamente A Fool Such as I
e fu messo in diretta concorrenza
con il vero nuovo lavoro di
Dylan, Planet Waves. Dylan non
gradì l’operazione e disconobbe l’album, neppure il pubblico
apprezzò. Ma la tattica aggressiva della Columbia pagò. Dylan ritornò
poco dopo nei ranghi della casa discografica e produsse uno dei suoi
dischi più belli Blood on the Tracks. A Fool Such as I scomparve anche
dalle ristampe.
NIRVANA
Kurt Cobain ha vissuto la sua
brevissima parabola artistica
tormentato da demoni interiori
che lo portarono nell’abisso.
Parte di questa sofferenza era
dovuta anche al rapporto che
ebbe con la celebrità, con i suoi
fan e con la sua stessa opera.
Nevermind era il disco che lo
aveva reso un divo e un simbolo
generazionale, ma che il rocker
spesso vedeva anche come la
fonte della sua inquietudine.
Dichiarò di odiare il disco, di non
ascoltarlo mai e che gli appariva
troppo «elegante nei suoni».
L’esercito di nuovi fan che il
disco gli aveva procurato venne
una volta bollato come «un
gruppo di stupidi, idioti
‘rednecks’ che credevamo di
esserci lasciati alle spalle». Smells
like Teen Spirit divenne spesso il parafulmine della sua angoscia. Un
brano che aveva scritto cercando di suonare Debaser dei Pixies e che
si era trasformato in un inno epocale. «Sono quasi imbarazzato a
suonarla», «ci sono sere in cui non riesco neppure a sopportarla»
dichiarò in diverse interviste. Forse era un modo solo per difendersi e
ritrovare quella pace che la fama gli aveva tolto.
TORI AMOS
BAD RELIGION
Sono i paladini del punk
americano da più di trent’anni,
ma nel 1983 sembravano già al
capolinea. Dopo l’esordio al
fulmicotone di How Could Hell Be
Any Worse? i Bad Religion, ancora
alle prime armi, erano indecisi su
come proseguire la carriera. Il
cantante Greg Graffin assunse il
comando e spinse per realizzare
un disco che si allontanava dal
punk virando verso sonorità
progressive ed elettroniche. Ne
nacque un lavoro ambizioso e mal
riuscito da tutti i punti di vista
intitolato Into the Unknown.
Stampato in diecimila copie,
rimase invenduto. Fu così mal
accolto che la band si sciolse.
Dopo pochi mesi tutti si resero
conto di aver fatto un colossale
errore e decisero di rimettersi
insieme. Da allora non hanno più
sgarrato e non hanno mai
abbandonato la strada maestra
del punk. Il disco non esiste in cd,
ed è diventato un oggetto di culto
per collezionisti e oggi ricordato
dai membri della band come un
divertente passo falso giovanile
che ormai ricordano con
indulgenza. Nell’ottobre del 2010
per la prima volta nella loro
carriera la band ha suonato dal
vivo una canzone di quella
raccolta rinnegata.
Dagli annali della musica è stata cancellata la memoria di una synthpop band degli
anni Ottanta, gli Y Kant Tori Read. Questa rimozione è dovuta in gran parte al
desiderio della leader di quella formazione, Tori Amos, di cancellare quella fase acerba
della propria carriera. La cantautrice rock esordì infatti come aspirante diva pop dance
con questo gruppo di cui faceva parte anche Matt Sorum (poi approdato ai Guns N'
Roses). Le premesse sembravano esserci e, a parte il nome incomprensibile, la band
pareva avere le carte in regola per sfondare. Tori era una rossa sexy e di talento,
l’etichetta era la potente Atlantic, le canzoni erano facili, vivaci e accattivanti. Ma la
Amos litigò subito con il resto del gruppo e il primo album omonimo, datato 1988,
dopo due singoli di scarso successo fu dimenticato. La Amos ripartì da zero. Due anni
dopo il suo lavoro solista Little Earthquakes diventava un successo internazionale.
Tori chiese alla Atlantic di far svanire anche il ricordo del suo tentativo di essere la
nuova Madonna e le canzoni degli Y Kant Tori Read sono scomparse dagli archivi.
(14)
ALIAS
24 APRILE 2015
RITMI
LOU REED SHOCK
di FRANCESCO ADINOLFI
In occasione della recente ammissione
di Lou Reed alla Rock’n’Roll Hall of
Fame, la sorella Merrill Reed Weiner
(psicoterapeuta dell’infanzia, in foto
con Lou) ha voluto chiarire alcuni
punti oscuri della vicenda personale
del fratello. Il trasferimento dalla
vivace Brooklyn a Freeport (paesino
sulla costa sud di Long Island) incupirà
il carattere di Lou acuendo attacchi di
panico e angosce esistenziali. Alle
medie Lou racconta di subire
angherie; si saprà che era spesso
provocatorio con i compagni. Al liceo
avvia band musicali e sperimenta con
le droghe. A 16 anni è sempre solo,
chiuso in stanza, a volte rannicchiato
sotto la scrivania. Litiga sovente con i
INTERVISTA  LA CANTANTE TEDESCO-NIGERIANA
Nneka, l’arte
possibile
della resistenza
«My Fairy Tales»,
nuovo disco, è un mix
di soul, pop e hip hop.
«Racconto cosa significa
vivere a Warri,
la città del petrolio,
e in un paese dilaniato
da Boko Haram
e tensioni etniche»
di SIMONA FRASCA
Nneka è una giovane cantante di origine
nigeriana e una parte dell’interesse che
desta la sua musica nel mondo europeo
deriva oltre che dalle doti musicali
maturate nell’ambito dell’hip hop e del
soul anche dalle sue radici etniche. 34
anni di padre nigeriano e madre tedesca
Nneka Egbuna, questo il suo nome per
intero, è nata e ha vissuto fino a 18 anni
a Warri, una delle principali città
portuali situata sul delta del fiume Niger
in una delle maggiori aree petrolifere
della Nigeria meridionale. I contrasti
etnici acuiti se non alimentati dalla
presenza di interessi economici delle
multinazionali del petrolio sono stati i
temi ricorrenti negli anni della sua
formazione come cittadina nigeriana,
musicista e studentessa di antropologia.
In Nigeria la povertà alimenta
l’ignoranza e la violenza, gli attacchi del
gruppo terrorista islamico Boko Haram
diffondono odio e paura dal nord del
paese su tutto il territorio ricorrendo
forse al cannibalismo ma sicuramente a
pratiche di persuasione di una ferocia
sconcertante. Se Boko Haram significa
«l’educazione occidentale è bandita» si
spiega probabilmente così anche la
difficoltà della famiglia
tedesco-nigeriana di Nneka di restare a
Warri in pianta stabile nel momento in
cui la disgregazione del paese sembrava
un fenomeno sempre più evidente.
Abbiamo contattato la cantante nei
giorni scorsi in occasione della
pubblicazione del suo ultimo album My
Fairy Tales (Bushqueen/
Kartel/Audioglobe) cogliendo
l’occasione di scambiare con lei anche
qualche opinione sull’attuale situazione
nel suo paese. «I continui attacchi in
Nigeria - ci dice raggiunta nella sua
abitazione in Germania - non fanno altro
che mettere in evidenza che il problema
va affrontato solo se cominciamo a porci
la domanda come nazione, evitando di
dare ai nostri leader tutta la
responsabilità della gestione di questa
situazione. Sono sempre più convinta
che se la smettiamo di guardarci come
appartenenti a tribù differenti, se
superiamo questa concezione identitaria
etnica potremo costruire uno spazio
unitario, condiviso, una nazione vera e
propria».
La «madre migliore» è la traduzione
del suo nome in lingua igbo e secondo
alcuni studiosi certi aspetti caratteristici
del blues sono da rintracciarsi proprio in
questa parte dell’Africa occidentale,
presso questo gruppo etnico tra i più
numerosi del continente. Tutto questo
suona quasi come una predestinazione
per Nneka che dopo il trasferimento ad
Amburgo ha continuato i suoi studi
musicali e antropologici facendo della
prima la sua attività professionale. La
La cantante tedesco-nigeriana Nneka
in due scatti di Hugues Lawson
sua anima musicale e culturale è divisa
tra Germania e Nigeria, una condizione
che in sé offre grandi combinazioni da
un punto di vista creativo. «Gli aspetti
sincretici tra la cultura dell’Europa e
quella dell’Africa occidentale - continua
Nneka - sono ovviamente infiniti,
soprattutto se parliamo della religione
occidentale, quella cristiano-cattolica e
le tradizioni africane. Questioni che
risalgono all’epoca dei missionari e delle
colonie, il cristianesimo è mescolato alle
credenze africane tradizionali ed è
praticato proprio come il Candomblè in
Brasile o la Santeria a Cuba. Per quello
che riguarda la mia personale posizione
io credo in un solo dio, un dio che si
manifesta in differenti forme di vita,
organismi e individui, nonostante la
nostra percezione come esseri umani».
Per Nneka il successo giunge nel 2008
con il brano Heartbeat che raccoglie 10
milioni di visualizzazioni su youtube. Il
singolo appare nella top 20 britannica ed
è campionato dalla cantante inglese di
origine kosovare Rita Ora nel singolo
R.I.P. «Dall’uscita di Heartbeat molto è
cambiato nella mia vita, in termini di
impegni professionali, amicizie e
collaborazioni. Ma forse la cosa più
importante è stato il modo in cui ho
cominciato a vedermi come artista. Sono
diventata più consapevole e attenta, si è
attivata in me la capacità di affrontare le
cose in maniera più personale e di
genitori che non gradiscono che si
esibisca a Manhattan. A casa non si
sapeva come gestirlo e tutto veniva
tenuto sotto silenzio. «Al tempo non
esistevano terapie familiari, i genitori
erano sempre colpevolizzati e le
anomalie caratteriali sovente trattate
con l’elettroshock che fu consigliato ai
miei genitori da medici incauti e
superficiali; si è spesso detto che fu
per ’guarire’ l’omosessualità che Lou
impegnarmi di più nella direzione che
mi interessa. Non c’è nessun modo per
far funzionare le cose se prima non
cominciamo noi stessi a farle
funzionare».
La musica per Nneka ritorna a
svolgere una funzione quasi civile,
sicuramente sociale e aggregativa. Il
cuore dei suoi brani ha una motivazione
legittima perché diffonde la voce di una
collettività che soffre e ha voglia di
reagire e la musica fornisce
un’indicazione importante in questo
senso. «My Fairy Tales offre un
approccio più groovie delle mie canzoni
precedenti, secondo alcuni è un album
più pop ma io non sono d’accordo. Non
ci vedo un approccio commerciale, anzi
è un disco che va dritto al cuore e che
proviene da lì, direi di facile ascolto
questo sì ma dalle radici profonde, molto
più consapevole del passato».
La consapevolezza della storia del
proprio popolo ma anche di se stessa è
una delle cifre dell’album e la questione
biografica, sociale e politica affrontata in
molti testi è la riprova di questo. Local
Champion è una dedica a Warri, la città
natale, Babylon racconta la propria idea
dell’Africa, un racconto interiore lontano
da una lettura sociologica talvolta cucita
addosso. «In effetti My Fairy Tales
affronta varie questioni - riprende a
raccontare Nneka - che riguardano la
mia storia come donna e cittadina
nigeriana nata e cresciuta a Warri, città
famosa per il suo petrolio. Ci sono stati
molti problemi nella mia regione proprio
a causa del petrolio e al problema
direttamente collegato all’inquinamento
causato dalla presenza delle compagnie
petrolifere e della loro attività estrattiva.
A tutto ciò dobbiamo aggiungere le
perenni tensioni tra gruppi etnici
differenti. Il mio album racconta un po’
tutto questo, racconta come nonostante
tutto ancora riusciamo a sorridere di
fronte agli ostacoli e alla sofferenza.
Babylon che tu citavi parla di resistenza e
perseveranza, di come siamo in grado di
evitare di essere distrutti emotivamente
da tutti questi problemi che ci
circondano».
Seguendo il solco di Neneh Cherry,
Erika Badu e Lauryn Hill, Nneka delinea
il suo orizzonte musicale. Negli anni
colleziona collaborazioni importanti con
Massive Attack, Lenny Kravitz, Tricky,
Ziggy Marley, tournée in America a
partire dal 2010 insieme con Nas e
Damian Marley come Distant Relatives,
apparizioni in tv come quella al David
Letterman Show. «Sono state tutte
esperienze magnifiche, ho imparato
tanto da Tricky e soprattutto da Ziggy,
un uomo dotato di uno spirito leggero e
positivo, è importante restare sempre
umili e rispettosi».
La stampa internazionale descrive
Nneka come una donna molto
impegnata contro le ingiustizie e i
soprusi, militante in numerose
organizzazioni non governative,
ambasciatrice dell’Awdf, African
Woman’s Development Fund e
sostenitrice dell'Occupy Nigeria
Movement. In questo quadro appare
ben radicata la sua opinione di
considerare la musica come un
linguaggio universale capace di
emancipare i popoli, di smascherare
fanatismi religiosi e politici.
«La guerra - conclude - non si vince
per le strade o nei vicoli delle città
nigeriane ma alimentando la
consapevolezza nelle fabbriche e tra i
ragazzi, creando posti di lavoro. Le
esperienze in cui la musica diventa un
veicolo di promozione sociale sono
fondamentali soprattutto in contesti di
grande confusione sociale come in
alcuni paesi africani o in Sud America.
Non posso che dirmi completamente
d’accordo quando si parla di investire
nella diffusione della musica nei percorsi
di studio scolastici. È un buon modo di
insegnare ad amare e in generale di
avere un approccio creativo alla vita.
Inoltre è molto più facile tenere a
memoria informazioni e nozioni quando
lo fai attraverso le canzoni. In Nigeria un
numero crescente di scuole ha
cominciato ad aggiungere la musica
come materia di insegnamento, questo
grazie anche al lavoro svolto da alcune
ong che supportano questa piattaforma.
Questa per me è la strada giusta per un
cambiamento che duri nel tempo».
ALIAS
24 APRILE 2015
ULTRASUONATI DA
aveva confessato a casa. Falso,
eravamo una famiglia liberale,
tutt’altro che omofoba, così come è
falso che papà fosse violento. Mai una
mano su Lou o altri. Dopo lo shock
andò meglio e tornò alla Syracuse
University. Il resto è storia. Ci siamo
sempre amati. Forse mitizzare
l’adolescenza gli è servito per il suo
mestiere». Qui:
https://medium.com/cuepoint
STEFANO CRIPPA
LUCIANO DEL SETTE
GIANLUCA DIANA
GUIDO FESTINESE
ROBERTO PECIOLA
MARCO RANALDI
ALESSIO BONDI'
SFARDO (Malitenti Dischi)
     Autore palermitano, già
vincitore del Premio De André, al suo
esordio colpisce per una maturità
compositiva non comune fatta di amore
viscerale per il folk che attualizza con
suoni moderni. Suggestioni letterarie,
grande potenza vocale emergono in
molti momenti del disco, da consigliare:
Rimmillu ru voti, solo chitarra voce e
armonica incisa in una session
pomeridiana e volutamente non
ritoccata. (s.cr.)
JAZZ
Brillanti morbidi,
un po’ misteriosi
Chissà, forse la continua vicinanza con un
cantautore folk rock d'eccellenza come
Thomas Dybdahl, sui palchi e in studio,
suggerisce al trombettista norvegese
Mathias Eick le campiture lunghe, ariose,
sempre incastonate su tempi medi o lenti
che fanno brillare le sue composizioni. Il
nuovo disco, Midwest (Ecm/Ducale), è di
un'eleganza severa e asciutta, e soprattutto i
temi, quando vengono proposti, sembrano
subito richiamare qualcosa, alludono e
raccontano assieme. Formazione
timbricamente insolita, con tromba, violino,
piano, contrabbasso, percussioni. Restiamo
in zone nordiche con Gefion, debutto da
leader per l'Ecm del giovane chitarrista
danese Jakob Bro. Suona un jazz elettrico
dilatato e diafano, morbido e misterioso,
con accorto uso di effetti elettronici: al
contrabbasso c'è Thomas Morgan, alla
batteria il grande Jon Christensen, che
illumina con piccole luci di metalli il tutto.
Un altro giovane, italiano, e in casa Ecm:
Giovanni Guidi, pianista ascoltato spesso
al fianco di Enrico Rava, che torna con This
is the Day. Il bassista è lo stesso di Bro,
Morgan, alla batteria João Lobo: jazz che
riesce ad essere impervio e comunicativo al
contempo. (Guido Festinese)
ON THE ROAD
The Answer
La hard rock band inglese, sulla scia
dei Led Zeppelin.
Pinarella di Cervia (Ra)
SABATO 25 APRILE (ROCK PLANET)
Beth Hart
La talentuosissima cantante rock
blues losangelina per una data
italiana.
Milano MARTEDI' 28 APRILE (ALCATRAZ)
White Hills
Hard rock psichdelico per la band di
New York.
Mezzago (Mb) SABATO 25 APRILE
(BLOOM)
Varazze (Sv) DOMENICA 26 APRILE
(RAINDOGS)
Kenny Wayne
Shepherd
Il bravissimo chitarrista blues
americano in Italia.
Mezzago (Mb) DOMENICA 26 APRILE
(BLOOM)
Roma LUNEDI' 27 APRILE (PLANET)
Scott Matthew
Il cantautore australiano è spesso
nel nostro paese, dove vanta un
buon numero di aficionados.
Milano DOMENICA 26 APRILE (BIKO)
Max & Laura Braun
I fratelli di Stoccarda presentano il
loro secondo lavoro, sempre
(15)
CHAMPS
VAMALA (Pias/Self)
     A circa un anno dal debutto
tornano i fratelli Champion. Questa
volta le pulsioni alt folk sono mitigate e
«imbastardite» con sonorità
elettroniche e una scelta melodica
sicuramente più virata al pop. Magari
opera del produttore che hanno scelto
per questo secondo disco, Dimitri
Tikovoi, già al lavoro con Goldfrapp e
Placebo. Ma alla fine dei giochi ci sembra
un passo indietro, forse non c'era tutta
questa fretta di tornare con un nuovo
album. Almeno a parer nostro. (r.pe.)
FAIRPORT CONVENTION
MYTHS & HEROES ((Matty Grooves)
     Il consiglio è di dedicare
parecchi ascolti a Myth & Heroes, magari
cercando di scacciare via il pensiero che
sono passati quasi cinquant'anni dalla
costituzione del nome storico del folk
rock inglese. E loro se lo ricordano,
perché già la copertina rimanda al
«leggendario» Full House. Parecchi
ascolti, perché la miscela sonora
raffinatissima di questi anziani signori
British che sembrano i nonni felici del
Mulino Bianco si coglie solo con ascolti
successivi: dallo skiffle alla polka,
dall’eleganza di ballate intense e
frementi ai ricordi di reel. Classe e
leggerezza. (g.fe.)
FEMINA RIDENS
SCHIAFFI (Autoprodotto/Audioglobe)
     Eccola di nuovo qui, Francesca
Messina alias Femina Ridens. O il
contrario, se preferite Francesca nei
panni di un’artista dalla spensieratezza
solo apparente. Schiaffi, rispetto al
primo album intitolato a se stessa e
realizzato in studio, ha visto la luce sul
palco dei concerti e lì è stato corretto e
affinato. Spensieratezza solo apparente,
si diceva, su un tessuto a motivi folk,
canzone d’autore, trame minimaliste,
r'n'b. Femina schiaffeggia stereotipi,
donne copertina, uomini tanto vanesi
quanto inutili, esibizionismi, protesi
cibernetiche dell’io. E lo fa con bella
sicurezza di mestiere. (l.d.s.)
DI GUIDO FESTINESE
JAZZ/2
POP ROCK
LATIN
Parrini, violino
da sperimentare
La promessa
di Barnett
Brevi nostalgie
di tango e samba
La Rudi Records di Massimo Iudicone
porta avanti con rigore un catalogo ricco
di artisti di più generazioni, attivi nel jazz,
che guardano al passato ma si rivolgono
decisamente all’avanguardia. Il violinista
Emanuele Parrini con Are You Ready?
Viaggio al centro del violino Vol. 2 prosegue
un discorso iniziato con un album in solo.
Qui, con un formidabile sestetto (Bittolo
Bon, Innarella, Mirra, Bolognesi, Tononi)
integrato da voci recitanti, combina tre
suite che uniscono brani scritti dal leader
con B. Scardino a composizioni di A.
Shepp, R. Rudd e J. Tchicai. Avanguardia
«storica» e contemporanea si fondono
con eversiva creatività. È quanto accade
anche in Sounds of Hope dove Daniele
Cavallanti guida il Milano Contemporary
Art Ensemble (cd realizzato con crowd
founding e «manifesto sonoro»
dell’avantgarde meneghina). L’orchestra
omaggia J. Henderson, S. Rivers, A.
Braxton, R. Mitchell, M. Feza e W.
Shorter, esaltando collettivo e solisti.
Ottima l’accoglienza internazionale per il
trasversale Honest John del gruppo
norvegese Canarie, guidato dal
violinista-compositore contemporaneo
Ole-Henrik Moe. (Luigi Onori)
La voce di Annie Woodward non è
certo originalissima, può ricordare Emiliana
Torrini come Janis Joplin e così via, ma ha
una sua anima e quel «certo non so che»
che attira l'attenzione. E la nostra l'ha
attirata con Two Faces of a Clown (Amp/-Er
Records), suo debutto. Registrato negli
Stati Uniti, il disco ci presenta questa
cantante e autrice norvegese attraverso
dodici brani che vanno dalla ballata acustica
a quella elettrica, dal gusto un po' rétro.
Dalla Scandinavia all'Australia, a Melbourne,
dove alberga una cantante e autrice, anche
lei all’esordio, promettente, Courtney
Barnett. Sometimes I Sit and Think,
Sometimes I Just Sit (House Anxiety/Self) ce
la fa scoprire come una rocker d'antan,
nonostante la giovane età. Canzoni che
richiamano gli anni Settanta, Suzie Quatro,
Joan Jett ma anche Chrissie Hynde. Altro
viaggio transoceanico, per trasferirci a San
Francisco, casa di Hannah Cohen,
modella e figlia d'arte al secondo lavoro
con Pleasure Boy (Bella Union/PiasCoop/Self). Canzoni morbide, delicate,
piene di sfumature, qualcuna grigia, ma più
spesso dai colori tenui o intensi, tra il blu
cobalto e il viola purpureo. Proprio come
la sua voce. Affascinante. (Roberto Peciola)
Brasile e Argentina sono vicini anche
musicalmente per la fama mondiale che
samba e tango hanno conquistato.
Nessuno smetterà mai di suonarli; di
comporre adottandone ritmi e sonorità.
Dodicilune Dischi viaggia nel samba e nel
tango con tre novità. Gabriele
Mirabassi al clarinetto e Roberto
Taufic alla chitarra sono splendidi autori
e interpreti dei tredici brani di Um Brasil
diferente. Mostrando di aver capito alla
perfezione cosa significhi dar suono alla
saudade, deliziano l’ascoltatore sia
quando firmano in proprio che quando si
misurano con Vinicius de Moraes, Chico
Buarque, Cartola, Baden Powell. Gabriel
Oscar Rosati e BrazilLatAfro
Project, con Live at the Philarmonic Hall in
Arad, virano il Brasile su colorazioni jazz e
atmosfere solo in apparenza estranee.
Vedi O mundo funk carioca. Mischiare le
carte si rivela ottima scelta. Chitarra,
voce e buoni compagni di palco hanno
positivi effetti su Paolo Giaro e il suo
Tango nuevo latin jazz. Il discorso è
analogo a quello fatto per Mirabassi e
Taufic. Preludio a un applauso convinto
che Giaro si merita come autore e come
interprete. (Luciano Del Sette)
STEVE HACKETT
WOLFLIGHT (Inside Out)
     Il mitico chitarrista dei
Genesis, quelli buoni, torna con un
nuovo album di inediti... Beh,
chiamarli inediti è un po' un azzardo.
Non perché siano già stati pubblicati,
ma perché suoni, scelte armoniche,
stilistiche e melodiche sono
rintracciabili in decine di produzioni
simili. Lo si può perdonare, ma
ascoltare il disco - se si eccettuano un
paio di brani - più di una volta è
impresa superflua. (r.pe.)
ADAM LEVIN
BEGIN AGAIN (Universal)
     Commedia straromantica,
musica straromantica per un film che
forse non sarà un capolavoro ma che
tutto sommato funziona. Adam Levin,
il titolare dello score, scrive qui
pagine belle e accattivanti che
trasportano l’ascoltatore con
leggerezza. Il tutto poi è condito da
una serie di canzoni affidate
addirittura alla voce dell’attrice inglese
Keira Knightley, ed è tutto molto
pulp! (m.ra.)
THE REVEREND PEYTON'S
BIG DAMN BAND
SO DELICIOUS! (Yazoo/Shanachie)
     Una label di prestigio, una
formazione al top della potenza e
della creatività. La banda del Rev.
Peyton non perde colpi. Solo un po’
meno muscolari e più solari rispetto
all'ultimo album. Pot Roast and Kisses è
perfetta per l'airplay, We Live
Dangerous è una bomba da ballare nei
live. Ma non basta, dietro la parvenza
bucolica, c'è sostanza. Blues, con
dentro tutto il possibile. (g.di.)
A CURA DI ROBERTO PECIOLA  SEGNALAZIONI: [email protected]  EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ
giocato su atmosfere delicate,
slowcore.
Avellino DOMENICA 26 APRILE
(GODOT)
James Taylor
Si chiude il lunghissimo tour italiano
per il songwriter americano.
Milano SABATO 25 APRILE (TEATRO
DEGLI ARCIMBOLDI)
Matthew E. White
Il cantautore e produttore di
Richmond, Virginia.
Torino GIOVEDI' 30 APRILE (EL BARRIO)
Is Tropical
Il trio electro inglese di nuovo dalle
nostre parti.
Colle Val d'Elsa (Si) SABATO
25 APRILE (SONAR)
Selah Sue
Torna nel nostro paese la vocalist
belga.
Milano MERCOLEDI' 29 APRILE (TUNNEL)
John Scofield
Il chitarrista scoperto da Miles
Davis.
Cremona GIOVEDI' 30 APRILE
(AUDITORIUM GIOVANNI ARVEDI)
Milano VENERDI' 1 MAGGIO (BLUE NOTE)
Verdena
La rock band bergamasca torna
dopo cinque anni con un nuovo
disco, Endkadenz Vol. 1.
Genova SABATO 25 APRILE (FESTIVAL
SUPERNOVA)
Trieste LUNEDI' 27 APRILE (TEATRO
MIELA)
Caparezza
Il rapper di Molfetta ancora on the
road.
Taranto VENERDI' 1 MAGGIO (PARCO
ARCHEOLOGICO DELLE MURA GRECHE)
Post-Csi
Massimo Zamboni, Gianni
Maroccolo, Francesco Magnelli e
Giorgio Canali di nuovo insieme per
celebrare i 20 anni di Ko de Mondo,
con la voce di Angela Baraldi.
Correggio (Re) SABATO 25 APRILE
(PARCO DELLA MEMORIA)
Marlene Kuntz
Torna dal vivo la rock band di
Cuneo, che ha da poco pubblicato il
nuovo Pansonica, in occasione del
ventennale del loro album d'esordio,
Catartica.
Teramo GIOVEDI' 30 APRILE (AREA
EX VILLEROY & BOCH)
Taranto VENERDI' 1 MAGGIO (PARCO
ARCHEOLOGICO DELLE MURA GRECHE)
Zu
Torna dal vivo il trio romano, tra
jazz sperimentale e punk.
Madonna dell'Albero (Ra)
SABATO 2 MAGGIO (BRONSON)
Ardecore
Riprende l’attività live la band
«romanesca» capitanata dal
folksinger Giampaolo Felici.
Latina GIOVEDI' 30 APRILE (SOTTOSCALA)
Tre Allegri Ragazzi
Morti
Il trio indie rock friulano in un tour
acustico.
Carpi (Mo) DOMENICA 26 APRILE
(SCHEGGE DI TEMPESTA RESISTENTE)
Napoli GIOVEDI' 30 APRILE (COMICON)
Tito (Pz) VENERDI' 1 MAGGIO (CECILIA)
Catania SABATO 2 MAGGIO (MERCATI
GENERALI)
Crossroads
La sedicesima edizione della
rassegna «Jazz e altro in Emilia
Romagna» continua la sua
programmazione itinerante con i
concerti di Raul Midon; Quintorigo
& Roberto Gatto play Frank Zappa;
Italian Jazz Orchestra & Silvia Donati
feat. Fabrizio Bosso in un omaggio a
Marlene Dietrich.
Rimini SABATO 25 APRILE (TEATRO
DEGLI ATTI)
Russi (Ra) GIOVEDI' 30 APRILE
(TEATRO COMUNALE)
Forlì VENERDI' 1 MAGGIO (TEATRO DIEGO
FABBRI)
Ravenna Jazz
Al via il festival di musica
afroamericana nella città romagnola.
Si parte con la performance in
esclusiva italiana del duo voce e
tromba tra Dee Dee Bridgewater e
Irvin Mayfield con The New Orleans
7.
Ravenna SABATO 2 MAGGIO (TEATRO
ALIGHIERI)
Handmad(e)s
Festival
Torna la rassegna cinematografica e
musicale dedicata alla cultura del
«do it yourself» La programmazione
musicale ha in programma il live set
di Teho Teardo e, nell'ultima serata,
Squadra Omega e Ossatura.
Roma SABATO 25 E DOMENICA 26 APRILE
(CASA DELLA CULTURA)
Bologna Festival
La rassegna di musica classica si
chiude con l'Accademia Bizantina,
violino solista Viktoria Mullova, in un
repertorio di musiche di J.S. Bach.
Bologna MERCOLEDI' 29 APRILE
(TEATRO MANZONI)
Lugano Festival
La rassegna di musica colta nel
Canton Ticino ospita il concerto di
musica da camera per pianoforte,
violino e violoncello con Anna
Kravtchenko, Pavel Berman e Enrico
Dindo, su opere di Brahms e
Dvorak.
Lugano (CH) MERCOLEDI' 29 APRILE
(CONSERVATORIO DELLA SVIZZERA ITALIANA)
OPERAZIONE
JANNACCI
Ci sono persone speciali che
assomigliano alle grandiose figure dei
replicanti immaginati da Philip Dick:
sono candele che ardono da due parti,
vivono con un'intensità travolgente e
caotica, se ne vanno prima degli altri, ma
gli altri, per quanti anni più mettano in
conto, non potranno neppure arrivare a
metà di quel percorso. Un «Blade
Runner» con l’aria svanita e feroce allo
stesso tempo è stato il magnifico Enzo
Jannacci, uno che sembrava fare tutto a
tempo pieno, come se il tempo fosse
una fisarmonica e il sonno non esistesse:
Siùr dutùr, ovvero chirurgo di vaglia,
altruista con l'incorreggibile vizio di
tenere sempre un occhio e un orecchio
consapevole sui più deboli e i più
sfortunati, cabarettista, musicista di jazz,
cantautore e attore, insegnante di
karate. E, sullo sfondo, una Milano che
veramente non c'è più: quella del Derby
messo su dal jazzista Enrico Intra, degli
altri locali dove passava la mala e la
meglio intelligenza critica e comica
libertaria, la Milano di Dario Fo, del jazz,
di Cochi e Renato, e di tante altre figure
grandi: tutte che devono un pezzo della
loro grandezza all’omino con gli
occhialoni, la voce al limite della
stonatura, le idee fulminanti che
sembravano infilate di nonsense (e
spesso lo erano!), e invece riuscivano ad
essere comunque sintesi fulminee di
ragionamenti speciali che altri avrebbero
messo su a forza di giri di frasi. A fine
vita avrebbe messo su un altro
laboratorio di creatività, Enzo, il Bolgia
Umana: ma erano davvero altri tempi.
Sandro Paté ha fatto in tempo a
conoscere bene Enzo Jannacci: ci ha
scritto sopra una corposa tesi di laurea.
E il giorno della discussione c'era anche
il dutùr, pronto a un abbraccio e a dirgli
un «bravo», ma «peccato l’argomento»,
cioè Jannacci stesso. Paté poi s’è messo
in caccia di tutta la costellazione di
persone che hanno avuto a che fare con
l’autore di Quelli che, a tutti ha chiesto di
raccontare un pezzo di Enzo, e alla fine
ha ricomposto un prisma dalle infinite
rifrazioni in Peccato l’Argomento/
Biografia a più voci di Enzo
Jannacci (Log Edizioni). Non saprete
tutto, come non è possibile saperlo, di
Enzo: ma avrete di tutto, vedrete foto
splendide, ed è un bel sapere e un bel
vedere.
¶¶¶
E magari il libro spingerà qualcuno a
chiedere di ristampare i grandi dischi di
Enzo, spesso conosciuti solo dagli
addetti ai lavori. Sono ventotto, per
complessive 233 canzoni: le analizza nel
dettaglio una per una Andrea Pedrinelli
in Roba minima (mica tanto),
Tutte le canzoni di Enzo Jannacci
(Giunti). Un affresco da gustare nei più
minuti dettagli sviscerati con intelligente
puntualità.