CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLV . N. 114 . MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 MASOCHISTA A CHI Norma Rangeri F orse un altro sciopero, probabilmente il blocco degli scrutini. Le toppe che frettolosamente il governo ha messo al disegno di legge sulla scuola devono essere apparse peggiori del buco se ieri i sindacati sono usciti dalla riunione a palazzo Chigi con un «no, grazie», determinati a rafforzare la battaglia. Del resto una delle battute di giornata più volgari Renzi l’aveva pronunciata proprio qualche ora prima dell’incontro all’indirizzo dei professori («la scuola non è l’ammortizzatore sociale degli insegnanti»), considerati dei poveracci che pensano solo al (magro) stipendio. Mentre si avvicina la data di elezioni regionali che saranno ricordate come quelle delle liste impresentabili, Renzi non si trattiene e colpisce duramente qualunque forma di vita alla sua sinistra. Obiettivi preferiti, il sindacato e l’opposizione interna. E mena fendenti nel tentativo di fare il pieno dei voti in libera uscita dal centrodestra spappolato, maldestramente mascherato da una rivendicazione a sé del riformismo vincente. Non il patto del Nazareno, non l’abolizione dell’articolo 18, non il jobs act, non la controriforma della scuola, non le riforme costituzionali sarebbero le ragioni di una deriva centrista del "partito della nazione" e di una perdita di consenso nei mondi tradizionalmente schierati a sinistra. Ma è «la sinistra masochista in Liguria che dà la possibilità a Forza Italia di essere rianimata», sarebbe il deputato Luca Pastorino, candidato alle regionali liguri la causa della temuta (e improbabile) resurrezione berlusconiana. E non è una battuta ma il cuore della sua lunga passeggiata elettorale davanti alle telecamere di Repubblica.it. Il presidente del consiglio, per l’occasione vestito con la giacca del segretario del Pd, ha irriso la minoranza del partito da cui evidentemente teme di ricevere qualche dispiacere elettorale. E così ha sparato cannonate portando a termine la rottamazione della vecchia classe dirigente. Con i toni arroganti che ne contraddistinguono il profilo politico, ha preso a bersaglio gli ultimi esponenti della vecchia nomenclatura colpevole di lesa leadership («Non è che se non ci sono Bersani e D’Alema non c’è più la sinistra»). A parte il fatto che D’Alema e Bersani sono ancora nel Pd ed espellerli a mezzo stampa non è il massimo dell’eleganza nemmeno nel PdR, sostenere che i poveri masochisti alla Fassina dovrebbero «ricordare quando il Pd perdeva davvero col 25%», è una di quelle carte false buone per la propaganda visto che il segretario-presidente è seduto a palazzo Chigi proprio grazie al tanto disprezzato partito del 25 per cento che lo ha portato al governo. Sarebbe più prudente prenderne atto, anche perché continuare a sbandierare il 40 per cento raggiunto alle europee, in vista delle regionali potrebbe rivelarsi un azzardo. EURO 1,50 Il sinistro «Sindacati e minoranza Pd lavorano per resuscitare Berlusconi». L’uomo del patto del Nazareno accusa la sinistra di intelligenza col nemico e intanto espelle via web Fassina, D’Alema e Bersani, «masochisti» che vogliono perdere PAGINE 2, 3 INTERVISTA | PAGINA 2 Gotor: «Basta propaganda, Renzi attacchi la destra» RIFORMA | PAGINA 3 Offerta ritirata: «Senato elettivo? Mi pare difficile» PENSIONI | PAGINA 4 Rimborsi, Padoan vola a Bruxelles e concorda il niet TORTURA | PAGINA 15 «Caro Cantone, in democrazia la polizia è punibile» REPORTAGE Guerra siriana, il coraggio di non fuggire da Aleppo Nella città martoriata dai combattimenti tra l’esercito regolare e i ribelli islamisti di al-Nusra, che non risparmiano neanche gli ospedali, 400 mila persone hanno scelto di non unirsi alla marea di profughi (tre quarti degli abitanti) in fuga. Monta l’odio della popolazione contro tutti gli schieramenti IEZZI |PAGINE 8, 9 DOSSIER AMNESTY «Per i migranti la terra libica è piena di crudeltà» «Implementare misure per contrastare i trafficanti senza fornire un’alternativa alle persone che scappano dal conflitto in Libia non risolverà la piaga dei migranti», dice il direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e Nord Africa Philip Luther presentando il nuovo rapporto intitolato «La Libia è piena di crudeltà». FAZIO |PAGINA 6 INCONTRO CON I SINDACATI SULLA SCUOLA Governo bocciato, scrutini a rischio D ue ore di incontro a palazzo Chigi (ma senza Renzi). I leader di Cgil, Cisl e Uil insoddisfatti degli emendamenti al disegno di legge minacciano nuove proteste: il blocco degli scrutini e un possibile nuovo sciopero. Ma spuntano dal governo un nuovo incontro dopo il passaggio al Senato e una "trattativa" con il ministro Giannini. Intanto Renzi era su twitter. FRANCHI |PAGINA 5 STUDENTI Protesta riuscita, bloccato il 30% di prove Invalsi CICCARELLI |PAGINA 5 MATTEO RENZI FOTO LAPRESSE-FABIO CIMAGLIA BIANI SPECIALE RAI DOMANI IN EDICOLA EDITORIA La Germania ospite al Salone del libro RAUL CALZONI l PAGINA 10 APRE CANNES 68 Sulla Croisette a lezione di cinema PICCINO, RENZI l PAGINA 12 , 13 Per rilanciare l’economia bisogna percorrere nuove strade, fecendo leva sulle risorse ambientali e sull’ingegno già presenti nel Belpaese ARTICOLO Ermete Realacci a pagina 15 In tv il segreto che seppellisce tutti i partiti pagina 2 il manifesto MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 IL SINISTRO Democrack • L’autore del patto del Nazareno rovescia sulle opposizioni interne l’accusa di aiutare Berlusconi: «Sono masochisti, come in Liguria» Renzi versione torrente impetuoso si abbatte sulla sinistra Pd, il nemico della campagna delle regionali. Bersani e D’Alema? «Non è che se non ci sono loro non c’è la sinistra». Fassina esce? «Problema suo». Le minoranze si ribellano. Ma lui le accompagna all’uscita ROMA «C on tutto il rispetto per D’Alema e Bersani non è che se non ci sono loro non ci sono i Ds». Facendo spallucce come un giovanotto al bar, Matteo Renzi in un colpo si libera di due big in realtà già rottamati, riesumati giusto per sferrare il calcio finale. «Torrente impetuoso» torna dunque a scorrere, ammesso che si sia mai fermato. Complice la campagna per le regionali, il Renzi che ieri pomeriggio risponde a Repubblica Tv è un fiume in piena. Si spericola senza temere contraddizioni. Come sullo scandalo delle liste campane: «Alcune liste che sostengono De Luca hanno candidati che non voterei nemmeno costretto», dice, perché sono «impresentabili» e «ingiustificabili» e lo «imbarazzano», ma «Le liste del Pd sono pulite». Poi se la prende con la «sinistra masochista» ligure (il candidato ex Pd e ora anti-Pd Pastorino e i suoi grandi elettori Civati e Cofferati), rea di voler «rianimare Forza Italia», pazienza se fu il patto del Nazareno a tenere in vita il Cavaliere, politicamente parlando. Renzi si abbatte sulla «palude». Ma non su obiettivi a caso: il nemico scelto per la campagna delle regionali è quello che ha ancora a casa. E che invita a sloggiare. Lui, non precisamente incalzato dalle domande del cronista, nega che sia in atto l’espulsione dal Pd della famiglia ex ds: «La stragrande maggioranza del gruppo dirigente viene da lì, a partire da Orfini e Serracchiani. Il Pd è sempre stato questo, non è che la sinistra c’è solo dove c’è D’Alema. Il gruppo dirigente del Pd è plurale, non è che se non ci sono i volti storici manca la Se ne vanno? Me ne infischio sinistra». Ce n’è per chi è già uscito, come Pippo Civati, reo di aver aperto le iscrizioni alla sua newsletter: «Dicevano a me che personalizzavo il partito, ora vado sul sito di Civati e leggo ’aderisci a per Civati’, a una sigla. È il colmo». «È solo una newsletter», replica Civati. Ma Civati è una vicenda archiviata, oggi tocca a Stefano Fassina. L’insofferenza dell’ex responsabile economico del Pd è ormai a un punto di non ritorno. In mattinata il deputato gli ha scritto una lettera sul ddl scuola: sbagliato nell’«imposta- zione», non nella «comunicazione». Per lui ormai «il tracciato del Pd è insostenibile» La replica è tagliente: «Spero che Fassina rimanga, se non rimane è un problema suo non nostro». Tradotto: francamente me ne infischio. La minoranza scatena quel po’ che può: «Renzi sbaglia. Non è un problema solo di Fassina se uno come lui ha dubbi sul Pd. È un problema di tutto il Pd», dice Roberto Speranza. «L’arroganza di Renzi è preoccupante e imbarazzante, per lui», dice Alfredo D’Attore. Che punta il dito contro il rinvio dell’elezione del nuovo capogruppo alla camera: «Non abbiamo mai discusso delle dimissioni di Speranza, non abbiamo mai discusso di una scelta grave come la fiducia sulla legge elettorale, ora apprendiamo via sms di un rinvio dell’assemblea senza motivazioni. Vuol dire che viene riconosciuto il fatto che sulla scuola ciascuno potrà esprimere la propria libera valutazio- ne in assenza di capogruppo». Si arrabbia anche Bersani: masochisti? «Una mistificazione, abbiamo visto che si può vincere poco, tanto, pochissimo, ma si vince essendo fedeli ai valori e ideali del centrosinistra ed essendo alternativi al centrodestra. Dall’Ulivo in poi abbiamo sempre vinto così». Gianni Cuperlo chiede «un po’ di cautela» per evitare «frasi consolatorie, buone per i comizi». Ma la verità è che dentro il Pd qualcosa si è rotto, e nell’area renziana non c’è nessuno disposto a difendere il dissenso. La stagione del Pd plurale, comunque sia andata, è finita. Lo stesso Fassina lo certifica con rassegnazione: «Renzi vuole un Pd normalizzato al renzismo. Ma il problema non è il sottoscritto, ma la parte del popolo democratico che è già andata via dopo la svolta liberista sul lavoro, la deriva plebiscitaria sulla democrazia e l’intervento regressivo sulla scuola. Senza di loro, non senza Stefano Fassina, non è più il Pd». d.p. IIntervista/ IL SENATORE GOTOR: SINISTRA MASOCHISTA? LUI GOVERNA CON I VOTI DEL 2013 «Da Renzi solo propaganda Attacchi la destra, non noi» Daniela Preziosi S enatore Miguel Gotor, dice il suo segretario che voi della minoranza Pd siete «una sinistra masochista che vuole sempre perdere». Vuole sempre perdere? Ma no, Renzi è nervoso, sarà la campagna elettorale. Preferirei che attaccasse la destra, anziché la sinistra. Vorrei ricordargli che in Italia negli ultimi vent’anni il centrosinistra ha vinto per tre volte le elezioni. E lo ha fatto in un’idea di alternativa alla destra. Sarebbe bene continuare così. Renzi replicherebbe: la terza volta è quella del 2013, quando Bersani ha «non vinto». Renzi sta governando con quel risultato. E quando noi arriveremo alla fine della legislatura, come sosteniamo ogni giorno, in forza del risultato del 2013 il Pd avrà governato per cinque anni e svolto una funzione di perno del sistema politico. I fatti, quelli che contano più della propaganda, parleranno da soli. Renzi dice: «Non è che se nel Pd non ci sono D’Alema e Bersani non c’è la sinistra». E ancora: «Se Fassina se ne va è un problema suo». Vi sta invitando a togliere il disturbo? Renzi è in difficoltà ed emerge il lato arrogante. L’uscita di una personalità come Fassina dal Pd non sarebbe una questione personale ma di tutto il Pd, e lui come segretario dovrebbe affrontarla. Se si porrà il tema di nuovi addii, come li affronterete? La discussione sulle dimissioni del capogruppo alla camera Speranza, per esempio, avvenute un mese fa, è stata ancora rimandata a dopo il voto. Evidentemente nel variegato mondo del renzismo sotto il tappeto ci sono più problemi di quello che viene raccontato. Ma la minoranza porrà il problema della diaspora? Siamo in campagna elettorale e Renzi gioca sempre lo stesso schema: ha bisogno di creare un nemico interno, che gli serve per essere appetibile a destra. Ma al di là dei suoi schemi ci sono le questioni di merito: noi al senato abbiamo tenuto comportamenti coerenti su dei passaggi chiave. 24 senatori Pd non hanno votato l’Italicum. Non siamo una corrente, abbiamo sensibilità diverse e questa eterogeneità è stata la nostra forza. Quando arriverà la riforma del senato continueremo con coerenza a invitare il segretario a lavorare all’unità del Pd. Abbiamo delle proposte, su queste ci concentreremo. Le dica. Come noto c’è un rapporto fra riforma elettorale e quella del senato. L’Italicum doveva cambiare in punti qualificanti e invece non è cambiato: è stato un errore anche perché si è ridotta la base politica a sostegno delle riforme. E quindi, proprio a partire dai difetti dell’Italicum, la riforma del senato dovrà cambiare soprattutto in due direzioni. Se l’Italicum ci consegna una sola camera politica a maggioranza di nominati, il senato dovrà essere composto da eletti dai cittadini, contestualmente alle regionali. Secondo punto: con l’Italicum abbiamo indirettamente cambiato la forma di governo in un premierato elettivo di fatto senza sufficienti contrappesi. Per un giusto equilibrio istituzionale il senato dunque dovrà avere poteri di controllo, di vigilanza e di garanzia. Sul piano delle norme è possibile farlo, sempreché ci sia la volon- «La riforma del senato deve cambiare. Se passerà con i voti di Verdini gli italiani lo valuteranno. Ma non esco dal Pd, darò battaglia» tà politica. Ritiene che si possa tornare anche sull’elezione diretta dei senatori? Alcuni autorevoli costituzionalisti dicono di no. Lo so, ma sto alle regole: tutto ciò che non è identico si può cambiare. Sull’elettività ad esempio i testi non sono identici, quindi si può intervenire. Ripeto: dipende da una volontà politica. Quanto alla volontà politica, sul ritorno al senato elettivo l’ultima parola di Renzi è stato un no. Su questo Renzi ha posizioni ondivaghe. Nel giro di un mese ha detto una cosa e il suo contrario. Siamo sotto elezioni, aspettiamo che il boccino della propaganda si fermi. Ma resta un punto: è bene che le riforme si realizzino a partire dall’unità del Pd. Ed io credo che sia anche necessario. Potrebbe nascere un gruppo di responsa- bili ex forzisti. E i vostri voti potrebbero non essere più indispensabili. L’alternativa sarebbe una sostituzione dei senatori del Pd con il nucleo toscano e verdiniano del patto del Nazareno e con qualche fuoriuscito qui e lì? Io non credo che sia una soluzione auspicabile. E comunque gli italiani sapranno valutarla con serenità. In quel caso lei che farebbe? Stiamo parlando di cosa farà il parlamento. Il parlamento parlerà con i voti. Nel caso la riforma non passasse, per Renzi c’è il voto anticipato. Il voto è una minaccia che non funziona: nel caso non ci sarebbe ancora la legge elettorale. Insomma, non è un’ipotesi. E comunque non sto a un film in cui oggi mi si chiede una valutazione su una cosa che forse avverrà il 7 agosto, o in autunno. Ci sono tre mesi, in politica un tempo lunghissimo, vediamo che succede. Usciranno altri suoi compagni della minoranza. Lei ci sta pensando? No, sono convinto che soprattutto nel nuovo sistema che si va realizzando sia più utile una sinistra riformista dentro il partito democratico. È sia più utile restando nel Pd per opporsi a ciò che il Pd sta diventando. Cos’è diventato il Pd? Il suo segretario dice che a sostegno del candidato del Pd campano ci sono nomi «impresentabili» che lui stesso non voterebbe. Sono fan di Mussolini, uomini di Nicola Cosentino. È normale che voi candidiate gente che voi stessi non votereste? Assolutamente no. Non dovrebbero esserci le condizioni politiche perché un segretario dica cose di questo genere parlando di un candidato che lo ha sostenuto a congresso portandogli il 70 per cento dei voti. E questo è un indizio di quello che stiamo diventando. Ma per evitarlo bisogna dare battaglia politica dentro il Pd. Se lei votasse in Campania voterebbe De Luca e i suoi impresentabili? Per fortuna non mi trovo in questa condizione. DA OGGI PARTE ASTARADICALE.IT Marco Pannella: «Renzi? Un bischero toscano» Renzi? «Un bischero toscano». Così Marco Pannella in un’intervista al settimanale Chi. Fra i due non c’è mai stato feeling: «Non ha valori davvero profondi. È insofferente nei confronti di chi è in età avanzata», dice l’anziano leader, ma è «molto abile. Ma quali sono i valori su cui sta costruendo la sua rivoluzione? E soprattutto, gli importa davvero di costruire qualcosa di valore?». Da oggi i radicali italiani celebrano i loro primi 60 anni mettendo all’asta gli oggetti donati da iscritti e simpatizzanti, un vero ’tesoretto’ della storia italiana. Sul sito www.astaradicale.it sono già visibili i primi lotti, che saranno acquistabili tramite Ebay a partire dalle 14 e 30 di oggi, in concomitanza con la conferenza stampa che si terrà nella storica sede in via di Torre Argentina. MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 il manifesto IL SINISTRO Referendum • pagina 3 Civati presenta i quesiti che potrebbero smontare la nuova legge elettorale. Contro i pluri candidati che «turbano» Prodi RIFORMA · Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze MATTEO RENZI LAPRESSE «Senato elettivo? Scherzavo» Andrea Fabozzi «A me sembra molto complicato tornare all’eleggibilità del senato, sia da un punto di vista tecnico che politico. L’articolo due della riforma sostanzialmente è chiuso». Così diceva ieri mattina Matteo Renzi. Ed era lo stesso che un mese fa assicurava: «Cambiare la riforma costituzionale? Tornare al senato elettivo? Per me si può fare». Anche il suo intervistatore era lo stesso, il giornalista di Repubblica Claudio Tito - allora su carta, ieri in video. Cos’è cambiato nel frattempo? Il primo Renzi, quello di un mese fa, parla alla vigilia del voto finale sull’Italicum. «Il leader del Pd gioca la carta della trattativa sulla riforma costituzionale», è la sintesi del giornale amico. Nel frattempo il voto c’è stato, qualcuno ha creduto alla promessa e i dissensi non sono bastati a fermare la nuova legge elettorale. Il paradosso è che ha più ragione il Renzi di oggi che quello di metà aprile. Come sanno bene i deputati della minoranza Pd che avevano provato a cambiare l’articolo 2 della riforma costituzionale, ma erano stati battuti (da un contro-emendamento del futuro capogruppo Rosato) proprio perché al governo interessava approvare la legge in un testo «blindato», non più modificabile al senato. A questo punto un ripensamento sull’eleggibilità dei senatori, per quanto auspicabile, dovrebbe poter contare su un’interpretazione disinvolta del regolamento da parte del presidente Grasso. Che non è impossibile, come dimostrano i precedenti dei «canguri», tutti però consonanti ai desideri del governo. La contrarietà del presidente del Consiglio fa pensare che quella strada debba considerarsi chiusa. Anche il piano B che Renzi e i renziani stanno offrendo ai sostenitori del senato elettivo può risolversi in una falsa promessa. Dicono che, blindata la riforma, si potrà agire sulla legge attuativa, quella che a regime detterà le regole per la selezione dei nuovi senatori da parte dei consigli regionali. La proposta è quella di rendere riconoscibili i consiglieri-senatori già nel corso delle elezioni regionali, o in alternativa di premiare i più votati. Ma c’è un problema: il nuovo senato sarà organo perpetuo, che si rinnova senza passare per lo scioglimento. L’eventuale nuova legge si applicherebbe dalle elezioni regionali del 2020 e prima di allora (e anche dopo) dovrebbero coesistere senatori con due diverse legittimazioni. La confusione è probabilmente un indice delle difficoltà che Renzi vede davanti a sé, dal momento che al senato la maggioranza può contare su un vantaggio assai ristretto. È vero che Forza Italia è ormai terreno di conquista, ma dall’altra parte si presenta determinata la pattuglia di venti senatori dissidenti del Pd. Renzi mette già in conto qualche modifica alla riforma costituzionale (magari le stesse che alla camera è stato impossibile discutere), purché il percorso della revisione sia completato entro quest’anno. Eppure ieri ha voluto precisare che «l’Italicum è efficace anche senza riforma costituzionale» - quindi anche se il senato rimarrà elettivo - malgrado si tratti di una legge elettorale riservata alla sola camera. Italicum che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale, ma che sarà valido, -per la «clausola di salvaguardia» - solo dal luglio 2016. I suoi avversari nel frattempo si organizzano e Pippo Civati presenterà oggi due quesiti referendari con i quali si possono smontare alcuni degli aspetti più critici della legge: i capilista bloccati e le pluricandidature; «aspetti che turbano», ha detto ieri Romano Prodi, perché «in questo modo si gestiscono dall’alto un numero rilevantissimo di parlamentari». Con il referendum si potrebbe anche pensare di far cadere il turno di ballottaggio, trasformando così l’Italicum in una legge proporzionale nel caso nessuna lista raggiungesse il 40%, soglia prevista per il premio di maggioranza. Ma sono aspetti che andranno approfonditi, dal momento che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di referendum elettorali è assai rigorosa. Non si può rischiare di raccogliere le firme invano. CAMPANIA · Il premier: «Candidati imbarazzanti, ma nelle liste collegate». Cuperlo: «Perché?» Quelli che «neanche io li voterei» Adriana Pollice NAPOLI «I l Pd ha candidati seri e puliti»: Renzi alla fine ci deve mettere la faccia sul pasticcio elezioni in Campania. Non solo sulle regionali. A Ercolano i guai sono iniziati con l’annullamento del tesseramento, gonfiato da cognomi vicini ai clan della zona, per arrivare agli avvisi di garanzia a sindaco e vice dem e finire con l’annullamento delle primarie. Rinviato a giudizio per associazione a delinquere anche il collega sindaco Pd di Giugliano Antonio Poziello: primarie annullate e caos perché Poziello si presenta comunque con sei liste in appoggio. «Abbiamo cambiato candidato a Ercolano e a Giugliano - spiegava ieri Renzi -, siamo intervenuti in modo molto forte. Su alcune liste collegate si può discutere, alcuni candidati, personalmente, non li voterei neanche se costretto. Ma il Pd ha candidato i puliti». E su Vincenzo De Luca che, per ef- UNIONI CIVILI La Commissione dà parere favorevole ma Ncd vota no e annuncia battaglia La commissione affari costituzionali del senato dà parere favorevole al ddl sulle Unioni civili, il cui testo base era stato approvato in commissione giustizia a fine marzo. Ma la maggioranza si spacca: l’ok sulla costituzionalità del testo arriva dal Pd e da Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Sel; Area popolare (Ncd e Udc) vota contro insieme alla Lega. E Gaetano Quagliariello insiste nel giudicare il provvedimento incostituzionale («limitarsi a espungere il nome del matrimonio quando se ne ricalca la disciplina giuridica è una inutile, ipocrita e pericolosa operazione di maquillage», tuona), mentre Maurizio Sacconi avverte: «Non esistono unioni che Ap possa accettare». Solo Area popolare ha presentato più di tremila emendamenti (su quattromila circa), 282 a firma Carlo Giovanardi. I 5 Stelle commentano: «E’ già chiaro che se si riuscirà a dare al paese una legge che finalmente riconosca pari dignità alle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali, sarà solo grazie al contributo fondamentale del M5S». L’accelerazione voluta da Renzi per provare a portare a casa il provvedimento entro le regionali si scontra dunque con gli alleati e il sottosegretario alle riforme Ivan Scalfarotto ritiene «abbastanza sorprendente e inspiegabile che un alleato di governo scelga un atteggiamento deliberatamente ostruzionistico» su un ddl che, sottolinea lui stesso, «costituisce un prudente punto di mediazione rispetto a più avanzate normative presenti ormai nella grande maggioranza dei paesi civili». fetto della legge Severino non potrebbe entrare in carica se eletto governatore? «La candidatura ha una contraddizione che non si può negare. Ma quando è stato consentito a De Luca di fare le primarie si è preso atto che quella norma è stata disattivata a Salerno e a Napoli, nell’esperienza concreta quel problema è superabile. Lo verificheremo». Gianni Cuperlo non è convinto: «La domanda è una sola: perché sono stati messi in lista certi personaggi e perché si è arrivati a questo punto?». Più esplicito Salvatore Vozza, candidato di Sinistra a lavoro: «Sia De Luca che Caldoro (in lizza per un secondo mandato con Fi ndr) sono degli ipocriti, ma il capo degli ipocriti è Renzi, questi incandidabili stanno nelle loro liste: si nascondono dietro un’affermazione generica per autoassolversi, rinviando ai singoli elettori l’individuazione delle persone. Fuori i nomi». Ma chi sono questi impresentabili? De Luca è stato esplicito: «Mi candido per vincere e per farlo servono anche i voti di destra». La destra ringrazia e si organizza. Nella civica De Luca presidente c’è il prefetto Franco Malvano, che sfidò sotto le insegne di Fi il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. In Campania in rete troviamo di tutto: Enrico Maria Natale, aspirante sindaco a Casal di Principe, ex Forza Italia considerato vicino a Cosentino, il padre è stato arrestato due volte per camorra; Vincenzo De Leo, segretario del Fronte Nazionale a Casal di Principe (candidato a Napoli); l’ex vice coordinatrice Pdl di Caserta ed ex assessore Teresa Ucciero; Antonio Amente, forzista di punta; il sindaco azzurro di Santa Maria a Vico Alfonso Piscitelli; Angelina Cuccaro, assessore di Fi a Santa Maria Capua Vetere; Rosalba Santoro, moglie di Nicola Turco inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa e amico di Cosentino. Stessa lista ma a Napoli, c’è Carlo Aveta: esponente de La Destra e frequentatore dei raduni di Predappio finito nella bufera per un post anti gay. Con il fedelissimo di Mussolini c’è anche Attilio Malafronte, consigliere comunale di Pompei finito ai domiciliari per presunta compravendita di sepolture. Capolista di Centro democratico è Annalisa Vessella Pisacane, consigliere regionale uscente della maggioranza di Caldoro e moglie di Michele Pisacane che sostenne Berlusconi con i Responsabili nel 2011; in lista anche Giovanni Zannini, depennato dalla civica di De Luca insieme a Ucciero per volere della segreteria regionale. In Campania libera c’è Tommaso Barbato, indagato per presunta compravendita di voti alle ultime politiche. Renzi ha annunciato che sabato sarà a Napoli per inaugurare la stazione Municipio della metropolitana. L’ufficializzazione non c’è ancora (De Luca vuole almeno un’altra discesa a Napoli intorno al 27). La città ribolle: da domenica notte due licenziati della Fca di Pomigliano sono su una gru del cantiere della metro. Chiedono che la loro causa sia discussa e protestano contro il governo: «Il piano Marchionne è diventato legge con il Jobs act». I movimenti annunciano la manifestazione Renzi statt ‘a casa: «Non accetteremo zone rosse». MANCATA SCORTA A BIAGI La prescrizione salva Scajola e De Gennaro BOLOGNA N essun colpevole e nessuna responsabilità penale per la decisione di non rinnovare la scorta a Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalla nuove Brigate rosse la sera del 19 marzo del 2002. A decidere la fine del procedimento contro Claudio Scajola e Gianni De Gennaro per avvenuta prescrizione è stata ieri la sezione distrettuale del tribunale dei ministri di Bologna una volta accertata l’intenzione dell’ex ministro degli Interni e dell’ex capo della Polizia, entrambi indagati per cooperazione colposa in omicidio colposo, di non rinunciare al diritto di avvalersi del diritto derivato loro dal trascorrere del tempo. «A questo punto faranno i conti con le proprie coscienze», ha commentato la decisione il legale della famiglia Biagi, l’avvocato Guido Magnisi. Per la difesa di Scajola e De Gennaro, la decisione del tribunale di archiviare il procedimento era inevitabile. «La richiesta della procura di ascoltare De Gennaro era inammissibile, perché l’indagato non può rinunciare alla prescrizione, possibilità invece ammessa per gli imputati, ha detto l’avvocato Franco Coppi che assiste l’ex capo della polizia (tesi contestata dai giudici per i quali non esiste in merito una giurisprudenza consolidata). Per i legali di Scajola, invece, si è trattato «di un procedimento assolutamente surreale», mentre attraverso il suo ufficio stampa l’ex ministro ha fatto sapere che «mai è stato chiesto» a Scajola «se avvalersi o meno della prescrizione». L’inchiesta bis che si proponeva di scoprire i perché della mancata assegnazione di una scorta al giuslavorista collaboratore dell’allora ministro del Welfare Roberto Maroni, aveva avuto una svolta il 26 febbraio scorso con la decisione della procura bolognese di indagare Scajola e De Gennaro. Per i magistrati entrambi avevano gli elementi per valutare i rischi che correva Biagi e gli strumenti per intervenire. Se lo avessero fatto - è il ragionamento dei pm se avessero ordinato una seppur minima forma di protezione nei confronti del giuslavorista, probabilmente Biagi non avrebbe subito l’attentato che lo ha ucciso. Invece nonostante i loro ruoli al vertice della pubblica sicurezza, né Scajola né De Gennaro si mossero, rimasero «del tutto inerti».Una convinzione che i magistrati hanno motivato con il fatto che i due indagati non avrebbero preso in considerazione le relazioni dei servizi che individuavano Marco Biagi come un obiettivo dei terroristi per il ruolo ricoperto, ma non avrebbero ascoltato neanche le tante «autorevoli segnalazioni circa l’elevata esposizione del professor Biagi a rischio attentati». Visto però il tempo trascorso dai fatti, il solo modo perché si potesse arrivare all’accertamento della verità sarebbe stata la disponibilità da parte dell’ex ministro e dell’ex capo della polizia a non avvalersi della prescrizione. Cosa che, per un motivo o per un altro, non è stata fatta, rendendo così impossibile procedere. «La prescrizione era la nostra richiesta», è stato l’unico commento rilasciato a caldo dal procuratore capo di Bologna, Roberto Alfonso. Evita ogni polemica Roberto Maroni, che quando era ministro del Welfare aveva in Biagi un suo stretto collaboratore. «Non entro nel merito delle questioni e delle prescrizioni - ha detto il presidente della Lombardia - per me rimane il dolore di quello che è successo. Ho un ricordo ancora molto vivo di Marco Biagi». pagina 4 il manifesto MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 LAVORO PENSIONI · Bruxelles: la risposta alla Consulta rispetti «i margini di sicurezza sul deficit». Padoan: «Def a saldi invariati» Rimborsi non a tutti, lo chiede la Ue Antonio Sciotto I l decreto sulle pensioni arriverà entro la settimana: lo ha dichiarato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, uscendo dall’Ecofin di Bruxelles, facendo intendere che la questione è stata oggetto di confronto al tavolo Ue e che la Commissione è in attesa di una soluzione che le dovrà piacere. I commissari hanno anticipato un sostanziale via libera alla politica economica del governo, ma non a caso hanno posto l’accento sulla sentenza della Consulta, spie- Renzi e Alfano confermano che la sentenza verrà «interpretata». Cgil: «Ok ma ci consulti» gando che aspettano di sapere quale via percorrerà il governo. Padoan ha spiegato che si sta lavorando a «una soluzione che minimizzi l’impatto sulla finanza pubblica e che permetta di continuare a rispettare, come indicato nel Def, tutti i parametri di finanza pubblica». Insomma, si farebbe in modo di rimanere al 2,6% di deficit indicato quest’anno: anche se proprio dall’Europa potrebbe venire una ulteriore flessibilità, tale da permettere all’Italia di arrivare fino al 2,8%, e di racimolare così ulteriori 3,2 miliardi di euro che si aggiungerebbero al "tesoretto" già rimediato innalzando l’asticella dall’originario 2,5% fino appunto al 2,6%. La Commissione, che discuterà oggi il testo elaborato sulle nostre prospettive economiche, chiede che quanto verrà speso per lo sblocco delle indicizzazioni venga compensato in modo da restare con un margine di sicurezza sotto il tetto del 3%, e impegnandosi a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2017. Le misure per «compensare appropriatamente» l’impatto della sentenza della Consulta - dice la bozza di raccomandazioni Ue - «devono assicurare che l’Italia resti nel braccio preventivo del Patto, che sia rispettato il "margine di sicurezza" sul defi- cit, che l’"obiettivo di medio termine" sia raggiunto in 4 anni». Quindi, sostanzialmente, non cambierebbero impegni e obiettivi dell’Italia, ma le si potrebbe lasciare la possibilità di alzare il livello del deficit fino al 2,8%, parametro che lascerebbe un margine di sicurezza, un "cuscinetto" dello 0,2% rispetto al target del 3%. Ma appunto non è ancora detto che si faccia ricorso a questa possibilità. Quel che è certo, è che il governo non ha la minima intenzione di restituire tutto a tutti. Insomma, interpreterà il più possibile la sentenza per tarare i risarcimenti e non sconvolgere i conti. Lo ha fatto capire Padoan, ma soprattutto lo ha dichiarato lo stesso premier Matteo Renzi, e poi in serata lo ha ribadito il ministro degli Interni e leader di Ncd Angelino Alfano. «La sentenza (della Consulta, ndr) non dice che bisogna pagare domani tutto, che è obbligatorio restituire tutto. Può darsi che offra margini, verificheremo», ha detto Renzi nel corso di una lunga e arti- MILANO · Il gip sequestra 1,2 miliardi a Lugano L’area Ilva si risanerà con il «tesoro» dei Riva Gianmario Leone U na decisione attesa ma che può segnare una svolta nella storia dell’Ilva di Taranto. Il gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo ha infatti sbloccato nella giornata di lunedì gli 1,2 miliardi di euro sequestrati nel maggio 2013 ai fratelli Emilio (morto nell’aprile 2014) e Adriano Riva e a due consulenti accusati di truffa allo stato e trasferimento fittizio di beni. Il gip ha accolto la richiesta dei tre commissari straordinari dell’Ilva Gnudi, Carrubba e Laghi. L’operazione è prevista dall’ultima legge «salva Ilva», così come dalle leggi 89/2013 e 6/2014. Ma mentre i provvedimenti precedenti ne disponevano diversamente l’uso - quella del 2014, ad esempio, all’aumento di capitale dell’Ilva -, l’ultima indica invece come obiettivo unico l’attuazione del piano ambientale. Ora i commissari potranno emettere obbligazioni pari all’importo sequestrato, che saranno intestate al Fug (Fondo Unico di Giustizia) e per conto dello stesso a Equitalia Giustizia spa quale gestore. La misura cautelare del sequestro penale sulle somme si con- vertirà in sequestro delle obbligazioni di prossima emissione. Ora la magistratura elvetica deve notificare l’ordinanza del gip alla banca Ubs di Lugano. Il «tesoro» dei Riva si trova nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti (gruppo Banco Popolare) ed è intestato a 8 trust domiciliati sull’isola di Jersey, paradiso fiscale inglese. Attualmente sono su conti italiani presso il Fug 120 milioni di euro (60 liquidi e 60 in titoli) del sequestro Riva: questo permetterà ad Ilva di emettere le prime obbligazioni incassando le relative somme. Inoltre, sugli 1,2 miliardi ammonterebbero a non più di 800 milioni di euro le somme liquide. È probabile che i legali di Adriano Riva presenteranno un ricorso in Cassazione, ma ciò non impedirà l’esecuzione del provvedimento. Le somme sequestrate ai Riva si andranno ad aggiungere ai 400 milioni di euro di finanziamenti (300 saranno erogati da Cdp e 100 da Banca Intesa e Banco Popolare) coperti dalla garanzia dello Stato (proprio lunedì la Corte dei Conti ha dato l’ok al decreto del Mef in materia), e ai 156 milioni provenienti dal contenzioso Fintecna. BRACCIANTI · Il dramma di Ragusa diventa teatro La drammatica storia delle braccianti rumene sfruttate e violentate da caporali e imprenditori agricoli del ragusano diventa uno spettacolo teatrale. L’Associazione Santa Briganti in occasione del festival teatrale Scenica 2015, che si svolge a Vittoria dal 9 al 17 maggio, ha prodotto uno spettacolo in collaborazione con la Flai Cgil intitolato «Sera Biserica» sul tema dello sfruttamento del lavoro nelle serre. Lo spettacolo si terrà il 15 maggio, alle 21, al Teatro Comunale Vittoria Colonna. Lo scorso mese di aprile un imprenditore vittoriese è stato arrestato per violenza e abuso ai danni di una donna romena alle sue dipendenze da 8 anni. «La Flai Cgil - spiega lo stesso sindacato - è impegnata da anni a contrastare il fenomeno dello sfruttamento diffuso nelle campagne ai danni di braccianti stranieri e italiani, e ha più volte denunciato casi estremi di violenza e sfruttamento sessuale, richiedendo di incentivare l’attività di contrasto attraverso controlli da parte delle forze dell’ordine». «Denunciare non vuol dire generalizzare e tacciare come sfruttatori, o peggio stupratori, tutti gli imprenditori del settore - conclude la Flai Cgil - L’iniziativa di produrre uno spettacolo teatrale su questi temi vuole rappresentare un momento di riflessione diretto a tutti». Conferenza stampa venerdì alle 10,30 nella Sala Mandarà a Vittoria con Jean René Bilongo (Flai Cgil). colata intervista a RepubblicaTv. «Nei prossimi giorni - ha aggiunto il presidente del consiglio - verificheremo le carte della sentenza, l’abbiamo appresa dalle agenzie il 30 aprile che è stato un brillante modo per festeggiare il primo maggio, verifichiamo per evitare gli errori che ha fatto chi ci ha preceduto. Lo faremo il prima possibile». Alfano ha risposto alla seguente domanda, posta dalla radio Rtl 102,5: sul caso pensioni Renzi ha detto che non bisogna restituire tutto a tutti e subito, è questa la linea ufficiale del governo? «È questa, e credo sia conforme a quello che ha detto la Corte Costituzionale che è stata interpretata molto rapidamente e molto sommariamente da parte di taluni osservatori», ha replicato il ministro. Un’apertura a questa ipotesi è venuta dalla segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, che ha parlato uscendo dall’incontro di Palazzo Chigi sul ddl scuola: «Il governo può decidere con quali modalità e con quali caratteristiche» applicare la sentenza della Consulta sull’indicizzazione delle pensioni «ma penso dovrebbe farlo confrontandosi anche con i sindacati per trovare soluzioni che non siano, come quelle prese in passato, bocciate dalla Consulta». Camusso chiede quindi non solo un incontro (promesso tra l’altro dal ministro Poletti alle organizzazioni dei pensionati), ma anche, più in generale, un confronto sull’intera riforma Fornero. Le opposizioni, al contrario, anche per trovare un efficace argomento di protesta, pressano perché la sentenza venga applicata in via estensiva, ovvero restituendo tutto a tutti e subito: Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, di Forza Italia, chiedono di «rispettare la sentenza» e di «pagare tutto». Identica richiesta viene da Matteo Salvini, segretario della Lega: «Arriviamo a 20 miliardi di euro che stanno cercando di trovare non per tutti e non subito». Torino/ I FAMILIARI CHIEDONO LA VICINANZA DELLO STATO Eternit, in attesa del processo bis governo e regione assenti in aula Mauro Ravarino TORINO N on è e non può essere come sei anni fa, quando iniziava – il 6 aprile 2009 – la prima udienza preliminare del maxi-processo Eternit, dichiarato prescritto lo scorso novembre. All’epoca il Tribunale di Torino si era riempito di persone, provenienti da tutta Europa, e di speranza. Nel corso degli anni, le vittime della fibra-killer sono aumentate (60 decessi l’anno nella sola Casale Monferrato) e diminuiti gli auspici di giustizia, dopo la contestata sentenza della Cassazione. Ieri, davanti al gup Federica Bompieri, si è aperta l’udienza preliminare del processo Eternit bis, in cui la procura di Torino contesta al magnate svizzero Stephan Schmidheiny l’omicidio volontario per la morte, per malattie correlate all’amianto, di 258 persone, tra operai e residenti, fino al 2014 nelle zone dove sorgevano gli stabilimenti Eternit in Italia. «Un processo – prova a rassicurare il pm Raffaele Guariniello – che non corre il rischio di prescrizione». Da Casale è arrivato un pullman carico di familiari. «È dura ricominciare tutto dall’inizio, ma abbiamo fiducia», commenta Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto. «La nostra lotta continua, non possiamo fare altrimenti», aggiunge Romana Blasotti, presidente uscente dell’Afeva. Lo scoramento è palpabile, ma il movimento resiste. «Siamo qui con determinazione e con forza di volontà. Speriamo che questa volta la giustizia e il diritto possano coincidere», sottolinea il sindaco della cittadina piemontese, Titti Palazzetti. Il Comune di Casale ha richiesto di costituirsi parte civile, così come alcune decine di parenti delle vittime, i sindacati (Cgil-Cisl-Uil regionali), le associazioni Afeva e Medicina Democratica, l’Inail. Mancano ancora all’appello la presidenza del Consiglio, nonostante le promesse di Renzi ai familiari lo scorso autunno, e alcune Regioni interessa- te dalla presenza degli stabilimenti. «Ci sono 14 udienze preliminari, ci auguriamo – ha spiegato Nicola Pondrano, presidente del Fondo vittime dell’amianto ed ex operaio Eternit – che presto ci sia una convergenza del mondo istituzionale e politico al nostro fianco. Non possiamo permetterci di essere beffati anche questa volta: dunque, perché non mettere in campo, a partire dallo Stato, tutte le forze disponibili?». In serata è arrivata la conferma dal governatore Sergio Chiamparino che il Piemonte si costituirà parte civile. Silenzio, invece, da Palazzo Chigi. La difesa di Schmidheiny è partita subito all’attacco, sostenendo come il processo Eternit bis «violi i diritti umani». L’accusa di omicidio volontario viene definita «assurda». E la Procura di Torino, nel promuoverla, starebbe, secondo Astolfo Di Amato (legale dell’imprenditore svizzero), «ignorando doppiamente il principio “ne bis in idem”, in quanto i fatti sono gli stessi del processo precedente». Guariniello, a margine dell’udienza, ha ribattuto: «È stata la stessa Cassazione a dirci che nel processo precedente si parlava solo del disastro ma non entrano in gioco gli omicidi. Questo ci ha dato un’ulteriore spinta per andare nella direzione di un nuovo processo con un nuovo capo d’accusa». Il pm, insieme al collega Gianfranco Colace, contesta, inoltre le aggravanti di aver commesso il fatto per «mero fine di lucro» e «con mezzo insidioso», perché avrebbe omesso l’informazione a lavoratori e cittadini sui rischi e promosso una «sistematica e prolungata» opera di disinformazione. Guariniello ha poi concluso: «Il nostro Paese è l’unico in cui si fa un processo e questo è un vanto per la giustizia di tutta Italia. È un caso che può fare scuola anche in altri Paesi». L’udienza preliminare è stata aggiornata a giovedì per permettere alla difesa di esaminare le carte relative alla numerose richieste di costituzione di parte civile. Il Gup decide sulla base della nuova accusa di omicidio volontario WHIRLPOOL Vertenza lenta, Carinaro e None aspettano certezze «S piragli», «aperture». Alla quarta riunione del tavolo - con altre tre già previste - la vertenza Whirlpool va avanti a passi piccoli e lenti. L’azienda continua a dirsi pronta a dialogare, ma non mette le carte sul tavolo. Specie sui possibili spostamenti di produzioni che garantirebbero la sopravvivenza di Carinaro (Caserta) con i suoi 815 esuberi dichiarati e None (Torino), siti inizialmente destinati alla chiusura nel piano industriale della multinazionale americana che ha acquistato Indesit. Ieri al ministero dello Sviluppo economico è andata in scena la prima «ristretta». Alla riunione con l’Ad di Whirpool Italia Davide Castiglioni questa volta hanno partecipato solo i segretari generali e nazionali di Fim, Fiom e Uilm - senza gli Rsu dei vari stabilimenti - con la padrona di casa Federica Guidi e il sottosegretario al Lavoro Teresa Bellanova. Di solito sono queste le riunioni in cui si fanno i passi avanti decisivi nelle vertenze. Ieri non è successo. Rimandando tutto a venerdì - quando si incontreranno solo azienda e segretari generali - e a mercoledì prossimo - quando è prevista una nuova ristretta al ministero. Ancora non fissata ma già assicurato invece una nuova plenaria con tutti gli Rsu per discutere più approfonditamente del destino di ogni sito italiano. «Abbiamo fatto un passo avanti nel dialogo tra le parti dando disponibilità a ricercare progetti e attività che creino occupazione, con particolare riferimento alle regioni Campania e Piemonte», fa sapere in una nota Whirlpool. Lasciando ai prossimi incontri del 15 e del 20 maggio «l’ulteriore approfondimento». A precisa domanda della Fiom, l’azienda ha spiegato che la possibilità di spostare produzioni su Carinaro non sarebbe legata alla sola erogazione di 80 milioni in ricerca promessi dal presidente (uscente) della Regione Caldoro. Sul tema comunque ha fatto leva anche la sottosegretaria Bellanova (Pd) che alle elezioni appoggia De Luca. Variegate le reazioni sindacali: la Fim è positiva, la Uilm preoccupata, la Fiom aspetta di valutare le novità. «Si è aperto un piccolo spiraglio che andrà confermato e consolidato nel prosieguo del negoziato - spiega il segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli - . L’accordo Indesit prevedeva lo spostamento di piattaforme produttive a Carinaro, da lì bisogna partire», chiude Bentivogli. «È stato un incontro deludente che non ha risolto nessuno dei problemi sul tappeto, men che meno quello di Carinaro», dichiara invece il segretario generale della Uilm Rocco Palombella. «Non se ne è proprio parlato», attacca, nonostante «settimane di scioperi e mobilitazioni». «La possibilità di altre attività, interne o esterne, per salvaguardare l’occupazione ed evitare le chiusure di Carinaro e None, e una nuova piattaforma che potrebbe rafforzare le produzioni in Campania vanno prese con cautela: l’azienda non ha ancora tradotto nulla di esse in proposte concrete», commenta Michela Spera, segretario nazionale Fiom, presente al tavolo assieme a Maurizio Landini. «Faremo il possibile affinché quelle che oggi sono state delle lievi aperture diventino le basi per una discussione seria ed efficace orientata alla tutela di tutti i lavoratori», dichiara il segretario generale dell’Ugl metalmeccanici, Antonio Spera. m. fr. MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 il manifesto SCUOLA LA PROTESTA CONTRO LA RIFORMA. A DESTRA, SIT-IN CONTRO LE PROVE INVALSI. SOTTO, LA FILOSOFA VALERIA PINTO pagina 5 TEST · Sciopero contro il Ddl Renzi-Giannini Invalsi, il boicottaggio dei quiz fa il record Roberto Ciccarelli A A PALAZZO CHIGI · Cgil, Cisl e Uil: scrutini a rischio e nuove proteste. Ma strappano un nuovo incontro «Modifiche insufficienti» I sindacati non cedono Massimo Franchi B locco degli scrutini e possibile nuovo sciopero. Sulla riforma della scuola i sindacati non mollano e, anzi, rilanciano la protesta, insoddisfatti dalle - poche - modifiche apportate al testo originario del disegno di legge. A differenza di quanto accaduto contro il Jobs act, questa volta anche la Cisl - sebbene più cauta - si allinea. Una unità che fa spuntare dal governo la promessa di un altro incontro dopo il passaggio al Senato. A palazzo Chigi, ma senza Renzi. A otto mesi dall’ora e 47 minuti dell’ultimo incontro - l’ormai lontanissimo 7 ottobre - Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo sono tornati alla mitica Sala Verde della sede della Nelle stesse ore la concertazione 2.0 di Renzi: dialogo su twitter e la promessa di un #matteorisponde presidenza del consiglio. Nessuno parla più di concertazione. Però il governo ha dovuto fare - una piccola - marcia indietro dovuta alla straripante protesta contro la Buona scuola di Renzi e al successo - almeno il 70 per cento di adesione - dello sciopero di martedì scorso. Assecondando la richiesta di Cgil, Cisl e Uil (più Gilda e Snals) di non accontentarsi dell’incontro della scorsa settimana al Nazareno con il vicesegretario e presidente del Pd. La cifra di quanto il sindacato abbia comunque ottenuto una trattativa la dà il duetto finale al tavolo fra Susanna Camusso e il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio - ed esperto in rapporti col sindacato - Claudio De Vincenti. Al momento del congedo il segretario generale Cgil chiede: «Ma come? Ci lasciate rinviandoci alle commissioni parlamentari per le audizioni? E non date risposte?». De Vincenti allora è costretto a promettere un nuovo incontro a palazzo Chigi: «Le categorie incontreranno il ministro Giannini e dopo il passaggio al Senato torneremo ad incontrarci qui». Fuori da palazzo Chigi dunque l’insoddisfazione per le mancate risposte fa il paio con l’inizio di una possibile trattativa. «L’incontro con i sindacati è dovuto al fatto che la mobilitazione ha colpito anche il governo e reso evidente che non c'è condivisione» sul ddl scuola. «Ora è tutta nel governo la responsabilità di decidere se con quel mondo vuole condividere le risposte o se tira dritto. Il fatto che abbiano proposto un calendario dice che non sono sicuri di tirare dritto», commenta Susanna Camusso. «È ancora come se avessimo la pistola puntata alla tempia», è la metafora forte usata dal leader Uil Carmelo Barbagallo. Se all’uscita i toni della Cisl sono stati più concilianti - «deciderà la categoria ma il dialogo è positivo e i passaggi parlamentari possono consentirci molte modifiche» non meno dura è stata Annamaria Furlan. Nel suo intervento al tavolo ha attaccato frontalmente il governo: «Le modifiche che sono state introdotte in parlamento non sono sufficienti perché non ri- muovono i punti critici che noi non condividiamo. Se si fossero fatti prima altri incontri con il Governo sicuramente avremmo costruito un percorso più utile per cambiare la scuola», ha attaccato. Sul merito saranno le categorie ad incontrare il ministro Giannini - che ha comunque dovuto ammettere che «restano divergenze forti, ma c’è la volontà di dialogo» - e le richieste rimangono sempre le stesse: stralcio delle assunzioni dal ddl con un apposito decreto che tenga conto di tutti i precari; cancellazione delle assunzioni a chiamata e degli albi territoriali; meno presidi «sceriffi» o «sindaci» e più collegialità nelle decisioni su assunzioni e piano formativo triennale. Per rimettere le cose al proprio posto e non far fare voli pindarici ai sindacati, il governo oggi comunque incontrerà anche le associazioni dei genitori. Tra le quali spicca il Moige. Nelle stesse ore dell’incontro governo-sindacati, il presidente del Consiglio portava avanti il suo personalissimo dialogo sulla scuola. Su Twitter. Prima ha risposto ad un tirocinante (Tfa), categoria ora esclusa dalle assunzioni: «Comprendo la rabbia, ma lei sa che noi siamo chiamati ad applicare la legge», ha risposto a Gaetano. Poi ha concluso con un giudizio ultimativo: «Il dialogo su La buona scuola è utile» e con un più prosaico: «Torno alle riunioni», promettendo però per i «prossimi giorni» «un #matteorisponde». La concertazione 2.0. lle 10 del mattino di ieri nei «trending topic» su twitter svettava il boicottaggio all'#invalsi2015. In un paio d'ore la più grande protesta contro il modello neoliberista di valutazione registrata da quattro anni a questa parte (adesioni al 23%) si è trasformata in uno sciopero virtuale contro il Ddl Renzi-Giannini-Pd che giovedì sarà discusso in aula alla Camera. «Valutati con delle "x"? Classificati con un codice? Siamo persone, non macchine” hanno scritto da Vimercate e rilanciato da Lamezia Terme. «Qui abbiamo tutti scioperato. Schedare e classificare non equivalgono a valutare» hanno scritto gli studenti da Pescara. «Saperi critici contro standardizzazione!» hanno risposto quelli da Roma. Lo sciopero è stato anche concreto: intere classi hanno consegnato le prove in bianco. A Trieste il test invalsi è stato boicottato costruendo "opere d'arte" con sedie e banchi, «così le hanno definite i docenti» racconta il collettivo Oberdank che ha postato foto di vere installazioni. A Bari «un'ampia adesione ha coinvolto il 70% degli studenti mentre a Brindisi il 90%» sostiene la coordinatrice Uds Puglia Arianna Petrosino. «Mi sa, mi sa/Ca me n'aggia/Tornà a cas'/ Cca' so tutt sciem» si è letto su una foto diffusa da uno studente napoletano mentre i suoi coetanei sfilavano in corteo in centro contro il governo. «Ragazzi, se venite è bene, se non venite è meglio» avrebbe detto un docente di matematica, a INTERVISTA · Valeria Pinto, autrice di «Valutare e Punire» sulla critica alla meritocrazia La resistenza necessaria della scuola U n «salto di qualità» nella consapevolezza degli effetti della valutazione sulla vita degli studenti e dei docenti. Per Valeria Pinto - docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli e autrice di un attuale volume sulla valutazione nell'università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) - il successo delle proteste contro le prove Invalsi 2015 è il segno che in questi mesi, in corrispondenza con la riforma Renzi sulla scuola, c'è stato uno scarto di percezione su un tema fondamentale. «Fino a qualche tempo fa – afferma - la valutazione era un tema per addetti ai lavori. C'era un monopolio tecnico che non permetteva la discussione. Oggi sono in pochi a cadere nel tranello che la confonde con il giudizio. Il giudizio comporta un momento di invenzione. La valutazione è invece un processo meccanico che mette fuori gioco l'interpretazione. La riforma della scuola viene dopo l'approvazione del Jobs Act e quella della legge elettorale. La strategia a mosaico di Renzi è ormai delineata ed è stata compresa». A cosa servono le prove Invalsi? A misurare e a commisurare, cioè a mettere in concorrenza scuole, docenti, studenti, una parte del paese contro l'altra. In generale si vuole far passare l'idea che l'educazione dev'essere fondata su criteri oggettivamente misurabili. Una volta fissati determinati obiettivi dall'alto si adottano le strategie per raggiungerli. A questo proposito, i valutatori parlano di un esperimento di ingegneria sociale. L’espressione è da intendere in senso letterale, non metaforico. Le prove Invalsi, i test Pisa, e tutti gli altri dispositivi della valutazione rispondono a una visione politica che si realizza attraverso indicatori e non con l'interpretazione. Il Ddl Renzi-Giannini sulla scuola viene criticato in particolare per l'autoritarismo del preside-manager. Sono timori giustificati a suo parere? Sì. Si sta delineando una scuola dove viene meno la democrazia, mentre avviene un accentramento fortissimo delle decisioni in capo ad un'unica figura. È un modello di organizzazione verticistico che dirige un apparato tecnico senza lasciare spazio alla differenza. In questo sistema che opera per un fine prestabilito e univoco verrà meno ogni momento di vera libertà e possibilità di sottrarsi alla macchina dell'educazione. Gli insegnanti diventeranno tecnici dell'insegnamento che devono mettere in opera ciò che è stato deciso dall'alto. E gli studenti? Vivranno in una scuola dove il modello aziendale sarà applicato completamente, senza alcuno scarto. Nel suo libro ha descritto la riforma Gelmini come uno strumento per «valutare e punire» studenti e docenti. La «Buona Scuola» a cosa servirà? La scuola sta reagendo, non me l’aspettavo. Nonostante tutto, è rimasta un'enclave dov'è ancora viva l'idea del «pubblico». La scuola rappresenta uno degli ambiti politicamente decisiva perché nelle sue aule si formano le soggettività che votano, consumano e producono. Agire oggi su di essa significa portare un attacco contro una zona ultra-sensibile della società che ha opposto una resistenza al processo neoliberale in corso. Se passerà la riforma questo processo si completerà in maniera pericolosa. In autunno la riforma dell’università dove Renzi applicherà un nuovo Jobs Act a docenti e precari È stata annunciata per il prossimo autunno la «Buona Università». Che cosa prevede? L'istruzione sarà sottratta alla pubblica amministrazione ed è probabile che le posizioni di chi è assunto a tempo indeterminato verranno messe in discussione. Per i precari si parla di un Jobs Act dedicato solo a loro. In generale, non sarà modificata la linea della Gelmini ma, anzi, approfondita. Per questo spero che la scuola oggi riesca a contenere l'offensiva. Mi sembra che il governo si sia reso conto che la sua è stata una mossa sbagliata. Se continueranno a forzare la mano, com'è probabile, dovremmo attendere una nuova riforma che andrà avanti travolgendo ogni dissenso. Nessuno ha posto il problema della trasformazione dell'idea di istruzione prospettata da Renzi. Oggi l'università è debole. ro. ci. dimostrazione del dissenso tra i docenti che hanno aderito allo sciopero indetto dai Cobas o allo «sciopero breve di mansione» dichiarato da Usb scuola. A Bologna ha fatto notizia il flashmob dal titolo «Il grande quiz InFalsi» in piazza re Enzo, in pieno centro. La prova è stata messa in scena a ruoli invertiti: erano gli insegnanti a rispondere ai quiz e gli studenti a somministrarli. «L'Invalsi non è un metodo di valutazione ma di misurazione – sostiene il coordinamento precari scuola Bologna - E poi non bisogna dimenticare che fa parte dell'esame di terza media. C'è una forte contraddizione, in merito. Bisognerebbe discuterne ma non ce n'è la minima intenzione». Anche questi docenti chiedono il ritiro del Ddl sul «Buona Scuola». Sul suo blog la docente Marina Boscaino sostiene di avere rinunciato a 17 euro di stipendio, mentre il comitato «Adotta la Lip» ha aderito alla terza giornata di protesta contro il Ddl. «Il metodo del test a crocette non è adeguato a dare uno spaccato completo riguardo le capacità degli studenti La protesta contro i test basati su un concetto di «merito» che ignora le diseguaglianze e nemmeno il questionario sulla condizione sociale di partenza è adeguato» spiega Alberto Irone della Rete degli studenti medi che all'alba di ieri ha realizzato un flashmob al Miur. Tra le migliaia di tweet c’è anche un ritratto preciso della protesta diffusa. Sotto la minacciosa scritta in un questionario «Non girare la pagina finché non ti sarà detto di farlo!” si è letto: «Boicottiamo i test Invalsi perché costano 14 milioni di euro, soldi sprecati mentre si taglia il diritto allo studio; perché sono basati su un concetto di merito sbagliato e ignorano le diseguaglianze socio-economiche; sono antidemocratici perché costruiti dal Miur e dall'Invalsi e non da enti di ricerca autonomi. La valutazione è un tema da decidere nelle scuole e dal basso». «Da oggi partirà lo sportello Sos per difendere gli studenti da ritorsioni e illegittime sanzioni – sostiene Danilo Lampis, coordinatore dell'Unione degli studenti Nella nostra proposta “Altra Scuola” la valutazione non è una schedatura, ma valorizza le capacità, migliora la didattica, educa alla cooperazione». Questa critica articolata al modello Invalsi che ha colto impreparati il governo e il Pd. «È un boicottaggio indecente» ha detto il sottosegretario all'Istruzione Faraone (Pd). «Boicottare le prove Invalsi significa usare gli studenti a fini politici. La battaglia politica va fatta fuori dalle aule scolastiche» ha detto la responsabile scuola Pd Puglisi. Gli studenti ragionano invece con la loro testa e criticano il modello econometrico e aziendalista di una valutazione che ha lo scopo di controllarli e trasformarli in cittadini imprenditori di se stessi. Questa mobilitazione dimostra l’esistenza di un mondo che non si lascia valutare passivamente, né pacificamente. pagina 6 il manifesto MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 SOCIETÀ ROMA Perché Marino non si occupa davvero dei Rom? Alessandro Capriccioli* I Luca Fazio Q uand’anche l’Europa trovasse un accordo per bombardare l’obiettivo sbagliato - lo scafista, dipinto come il male assoluto - il "problema" in Libia non sarebbe risolto. Non si arresterebbe la conta dei morti (i migranti moriranno lontano dal canale di Sicilia, se può essere di consolazione) e certamente non terminerebbero le sofferenze per migliaia di persone che fuggono da fame e guerre. «Implementare misure per contrastare i trafficanti senza fornire un’alternativa alle persone che scappano dal conflitto in Libia non risolverà la piaga dei migranti», dice il direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e Nord Africa Philip Luther. Non sono lamentose considerazioni, è la realtà che Amnesty ha indagato con il suo nuovo rapporto intitolato «La Libia è piena di crudeltà». Si leggono i motivi politici e storici che spingono i migranti a sfidare la morte nel Mediterraneo per arrivare in Europa - niente che non sia già noto a Federica Mogherini e ai ministri della Ue - ma an- Appello a Tunisia ed Egitto affinché aprano le frontiere ai rifugiati che diverse testimonianze di abusi, violenze sessuali, torture e persecuzioni religiose. Il testo contiene anche un appello alla Tunisia e all’Egitto affinché allarghino le maglie alle frontiere per permettere a migranti di lasciare la Libia (trafficanti e bande criminali hanno rubato i loro passaporti e anche per questo non possono fare altro che imbarcarsi per lasciare il paese). «Le indicibili condizioni in cui si trovano i migranti insieme alla crescente assenza di legalità e ai conflitti armati in corso nel paese - dice Philip Luther - rendono evidente quanto sia pericoloso oggi vivere in Libia. Senza percorsi legali per fuggire e cercare salvezza, queste persone sono costrette a mettersi nelle mani dei trafficanti, che le sottopongono a estorsioni, attacchi e altri abusi». Il rapporto non fa sconti alla comunità internazionale, accusata di essere rimasta a guardare la Libia «discendere nel caos» dopo la fine dell’intervento della Nato del 2011. Ormai è diventato il principale paese di transito per i rifugiati in fuga dai conflitti dell’Africa sub sahariana e del Medioriente. Non è più possibile chiudere gli occhi, dice l’associazione, e limitarsi a distruggere le imbarcazioni dei trafficanti senza predisporre rotte alternative e sicure e senza «adottare misure concrete per affrontare le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto libico». I rifugiati di religione cristiana sono i più a rischio. Provengono da Nigeria, Eritrea, Etiopia ed Egitto. Sono stati rapiti, torturati, uccisi e perseguitati. «Ultimamente - si legge nel rapporto di Amnesty International - almeno 49 cristiani, per lo più provenienti dall’Egitto e dall’Etiopia, sono stati decapitati o fucilati in tre esecuzioni sommarie di massa rivendicate dal gruppo Stato islamico». Non è difficile raccogliere testimonianze come quella di Charles, un cristiano nigeriano di trent’anni aggredito da una banda criminale lungo le coste libiche: «Arrivavano, ci rubavano i soldi e ci frustavano. Non potevo far presente alla polizia il mio credo cristiano perché quelli come noi non gli piacciono. Nell’ottobre del 2014 sono stato sequestrato da quattro uomini armati che si erano accorti che avevo con me una bibbia». Lo hanno torturato per due giorni, poi è riuscito AMNESTY INTERNATIONAL · Nell’ultimo rapporto la denuncia delle violenze sui migranti «La Libia è piena di crudeltà» a scappare da una finestra. Questo per dire che «i leader europei devono assicurare che i migranti in fuga non siano mai rimandati indietro in Libia». Le persecuzioni lungo le rotte dei trafficanti non sono solo di natura religiosa. I migranti che provengono dalle zone sub sahariane, compresi i minori, durante il tragitto «vengono torturati per costringere loro e le loro famiglie a pagare un riscatto». Chi non può ricevere denaro viene ridotto in schiavitù. Le donne, soprattutto quelle che viaggiano sole, rischiano di essere stuprate, «vengono obbligate a fare sesso in cambio del rilascio o del permesso di proseguire». Ci sono molte testimonianze. «Mi hanno portato fuori città - ha raccontato una nigeriana - hanno legato mio marito a un palo per le mani e le caviglie e mi hanno stuprato davanti ai suoi occhi, erano in tutto undici». Con l’arrivo in Libia, in attesa di salpare su qualche imbarcazione di fortuna, la situazione non BIRMANIA 350 migranti Rohingya abbandonati in mare Circa 350 migranti Rohingya in fuga dalla Birmania sono stati abbandonati a bordo di un barcone al largo della Thailandia, senza carburante e ormai senza cibo né acqua da tre giorni. A denunciarlo è stato Chris Lewa, responsabile dell'Arakan Project, un'associazione che monitora le condizioni della minoranza musulmana discriminata in Birmania. «Hanno chiesto di essere salvati urgentemente», ha detto Lewa dopo essere riuscita a mettersi in contatto con uno dei migranti, aggiungendo che una cinquantina delle persone a bordo sono donne, e che il barcone si trova probabilmente al largo del sud della Thailandia vicino alla Malesia. Nelle ultime 48 ore, circa 2 mila migranti - tra Rohingya e bengalesi - sono approdati sulle coste malesi e indonesiane. Un barcone con 400 persone è stato respinto dall'Indonesia e rispedito verso la Malaysia, secondo le autorità locali dopo che i migranti sono stati riforniti di provviste. Negli ultimi tre anni, oltre centomila Rohingya sono fuggiti dalla Birmania a bordo di barconi gestiti da trafficanti senza scrupoli, in fuga dalle violenze della maggioranza buddista e lasciando spesso alle spalle famiglie che vivono in squallidi campi di sfollati. cambia. I migranti vengono segregati anche tre mesi in case diroccate, senza acqua né cibo. Alcuni rifugiati siriani hanno raccontato di essere stati trasportati in furgoni frigoriferi in cui passava poca aria: «Due bambini hanno iniziato a soffocare e hanno smesso di respirare, i genitori li schiaffeggiavano per fargli riprendere conoscenza. Noi battevamo sulle pareti ma l’autista non si fermava, in seguito i bambini si sono ripresi». Infine, i centri di detenzione per i migranti, «le cui condizioni sono terribili e in cui la tortura è la regola». Percosse quotidiane, «con tubi di gomma dietro le cosce», e stupri ripetuti per mesi. Le autorità libiche «devono immediatamente porre fine alla sistematica detenzione di migranti», conclude Philip Luther. Amnesty International, all’Europa, «ai paesi ricchi», chiede di più: «Il mondo non può continuare ad ignorare il suo obbligo di concedere asilo a chiunque fugga da tale abuso terribile». Bologna/ SABATO PROSSIMO, ANNIVERSARIO DELLA RIVOLTA DI AUSCHWITZ Rom e sinti in marcia contro i rischi di «un nuovo Olocausto» Carlo Lania ROMA D a troppo tempo sentono crescere intorno a loro un clima ostile, per non dire violento. Lo avvertono ogni volta che accendono la televisione nel vedersi descritti quasi sempre e solo come gente che vive in campi pieni di immondizia e con i topi che scorrazzano tra le gambe dei bambini. Un’immagine che poi finisce col ripercuotersi inevitabilmente nei discorsi della gente e, cosa ben peggiore, in quelli dei politici. «Sembra di essere tornati ai tempi del fascismo, quando discorsi razzisti come quelli che si sentono oggi portarono poi al varo delle leggi razziali» dice con tono preoccupato Davide Casadio, il presidente dell’Associazione Sinti italiani in viaggio. Un clima che fa ancora più paura da quando la Lega ha fatto di rom e sinti uno dei suoi obiettivi principali, tanto che Matteo Salvini ha promesso di abbattere i campi rom il giorno in cui governerà il Carroccio. Per mettere fine a questo clima, ma anche per spiegare che «non tutti viviamo nei campi e comunque se anche ci vivi non vuol dire automaticamente che rubi», i rom e i sinti italiani hanno deciso di ribellarsi indicendo per sabato prossimo, 16 maggio, una manifestazione nazionale a Bologna. La data prescelta non è casuale. Il 16 maggio del 1944 i quattromila rom e sinti imprigionati ad Auschwitz si ribellarono ai nazisti venuti a prenderli per ucciderli. Non solo gli uomini, ma anche le donne e bambini si difesero disperatamente a col- pi di pietra riuscendo a respingere i loro aguzzini. La rivolta durò più di due mesi, fino al 4 agosto quando, dopo aver affamato le loro vittime, i nazisti riuscirono a ucciderne 2.897. «Oggi c’è il rischio di un nuovo Olocausto se in Europa dovesse andare al potere l’estrema destra», ha avvertito nei giorni scorsi Casadio. «Salvini ha violato palesemente tutte le leggi comunitarie che impediscono a un politico di alimentare odio e aizzare la gente ad agire in modo violento contro una specifica comunità, creando un clima da pogrom». Da cancellare, oltre ai toni violenti delle destre, ci sono anche una marea di luoghi comuni. A partire da quelli secondo cui sarebbero proprio rom e sinti a voler vivere nei campi. Come spesso accade, la realtà è molto diversa. In Italia risiedono 180 mila rom e sinti ma solo 40 mila di loro vivono nei campi e non è detto che sia una scelta. Tutti gli altri hanno un alloggio, mandano i figli a scuola, lavorano. La metà di loro è cittadino italiano, nella maggior parte dei casi integrato o comunque che cerca di esserlo. Chi invece vive nei campi paga per tutti, specie se si tratta di bambini. Secondo un rapporto dell’Associazione 21 Luglio 1 su 5 tra quanti crescono negli insediamenti non andrà mai a scuola, solo l’1% frequenterà la scuola superiore mentre quasi nessuno entrerà mai in un’aula universitaria. «Ogni giorno si registrano 1,5 discorsi di odio antizigani, e l’87% è riconducibile a esponenti politici», denuncia sempre l’associazione. La Lega ha già definito la manifestazione di sabato «una provocazione» e presentato un disegno di legge regionale che istituisce un fondo, già ribattezzato «fondo ruspe», per lo «smantellamento dei campi rom». Da parte sua Forza Italia ha indetto invece un sit in nel pomeriggio». Non tutti, però, la pensano così. Al corteo, che prenderà avvio da via Gobetti, parteciperanno le comunità sinti e rom provenienti da tutta Italia (sono previste tra le due e le tremila persone) ma hanno assicurato la loro presenza anche esponenti di Pd, Sel e Radicali, mentre il presidente del commissione Diritti umani di palazzo Madama, Luigi Manconi, rappresenterà il presidente del Senato Piero Grasso. «Anche noi abbiamo contribuito a costruire l’Italia», ricorda Casadio. «Rom e sinti hanno partecipato alla Resistenza e sono morti per liberare l’Italia dal nazifacismo. Eppure non c’è nemmeno un giorno della memoria per le vittime sinti e rom dell’Olocausto, quello che nella lingua sinta chiamiamo ubaro merope, la grande uccisione. Sabato sfileremo tutti con dei giubbini gialli per fare capire che siamo rimasti esclusi dalla società». ntendiamoci: verificare, come sta facendo la giunta Marino a Roma nelle ultime settimane, che i fruitori di pubblici servizi siano effettivamente in possesso dei requisiti per goderne è un’attività doverosa, che dalle nostre parti viene trascurata fin troppo spesso e che quindi, quando viene svolta in modo efficace, deve essere salutata con favore, siano i destinatari di quelle verifiche persone rom e non. Ragion per cui, se dai controlli del Comune di Roma viene fuori che qualche rom col conto in banca pieno di zeri occupa un posto nei cosiddetti "centri di accoglienza" senza averne diritto, invitarlo ad andarsene e a lasciare il posto ad altri appare ineccepibile. Ciò premesso, è bene tenere presente che il fenomeno riguarda sì e no qualche decina di persone, a fronte di circa ottomila rom che vivono nei campi a Roma: ottomila persone che il conto con gli zeri non l’hanno mai avuto e che da quei campi, che con il concetto di accoglienza hanno pochissimo a che vedere se si eccettua il nome, non andrebbero sgomberati, ma portati via e condotti verso percorsi di inclusione abitativa e sociale. Ecco, questa frenetica attività consistente nello smascherare una manciata di finti poveri dovrebbe essere considerata pressoché un dettaglio, rispetto al compito infinitamente più importante, e molto più impegnativo, di progettare un’esistenza dignitosa e offrire un futuro ai poveri veri: e la sensazione è che ci si dedichi a svolgere questa attività "di nicchia" con tanto zelo, e a comunicarne i risultati con tanta enfasi, come se si trattasse di un rimedio risolutivo a chissà quale problema, al solo scopo di distogliere l'attenzione dal fatto che sul resto, che poi rappresenta il grosso della questione rom, si continui a fare poco, per non dire niente. Sappiamo bene che per chi governa certe tentazioni sono forti, quasi irresistibili. Sappiamo bene che è fin troppo comodo contare sulla punta delle dita gli sporadici casi che assecondano, alimentano e poi cavalcano i pregiudizi della gente (“altro che povertà, i rom sono tutti ricchi sfondati”), unirsi al coro gridando allo scandalo e infine attribuirsi il merito di mettere le cose a posto, piuttosto che farsi responsabilmente carico di tutti gli altri, la cui esistenza smentisce quei pregiudizi in modo drammaticamente inequivocabile se solo ci si sofferma a guardarla per quella che è. Eppure farsene carico è necessario. Anzi, è ormai divenuto ineludibile, ora che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce non le piccole, e per molti versi miserabili truffe di pochi individui sparpagliati qua e là, ma il gigantesco business milionario che a Roma ha prosperato per anni sulla pelle dei rom, facendo perno, sul sistema incancrenito della cosiddetta “accoglienza” e costando ai romani decine di milioni di euro l’anno. Quindi, per riassumere: ben vengano i controlli. Purché sia chiara una cosa: limitarsi a smascherare qualche decina di persone che barano sul conto in banca per occupare abusivamente un container non significa occuparsi seriamente della questione rom; perché occuparsene seriamente vorrebbe dire cercare di superarli tutti, quei container, insieme ai “campi” nei quali sono collocati, abbandonare l'approccio emergenziale e assistenzialista di questi anni e, come già hanno fatto con successo altri paesi europei, reinvestire nei in percorsi di inclusione le risorse che sino ad oggi sono state sperperate e utilizzate solamente per segregare ed escludere. Si tratta di una questione complessa e delicata, che ha bisogno di interventi lungimiranti e graduali, e ogni giorno più urgenti. Noi di Radicali Roma, che abbiamo denunciato il sistema criminale di gestione dei campi e proposto al Sindaco Marino l’adozione di un piano di inclusione ancora prima dello scandalo di “Mafia Capitale”, ci prepariamo ad aprire una stagione di iniziative popolari proprio su questo tema: perché superare i campi non soltanto si può, ma, dopo aver preso atto dello scempio che rappresentano, si deve. *segretario radicali Roma MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 il manifesto INTERNAZIONALE pagina 7 KATMANDU · Un nuovo terremoto di grado 7.3 ha provocato vittime, migliaia di feriti e sfollati Altra scossa, Nepal senza tregua Il paese è ancora alle prese con gli effetti e le vittime del sisma dello scorso 25 aprile. Si complicano i soccorsi e l’arrivo degli aiuti PAKISTAN · Dopo «lo scoop» del Pulitzer Hersh Tutti i dubbi e le bugie di Obama su bin Laden Marta Santomato Cosentino KATMANDU I n Nepal la terra continua a tremare. A poco più di due settimane dal violento terremoto - 7.8 sulla scala Richter - che ha messo in ginocchio il paese, ieri pochi minuti prima delle 13 (ora locale) una nuova forte scossa, 7.3, ha fatto crollare, durante un lungo e interminabile minuto, gli edifici che l’urto del sisma dello scorso 25 aprile aveva risparmiato. In mattinata tutte le reti nazionali avevano diffuso la notizia che il pericolo ormai era rientrato e che le persone avrebbero potuto tornare a casa. Poche ore dopo, la nuova scossa con epicentro a 15 km di profondità sotto Namche Bazar vicino all’Everest, 80 km a est di Kathmandu, non lontano dal confine cinese. Anche a New Delhi e in altre zone del nord dell’India così come a Dacca, la capitale del Bangladesh e in Cina, alle persone è sembrato di «stare in barca con il mare in tempesta». Secondo il Ministero dell’Interno sono almeno 40 le vittime - alcune in India - e oltre un migliaio di feriti. Numeri destinati ad aumentare man mano che proseguono le ricerche e che si aggiungono agli 8 mila morti e agli oltre 16 mila feriti del primo sciame sismico. A Kathmandu ancora una volta le persone si sono riversate tutte in strada, il più lontano possibile dagli edifici. Erica Beuzer cooperante del Gruppo di volontariato civile italiano ha raccontato che nella capitale «le persone si sono attrezzate per passare la notte all’aperto in ripari di fortuna nell’ennesima notte insonne. Le serrande dei negozi sono tutte abbassate, hanno aperto qualche ora solo i negozi di generi alimentari per permettere di fare scorta di viveri». Le persone sono paralizzate dalla paura e quello che preoccupa adesso, più che un’altra scossa, è la tenuta di nervi della popolazione, stremata prima di tutto psicologicamente. Insieme all’entità dei danni quello che è difficile da prevedere, al momento, è l’impatto di questa nuova scossa arrivata proprio mentre si cercava, a fatica, un ritorno alla normalità. Il timore che scoppi una rivolta è pari a quello della diffusione di un’epidemia provocata dalla presenza di corpi e carcasse di animali ancora sotto le macerie. Le devastazioni provocate Emanuele Giordana D SOCCORSI A KATMANDU DOPO LA SCOSSA DI TERREMOTO DI IERI, A DESTRA OSAMA BIN LADEN /LAPRESSE dall’ultima scossa ritardano ulteriormente lo stato di avanzamento dei soccorsi che, prima ancora dell’inefficienza e dell’elevato tasso di corruzione che olia i meccanismi che muovono l’apparato statale nepalese, devono superare un ostacolo di ordine prettamente logistico che attiene alle dimensioni dell’aeroporto. Lo scalo della capitale - rimasto chiuso ieri per una manciata di ore - è piccolo, nonostante il gran via vai di turisti, e per nulla attrezzato a gestire un elevato flusso di arrivi. Montagne di cibo, medicinali, tende sono stipate, accatastate, quasi dimenticate sulla pista di atterraggio in attesa che la dogana finisca di ispezionare un pacco alla volta e che il governo trovi le risorse per distribuirli. A questo si aggiunge la mancanza di coordinamento che provoca una distribuzione disomogenea. La Commissione locale per i diritti umani, durante una ricognizione nei distretti più colpiti dal sisma, Sindhupalchok, Dolakha e Kavre, ha denunciato che coloro che vivono nei pressi delle principali vie di comunicazione hanno ricevuto più aiuti degli abitanti delle zone remote. «La distribuzione - ha spiegato - si è concentrata in poche aree, nella maggior parte dei villaggi non è ancora arrivato niente. La situazione è aggravata anche dalla presenza di un elevato numero di funzionari e GIAPPONE · Diventa presidente del fondo-proteste Il regista Miyazaki contro la base Usa a Okinawa IL REGISTA D’ANIMAZIONE GIAPPONESE MIYAZAKI /LAPRESSE Marco Zappa TOKYO D opo aver dato l'addio lo scorso anno al mondo dei lungometraggi animati, il regista Hayao Miyazaki ritorna alla ribalta. E non per una creazione della sua matita; bensì per il suo impegno a favore della causa di Okinawa. Miyazaki – creatore di alcuni dei capisaldi dell'animazione giapponese come Totoro, Nausicaa della Valle del vento o La Città incantata e fondatore del pluripremiato Studio Ghibli – è stato nominato presidente della Fondazione Henoko (in giapponese: Henoko kikin), un fondo destinato al sostegno economico delle proteste contro l’ampliamento di Camp Schwab, una base militare Usa sulla costa centro-orientale dell’isola di Okinawa, a oltre 1500 km a sud di Tokyo. Il fondo è stato creato con le donazioni di imprenditori, politici locali e celebrità di portata internazionale come Miyazaki e nazionale come il co-presidente della fondazione, Shuntaro Torigoe, volto noto della tv e del giornalismo. «La smilitarizzazione di Okinawa - ha scritto Miyazaki in un messaggio pubblico diffuso dopo la sua nomina - è di vitale importanza per la pace di tutta l'Asia orientale». La nomina del maestro degli anime alla presidenza dell’ente è un segno dell'ambizione del movimento ad allargare la propria rete e per esercitare pressione sugli organi che contano. Miyazaki non è nuovo all’impegno politico. Nel 2003 rifiutò di ritirare l'Oscar vinto con La città incantata in segno di protesta contro l'intervento Usa in Iraq. Nel 2013 era stato poi tra i firmatari di un Libro bianco per lo spostamento delle strutture squadre di monitoraggio che, più che coordinare, intralciano le operazioni di soccorso». Molti villaggi non sono ancora stati raggiunti perché le strade sono impraticabili; gruppi di volontari in bicicletta e moto hanno cercato di trasportare quanti più aiuti potevano caricandoseli sulle due ruote mentre le reali condizioni di molte zone sono state appurate solo tramite le ricognizioni con gli elicotteri. La conformazione orografica del territorio di certo non aiuta e l’arrivo imminente dei monsoni obbliga a una corsa contro il tempo prima che le piogge rendano ancora più impraticabili le strade già interrotte dalle frane. «Ci sono tutti gli ingredienti perché la macchina degli aiuti rallenti» ha spiegato Marco Rotelli, il segretario generale di Intersos, l’unica Ong italiana che si occupa di aspetti umanitari, ma comunque «il sistema che si è attivato in questo caso è quello più funzionale possibile alla luce delle risorse disponibili». L’intero sistema dell’organizzazione umanitaria esce da un 2014 difficile con interventi nelle Filippine, in Iraq, in Sud Sudan, nella Repubblica centrafricana, gli strascichi del conflitto in Siria fino all’ebola, Gaza e tutto quello che ci sarà da fare in Yemen, che hanno prosciugato le riserve nei magazzini. Milioni gli euro che servono per ripristinare gli stock. militari americane fuori da Okinawa. Al quotidiano locale Okinawa Times, Miyazaki ha spiegato: «Dal momento che la popolazione locale è determinata nella lotta contro le basi Usa, da parte mia non posso che dare il mio sostegno». Nei piani del governo giapponese, Henoko dovrà ospitare strutture, mezzi e personale della base aerea di Futenma, una struttura controversa situata in pieno centro abitato a Ginowan, a pochi chilometri da Naha, capitale dell'isola. La base salì agli onori delle cronache nel 1995 quando tre militari americani lì di stanza rapirono e stuprarono una dodicenne giapponese. Camp Schwab si trova invece in una località relativamente poco abitata ma affacciata sulla baia di Oura, un’area importante - spiegano gli ambientalisti - dal punto di vista naturalistico: la sua barriera corallina ospita decine di specie di granchi, pesci e mammiferi marini come i sempre più rari dugonghi. Con l’inizio dei lavori di espansione della struttura militare a gennaio del 2014 - accusano gli attivisti locali - alcune zone della barriera corallina sono state definitivamente compromesse. Takeshi Onaga, governatore provinciale eletto a novembre scorso con una piattaforma elettorale antibasi, aveva perciò ordinato a marzo scorso lo stop a tutti i lavori nell'area. La voce del governatore non è però mai arrivata a Tokyo e tantomeno a Washington. E sulla questione piovono nuove critiche su Abe: come spiega il costituzionalista Sota Kimura dalle colonne del settimanale Shukan Kinyobi, il governo starebbe violando la costituzione. In casi come quello di Henoko, spiega Kimura, il governo non può prescindere dal giudizio della popolazione locale via referendum. ue ex militari pachistani hanno confermato all’agenzia France Press che effettivamente un uomo dei servizi segreti di Islamabad fornì informazioni agliUsa su Osama bin Laden: avrebbe dato una mano per identificarne il Dna. È la prima conferma che riguarda le notizie contenute nell’articolo che Seymour Hersh ha pubblicato domenica sulla London Review of Books e che, sbugiardando la Casa Bianca, fa tutto un nuovo racconto della morte dello sceicco del terrore. Di questo «traditore» (che non sarebbe un uomo dell’Isi - i più potenti servizi pachistani - ma di un’altra agenzia) si sa solo che ormai vive negli Usa ma potrebbe essere la persona che Hersh - il giornalista divenuto famoso per aver rivelato nel 1968 il massacro di My Lay in Vietnam - ritiene responsabile di aver «venduto» il nascondiglio di Osama alla Cia per 25 milioni di dollari. La Casa Bianca ha smentito la ricostruzione di Hersh che fa fare una pessima figura a tutto lo staff, da Obama all’ultimo dei Navy Seal, i soldati del team operativo che entrarono nella casa di Abbottabad il 2 maggio del 2011 uccidendo bin Laden, un uomo gravemente malato e indifeso. Una pessima figura su una storia totalmente ricostruita e che scrive - sarebbe «potuta uscire dalla penna di Lewis Carroll», l’autore di Alice nel paese delle meraviglie. La ricostruzione di Hersh, che si basa su una fonte anonima che descrive minuziosamente ogni parti- EGITTO · Tre anni, già scontati, a Mubarak Attivista comunista di nuovo arrestata Giuseppe Acconcia L a rivoluzionaria comunista e guida del movimento operaio, Mahiennour el-Masry è stata arrestata ieri ad Alessandria d’Egitto nel corso della prima udienza del processo che la vede imputata insieme ad altri nove attivisti. Il giovane avvocato del partito dei Socialisti rivoluzionari era stata condannata a due anni lo scorso febbraio per aver attaccato la stazione di polizia al-Raml ai tempi dell’ex presidente Mohamed Morsi (2012-2013). Una condanna del genere chiarisce come non importa chi sia al potere, i poliziotti egiziani sono intoccabili ed hanno un ruolo sempre più significativo nel paese dopo il golpe del 2013. In attesa che la Corte di appello di Alessandria si pronunci sulla richiesta di scarcerazione, presentata dai suoi avvocati, tra cui il comunista Khaled Ali, Mahiennour, insignita a Firenze del premio internazionale Ludovic Trarieux per il suo impegno per la difesa dei diritti umani in Egitto, resterà in carcere fino al prossimo 31 maggio. Nel settembre dello scorso anno, la giovane era stata rilasciata dopo aver scontato 6 mesi di prigione in seguito ad una condanna a due anni, ridotta in appello, inflitta per aver violato la legge anti-proteste che impedisce di manifestare in Egitto in occasione dell'anniversario dell’uccisione violenta di Khaled Said, il giovane simbolo dei movimenti anti-regime di Alessandria d’Egitto. Il socialista, Alaa Abdel Fattah è stato condannato a 15 anni per aver violato la legge anti-proteste lo scorso novembre. Stessa sorte tocca agli attivisti di 6 Aprile, movimento dichiarato illegale, e 230 attivisti dei movimenti condannati all’ergastolo per le proteste del novembre 2011. Restano in carcere migliaia di sostenitori dei Fratelli musulmani. I giovani all’interno della confraternita hanno annunciato una riforma delle attività politiche del gruppo con il trasferimento di potere dai leader in prigione, incluso l’ex presidente Morsi, ai più giovani attivisti islamisti. Infine, l’ex presidente Mubarak è stato condannato a tre anni di reclusione per corruzione. Tuttavia l’ex raìs ha già scontato la sua pena e resta a piede libero. Anche i figli, Alaa e Gamal, condannati a quattro anni nello stesso processo, sono stati rilasciati nei mesi scorsi. colare sia della caccia a Obl sia dell’operazione del 2 maggio, non riempie tutti i buchi di un’operazione sulla quale circolò più di una versione e numerosi aggiustamenti di tiro ma semmai ne aggiunge altri. Dubbi che ora si fanno più consistenti dal momento che Hersh dimostra non solo che la Casa bianca mentì ma che tradì il patto coi pachistani, che- nella persona del capo della Forze armate Ashfaq Parvez Kayani e in quella del direttore dell’Isi Ahmed Shuja Pasha - fecero un accordo preciso: dal momento che gli americani avevano scoperto (grazie al «traditore» in seno all’intelligence) che l’Isi custodiva bin Laden in una dorata prigionia ad Abbottabad, avrebbero dato luce verde al raid a due condizioni. La prima, che Obl fosse ucciso. La seconda, che non si venisse mai a sapere il ruolo del Pakistan nel facilitare l’operazione che infatti (a parte l’incidente a un elicottero) si svolse senza intralci: né guardie armate, né intercettazioni aeree e – ironizza l’articolo – nemmeno una macchina dei pompieri quando uno degli elicotteri andò a fuoco. In buona sostanza, Usa e Pakistan prepararono la trappola con l’accordo che nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza per evitare a Islamabad una figuraccia (custodiva il capo dei capi) e per evitare ritorsioni (come avrebbero reagito i jihadisti)? Secondo la fonte di Hersh l’Isi teneva prigioniero bin Laden utilizzandolo come leva per manovrare sia i talebani sia i qaedisti. La sua morte non poteva essere imputata ai pachistani. Obama però tradì il patto rivelando che l’operativo si doveva alla collaborazione pachistana. Poi l’ammissione frettolosa fu smentita. Ma ciò che appare evidente dal racconto di Hersh è che la cosa doveva avvenire in tutt’altro modo e che fu l’incidente dell’elicottero a obbligare tutti a far circolare la vera storia ( comunque artefatta) che forse sarebbe stata raccontata in altro modo addirittura menzionando un altro luogo (Osama fu subito portato in Afghanistan). Anche la narrazione sul corpo dello sceicco morto, misteriosamente sepolto in mare e senza che se ne sia mai vista una immagine, subì un’accelerazione, che portò a costruire fandonie una sull’altra, arricchite da falsi dossier. Obama del resto, dice Hersh, doveva essere rieletto e con la morte di bin Laden avrebbe potuto, come fece, dichiarare la guerra in Afghanistan «missione compiuta». Che la Casa bianca si trovi in grande imbarazzo è abbastanza evidente. Qualcuno ha accusato Hersh di aver utilizzato troppe fonti anonime che non rendono credibile il suo racconto. Ma Hersh è un giornalista credibile e, del resto, le fonti anonime sono da sempre acqua al mulino dei reporter specie se la loro autorevolezza è in grado di farcele ritenere veritiere e verificate. La vicenda apre adesso due fronti. Il primo è interno: nel Paese dove dire le bugie è ritenuto un fatto gravissimo, Obama macchia il suo ultimo vestito da presidente. Ma si macchia anche quello di Hillary Clinton (presente nella famosa stanza operativa che seguiva il raid dagli Usa) e l’intera amministrazione. A parte la ricaduta d’immagine in tutto il mondo (siamo abituati a che mentano i servizi segreti ma se lo fa un presidente la cosa è un po’ diversa), cosa succederà ora coi pachistani? E quali effetti avrà la grande bugia sui terroristi assetati di ogni buona ragione per spargere sangue? pagina 8 il manifesto MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 REPORTAGE Nella seconda città della Siria 400 mila persone - quel che rimane dei suoi 2 milioni di abitanti - resistono a una guerra che non risparmia neanche gli ospedali. Tra cumuli di macerie, senza luce né acqua, monta l’odio per tutti gli schieramenti. «Non vogliamo né le forze di Assad né i ribelli» Federica Iezzi ALEPPO Y aman ci dice che «il tonfo delle pale del rotore di coda degli elicotteri e l’esplosione di ordigni liberati dalle truppe del governo siriano ormai sono rumori familiari; familiare è la corsa disperata delle mamme con in braccio i figli verso i piani più bassi degli edifici già devastati; e familiare è anche l'inevitabile carneficina umana negli ospedali». Non sono sicuri nemmeno quelli. Bombe e mortai cancellano senza alcun preavviso l’esistenza di uomini che lavorano, vivono e muoiono tra quelle vecchie mura macchiate di iodio. Nella metà orientale di Aleppo si muore. La città è contesa tra le forze governative, che hanno il controllo della parte occidentale e che continuano ad avanzare verso nord, e le forze di opposizione, con capolista il Fronte al-Nusra, il braccio siriano di al-Qaeda, che ha il controllo della parte orientale della città. Il quartiere di Sheikh Maqsoud è sotto il controllo delle autorità curde. Almeno 19 gruppi armati invece gareggiano per i quartieri al confine tra le tre aree. Cumuli di macerie alti decine di metri coprono vie e strade dell’antico tracciato ellenistico. I segni di una guerra che ha promesso la speranza, ma ha invece consegnato alla Siria solo anni di disumanità. Solo polvere grigia e odore di fuoco «Ieri pomeriggio ho respirato dentro una nuvola di fumo e polvere, dopo aver sentito quel rumore assordante che ti scoppia dentro il torace. Era un’esplosione vicino a una bancarella di frutta. Né il venditore né il suo cliente si sono tirati indietro. Io ero dall’altra parte della strada», ci racconta Hanan. Carrelli di arance, mele, banane e cocomeri gettati violentemente per terra senza più colori né sapori. Solo polvere grigia e odore di fuoco. E’ questa oggi Aleppo. Chiediamo a Khalil, un vecchio signore del quartiere di al-Sakhour, perché 400.000 perso- ne si ostinano a rimanere ancora ad Aleppo. Risponde con un sorriso, una rarità nel nord della Siria. «Questo è il posto da dove vengo e questo è il posto dove morirò». Nei giorni scorsi, il quartiere è stato nuovamente e duramente ferito da raid aerei delle truppe governative. Colpito l’al-Sakhour hospital, costretto a sospendere tutte le attività. Nel solo mese di marzo nell’ospedale sono stati ammessi 2444 pazienti e sono state eseguite più di 300 procedure chirurgiche d’urgenza. Mentre ad al-Sakhour i feriti vengono malamente medicati nei pochi sotterranei e rifugi rimasti, di fronte, nel quartiere di al-Shaar, il Fronte Islamico cura i suoi combattenti in un ospedale da campo, ambiguamente sponsorizzato dagli Emirati Arabi. La nuova famiglia di Ammar Ammar cammina sui ciottoli lisci e tra i palazzi smembrati di al-Shaar, zoppicando vistosamente. Kefiah a quadretti bianchi e neri in testa, una sorta di uniforme militare verde scuro, nessuna arma. Ha 21 anni e il Fronte Islamico è la sua nuova famiglia. Lui la chiama così. È saltato su un ordigno: «Sono stato operato già una volta - dice -, ho viti e placche di acciaio nella mia gamba sinistra. Ho avuto un’infezione sulla ferita. Non cammino ancora bene. Ma tornerò presto a combattere. Allah mi ha dato una seconda possibilità». Secondo l’ultimo report di Human Rights Watch, su Aleppo si combatte una guerra aerea indiscriminata e illegale contro i civili. Nell’ospedale da campo di al-Shaar c’è una connessione internet via satellite. Ammar segue così i suoi "fratelli". Questo è l'unico modo per avere notizie. Per quasi due anni nelle zone della Siria contro il regime, tutti i mezzi di comunicazione, telefoni fissi e rete mobile sono stati tagliati. «Quando combattevo avevo un walkie-talkie sempre con me, è così che comunicavo le mie posizioni, i miei spostamenti, le mie azioni». Dai rubinetti che rimangono nelle case mar- Aleppo, l’ostinaz toriate, l'acqua corrente c’è per un'ora a settimana. È appena sufficiente per riempire i serbatoi stipati sui tetti delle case. Layal ci dice: «Quando non ci riesco devo comprare l'acqua da un pozzo. I nuovi pozzi sono stati scavati in modo casuale, in mezzo a quartieri affollati, senza gli ingegneri o gli studi». Ci racconta che nel quartiere di al-Sukkari hanno energia elettrica per circa quattro ore al giorno, così tante persone pagano per avere una fonte alternativa di luce. Spesso l'elettricità manca per una settimana intera. I commercianti locali hanno investito molto denaro in grossi generatori e distribuiscono energia elettrica agli altri con un canone mensile. Mentre parla, Mohamad piangendo le tira l’hijab. «Voglio portare la mia bici fuori per giocare, ma i miei fratelli non me lo permettono, perché è passato un aereo di Assad nel cielo». Mohamad ha solo sette anni e non ricorda la vita prima della guerra. Layal gli spiega pazientemente che qualcuno potrebbe prenderlo. Ci dice con il terrore negli occhi: «Potrebbero buttare il suo corpo ovunque. Non ci sono le autorità a indagare, non c’è polizia. Ci sono gruppi di ribelli grandi e piccoli che si dividono strade e edifici e GLI EFFETTI DELLA GUERRA CIVILE SULLA CITTÀ DI ALEPPO. IN ALTO A DESTRA UN BOMBARDAMENTO SAUDITA SULLA CAPITALE YEMENITA SANA’A /FOTO REUTERS SIRIA · Combattono governativi ed Hezbollah, contro al-Nusra e Is sostenuti da Ankara e Riyhad Due battaglie decisive nella regione di Qalamoun I n Siria la guerra regionale tra i due grandi assi, sunnita e sciita, è ormai diretta. Da una parte Hezbollah e Damasco, impegnati nella strategica battaglia di Qalamoun; dall’altra Arabia saudita e Turchia che, pur di far saltare la testa di Assad, si appoggiano a gruppi jihadisti che ufficialmente dicono di combattere. Da una settimana epicentro dello scontro è la regione di Qalamoun, a cavallo tra Siria e Libano: campi di battaglia sono il villaggio siriano di Ras al-Maara e la città libanese di Nahleh. Obiettivo dell’esercito siriano e Hezbollah, dispiegati nella zona, è assumere il controllo delle strategiche colline usate dai jihadisti del Fronte al-Nusra per lanciare offensive contro la valle del Bekaa, in Libano, target da anni delle opposizioni siriane e, più recentemente, di al-Nusra e Stato Islamico. Offensive che hanno insanguinato il Libano, trascinando il Paese dei Cedri - ancora una volta - nel vortice dei settarismi che hanno accompagnato la sua storia e quella dell’influente vicino siriano. La controffensiva guidata da Damasco e Hezbollah ha permesso la riconquista di una serie di villaggi nelle ultime ore, costringendo i qaedisti a riposizionarsi a Talit Moussa, la più alta delle colline di Qalamoun. Presi da Assad la collina di Ras al-Maara (che garantisce il controllo della frontiera e delle vie di comunicazione tra l’ovest e la capitale Damasco) e il valico di Ma’br al-Kharbah (usato dagli islamisti per far passare armi da un lato all’altro del confine). Sul lato libanese, al-Nusra ha abbandonato anche le posizioni conquistate intorno alla martoriata città di Arsal. Allo scontro tra asse sciita e jihadisti si sovrappone la faida interna tra al-Nusra e Isis, passati in pochi mesi dal patto di non aggressione siglato in chiave anti-Assad allo scontro per il controllo del territorio siriano. Guidati da obiettivi parzialmente diver- si (nazionale al-Nusra, transnazionale lo Stato Islamico), seppur nati dalla stessa radice qaedista, i due gruppi hanno scelto come campo di battaglia la stessa regione di Qalamoun. Uno scontro partito sui social network, dove al-Nusra ha annunciato di voler sradicare il califfato, accusandolo di preferire attaccare miliziani del Fronte piuttosto che stringere con loro un’efficacia alleanza. La battaglia tra al-Nusra e Damasco intanto prosegue anche a nord, nella provincia di Idlib. Preda è l’ospedale della città di Jisr al-Shughour, occupata dai jihadisti due settimane fa. Da allora hanno preso d’assedio l’ospedale all’interno del quale si trovano 250 soldati governativi, fedelissi- mi di Assad e le loro famiglie. La riconquista di Jisr al-Shugour sarebbe una vittoria strategica di enorme portata per il presidente, sia per la posizione geografica (a poca distanza da Latakia, roccaforte alawita) che per il suo significato simbolico. Ma Assad deve guardarsi da ben altri nemici: i jihadisti sul terreno non sono attori solitari, ma parte integrante di un fronte ben più ampio. Per mesi Arabia saudita e Turchia sono state accusate di essere responsabili della crescita repentina di gruppi jihadisti nella regione. Ora scoprono le carte, altro schiaffo alla strategia ufficiale degli Stati uniti. Ankara e Riyadh stanno attivamente sostenendo una coalizione di islamisti, Jeish MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 il manifesto REPORTAGE pagina 9 INTERVISTA · L’analista yemenita Maysaa Shuja al-Deen «In Yemen non vince nessuno Né Iran, né Arabia Saudita» Chiara Cruciati «C zione di chi resta la gente conosce solo quelli che hanno basi nel loro distretto. Qui vicino ci sono i combattenti del gruppo Fistaqum Kama Omarit. Gli altri non li conosco». Il mondo dei ribelli e la vecchia Aleppo sono separate da una linea a zig-zag da sud-est a nord e il controllo dei territori è rimasto praticamente invariato per mesi. Le uniche cose che hanno ancora in comune sono il caffè e il narghilè. Il paesaggio è ripetitivo: sagome di edifici quasi crollati, camere aperte e facciate intatte. Squadre di elettricisti rattoppano linee elettriche rotte dopo ogni attacco. Ospedali sotterranei continuano a funzionare, mantengono banche del sangue e continuano campagne di vaccinazione. La solita infezione cutanea Le indicazioni per arrivare nel quartiere di Bustan al-Qasr suonano addoloranti. «Passa l’edificio completamente distrutto. Poi gira a destra dopo l’edificio con i graffiti colorati e appena dopo sorpassa la casa da cui si vede l’interno di una cameretta con una culla rosa». L’ospedale del quartiere è ormai un relitto: un groviglio di macerie, cavi e polvere, con la metà del soffitto mancante e parti dell'edificio completamente rase al suolo. È saturo di bambini con la solita infezione cutanea che torna con il caldo, l’«Aleppo bollire» come la chiamano qui. «Non ci sono più medicine, che prima arrivavano dalla Turchia, e queste piaghe diventano ogni giorno più grandi. Non posso fare al-Fatah (Esercito della Conquista), di cui fa parte anche al-Nusra. L’accordo tra il presidente turco Erdogan e re Salman è stato siglato a marzo a Riyadh, riporta The Independent, effetto del disappunto turco e saudita per il mancato intervento militare occidentale contro Assad. Funzionari turchi interpellati sempre da The Independent non hanno negato: la Turchia starebbe fornendo assistenza logistica e intelligence, l’Arabia saudita denaro e armi che transistano dal poroso confine turco-siriano. Una notizia che ha travolto Washington, a stretto giro dal lancio del programma Usa di addestramento di ribelli siriani in Turchia e Giordania. (chi. cru.) niente» racconta Amira, giovane dottoressa con alle spalle anni di studi a Damasco. Non va via da Aleppo perché non vuole entrare nella schiera dei sette milioni di sfollati interni in Siria o nella squadra dei quasi quattro milioni di siriani rifugiati all’estero. Quelli che restano di solito fanno pochi lavori umili: guidano macchine trasformate in taxi, gestiscono minuscoli internet caffè, o Il Fronte al-Nusra controlla la zona est, l’esercito sta a ovest. Almeno 19 gruppi armati si contendono i quartieri tra le linee semplicemente vendono merce di contrabbando. Le organizzazioni non governative portano solo riso e olio. Tutto il resto entra per vie illegali. Un rivolo di aiuti si fa strada attraverso i confini labili della città. Anche nel silenzio della notte, in quartieri interi consumati dal buio, la guerra va avanti. La gente ha iniziato a odiare tutti gli schieramenti. «Non vogliamo né le forze del regime né i ribelli. Vogliamo solo vivere in pace», ci dice Majd. Prima lavorava per il progetto rifiuti solidi del Programma Onu per lo sviluppo. «Avevo un po’ di soldi per comprare il pane per me e i miei vicini. Ora non ho più niente. Aleppo è un'ombra, un guscio. Interi quartieri sono stati svuotati di residenti e case». hi sta vincendo la guerra in Yemen? Nessuno. Non segna punti l’Iran, non ne segna l’Arabia saudita: il primo viene sconfitto sul piano diplomatico, la seconda su quello militare». L’analista yemenita Maysaa Shuja al-Deen, giornalista per al-Monitor e il think tank Jadaliyya, ne è convinta: in Yemen perdono tutti. L’abbiamo raggiunta al telefono e discusso con lei degli attuali sviluppi regionali, alla luce della guerra fredda in corso tra le due potenze. In uno dei suoi ultimi articoli lei afferma che in Yemen sia Iran che Arabia saudita non riescono ad imporsi come vincitori. Teheran sta archiviando un successo diplomatico con l’accordo sul nucleare, ma in Yemen che tipo di risultato ha ottenuto? La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha preso in alcuna considerazione gli sforzi diplomatici iraniani, ma ha riconosciuto il governo ufficiale unica rappresentanza legittima e imposto agli Houthi di ritirarsi dalle città occupate. Questo contraddice alla base l’iniziativa diplomatica iraniana, che si fonda sul negoziato tra le parti coinvolte ma non menziona - come precondizione - il ritiro del movimento Houthi. Da parte sua l’Arabia saudita ha lanciato un’operazione militare, «Tempesta Decisiva»con l’obiettivo di riportare al potere il governo Hadi e di porre fine all’espansione Houthi a sud. Eppure, il governo non è stato rimesso al suo posto e gli Houthi e le forze militari fedeli all’ex presidente Saleh si stanno espandendo nelle province di Marib, Taiz, Aden e Dali. Riyadh è preoccupata dalla legittimità internazionale che l’accordo sul nucleare fornirebbe all’Iran. Questa ha spinto i Saud all’intervento in Yemen? Gli ultimi sviluppi sul nucleare iraniano preoccupano l’Arabia saudita perché potrebbero mettere fine all’isolamento internazionale dell’Iran e quindi avallare indirettamente l’espansione della sua influenza nella regione. Penso che la guerra saudita in Yemen intenda mandare un messaggio: Riyadh non ac- cetterà alcun accordo e dimostrerà la sua forza nella regione. Lo Yemen è il cortile di casa saudita: re Salman non potrebbe mai permettere un ingresso a gamba tesa dell’Iran nel paese. Per questo ha preferito la soluzione militare a quella del negoziato. Quali sono i reali rapporti tra Houthi e Iran? In passato tali relazioni non sembravano così strette (provengono da sette sciite diverse). L’alleanza che denunciano Usa e sauditi è legata soltanto a interessi temporanei e immediati o ha radici più profonde? Esiste un’influenza iraniana sugli Houthi sin dagli anni Ottanta quando il fondatore del movimento, Hussein al Houthi, visitò Teheran e prese in prestito gli slogan della rivoluzione iraniana. Tuttavia gli Houthi appartengono ad una diversa setta sciita e sono originariamente un gruppo locale yemenita: per questo prima non esisteva con l’Iran un’alleanza permanente e strutturata. Non si può però affermare che siano dei meri pupazzi in mano iraniana: gli Houthi si sono avvicinati a Teheran nel momento in cui i loro nemici interni si sono rafforzati, nel momento in cui hanno capito di aver bisogno di sostegno dall’esterno. Una delle ragioni dell’attuale crisi sembra essere la frammentazione interna alla società yemenita, a livello sociale, etnico, politico. Quali sono i gruppi che si contendono oggi il controllo del paese? La mappa delle divisioni politiche dello Yemen è fondata sull’identità, viste l’assenza di un’ideologia di riferimento e la debolezza dei partiti politici. Lo Yemen era diviso tra nord e sud fino all’unificazione, avvenuta nel 1990. Il nord era governato da Zaydilmamah dal 1962, per poi divenire una repubblica pesantemente influenzata dall’Arabia saudita. Il sud, occupato dalla Gran Bretagna, si liberò nel 1967 per divenire una repubblica marxista. Dopo l’unità è scoppiata la guerra civile, nel 1994, da cui il partito comunista del sud ne uscì sconfitto. Ciò ha portato alla nascita di un sentimento di marginalizzazione da parte delle regioni meridionali che hanno cominciato a chiedere, convinte di essere state escluse dal potere centrale, la secessione dal nord. Anche la parte settentrionale del paese, però, vive le sue divisioni interne: una divisione settaria tra la maggioranza Zaydi, che risiede a Sana’a e nel profondo nord; la componente sunnita, che vive per lo più lungo la costa e nelle città orientali di Ibb e Taiz; e il gruppo sciita Houthi. Le interferenze saudite hanno radici lontante. Quale può essere il destino del paese se Riyadh dovesse perderne il controllo? Non è facile predire il futuro dell’influenza saudita in Yemen. Il dopo guerra sarà caotico e l’Iran resterà influente, almeno in alcune zone del paese. Riyadh, in ogni caso, non perderà mai del tutto il controllo che esercita sul nostro paese perché finanzia le tribù e compra così la loro fedeltà. Allo stesso modo continuerà a comprarsi la fedeltà di certi partiti politici. Lo Yemen resterà comunque il suo cortile di casa. pagina 10 il manifesto MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 CULTURE SALONE DEL LIBRO La costellazione tedesca Raul Calzoni A pochi mesi dai festeggiamenti con cui si è ricordato il venticinquennale della riunificazione, la Germania si presenta come paese ospite al Salone del libro di Torino – il cui tema, «Le meraviglie d’Italia», si collega idealmente a quello dell’Expo internazionale di Milano – con circa venticinque autori e oltre quaranta case editrici, fra cui la Wagenbach, che celebra con una mostra i suoi cinquant’anni di attività. Sarà una buona occasione per tentare un bilancio della letteratura tedesca più giovane, e per presentare all’Italia gli ultimi lavori dei suoi consolidati talenti. Fra questi, Ingo Schulze, che nelle sue diverse opere (tradotte da Mondadori prima e da Feltrinelli poi) torna sulle difficoltà di adattamento dei tedeschi orientali al modello sociale dell’occidente, ricostruendo la parabola esistenziale di individui comuni, le cui certezze sono crollate con il Muro di Berlino: sia nelle sue ventinove Semplici storie (2001) che nei tredici racconti di Bolero berlinese (2007), come pure in Adam e Evelyn (2009) riemergono le ombre della transizione dalla Germania socialista a quella contemporanea, e il tema chiave dello scrittore insistentemente riverbera le stranianti ricadute del crollo della Repubblica democratica tedesca sui suoi ex cittadini. GERHARD RICHTER, «MOTORBOOT», 1965 Esplorazioni fantastiche Negli ultimi anni, Schulze ha esteso i confini della sua narrativa oltralpe: lo ha fatto in Angeli e arance (2011) e in Siete giunti a destinazione (2013), libri nei quali offre due pregevoli resoconti di altrettanti viaggi nel sud Italia, condotti sulle orme di fin troppo autorevoli predecessori tedeschi, fra i quali naturalmente Goethe che, ritratto da Tischbein nella campagna romana, campeggia sul manifesto del Salone torinese attorniato dalle eccellenze contemporanee del made in Italy: il cinema, la moda, la cucina, il car styling, la musica e naturalmente i libri. Espressione del dialogo italo-tedesco, l’opera di Schulze è importante anche per la sua apertura all’ideale goethiano della «letteratura mondiale» e per la predilezione verso il dialogo interculturale e interdisciplinare, al cui appello rispondono un po’ tutti gli scrittori di lingua tedesca presenti al Lingotto. Daniel Kehlmann, per esempio, sarà al Salone con il suo nuovo romanzo F., dopo il successo di La misura del mondo (Feltrinelli, 2006), in cui l’incontro fra il naturalista e viaggiatore Alexander von Humboldt e il matematico e astronomo Karl Friedrich Gauss diventa espressione del dialogo interdisciplinare fra due culture, apparentemente lontanissime, la scienza della natura e quella della letteratura. L’iniziale, che dà il titolo all’ultimo romanzo di Kehlmann, sta per «Fatum», ma indica anche il malvagio protagonista del libro che Arthur Friedland, personaggio principale, sta scrivendo ispirandosi alla riflessione filosofica di Schopenhauer. Da tutt’altra sponda, Frank Schätzing sarà al Salone come rappresentante di una vena narrativa che si esprime in avvincenti thriller fantascientifici, in particolare Il quinto giorno (Nord, 2005; Teadue, 2007), in cui un esploratore dei tempi moderni, il biologo marino Sigur Johanson, deve affrontare una terribile pandemia che mette a rischio l’umanità; ma molto coinvolgente è anche Limit (Nord, 2010), ambientato sia nello spazio Il Lingotto di Torino ha invitato quest’anno la Germania come paese ospite, privilegiando le nuove generazioni della sua letteratura, senza dimenticare i classici contemporanei che sulla terra, dove Schätzing affronta in una cornice fantastica i temi scottanti dello scontro ideologico fra Oriente ed Occidente e della lotta fra superpotenze per le risorse ambientali e per le fonti energetiche. A Torino, Schätzing presenterà il suo nuovo lavoro, un thriller geopolitico intitolato Breaking News (Nord), con il quale si è allontanato dal genere fantascientifico per raccontare attraverso il reporter di guerra Tom Hagen l’attuale situazione del Medio Oriente e il ruolo svolto da Israele. Il corpo del destino Le giornate torinesi saranno una buona occasione per conoscere il meno noto, ma anche lui pluripremiato, Lutz Seiler, che ha pubblicato in Italia (per Del Vecchio) l’antologia di liriche La domenica pensavo a Dio e un volume di racconti intitolato Il peso del tempo: al Salone presenterà il suo riuscitissimo romanzo d’esordio, Kruso, ambientato nell’estate del 1989 e quindi sul crinale storico fra divisione e riunificazione della Germania, che gli è valso nel 2014 l’ambitissimo «Deutscher Buchpreis», il premio dell’Associazione librai e editori tedeschi. Tra le scrittrici, Katja Petrowskaja – nata a Kiev nel 1970 e trapiantata a trent’anni a Berlino – è nota per avere raccontato in Forse Esther (Adelphi) gli effetti della Shoah nella sua città natale, mentre Monika Zeiner sarà presente con L’ordine delle stelle sopra Como (Keller), romanzo in cui un melancolico triangolo amoroso si consuma fra Berlino e l’Italia dando luogo a un dialogo interculturale sui temi del destino, della musica e dell’amore. Da un’altra prospettiva, si concentreranno su argomenti analoghi anche le performance poetico-musicali di Dalibor Markovic, artista dello spoken word e del beatboxing, che propone al pubblico i suoi ritmati esperimenti di Slam poetry. Del resto, la presenza della Germania al Salone non sarà affidata, com’è ovvio, ai soli scrittori, e dunque un po’ tutti gli ambiti culturali esibiranno le loro menti migliori. La sociologia sarà rappresentata da Wolfgang Streeck, che introdotto da Luigi Reitani, Angelo Bolaffi e Jas Gawronski discuterà il suo ultimo lavoro, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli); mentre la filosofia farà scendere in campo Peter Sloterdijk, che con Federico Vercellone presenterà la traduzione italiana della sua opera maggiore, la trilogia di Sfere (Cortina) e da Markus Gabriel, giovane protagonista tedesco del dibattito sul «nuovo realismo», che ripercorrerà con Maurizio Ferraris i cardini del suo ultimo lavoro, Perché non esiste il mondo (Bompiani). Il Salone darà anche l’occasione di incontrare uno dei maggiori egittologi viventi, il fondatore della teoria della «memoria cultuale», Jan Assmann, che terrà una lectio magistralis titolata «Miti d’Egitto e nascita degli dèi». Dalla sfera del giornalismo arriveranno Günter Wallraff, che nel suo Germania anni dieci (L’orma editore) indaga i quotidiani inferni del precariato nel mondo del lavoro contemporaneo, e l’autore italo-tedesco Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit di Amburgo e coeditore del quotidiano berlinese Der Tagesspiegel, che stasera terrà il discorso di apertura del Salone. La Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung invierà al Lingotto Volker Weidermann, che dialogherà con Luigi Forte sul suo bestseller, L’estate dell’amicizia (Neri Pozza), in cui si racconta dell’incontro a Ostenda nell’estate del 1936 fra Stefan Zweig e Joseph Roth con Hermann Kesten, Egon Erwin Kisch, Ernst Toller, Arthur Koestler e Irmgard Keun, tutti esiliati dal nazismo nella piccola città belga affacciata sul Mare del Nord. Tra gli esponenti del giornalismo e della narrativa nati negli anni settanta – una generazione ampiamente rappresentata nel palinsesto di «LetteraTorri meravigliose», dove saranno ospitati autori italo-tedeschi – ci sarà Daniel Wagner, di cui Fazi ha tradotto Il corpo della vita, romanzo che ha come protagonista un omonimo dell’autore e dove si racconta il suo percorso di inseguimento del significato della vita nel tempo che precede e che segue il trapianto di fegato cui deve sottoporsi. Della stessa generazione di Wagner, Sebastian Fitzek, definito lo «Stephen King tedesco», porta al Salone torinese il genere del thriller psicologico: il suo bestseller, già tradotto in ventinove lingue, Noah (Einaudi) è la storia di un senzatetto che si ritrova nella Berlino contemporanea senza memoria e che cerca, lungo le pagine del romanzo, di ricostruire il proprio passato, innestando tuttavia una serie di eventi catastrofici. Ancora a Berlino è ambientata la vicenda delle due quattordicenni, Nini e Jameelah, protagoniste di Latte di tigre (Bompiani), scritta da Stefanie de Velasco, nata nel 1978, che nella sua opera affronta tra droga, sesso e alcool la difficile e disincantata vita dei giovani nella periferia della metropoli tedesca. Tra gli esponenti della generazione anni Settanta, Jennifer Teege – di madre tedesca e di padre nigeriano – dopo avere scoperto di essere nipote del boia del campo di concentramento di Schindler’s List, cerca di giungere a patti con un tanto ingombrante passato nelle pagine del suo romanzo titolato Amon. Mio nonno mi avrebbe ucciso (Piemme), dedicato all’aguzzino Amon Göth. Autrice fra due culture, quindi testimone del dialogo interculturale che «LetteraTorri» intende promuovere, è anche la più giovane scrittrice presente alla manifestazione, Olga Grjasnowa, nata nel 1983 in Azerbaigian e traferitasi in Germania nel 1996, dopo lunghi soggiorni in Polonia, Russia e Israele: in Tutti i russi amano le betulle (Keller) racconta la storia di Maša, un’esule ebrea azera del nuovo millennio, che nella sua vita incrocia la questione della multiculturalità della Germania contemporanea ai temi della grande storia dei pogrom di Sumgait contro gli armeni e della Shoah. Infanzie evaporate Di matrice autobiografica, ma del tutto radicata in Germania, è anche La scomparsa di Philip S. (e/o) di Ulrike Edschmid, artista e scrittrice nata nel 1940 a Berlino, che con questo suo romanzo ci trasporta negli anni di piombo tedeschi, ricostruendo la vita del protagonista, morto durante un conflitto a fuoco con la polizia in un parcheggio di Colonia nel maggio del 1975. Di derivazione autobiografica è pure Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato (Marsilio) di Joachim Meyerhoff, in cui lo scrittore racconta la storia dell’infanzia del piccolo Josse, che si svolge fra la casa dei genitori e il manicomio dove lavora suo padre, una storia rievocata grazie alla poetica del ricordo, che si consuma nella struggente aspirazione a un mondo che non tornerà mai più. Dedicata all’infanzia è anche la presenza al Salone di Nadia Budde, illustratrice berlinese nata nel 1967 che con il suo libro d’esordio, Uno due tre quatto quatto (Salani 2004), ha conquistato il «Premio tedesco per la letteratura per ragazzi». Dello stesso anno, è Isabel Kreitz, autrice di graphic novels, anche lei pluripremiata per avere illustrato libri che hanno tematizzato la cultura giovanile, come Berlino. Itinerari d’autore di Cécile Calla (Edt, 2012), ed eventi storici e politici della Germania, come La scoperta della Carrywurst (Black Velvet, 2007), novella di Uwe Timm, autore purtroppo assente al Salone nonostante la recentissima uscita (da Mondadori) della Volatilità dell’amore. Moltissime, dunque, le chances che il Salone offre – in collaborazione con il Goethe Institut, che nel 2015 festeggia il sessantesimo anniversario della fondazione della sede torinese – di conoscere nuovi autori; e altrettante le opportunità di tornare a ascoltare riferimenti ai classici contemporanei. Se l’intento del padiglione tedesco è far conoscere attraverso i suoi libri un «paese poco noto» – come dice la lectio magistralis che Claudio Magris terrà giovedì – è scontato il richiamo agli scrittori che hanno fatto grande la letteratura tedesca del secondo Novecento: Günter Grass, da poco scomparso, e naturalmente Uwe Johnson, morto già nel 1984, ma del quale è appena apparsa la traduzione dell’opera prima, La maturità del 1953 (Keller), un classico fin dal suo Congetture su Jakob, gratificato fra l’altro di quella etichetta che lo volle primo, vero «scrittore delle due Germanie», una etichetta che si sarebbe volentieri scollato di dosso. MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 oltre tutto il manifesto CULTURE BIENNALE ARTE, GLI ITALIANI E IL GUATEMALA «Sweet Death», questo è il titolo, si profila come una rassegna all’insegna dell’eccesso ospitata dal padiglione del Guatemala alla Biennale Arte di Venezia. Tra le collaborazioni italiane del padiglione del Guatemala si segnalano due opere, una di Garullo&Ottocento e l’altra di Paolo Residori. La prima rappresenta la scultura di Silvio Berlusconi disteso in una urna-bara di vetro, come un santo, a significare la fine della Seconda Repubblica attraverso l’immagine di uno dei leader più rilevanti che a mò di Biancaneve potrebbe destarsi «RAISE UP» DI HANK WILLIS Marco Assennato T ra le pubblicazioni e i convegni organizzati in occasione del trentesimo anniversario della morte di Michel Foucault, una particolare attenzione merita il prezioso libro, edito in Italia da Cronopio, con il titolo Foucault e le genealogie del dir-vero (pp. 170, euro 18). Curato con perizia dal collettivo di ricerca Materiali Foucaultiani, il volume raccoglie gli atti di una giornata di studi tenutasi all’Ehss di Parigi, nel 2013, al fine di sollecitare «una prima discussione critica del progetto foucaultiano di una genealogia del soggetto moderno e delle pratiche di veridizione ad esso strettamente connesse, nelle società occidentali». Oltre ad un’elegante introduzione firmata da Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini e Martina Tazzioli, il volume si avvale di una serie di saggi che disegnano differenti scandagli del tema: sulla densità storica dei dispositivi di soggettivazione insistono Irrera, Lorenzini, e Frédéric Gros; sull’antinomia tra confessione e parresia, Laura Cremonesi; su governo, giurisdizione e veridizione, Gianvito Brindisi e Bernard E. Harcourt; sul rapporto tra volontà di sapere e asse etico-sessuale della ricerca foucaultiana, Michel Senellart; e sull’uso possibile della genealogia del «dir-vero» per decriptare i rapporti di forza che determinano il regime di governo dei rifugiati e dei migranti, Martina Tazzioli. Una ricerca preziosa, s’è detto: preziosa e urgente, anche rispetto alla discussione critica e militante. Infatti l’insistenza con la quale Foucault sottolinea il nesso essenziale tra i diversi modi di manifestazione della verità, il governo degli indi- Tra contropotere e potere. Un volume collettivo su alcuni temi sviluppati dal filosofo francese vidui e la costruzione della soggettività, precipita le nozioni-chiave del suo lavoro dal piano strettamente filosofico a quello immediatamente politico - allargandone tuttavia in modo considerevole temi e problemi. Il testo ruota attorno alla domanda che Foucault si pone dal 1980: «Perché, in che forma in una società come la nostra esiste un legame così profondo tra l’esercizio del potere e l’obbligo per gli individui di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione della verità?». Una questione di genealogie Questione tanto più dirimente se ripensata nell’alveo del dibattito sulla biopolitica. Com’è noto già nel suo celeberrimo corso del 1978-1979, dedicato all’analisi dei regimi neoliberali, Foucault non si limitava semplicemente a fissare l’economia come «ultima istanza» della politica - in ciò collocando le sue analisi del potere in una prospettiva produttiva compatibile con le analisi del Capitale di Marx (come da ultimo ha visto bene Pierre Macherey) - ma spingeva quella «ultima istanza» oltre la pura determinazione strutturale del politico, verso qualcosa che da allora in poi resterà decisivo: il mercato, la teoria economica neoliberale, si impongono come rivelatori della verità a cui il politico deve attenersi. «Il mercato - scriveva Foucault - deve dire il vero e deve farlo in relazione alla pratica del governo». Il neoliberalismo, insomma, si è costituito innanzitutto come vettore di veridizione, spazio decisivo nella produzione di uno specifico rapporto tra manifestazione della verità e governo degli altri. La ricerca che il volume di Cronopio si propone di avviare assume allora il carattere dell’urgenza, proprio perché registra e insiste sull’altro versante del problema pagina 11 dal sonno profondo; la seconda opera, «Parsmoke», è una grande bottiglia di profumo a forma di clessidra ripiena di mozziconi di sigaretta e di vaselina durex, vero e proprio memento mori o vanitas, atto a significare la caducità e la precarietà del vizio (fumo) e del piacere (sesso). MEMORIA · L’episolario di Fausto Gullo La Storia nelle lettere di un dirigente del Pci vela una potente carica ideale. Gullo era un punto di riferimento per tanti. A partire dal traumatico triennio che porterà il fascismo al potere e fino al secondo dopoguerra, i mittenti delle lettere gli descrivono situazioni politiche e condizioni sociali dei rispettivi territori, ragionando con lui sulle sorti del Paese. La sua personalità traspare proprio dal grande rispetto che manifesta nei confronti degli interlocutori. È una corrispondenza serrata, a tratti carica di pathos, mai inficiata da personalismi e cadute di stile. Grazie ad un gioco di specchi, l’intensità che pervade le parole dei corrispondenti riflette l’immensa capacità politica del ricevente, la sua straordinaria umanità. E quando è proprio egli stesso a scrivere, non si esprime mai con tono populistico. Così nel suo epistolario capita di ritrovare, gomito a gomito, Togliatti e la maestrina che chiede lumi sul materialismo storico, il militante della remota sezione di un paesino sperduto e il collega ministro che gli chiede ragguagli. Lo stesso figlio di Fausto, quel Luigi Gullo che diverrà autorevole e stimato penalista, all’amore verso il padre alterna lucide disamine dei diversi contesti storici e politici. Ne scaturisce l’immagine di un Paese spaccato dallo scontro di classe e da enormi differenze sociali e culturali, ma proteso verso una coraggiosa ricostruzione civile prima ancora che statuale. Il libro di Oscar Greco rappresenta un’utile e piacevole lettura per gli appassionati di storia. Ma è soprattutto un lavoro prezioso per quanti vorrebbero rinverdire il sistema valoriale della sinistra. Claudio Dionesalvi L SAGGI · «Foucault e le genealogie del dir-vero», un libro per Cronopio Pratiche di resistenza nei labirinti della verità del dir-vero, quello delle pratiche di soggettivazione che si danno nel confronto con le verità storiche. Gli autori del volume, in altri termini, da una parte invitano a ricostruire una cartografia politica della verità; e d’altro canto ribadiscono e dimostrano quanto, nei cantieri foucaultiani, le dinamiche di assoggettamento siano sempre indissociabili da pratiche di resistenza, innovazione, reversibilità. Le genealogie del dir-vero servono per avviare una riscrittura critica della storia del lògos moderno, delle sue pratiche di verità e delle varie tecnologie in cui esse trovano consistenza: dunque, non per ribadire i limiti intransitabili del linguaggio della ragione, ma, al contrario, per sbarazzarsi definitivamente dall’«illusione del codice» o della razionalizzazione totale delle pratiche di soggettivazione. Il dir-vero diviene così il campo di un conflitto etico-politico decisivo, nel quale si contrappongono, come sottolinea nel volume Frédéric Gros «un materialismo etico della veridizione» e «un idealismo epistemologico della verità». Le strutture della «riflessività» L’ontologia storico-critica del tardo Foucault serve quindi a regionalizzare il regime del discorso vero ivi compreso quello del mercato, del calcolo, della misura - per leggervi diverse procedure specifiche di razionalità, come tali contestabili e reversibili. Si tratta di una forma epistemologico-politica di critica dell’assoggettamento prodotto dai dispositivi universalistici, dalle teorie del limite, e da ogni tecnica dedita all’oggettivazione del soggetto nella forma della conoscenza - come spiega bene Orazio Irrera nel suo contributo. Articolare il politico all’epistemologico, del resto, non significa altro che mettere al lavoro le «strutture storiche di riflessività» (Gros) all’interno delle quali ci costituiamo in quanto soggetti: per riconoscerne le condizioni politiche di produzione, individuarne le contraddizioni, e rovesciare i rapporti di forza dai quali risulta un determinato partage tra ciò che vien dato per vero e ciò che s’ammette come falso. Ciò fuga ogni dubbio - come dimostra Daniele Lorenzini - sulla «portata direttamente politica della genealogia del soggetto moderno di Foucault»: politica perché aperta, storica, relazionale, contingente, modificabile, collettiva. E politica perché esposta a pratiche d’innovazione e rivoluzione in ogni punto di fissità del sistema della conoscenza. La verità è una forza politica, quindi, in un doppio senso: perché diretta contro gli uomini al fine di assoggettarli, almeno nel suo stringente rinvio alle pratiche di governo. Ma la verità è anche una forza di soggettivazione, un’eccedenza, un sovrappiù che si squaderna nei rapporti di forza da cui è prodotto il sé, ma che al contempo contribuisce a scardinarli e modificarli - come nel caso della parresia o del gesto dei cinici. Questa ambivalenza del dir-vero vale in ogni disciplina scientifica (giurisprudenza, economia, psicologia, medicina e così via seguitando) laddove ciò che costringe e lega i soggetti a un determinato ordine del discorso rinvia in fondo alla forza che attribuiamo a un determinato sistema di veridizione. Una forza sostanzialmente derivata dal rapporto tra l’oggettivazione dei soggetti nella forma dell’evidenza scientifica e la questione del governo degli uomini. Il cantiere di ricerca che gli autori individuano in Foucault, allora riapre l’orizzonte della critica politica sul piano delle forme di razionalità, invita a proseguire il lavoro operando per distinzioni non più dialettizzabili: laddove alla presunta verità del mercato e della concorrenza non possono che corrispondere stili di vita che di quella verità producono una critica feroce e selvaggia. a storia del Novecento atraverso le lettere scritte e ricevute da Fausto Gullo, uno degli uomini politici che hanno ricostruito l’Italia dopo gli orrori del fascismo. Calabrese, giurista, comunista, Gullo arrivò al Ministero dell’agricoltura nei governi Badoglio e De Gasperi; dal 1946 fu ministro della Giustizia, continuando a guardare in basso, scrivendo il testo di quella riforma agraria che prevedeva la concessione delle terre incolte ai contadini. Una riforma che, se fosse stata applicata, avrebbe cambiato la storia del Mezzogiorno. Con la prefazione di Piero Bevilacqua, per i tipi di Guida Editori, il giovane storico Oscar Greco pubblica Caro compagno, l’epistolario di Fausto Gullo, una vivace e gustosa raccolta di lettere custodite con cura. Ricercatore presso l’università della Calabria, Greco non è nuovo a simili imprese. È molto conosciuto e stimato soprattutto negli ambienti libertari per le sue interessanti pubblicazioni sulla storia degli anarchici italiani emigrati in America. Il volume dedicato a Gullo, mantenendosi ancorato al rigore scientifico che da sempre ispira il gruppo di lavoro da cui Greco proviene, nel fluire delle pagine assume il ritmo del romanzo storico. Resterà spiazzato chi si aspetta la consueta monotonia degli epistolari. A parlare sono le voci degli interlocutori dell’illustre destinatario: personaggi politici, donne ed uomini del popolo, parenti, compagni di lotta. Ogni singola missiva, persino la più apparentemente frivola, ri- SAGGI/2 · «Vie di fuga» di Paolo Cacciari per Marotta & Cafiero Edizioni L’uscita di sicurezza della decrescita Mauro Trotta «P er non rimanere travolti sotto le rovine del progetto occidentale di dominazione del mondo attraverso il progresso, lo sviluppo e la crescita, sarebbe prudente preparare delle vie di fuga». Ed è proprio quanto intende fare Paolo Cacciari con il suo ultimo libro non caso intitolato proprio Vie di fuga (Marotta&Cafiero, pp. 219, euro 10). Innanzi tutto, però, occorre analizzare e rendere il più chiara possibile la situazione attuale, le condizioni che la hanno determinatata e le prospettive catastrofiche che si prospettano se non si riesce a cambiare il più presto possibile e radicalmente la direzione. Il testo, così, si apre con due capitoli dedicati appunto alla disamina approfondita della forma assunta nella contemporaneità dal capitalismo e dall’ideologia neoliberista egemone nel mondo e alla crisi che, a partire dal 2008, si è abbattuta sul sistema economico globalizzato, colpendo in particolare, nell’ambito dei paesi più sviluppati, l’Europa. In maniera chiara e comprensibile si analizzano le diseguaglianze che ormai sono diventate strutturali all’interno dell’Occidente, il peso e l’importanza che l’ideologia del debito ha assunto non soltanto a livello economico ma come strumento di controllo sociale e poli- tico, l’insostenibilità ambientale dell’attuale modello di sviluppo, la crisi della democrazia legata all’imporsi del modello neoliberista. Si indagano le ragioni dell’attuale crisi che, in pratica, viene letta come crisi non congiunturale ma strutturale. Questo non vuol dire, come mette lucidamente in chiaro Paolo Cacciari, né che l’agonia del sistema debba durare poco. Ma anche no, né che si aprano automaticamente prospettive migliori in termini di uguaglianza e libertà. E infatti, in maniera molto significativa, l’ultima parte dedicata al discorso per così dire analitico è intitolata Altri tunnel in fondo al tunnel. Dopo aver messo in luce una serie di esperienze, diverse tra lo- ro, a volte limitate, ma comunque volte a contrastare praticamente il sistema dominante e a costruire forme di vita e di socialità alternative, Cacciari passa ad esaminare quelli che sono i punti focali del suo discorso, gli elementi a partire dai quali costruire vie di fuga. Si susseguono, così, i capitoli dedicati rispettivamente a Beni comuni, Lavoro, Democrazia, Decrescita. L’approccio è sempre analogo. Si tratta innanzi tutto di indagare a fondo il concetto cercando di far emergere quello che effettivamente i beni comuni piuttosto che il lavoro o la democrazia significhino oggi, mettendo in evidenza anche le diverse concezioni che le attraversano e puntando ad arrivare a quello che potremmo definire un campo semantico e di attività pratica – e politica –possibile e condivisa. Il discorso, infatti, si snoda esaminando le posizioni più diverse – seppur, naturalmente, all’interno di una parte politica ben definita, quella dei movimenti o, comunque, della sinistra – ma prefigurando, comunque, possibilità di azione comune. Un discorso a parte merita l’ultimo capitolo, quello dedicato alla decrescita. La teoria di Latouche, infatti, non soltanto per la posizione che riveste all’interno del testo sembra stagliarsi come l’elemento che può, secondo l’autore, contribuire in maniera decisiva a tenere in- sieme tutti gli altri elementi, una sorta di ombrello in grado di tessere relazioni solide tra i vari elementi individuati. Infatti, proprio nell’ultima pagina emerge in modo esplicito come la decrescita possa funzionare da elemento unificatore rispetto agli altri: «La decrescita è il passaggio da un modello di uso predatorio e dissipativo delle risorse naturali e umane a uno più equlibrato e socialmente equo. La decrescita associata alla gestione condivisa dei beni comuni è portatrice di un progetto di autonomia, di autogoverno e di autentica democrazia. Decresita e beni comuni (....) come processo concretamente attivabile a livello individuale utilizzando al meglio la potentissima creatività umana: il lavoro concreto, vivo, completo, motore interno della trasformazione». Libro davvero interessante, scritto in maniera chiara, utilissimo soprattutto per come riesce ad attraversare praticamente tutte le teorie nate negli ultimi anni, e non solo, dalle lotte dei vari movimenti a livello mondiale, Vie di fuga sembra rivestire particolare importanza proprio nella situazione attuale perché pare prefigurare a livello testuale quel processo di ricomposizione pur all’interno delle varie diversità, attuato da esperienze come Syriza in Grecia, e che sarebbe auspicabile si mettesse finalmente in moto anche in Italia e nel resto d’Europa. pagina 12 il manifesto VISIONI Cannes 68 Cristina Piccino CANNES C annes 2015 ha il sorriso enigmatico di Ingrid Bergman, troppo presto invece per sapere se almeno la selezione ufficiale si ispira alla «lezione» rosselliniana di cui l’attrice è stata corpo e interprete nelle sue declinazioni migliori. Oppure a quella della nouvelle vague impertinente di Agnés Varda a cui verrà consegnata la Palma d’oro d’onore. Per questo «Viaggio nel Cinema» dunque, come sempre le attese sono molte su una Croisette assolata, con i lavori ancora in corso, il Palais sguarnito, il profumo dell’estate arrivata troppo presto. E se anche come rituale vuole nel salutarsi in coda aspettando l’accredito si dice: «Mamma mia sono già stanco! » oppure: «Oddio come si farà a vedere tutto!» nessuno rinuncerebbe all’appuntamento per niente al mondo. Cannes è sempre Cannes che si voglia o meno, e il Festival guidato dall’imperturbabile (anche alle critiche) Thierry Frémeaux lo sa. Per quindici giorni ti risucchia in una bolla, e come gli scolaretti diligenti, armati delle nostre tesserine che separano gli uni dagli altri categoricamente, si va avanti e dietro sul lungomare, quest’anno accessoriati anche di cartellina azzurra, la borsa gadget molto hypster e molto carina. Per una scrollata di realtà basta salire sul treno, alla prima stazione francese i poliziotti buttano giù tre ragazzi africani, altri due più svegli salgono alla stazione successiva. Sono passati attraverso i monti raccontano. Benvenuti in Francia. Le critiche si diceva. Che ovviamente non mancano anzi Frémeaux è stato severamente criticato per non avere preso in concorso il nuovo film di Arnaud Desplechin, Trois souvenirs de ma jeunesse - nel bel cartellone della Quinzaine di Edouard Waintrop - con cinque film targati Francia a sbandierare l’orgoglio nazionale di una cinematografia che i dati dello scorso anno, a differenza dei nostri, dicono in ottima salute. Il rifiuto in gara di Desplechin è diventato un caso nazionale. Il film ritrova Mathieu Amalric, l’attore alter ego del regista, e Emmanuelle Devos, il suo doppio femminile, letteratura e riferimenti musi- – I l sito ufficiale della Provenza, testualmente e onestamente scrive «Cannes non eccelle per originalità, quanto per opulenza e vistosità». Dunque, agli amanti del cinema, spente le luci in sala o durante una giornata in cui il programma del Festival nulla offre loro, non resta che deambulare lungo la Croisette? Si rassicurino, le alternative esistono. Anche per pranzare o cenare a prezzi moderati. Fate due passi, discosti dalle strade più fitte di turisti, e fermatevi ogni volta che apparirà uno dei tanti muri dipinti seguendo, è ovvio, il tema del cinema. Incontrerete Buster, Marylin, il «marsigliese» Delon... Le buone forchette avranno due obbiettivi: la rue Meynadier, ricca di effetti speciali per palato e olfatto grazie alle botteghe di formaggi, dolci, specialità provenzali, vini; il mercato Forville, che manda in scena le star del- MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 Thierry Frémeaux ha messo a punto un cartellone fitto di titoli per la kermesse che apre con «La tete haute» di Emmanuelle Bercot ULTIMI RITOCCHI PRIMA DEL VIA DI CANNES 68/FOTO REUTERS, SOPRA «THE YOUTH» DI SORRENTINO, «YAKUZA» DI MIIKE E «MAD MAX» DI MILLER Sulla Croisette viaggio nel cinema Tanti film in corsa per la Palma. E non mancano le polemiche per l’opera di Desplechin non in gara ma «solo» alla Quinzaine cali per raccontare un amore perduto... Il quotidiano Le Monde nel tradizionale inserto dedicato al Festival ha puntato su Natalie Portman in copertina, l’eroina di Guerre stellari esordisce come regista (fuori concorso) portando sullo schermo l’Amoz Oz di Una storia d’amore e di tenebra (di cui è anche protagonista) progetto ambizioso per un film che i bene informati danno come piuttosto nullo. Ancora a proposito della selezione ufficiale qualche giorno fa il quotidiano Libération scriveva: «Frémeaux ha giocato la carta dei nomi sicuri con qualche novità». Ma l’alternanza tra registi «noti» e abituali della selezione cannois, e new entry è da sempre una caratteristica del Festival. D’altra parte la scorsa edizione con una serie di grandi autori - Dardenne, Mike Leigh, Godard, Assayas, Cronenberg - ha prodotto molte (belle) sorprese, a prova che non sempre il «nuovo» corrisponde di per sé a ricerca e qualità. L’unica opera prima in gara quest’anno è Saul Fia (Il figlio di Saul) di Laszlo Nemes, una storia ambientata nei campo di concentramento dove il protagonista, ebreo, cerca disperatamente di seppellire il corpo di un ragazzo, forse suo figlio. Nemes viene dalla «scuola» di Bela Tarr, di cui è stato assistente, sembra che il film sia un capolavoro. Lo scopriremo molto presto visto che è programmato nei primissimi giorni festivalieri. Meno «nuovo» è invece Yorgos Lanthimos, nome di punta del cinema greco contemporaneo (quello della crisi e post-Angheloupoulos per intenderci). Certo Lobster è la sua prima corsa alla Palma d’oro ma Kynodontas (2009) ha vinto il Certain Regard - giuria presieduta da Paolo Sorrentino - e l’inquietante Alps è stato in concorso alla Mostra di Venezia. La novità per Lanthimos sono la scelta di un cast internazionale e di girare in inglese Rachel Weisz, Colin Farrell - passaggio comune al Matteo Garrone del Racconto dei Racconti - in gara il 14 in comtemporanea all’uscita nelle nostre sale - e di altri registi sulla Croisette come Joachim Trier, naturalmente Paolo Sorrentino in The Youth. Prima volta anche per Valérie Donzelli in corsa alla Palma con Marguerite&Julien, Frémeaux si era fatto sfuggire il meraviglioso La guerre est declareè, che aveva fatto impazzire la Croisette e l’indice di gradimento della Semaine de la Critique che lo aveva presentato come evento speciale. Rovesciamenti. È il caso del nuovo film di Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro con Lo zio Boomer che è stato «aggiunto» all’ultimo momento nella selezione del Certain Regard (il film si chiama Cemetery of Splendour), sezione sulla carta dedicata alle scoperte - del tipo piccoli re- gisti crescono per la Palma d’oro - e che da qualche tempo sembra invece diventata la riserva per correggere il tiro sulle «clamorose» assenze dal concorso. Qualche anno fa avevamo visto al Certain Regard il magnifico Lo strano caso di Angelica di De Oliveira, tra i suoi film recenti più belli, o il Godard di Film socialisme... Quest’anno al Certain Regard c’è anche Naomi Kawase (Sweet Red Bean Paste) regista molto amata da Cannes il cui film era tra quelli dati in gara prima della conferenza stampa ufficiale. L’impressione è comunque che Frémaux abbia composto il programma in equilibrio ancora più complicato, e non solo per il numero di film - 19 in concorso e 19 al Certain Regard più eventi speciali, fuori concorso - ma anche per la griglia molto affollata dei primi giorni. E oltre il Palais? La Quinzaine inaugura con l’imperdibile nuovo film di Philippe Garrel, L’ombre des femmes, e la masterclass di Jia Zhang-ke, di cui rivedremo Platform, brilla sinergia tra l’autore sessantottino di Le La prima volta di Donzelli in concorso, il tris di autori italiani mentre la Semaine inaugura con Wajeman lit de la vierge, e il regista cinese lanciato dalla Francia ai tempi del suo primo film, Pickpocket, incursione critica nella Nuova Cina capitalista colta nel suo momento di feroce trasformazione. Alla Semaine partenza invece con Les anarchistes, opera seconda di Elia Wajeman. Oggi dopo il film di apertura (francese) di Emmanuelle Bercot La tete haute, sarà anche il giorno della proiezione per la stampa internazionale di Il Racconto dei racconti. Intervistati dal quotidiano Le Monde i fratelli Coen noti per la loro laconicità hanno detto: «Essere in gara aiuta la discussione su un film anche se non sempre si premia il migliore». Lo sapremo tra dodici giorni. – SanaMente Buone forchette ed effetti speciali Luciano Del Sette le erbe aromatiche, l’olio, la frutta, i banchi di pesce. Lì troverete la menta, il basilico, il peperoncino così cari allo scrittore Jean Claude Izzo, e lì assaggerete i biscottini all’anice, meno fighetti delle madleinettes proustiane. Carnot è una larga via distesa per quasi tre chilometri, disegnata da palazzi e ville liberty, art deco, nouveau. Non limitatevi a uno sguardo d’insieme, e invece soffermatevi sulle decorazioni dipinte o scolpite, infilatevi con garbata noncuranza nell’atrio di un portone. Un bel cast di celebrità passate a miglior vita conta il cimitero del Grand Jas, 1866, analogo, per «ospiti», al romano e acattolico cimitero di Testac- cio. Accoglie, infatti, le cappelle delle facoltose dinastie locali e gli stranieri che, arrivati a Cannes, non l’hanno più lasciata. Riposano nel Grand Jas, fra i tanti, l’attrice Martine Carole, l’attore e cantante Georges Guétary, gli scrittori Klaus Mann e Prosper Mérimée, il drammaturgo Eugène Brieux, la ballerina Olga Khokhlova, il poeta irlandese William Bonaparte Wyse. Storia, leggende e natura vanno in scena sulle isole di Lerins. Attrezzatevi per un pranzo al sacco, poiché, stando a nostri ricordi abbastanza freschi, i ristoranti di Sainte Marguerite e Saint Honorat non brillano per cibo e conto finale. Sainte Marguerite deve la sua fama al mito della Maschera di Ferro; alle rovine celtiche, romane e medioevali; alla rocca fortificata che ospita il Museo del Mare, ai profumi intensi della sua vegetazione. Personalmente amiamo di più Saint Honorat, sede di un’abbazia del Quinto Secolo retta dai Cistercensi, che dalla coltivazione delle vigne traggono un nettare di tutto rispetto. I monaci propongono visite guidate del complesso religioso per apprezzarne fino in fondo le vicende e l’arte. Il carnet del buon mangiare e bere conferma alcuni indirizzi dello scorso anno, segnalati sempre in occasione del Festival, e ne aggiunge di nuovi. Nel primo caso, rinnovata fiducia va a Le jardin secret, 2 rue des Frères, 04/93387263, scenografie orientali, verde, tavoli ben distribuiti e illuminati da candele, accolgono per un vino, un tè, un cocktail, piccoli piatti ben cucinati e originali, 12/18 euro; a La Meissounière, 15 rue du 24 aout, 04/93383776, cucina francese e buone proposte in wok dalla cucina asiatica, si pranza con meno di venti euro; a L’assiette provençale, 9 quai Saint Pierre, 04/93385214, Vieux Port, due menu degustazione di carne o di pesce a 24 e 29 euro, cucina squisita, servizio attento, posto piacevole, prenotare; a Le Fish and Chips Cannes, 2 place du marché Forville, 04/93995594, per dieci euro, consumazione sul posto o take away, pesce croccante e chips fritte sul momento, più una buona birra. Novità sono l’Absinthe Bar di Antibes (una decina di chilometri da Cannes), 25 cours Masséna, cantina accanto al mercato coperto, dove regna l’assenzio in mille varianti, accompagnato da musica live; bouillabaisse magistrale a Le caveau 30, 45 rue Felix Faure. tel. 04/93390633, 30/35 euro badando ai vini, ambiente Belle Epoque; Le restaurant Arménien, 82 boulevard de la Croisette, tel. 04/93940058, come da nome ha menu armeno esuberante di portate fredde e calde, sui 35 euro. «Non chiedere ciò che puoi fare per il tuo paese. Chiedi cosa c’è a pranzo», affermava, cinico, Orson Welles. Rendetegli omaggio a Cannes anche da parte nostra. [email protected] MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 VISIONI GIUSEPPE BERTOLUCCI A quasi tre anni di distanza dalla morte, il regista viene ricordato attraverso la prima edizione del festival: «Giuseppe Bertolucci, il suo cinema, il suo teatro, la sua televisione (18-24 maggio)», organizzata dall'Assessorato alla Cultura e alle Politiche Giovanili della Regione Lazio insieme all'ATCL, in collaborazione con Teatro di Roma e Casa del Cinema. Inaugurazione al teatro Argentina lunedì prossimo con Giovanna Marini in un concerto e con Roberto Benigni che introdurrà la proiezione del film «Berlinguer ti voglio bene». «Giuseppe Bertolucci era incapace di coltivare un solo orticello spiega l'assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili Lidia Ravera - e ciò CANNES 68 · Si rafforza la presenza transalpina con ben 13 lavori L’invasione francese tra reale e immaginario Eugenio Renzi CANNES U n po’ di cifre. Quest’anno, al festival di Cannes, 19 lungometraggi concorrono per la palma d’oro, 19 per il premio Un certain regard, 16 nella Quinzaine des réalisateurs, 7 alla Semaine de la critique. Il totale fa 54. Di questi, 13, vale a dire più di un quinto, sono francesi. E sarà un film francese ad aprire tutte le principali sezioni (con l’eccezione di Un Certain regard). Contando i film fuori concorso e i corti il rapporto sale a un quarto del totale. È molto? È troppo ? Prima di averli visti, è meglio tacere. Però si può dire che la presenza massiccia di titoli francesi è una tendenza che si è andata rafforzando in questi ultimi anni sulla Croisette. Mentre ogni altra industria francese arranca nella crisi, la produzione cinematografica gode di ottima salute – spinta dal sistema di redistribuzione delle ricette (bestia nera dei liberisti della UE) che tassando le piattaforme di distribuzione audiovideo (cinema, televisione, internet) riversa sul cinema circa due miliardi di euro l’anno. Ma l’effervescenza dell’industria non implica ipso facto che il festival di Cannes sia obbligato a selezionarne così tanti, né a metterli così in avanti. Quali sono questi film? Commentando a caldo l’annuncio della selezione ufficiale, avevamo già speso qualche parola sui quattro autori che concorrono per la palma d’oro: Audiard, Donzelli, Maïwen, Brizé. A questi, nel frattempo, si è aggiunto Guillayme Nicloux. Nicloux è conosciuto sia come romanziere che come regista (nel 2012, lo si ricorderà, aveva presentato a Berlino un nuovo adattamento de La Religieuse di il manifesto una svolta pascaliana, dalla razionalità all’intuizione, allora si tratta di una buona notizia. Vedremo. Seulement, si fa per dire, due film francesi in competizione alla Semaine de la critique, che di solito ha una politica abbastanza attenta alla produzione nazionale. Il nuovo corso è incarnato candidamente dal manifesto dove una giovane donna si slancia in un abbraccio aperto al mondo intero. I due titoli sono: Jeunesse des loups-garous di Yann Delattre e La Fin du dragon di Marina Diaby. L’accostamento produce un chiasmo che si ritrova anche negli intrecci, il primo confronta il sentimento amoroso alla crudeltà dell’esistenza, l’altro mescola l’ordinario all’insolito con un tocco burlesco. Ma se due vi sembran pochi, ecco che un altro film francese (fuori concorso) è stato scelto per aprire le danze. Si tratta di Les Anarchistes d’Eli Wajeman e se ne dice un gran bene. Tra le «séances spéciales» tro- G. DEPARDIEU E I. HUPPERT IN «VALLEY OF LOVE» DI NICLOUX, SOTTO «TROIS...» DI DESPLECHIN Diderot, dopo quello di Rivette che nel 1966 fece gran scandalo. Non sappiamo come sarà Valley of Love, ma a Nicloux va un premio per aver riportato alla Croisette una delle coppie più belle del cinema francese, del cinema di sempre: Gérard Dépardieu et Isabelle Huppert (in Loulou di Pia- lat, Cannes nel 1980). Ci eravamo sorpresi dell’assenza del film di Arnauld Desplechin in competizione che finalmente ha trovato posto presso la concorrenza, alla Quinzaine des réalisateurs. Annunciando il colpaccio, il direttore, Eduard Waintrop, lo ha definito «il più emozionante dei film di Desplechin». Ora, i film di Desplechin sono sempre molto cervellotici, raramente emozionanti. Per darne un’idea, si potrebbe pensare al primo Moretti. Alcune ossessioni sono simili: quella della psicologia per esempio. Altre no. Trois souvenirs de ma jeunesse è la storia di uno smemorato, Paul Dedalus, che come il Michele Apicella di Palombella Rossa è un personaggio ricorrente, uno strano alter ego del regista che Desplechin aveva introdotto nel 1994 con uno dei suoi film più noti: Comment je me suis disputé, ma vie sexuelle. In genere, l’aggettivo « emozionante» sa di slogan pubblicitario e, per lo più, promette male. Ma, se vuol dire che a Desplechin è riuscita che lo distingueva da altri era la volontà di maneggiare tutti i mezzi che aveva a disposizione. Nonostante il suo status di 'marginalità consapevole', poiché non amava l'essere mainstream, Bertolucci era deciso a superare le barriere: grazie a questa caratteristica il festival potrà essere cross-mediale». Info e programma completo: www.atcllazio.it INCONTRI · La regista Valentina Pedicini Nelle miniere sarde un universo parallelo Giovanna Branca ROMA A Un’industria ricca quella del cinema grazie anche ai proventi della tassazione sull’audiovideo viamo un lungometraggio di Louis Garrel che, ripropone in formato lungo il fortunato trio del corto La règle des trois (accanto a L.G., Vincent Macaigne et Golshifteh Farahani). Al computo dei film francesi, abbiamo omesso una sezione che non poteva entrare nel calcolo perché la selezione è costituita per forza di cose quasi interamente da film francesi (o coprodotti con la Francia) : stiamo parlando dell’ACID (Associazione del Cinema Indipendente per la sua Diffusione). Il programma è deciso da cineasti i cui film sono stati mostrati nelle passate edizioni e i quali sponsorizzano a loro volta dei films, per lo più prime opere senza distributore. Questo rende l’ACID una selezione estremamente fragile, piuttosto ineguale ma anche molto interessante da seguire. Alcune proiezioni ACID segnano i momenti migliori di Cannes. Uno di questi potrebbe essere il film di Benoit Forgeard. Forgeard è attore, autore, regista. Fa parte di un gruppo di autori che ruota attorno all’indipendente Ecce Films di Emmanuel Chaumet. Nei suoi cortometraggi ha fatto vedere un cinema poetico e politico al tempo stesso, quasi sempre sopra le righe. Su carta, Gaz de France sembra portare la ricetta a maturazione, con un film che prende in prestito l’ironia dei fratelli Marx per dire: se la fantascienza vi sembra raccontare l’attualità vi sbagliate, in realtà è già storia. Vedremo. cinquecento metri sotto il livello del mare esiste un mondo che viene dal passato e non ha un futuro: quello della miniera e dei suoi lavoratori. Valentina Pedicini, nel suo Dal Profondo, scende in questo universo parallelo per riportare alla superficie la voce di chi lo abita ogni giorno, come i padri ed i nonni prima di loro: i minatori. E tra loro un’unica donna, Patrizia, anche lei orgogliosa «figlia e nipote» della miniera, guida e anfitrione della regista pugliese nelle sue profondità . Sotto Iglesias, in Sardegna, c’è infatti l’ultima miniera di carbone italiana, che nei mesi in cui Pedicini era lì lottava per restare aperta, mentre oggi, come racconta lei stessa «è in perdita, ha chiuso, ma restano delle persone per la manutenzione e per la messa in sicurezza». Il De Profundis che ci consegna Valentina è quindi quello di questo paese sotterraneo, grande quanto la città che lo sovrasta.Tutto era cominciato con una ricerca sulle miniere sarde abbandonate che, spiega la regista, «Mi hanno fatto sempre pensare ad un set cinematografico pazzesco inutilizzato. Poi ho scoperto che c’era ancora una miniera attiva, l’ultima italiana, dove lavorava una delle pochissime minatrici in Europa. La conoscenza di Patrizia mi ha convinta a continuare». Da quel momento in poi, Pedicini ha passato circa tre anni a lavorare a Dal profondo, di cui uno intero insieme ai minatori, spesso sottoterra con loro.» Il girato che ha portato alla superficie il materiale che è entrato nel film viene da 28 giorni passati in miniera. Guidati dai minatori, scopriamo non solo il loro mondo parallelo, ma dobbiamo riconsiderare tutto quello che credevamo su di esso. «Sono arrivata - racconta la regista - con il pregiudizio da continentale, ma anche da documentarista: dopo 3 giorni in miniera mi chiedevo com’è possibile nel INTERVISTA · Daniele Pellizzari della Banda Elastica parla del nuovo album «Embè?» «Indipendenti per far musica in modo diretto» Fabio Francione E mbè?, terzo cd della Banda Elastica Pellizza, «è un ritorno all’indipendenza, al far musica in modo semplice e diretto». Comincia così, senza rete, il racconto di Daniele Pellizzari, voce chitarra e autore dei testi e delle musiche del gruppo piemontese: nudo e spogliato delle «esperienze poco felici» avute nel 2012 con la pubblicazione di Io sono, soprattutto «per via di una gestazione dell’album molto complessa, anche nel rapporto con la produzione». Distribuito come i precedenti dalla Incipit Records/Egea Music, Embè? ha perso dei primi lavori le collaborazioni illustri che, ora, osservate dalla prospettiva dell’ascolto delle nuove canzoni, risultano ancor più superflue. «Non ci sono più, questo è un cd autoprodotto a differenza de- gli altri. L’abbiamo pagato noi, insieme a un amico imprenditore fiorentino impiegato nel sociale. Io stesso ho lavorato per molto tempo come educatore in una comunità. Circa una decina d’anni. Ora sono fuori da quel mercato, non ho un lavoro fisso e per vivere faccio un po’ di tutto, dal vendere libri sulle bancarelle all’imbianchino». Stilettate di vita quelle che Pellizzari, lancia in resta, cerca di trasmettere: «abbiamo registrato nello studio del nostro batterista senza l’assillo del tempo e influenze esterne; eravamo tutti rilassati e concentrati sui brani». Un lavoro: «artisticamente libero». E lo si avverte anche nel tentativo di recuperare influenze già presenti nell’ep d’esordio, Goganga, un titolo più che di indirizzo, quasi un manifesto di ciò che sarà Embè?. «Mi fa piacere il riferimento a una certa canzone d’autore. Sono cresciuto ascoltando Gaber, Jannacci, la comicità di Cochi e Renato». Anche la comicità stralunata di Mario Marenco (una delle voci storiche di Alto gradimento con Arbore e Boncompagni in radio, ndr) lo ha influenzato. Uno dei brani più dissacranti e ironici, Le forze disarmanti, lo cita esplicitamente. Pellizzari ha 48 anni, figlio dell’emigrazione degli anni ’50 che s’insediava nella provincia di Torino: «ho saltato tutta la scena underground e new wave torinese degli anni 80 e 90. Mi piaceva il blues, preferivo ascoltare i Led Zeppelin e Bob Dylan». Nei suoi testi tanti riferimenti al quotidiano ereditati dai genitori di origini pugliesi. Ma ci sono anche riferimenti altri come il cinema o la fantascienza: «da adolescente insieme ai poeti e scrittori della beat generation. A vent’anni fui fulminato da Kerouac e da Burroughs. Ora leggo pagina 13 con fatica». Echi di queste letture s’avvertono nei testi, peraltro modernissimi nella svolgersi narrativo, restando ancorati alla rima: «mi rifaccio a Fabrizio De André; amo le forme originarie anche nella musica. Scrivo canzoni da trent’anni ormai e ho maturato con il tempo un mio stile. L’ho raggiunto con fatica, sono stato sempre severo con me stesso. Ho sempre tenuto a che le mie canzoni fossero piene di dignità». 2015 voler continuare a fare un lavoro che, se non porta alla morte per incidente, ne porta una per malattia, ed è incredibilmente usurante. Ed è la forza del documentario: i rapporti che ho instaurato con i minatori mi hanno aiutata a vedere oltre». Questo luogo fatto di cunicoli, tubi e macchinari, di gallerie che, «nell’apparente uniformità di un nero infinito sono molto diverse tra loro», ricorda la visione futurista del cinema di fantascienza anni’80: buio, umido, labirintico come in Alien e Blade Runner. «Quando sono arrivata giu spiega Pedicini - il primo riferimento che ho avuto è stato 20.000 leghe sotto i mari. Poi ho cominciato a scoprire i macchinari abbandonati dopo l’uso, che risalgono a 50/60 anni fa e rimandano a tutt’altro immaginario. Esteticamente abbiamo lavorato molto perché sembrasse un film di fantascienza». Da narratrice, cerca il più possibile di fare in modo che le voci del film contribuiscano a scrivere questa storia che «non è sui minatori, ma fatta con loro. Rispecchia la loro «Girando ’Dal profondo’ i lavoratori mi hanno aiutato a superare tutti i miei pregiudizi» percezione di quel mondo sotterraneo, di persone che non hanno prospettive lavorative all’esterno, ma ancor più hanno una dignità un orgoglio e un attaccamento al lavoro che io non ho mai trovato in nessun altro». Sono loro stessi a mostrarci «l’ agonia, gli ultimi sussulti di vita di un mondo che sta per crollare». Il De profundis - continua la regista - è «anche la preghiera dei morti, che si invocano in chiesa per aiutarli a salire verso il paradiso. E per me i minatori gridavano il loro desiderio di essere riconosciuti, che si sapesse della loro esistenza». Dal profondo è tra i cinque finalisti del Mese del documentario, e verrà proiettato oggi alla Casa del cinema di Roma. Al momento però Valentina Pedicini sta lavorando a qualcosa di molto diverso «Tutti si aspettavano un documentario, ed io faccio un corto di finzione. Ma c’è una ragione personale: la storia è vagamente autobiografica, e da documentarista mi sembrava più forte, per parlare di me, utilizzare il linguaggio della finzione e mettere un filtro. È una storia piccolissima, sull’ultima giornata di vacanza di cinque bambini. Ma in realtà si tratta della fine dell’infanzia, prima di entrare nel mondo degli adulti e scoprire che non è così bello e accogliente come l’avevamo immaginato». Interamente girato in esterni, nella natia Puglia, è un bel salto dalla claustrofobia di Dal Profondo. «Però - chiosa Pedicini - resto documentarista nell’animo, perché credo che il documentario abbia delle possibilità espressive nuove e maggiori rispetto ai film di finzione, ma anche perché è un lavoro fatto con il corpo e quindi da regista ti mette sempre in gioco». – il manifesto RI-MEDIAMO – I media incarcerati Vincenzo Vita I l testo sulla diffamazione è in terza lettura alla Camera dei deputati. Si è detto da più parti che l’attuale articolato ha bisogno di una revisione – dal meccanismo della rettifica, all’entità delle sanzioni pecuniarie, all’annoso tema delle querele temerarie, alla specificità solo parzialmente riconosciuta dei blog - ma è ormai almeno condivisa l’abolizione del carcere. In un quadro certamente più disteso rispetto all’omologo dibattito della passata legislatura. Allora, in controluce, si stagliava il caso di Alessandro Sallusti, che si voleva salvare da un’ingiusta detenzione. Le liti che accompagnarono il dibattito segnalavano l’arretratezza di molte componenti del ceto politico nell’affrontare il problema. Tuttavia, il caso provocò un positivo clima di opinione e non mancarono manifestazioni pubbliche. A coronare la mobilitazione arrivò la grazia concessa dall’allora Presidente Napolitano. Se il carcere è stato definitivamente abolito da ogni previsione normativa in fieri, paradossalmente sta passando sotto silenzio l’imminente misura cautelare a carico di Antonio Cipriani. Si tratta di un valente professionista, assente dai talk show e quindi estraneo alla cerimonia mediatica. Ma non certo meno meritevole di una battente iniziativa democratica. L’appello – che sicuramente sarà fatto proprio dagli organismi di categoria e non solo- interpella le coscienze e, ovviamente, andrà indirizzato al nuovo Presidente Mattarella. Nessuna pressione indebita, ma una valutazione sul carattere ineguale del diritto. Attenzione. L’Italia è in caduta libera (65° posto secondo Freedom House) nelle classifiche sulla libertà di informazione anche perché tuttora esiste nell’ordinamento italiano la previsione del carcere. Antonio Cipriani, direttore di Globalist.it, ha lavorato a l’Unità per diversi anni ed è stato il responsabile del quotidiano E Polis, dove ha collezionato querele in quantità, fino alla condanna «alle sbarre» comminata dal tribunale di Oristano. Trentaquattro processi a carico del direttore, visto che la società editrice fallì tra debiti e accuse di bancarotta. Insomma, non deve finire così, se esiste una giustizia giusta. Il caso di Antonio Cipriani è solo la punta dell’iceberg. La Federazione della stampa ha pochi giorni fa raccolto dall’oblio il caso de l’Unità (a sua volta né unico né isolato: pure il manifesto ha ferite al riguardo, come svariate altre testate). Dopo la messa in liquidazione della Nuova Iniziativa Editoriale nel giugno del 2014, sono 26 tra ex direttori (Concita De Gregorio ha subito pignoramenti) e giornalisti a dover pagare il conto delle decine di querele. Si tratta di richieste di risarcimenti per oltre 500mila euro. E mezza dozzina sono già provvedimenti esecutivi. Il Partito democratico che – si è appreso dall’efficace puntata di Report della scorsa domenica - aveva un ruolo determinante in base ad un patto parasociale ha l’obbligo morale di intervenire. In vari modi, tra cui un emendamento immediato, volto a inserire i costi delle querele nelle procedure fallimentari. Lo stesso ministro Orlando è sembrato interessato ed aperto. Come è urgente costituire – a cura degli editori e della Presidenza del consiglio - uno specifico Fondo di solidarietà. Insomma, l’informazione è proprio a rischio (per non dire dell’assurda esiguità del Fondo ordinario per l’editoria) e i buchi aperti dalle vicende istituzionali diventano crepe se l’articolo 21 della Costituzione viene così abrogato. – Oggi a Udine si svolge l’ultima udienza del processo che vede imputato Filippo Giunta, lo storico organizzatore del Rototom Sunsplash, per agevolazione del consumo di sostanze durante l’edizione del Festival del 2009, l’ultima ad essere organizzata a Osoppo nel parco del Rivellino. Un processo iniziato sull’onda repressiva della Fini-Giovanardi e di una furiosa caccia alle streghe. A seguito dell’assedio lanciato dalle forze dell’ordine durante quell’edizione, furono effettuati 103 arresti fra i 150.000 frequentatori del festival ai sensi della nuova normativa antidroga. Per lo più consumatori di cannabis, vero obbiettivo della legge. Un assurdo accanimento nei confronti del Festival che coinvolse anche Ispettorato del lavoro, Vigili del Fuoco, Noe, Nas, Finanza, Vigili urbani MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 COMMUNITY EMILIA ROMAGNA Mercoledì 13 maggio LA FOLLE GUERRA Nella mostra «Che divisa porti, fratello? Nessuna. Il fronte interno», ampio spazio ad Augusto Masetti e alla follia della guerra. Ribellione e pazzia, pacifismo e devianza si intrecciano anche nella vicenda di Federico Siena, il partigiano sordomuto internato in manicomio dopo la Liberazione. La mostra è aperta tutte le mattine, domenica esclusa, fino al 30 maggio. I curatori sono disponibili anche fuori orario. Info: 348 9870912. Biblioteca Comunale di San Giovanni in Persiceto (Bo) LAZIO Mercoledì 13 maggio STRADAROLO CROWDFUNDING Torna Stradaolo e sarà Stradarolo Big. Una dedica speciale a Francesco Di Giacomo nella sua città e nel festival che lui ha sempre amato e aiutato a crescere. Per far decollare la nostra mongolfiera di sogni abbiamo bisogno del tuo sostegno ed è per questo che abbiamo deciso di accedere alla piattaforma di crowdfundind Musicraiser. «Il nostro festival immaginifico, spiegano gli organzizatori, un esperimento concreto di arte su strada e di racconto del territorio, la periferia della metropoli, il suo andare e tornare, l'odissea pendolare, ospiterà tanti artisti, dalla musica, al teatro, alla letteratura, al giornalismo, al circo. Come sempre il Festival è totalmente gratuito ma i contributi istituzionali sono insufficienti. Per rilanciarlo è necessario il tuo, il nostro contributo. Non c'è molto tempo e più ’big’ sarà il tuo sostegno, più grande la ricompensa, come l'ospitalità in B&b e la cena con gli artisti al dopofestival nel mitico Cantinone». Info e condivisioni: facebook/twitter. Ecco il link http://www.musicraiser.com/it/projects/4111-stradarolo-big-festival Giovedì 14 maggio, ore 18 CATASTROFE PALESTINESE In occasione della Nakba, catastrofe palestinese, proiezione del film Nakba di Monica Maurere. Interventi fra gli altri di: Jacopo Venier, Maurizio Musolino, Tana De Zulueta e Bassma Saleh. Sala Zavattini, Fondazione Aamod, via Ostiense, 106, Roma LOMBARDIA Mercoledì 13 maggio, ore 21 RESTIAMO UMANI Nell’ambito della rassegna dedicata alla Palestina, proiezione stasera del film «Restiamo umani - The Reading movie» di Luca Incorvaia e Fulvio Renzi. Cinema Nuovo Eden, via Nino Bixio, 9, Brescia PIEMONTE Venerdì 15 maggio, ore 18 L’AQUILONE In In occasione della giornata contro l’omolesbotransfobia: presentazione del libro: «Sventola l’aquilone» di Donata Testa. Intervengono l’autrice e Erberto Rebora del Maurice glbtq. Biblioteca, via Ex deportati ed internati, 22 Luserna San Giovanni (To) TOSCANA Mercoledì 13 maggio, ore 21 ESSERE DIVERSI «Felice chi è diverso. una storia di libertà» di Gianni Amelio, viene proiettata oggi nell’ambito della rassegna Rights Now - Cinema per i diritti. Novantatre minuti di storia della società italiana in 20 interviste ad altrettanti omosessuali. Cinema Eden, via Guadagnoli, 2, Arezzo Tutti gli appuntamenti: [email protected] le lettere pagina 14 INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.info [email protected] Sul bambino «balilla» Ha avuto un certo rilievo mediatico il fatto del bambino di quattro anni che in un asilo di Cantù faceva il saluto romano, gesto «rivendicato» dai genitori del piccolo in quanto «conforme alle loro idee» (!). La vicenda è senza dubbio da stigmatizzare, ma minacciare di cacciare il bambino se il fatto continuerà a ripetersi è la cosa, a mio giudizio, più sbagliata che si possa fare: è proprio il compito della scuola, e degli educatori, far capire alle giovani menti in formazione il significato di certi gesti, cosa sta dietro a certe ideologie e quali disastri esse hanno provocato. Non è rimandandolo in seno ad una famiglia che continuerà a educarlo in maniera orrenda che si può risolvere questo tipo di problema. Bisogna sempre tenere a mente quello che «impose» Primo Levi a noi «che a sera torniamo nelle nostre tiepide case» ricordare, sempre, a noi stessi e agli altri «che questo è stato» prima che sia troppo tardi ed essere costretti a domandarci, di nuovo, «se questo è un uomo». Mauro Chiostri Indignazione relativa E’ terribile la notizia della tassista violentatata e derubata da un nostro connazionale. Proprio negli stessi giorni Salvini incontrava Casa Pound nella Roma che ha «ospitato» questa tragedia. Non ho sentito proclami né urla del leader leghista contro lo stupratore-rapinatore; posso ben immaginare cosa sarebbe successo se il criminale fosse stato di altre nazionalità, come già capitato in passato: giorni e giorni di polverone mediatico, attacchi xenofobi e razzisti con il plauso della grande massa italiota, strumentalizzazione di queste tragedie a fini esclusivamente di propaganda politica. Così non è stato, per fortuna; d’altronde Salvini insieme a certi suoi impresentabili colleghi di partito, vedi Bitonci, sono troppo impegnati a dar la caccia ai disperati che perdono di vista i criminali di casa nostra. Ma, si sa, l’incoerenza regna sovrana: prima di giudicare il reato stesso evidentemente alcuni hanno bisogno di conoscere la nazionalità di chi quel reato lo compie. Una sorta di «indignazione relativa», difficile da capire per chi non conosce la realtà di questa «piccola» Italia. Resta l’amaro in bocca e la sensazione che anche le vittime siano un po’ meno vittime se il criminale è del nostro piuttosto che di «altri» paesi. Rudi Menin Venezia CasaPound ha il nuovo duce Nell’incontro elettorale tenuto da Salvini, ieri 10 maggio, in un hotel a Lecce, l’uditorio, misto camerati-casapoundiani, in visibilio ha intonato ripetutamente, come da registrazione diffusa su Fb, duce, duce, duce. Questa sera in TV sull’apporto fascista che rimpopola il suo seguito Salvini ha driblato sul tema, ritenendo ormai sepolti fascismo e comunismo ed anzi dal suo pallottoliere risulterebbe più alto il numero delle vittime... del secondo sistema. Ma chi lo ha osannato a Lecce al grido di: duce, duce, duce, o col saluto romano, come avviene altroce, è, secondo Matteo, da considerare solo un arretrato di 70anni. Altri slogan intanto s’elevavano alti, fuori dall’albergo, ad opera del folto presidio antifascista con giovani, docenti, associazioni e rappresentanti dell’Anpi, Arci, Altra Sinistra e D.A.: no al fascismo, no al razzismo, no alla secessione double-face di una lega para-nazionalista. Giacomo Grippa Lecce Pubblicità sessista Lo fanno apposta. Sanno perfettamente che la pubblicità è sessista, sanno che la gente protesterà. Sanno perfettamente che in tal modo a pubblicità si aggiungerà altra pubblicità. Sbagliano volendo sbagliare, giacché l'errore in tal caso dà frutti. Mi riferisco alla nuova pubblicità con la quale la casa editrice De Agostini pubblicizza il suo nuovo sito Deabyday, che promette "tante soluzioni e consigli per la vita di tutti i giorni" e mostra un sacco da boxe vestito di un perizoma di pizzo nero e lo slogan: «Da come tenersi in forma a come tenersi marito». Ed infatti, secondo le previsioni della casa editrice, la pubblicità che si aggiunge alla pubblicità è arrivata. Su Change.org, è stata subito avviata una petizione per chiedere la rimozione della pubblicità e le scuse per tutte le donne. A scrivere la petizione è Anna Maria Arlotta, che nel 2011 ha già creato una pagina Facebook, «La pubblicità sessista offende tutti», contro le rappresentazioni della donna oggetto in tv e nella pubblicità. Io chiederei, invece, alla De Agostini di far seguire un’altra pubblicità sessista: un sacco da boxe vestito di uno slip da uomo e lo slogan: «Consigli da come tenersi in forma a come tenersi la moglie». Francesca Ribeiro FUORILUOGO Rototom, Bob Marley è innocente! Leo Fiorentini di vari comuni, tutti impegnati a trovare fantasiose irregolarità nell’organizzazione del Rototom. Oggi Giunta, assistito dagli avvocati Alessandro Gamberini e Simona Filippi, sarà in tribunale per rendere la sua testimonianza e forse per ascoltare la sentenza. Siamo convinti che si arriverà ad una piena assoluzione ma un grave delitto è stato far perdere ad Osoppo un grandissimo evento musicale e culturale. Il Friuli, terra di Pier Paolo Pasolini, Loris Fortuna e Beppino Englaro, è stato purtroppo il teatro di una ope- razione repressiva e di censura di un’intera comunità, colpevole di amare il reggae e quindi la cannabis, per una supposta proprietà transitiva fantasiosamente applicata al diritto penale. Osoppo rimpiange il suo Festival, che aveva garantito più di 500.000 euro di investimenti regionali sul Parco del Rivellino, e che secondo stime de il Sole 24 ore faceva girare fra i 5 e i 7 milioni di euro. Un rimpianto per gli amministratori di Osoppo, che insieme all’intera comunità locale e ad un vasto movimento di artisti, in- tellettuali e attivisti si sono schierati nel tempo al fianco degli organizzatori sotto lo slogan «Non processate Bob Marley». Del resto in Spagna a Benicassim, dove è emigrato nel 2010, il festival è cresciuto continuamente confermandosi come il Festival Reggae più importante d’Europa incrementando le presenze sino alle 240 mila dello scorso anno. L’Università di Castellon ha stimato una ricaduta economica sul territorio di circa 24 milioni di euro. Anche per questo difficilmente Rototom tornerà in Italia. Insomma Osoppo, il Friuli e l’Italia hanno perso, a causa dell’ottusa foga proibizionista, non solo un grande evento musicale e culturale, ma anche una grande risorsa per l’economia locale. Con la sentenza di oggi ci auguriamo si compia un ulteriore passo verso la sconfessione delle politiche proibizioniste italiane, almeno nelle aule dei tribunali. Mentre il mondo guarda avanti, oltre la «war on drugs», le sue vittime ed i suoi palesi insuccessi, in Italia il dibattito sulla riforma della politica sulle droghe fatica ad arrivare sui Il nostro «mondo di mezzo» «Il degrado, in Campania, ha assunto i caratteri di degenerazione sistemica, per responsabilità di uomini e gruppi politici che hanno sostituito se stessi e le proprie clientele a tutti i meccanismi democratici, dalla funzionalità della pubblica amministrazione al rispetto delle regole principali della convivenza civile. Questa è la ragione per la quale così estese sono le disfunzioni della pubblica amministrazione e la crisi dei servizi pubblici, così bassa la qualità della vita dei cittadini, così elevata la rapina dei beni pubblici, dal suolo all’ambiente». Così scriveva la Commissione parlamentare antimafia nella Relazione sulla camorra redatta nel 1993. La Commissione denunciava l’assenza di politiche sociali dirette all’istruzione, al lavoro, alla casa, al sostegno per i più deboli. La Relazione termina con queste parole: «Un’economia pubblica senza spirito pubblico e un’assistenza senza efficienza hanno schiacciato la società civile trasformando i diritti in favori. La ripresa civile deve rovesciare questi rapporti e deve abbandonare la strada della straordinarietà. Occorrono una straordinaria ordinarietà, la ricostituzione del moderno Stato di diritto, l’etica della responsabilità». Ecco, appunto, responsabilità. Quanto quella Commissione affermò per la Campania potrebbe oggi dirsi per gran parte del Paese e della sua classe dirigente. A cominciare da chi ci amministra dovremmo presentare il conto a chi ha avvelenato il mare e la morale, a chi ha rubato il futuro ai nostri figli. Anche la «terra dei fuochi» è un parto del «mondo di mezzo». Gaspare Bisceglia – tavoli della politica nonostante la Fini-Giovanardi sia ormai stata cancellata dalla Corte Costituzionale. Se in Parlamento qualcosa si muove, con la costituzione di un intergruppo per la legalizzazione della cannabis recentemente promosso da Benedetto Della Vedova, il Governo pare voler far finta di niente. Il Cartello di Genova sta mettendo a punto un calendario di iniziative con al centro la pubblicazione di un nuovo Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga. La Società della Ragione intende aprire il confronto su una nuova legge sulle droghe, proprio da Udine. Un appuntamento fondamentale, per costruire una posizione italiana seria e riformatrice in vista di Ungass 2016, la sessione Onu sulle droghe prevista per il prossimo anno. MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 il manifesto COMMUNITY Economia circolare, esperienze per uscire dal tunnel C hi pensa di poter rilanciare l’economia continuando con le stesse modalità di prima si sbaglia di grosso. Non si esce dalla crisi aspettando che accada qualcosa, come se dovesse «passà a’ nuttata», per dirla con Edoardo. Bisogna individuare nuove strade facendo leva sulle risorse profonde del nostro Paese: un patrimonio enorme fatto di ambiente, qualità, creatività, bellezza e, soprattutto di ingegno. A tal proposito vorrei citare l’esempio di Camerata Picena dove vecchie lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie dismesse invece di andare in discarica vengono recuperati e rimessi in commercio con tanto di garanzia per gli acquirenti, e dove ha appena aperto il primo outlet per elet- degli inceneritori. Da un nuovo approccio al problema non arriva solo una risposta di carattere ambientale ma anche di carattere economico, un contributo alla ripartenza dell’economia. Nel settore del riutilizzo si genererebbero fino a 10.500 nuovi occupati. Lo sviluppo del riciclo determinerebbe una crescita di 12.000 occupati rispetto alla situazione attuale. Il valore della produzione nell’industria di preparazione passerebbe da 1,6 miliardi attuali a 2,9 miliardi. E anche la manifattura riceverebbe una potente spinta dalla sistematica disponibilità di materia prima seconda. All’economia circolare si affiancano le tante esperienze di sharing economy che stanno diventando parte delle nostre abi- Per rilanciare l’economia ci vuole innovazione. E va abbandonato il ciclo lineare di produzione trodomestici usati. Nei suoi capannoni si smontano, aggiustano e rimontano motori di lavatrici, serpentine di frigoriferi e cestelli di lavastoviglie in grado di funzionare ancora per anni. E’ un’attività simile a quella delle molte imprese che recuperano materia prima "seconda" dai Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Le apparecchiature elettroniche celano al loro interno miniere preziose di materie prime estratte da prodotti e non dal sottosuolo. In questo modo materiali e componenti destinati una volta alla discarica, tornano nel ciclo della produzione. Il progetto viene portato avanti da un’azienda dell’anconetano (la Agp) ed è sostenuto da Legambiente. «Second Life», il nome già dice tutto, nasce per promuovere il riutilizzo dei prodotti usati prolungandone il loro ciclo di vita e sostenere la cultura del riuso. Una iniziativa importante e concreta che guarda con occhio attento alle esperienze di economia circolare in Italia. Quello che una volta veniva fatto dai "rigattieri" oggi assume una configurazione industriale che prende a modello l’economia della condivisione e del riuso. Possiamo dire, come affermano i suoi stessi dirigenti, che è un’impresa «figlia della crisi», un’azienda che nasce dalle difficoltà di questi anni durissimi decidendo di percorrere la strada dell’innovazione e della qualità, riuscendo a superare gli ostacoli scommettendo sul futuro. Riuso degli elettrodomestici, riciclo dei rifiuti, mobilità sostenibile e sharing economy Ermete Realacci Dalla linearità (produzione – uso – scarto) si passa alla circolarità (produzione – riciclo – riuso). Quello che fino ad oggi sembrava valere per gli elementi di base - carta, vetro, metallo etc. adesso si estende sia alle materie prime "seconde" e alla componentistica. Si esplora una nuova frontiera dell’economia che sarà sempre più importante per dare qualità alla società, competitività alle imprese e lavoro. Quando si parla di rifiuti il pensiero corre ai cumuli di spazzatura che si accatastano nelle strade delle grandi città, ai disastri della Terra dei fuochi o alle mille disfunzioni del ciclo di smaltimento. Eppure l’Italia è terra di contraddizioni con situazioni che vanno dalla crisi drammatica della Sicilia ad esperienze di eccellenza. Basti pensare che Milano è la prima metropoli europea, insieme a Vienna, per raccolta differenziata e medaglia d’oro mondiale fra le grandi città per numero di persone servite dalla raccolta dell’organico. Sono centinaia i piccoli e medi comuni sparsi dal nord al sud dove la differenziata è oltre il 70%. L’obiettivo "rifiuti zero" è ormai una possibilità tecnologica ed economica concreta in grado di dare forza e competitività alla nostra economia e non solo un orizzonte culturale. La corretta gestione dei rifiuti va considerata come un settore strategico per la tutela dell’ambiente, ma anche per ripensare in chiave circolare la nostra economia. Lo abbiamo detto di recente presentando «Waste End», una report realizzato da Symbola e Kinexia, con una serie di proposte per abbattere, in cinque anni, due terzi dei rifiuti avviati a discarica, raddoppiare la raccolta differenziata, aumentare il numero di impianti di compostaggio e di preparazione al riciclo e per ridurre il numero delle discariche e tudini di vita quotidiana. Se qualcuno mi avesse detto qualche anno fa che a Milano ci sarebbero state trentamila persone ad usare il car sharing sarei stato dubbioso. Adesso sono centoventimila. Nessuno lo immaginava. I ciclisti di Roma si stanno organizzando per promuovere e sostenere il Grab, il grande raccordo anulare ciclabile. Un anello che si dovrebbe connettere con le altre piste che convergono verso il centro della capitale. Una risposta di mobilità sostenibile alle strade intasate dal traffico e al anche al caro-carburante ma, soprattutto, una straordinaria occasione per un suggestivo tour fra le bellezze di Roma. Riuso di elettrodomestici, piste ciclabili, nuovo approccio al ciclo dei rifiuti, sono processi che stanno prendendo sempre più spazio nella nostra economia, dettati dalla crisi e dalla necessità, ma anche dalla voglia di cambiamento. Occasioni di nuovi stili di vita e allo stesso tempo di sviluppo e occupazione. Per questo possiamo dire che, per il nostro Paese, quello della green economy non solo è una strada obbligata, ma anche conveniente per tutti: per l’economia, per l’occupazione, per l’ambiente e per la qualità della vita dei cittadini. Perché il nostro Paese ha le energie per farcela, per superare uno dei suoi momenti più difficili dal dopoguerra e tornare ad avere fiducia nel futuro. L’importante è che l’Italia faccia l’Italia. pagina 15 TORTURA Caro Cantone, la polizia democratica non vuole l’impunità Patrizio Gonnella I n queste poche righe mi rivolgo personalmente a Raffaele Cantone, di cui apprezzo l’enorme impegno giudiziario e culturale contro la corruzione. Pare che il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione abbia detto di essere «rimasto indignato dopo la sentenza della corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo: i fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini su quei fatti hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura». Avrebbe anche detto che «la polizia italiana è democratica da molto più tempo di quanto le sentenze della Corte Europea facciano pensare che sia». È stato il Secolo XIX di Genova a riportare le sue affermazioni, virgolettandole. Non le condivido. La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Diaz ci ricorda che l’Italia non ha mai adempiuto a un obbligo derivante dal diritto internazionale in base al quale la tortura è un crimine, la cui persecuzione non ammette eccezioni. Uno Stato democratico forte è uno Stato che non ha paura di mettere sotto giudizio i propri custodi dell’ordine pubblico qualora responsabili di crimini di tale portata. È viceversa tipico dei regimi dispotici il volersi assicurare l’impunità attraverso l’immunità formale e sostanziale delle proprie forze di polizia. In Italia c’è bisogno del reato di tortura. Per affermarlo non uso le mie parole ma quelle di un collega di Raffaele Cantone, il giudice Riccardo Crucioli di Asti che così scriveva in una sentenza del 2012 che mandava di fatto impuniti quattro poliziotti penitenziari accusati di fatti gravissimi nei confronti di due detenuti. «I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura… in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Dunque chi tortura in Italia va incontro all’assoluzione o all’incriminazione per fatti molto meno gravi, coperti dalla prescrizione o dall’assenza di querela. Infine il giudice Cantone afferma che l’Italia ha una polizia democratica. Argomento che trova un rafforzamento nell’esigenza di criminalizzare la tortura. È la polizia non democratica che ha bisogno dell’impunità. Il delitto di tortura non deve essere interpretato come un qualcosa pensato contro le forze di polizia. Tutt’altro. È una forma di garanzia per la gran massa di poliziotti che si muovono nel solco della legalità. Nelle scorse settimane la Camera aveva approvato un testo, frutto di un lungo, tortuoso e dibattuto percorso parlamentare. Quel testo è oggi in discussione al Senato dove esponenti del Nuovo Centrodestra e di Forza Italia lo ritengono troppo penalizzante per le forze dell’ordine. Io ritengo che la corruzione sia un male dell’Italia che ci fa perdere credibilità nella scena internazionale. Però anche la mancata qualificazione della tortura come un crimine produce lo stesso effetto. La sentenza della Corte europea nel caso Diaz segue svariate raccomandazioni di organismi internazionali che ci avevano redarguito su questo terreno. Per questo è una sentenza sacrosanta. Perché a Genova (nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto), ad Asti o a Parma (dove vive il sacerdote Franco Reverberi accusato di complicità nelle torture in Argentina negli anni della dittatura; la Cassazione meno di un anno fa ha negato l’estradizione in quanto in Italia manca il crimine di tortura e non si può estradare per fatti che da noi non sono perseguiti) i giudici non hanno potuto dare giustizia alle persone torturate. *presidente Antigone il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 [email protected] STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL [email protected] SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. Bargoni 8, 00153 Roma tel. 06 68896911, fax 06 58179764 il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. 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Bargoni 8, 00153 Roma certificato n. 7905 del 09-02-2015 chiuso in redazione ore 22.00 tiratura prevista 40.000 pagina 16 il manifesto L’ULTIMA Andrea Oskari Rossini * SARAJEVO A lcune centinaia di donne ascoltano in silenzio. Sul lato sinistro del palco ci sono le testimoni. Dall’altro lato ci sono le esperte del Tribunale che, alla fine di ogni sessione, riportano le singole storie nel contesto della guerra contro le donne che viene combattuta in questa regione, e non solo. Siamo nel Bosanski Kulturni Centar, storico auditorium nel centro di Sarajevo. Le donne prendono la parola una dopo l’altra, emergendo al centro del palco dalla penombra. Una testimone, di un villaggio della Bosnia orientale, racconta degli stupri subiti a 15 anni nel campo di concentramento di Bratunac. «Un’altra forma di campo» MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015 storie la necessità di garantire la sicurezza e il rispetto per le parole delle donne. «Ascoltando, in uno spazio sicuro, diamo un riconoscimento al dolore che loro hanno sofferto durante e dopo la guerra», mi spiega Lepa Mladenovic, consulente del Centro contro la violenza sulle Donne di Belgrado. Al via a Sarajevo la prima sessione internazionale della «Corte» - promossa dalle Donne in Nero di Belgrado che ha dato la parola a molte vittime di guerra e dopoguerra. Alla sbarra la violenza di genere ovunque Denuncia e condivisione Il tribunale Continua descrivendo la solitudine del dopoguerra, la povertà, il matrimonio e l’inizio di un nuovo incubo di violenza («un’altra forma di campo»). Quando racconta del divorzio, e che «hanno preso la mia adolescenza, ma il mio presente e futuro non lo avranno», tutta la platea si alza in piedi. Le donne applaudono senza fermarsi. Non è solo un segno di rispetto. È uno scambio di energia. La forza che proviene dal palco, il racconto della resistenza a situazioni inenarrabili, si trasmette alla platea e viceversa. Il linguaggio accademico - qui ci sono alcune tra le più importanti teoriche e pensatrici del movimento femminista internazionale - si mescola con quello di donne di campagna coSARAJEVO, me se fosse la cosa più naturale. Le teLA «SESSIONE stimonianze continuano per molte PUBBLICA» ore, e per tre giorni. Tra gli elementi CON LA QUALE che ricorrono sempre più spesso ci soIL TRIBUNALE no la continuità della violenza, le sue DELLE DONNE conseguenze di lungo periodo nella È SCESO vita personale, familiare e delle comuIN PIAZZA nità, l’impunità dei torturatori («gli assassini camminano tranquilli per la strada»), la misoginia delle istituzioni, l’importanza delle reti di donne («questo è l’unico Tribunale in cui io sia mai comparsa»). Le regole del Tribunale delle Donne prevedono che i giornalisti non possano registrare o fotografare. Gli uomini presenti sono pochissimi. DELLE DONNE Al centro del processo ci sono le testimoni, che provengono da tutte le nuove repubbliche nate dopo la fine della Federazione jugoslava. Daša Duhacek, che insegna studi di genere alla Facoltà di Scienze Politiche di Belgrado, ci spiega la genesi dell’iniziativa: «Alla fine degli anni ’90, alcune attiviste dei Balcani hanno incontrato Corinne Kumar, militante tunisina dell’organizzazione per i diritti umani El Taller, durante lo svolgimento di un Tribunale delle Donne in Sud Africa. L’idea di avviare un processo simile in Europa è stata ripresa principalmente dalle Donne in Nero di Belgrado. Alcuni anni più tardi, le attiviste hanno avviato un lungo lavoro con quante hanno resistito al nazionalismo, si sono opposte all’arruolamento degli uomini, han- no subito crimini che nessuno ha giudicato, dando voce a quante non hanno avuto voce». Giustizia, un approccio femminista «Questo evento arriva alla fine di un lungo processo cui hanno partecipato circa 5.000 persone», precisa Staša Zajovic, delle Donne in Nero di Belgrado. «Abbiamo lavorato per circa 4 anni e mezzo con le donne a un livello di base, e coinvolto accademici e collettivi di artisti. Abbiamo imparato molto dalle amiche indiane, studiato i diversi modelli di giustizia transizionale, ma alla fine abbiamo sviluppato nuovi modelli e metodi. Noi non siamo contro la giustizia tradizionale - precisa Staša Zajovic - ma abbiamo sempre saputo che la giustizia istituzionale, sia a livello internazionale che locale, non può soddisfare i bisogni delle vittime». Secondo la filosofa Rada Ivekovic, presente all’incontro, il Tribunale delle Donne di Sarajevo rappresenta un evento storico in quanto «costituisce un precedente. In questo momento stiamo vivendo una situazione di vera e propria caccia alle donne, dappertutto. Nei Balcani però le donne hanno cominciato a parlare, e questa è una cosa nuova, che ci permette di sperare e di imparare dalla base, laddove i saperi teorici e accademici non sono sufficienti. La data di oggi rappresenta un evento al quale ci potremo sempre richiamare in futuro, qui sono state dette cose che vengono documentate, c’è un archivio che verrà conservato dalle Donne in Nero, è un patrimonio importantissimo». Nelle tre giornate l’enfasi resta sul- «Vogliamo sapere cosa è successo, ma anche condividere emotivamente la loro situazione, in modo che non si sentano sole. Lo scambio che avviene tra il palco e la platea è importantissimo, l’applauso è importantissimo, vuol dire sì, sei sopravvissuta, sì, conosciamo il dolore che hai dovuto sopportare, sì, siamo solidali con te come donne, condividiamo il tuo bisogno di giustizia. Perché questi incontri servono anche per guarire a livello emozionale, ma naturalmente vogliamo giustizia». Nora Morales de Cortiñas, Madre di Plaza de Mayo venuta a Sarajevo per partecipare ai lavori del Tribunale, mi chiarisce il concetto: «I genocidi, i torturatori, gli stupratori devono restare in carcere fino alla morte, non c’è amnistia possibile. Non si tratta di vendetta, ma di giustizia». Al termine delle testimonianze, domenica mattina, prende la parola il collegio giudicante del Tribunale, composto da femministe, scrittrici e attiviste (Vesna Rakic, Gorana Mlinarevi, Chris Campbell, Latinka Perovi, Charlotte Bunch e Vesna Teršelic. Le donne leggono le raccomandazioni e i verdetti preliminari. Prima della lettura, però, il pensiero va alla Macedonia, «sull’orlo del precipizio». Rada Zarkovic, bosniaca, Donna in Nero e fondatrice della cooperativa «Insieme» di Bratunac, mi ricorda che «le reti delle donne sono l’unica cosa che funzionava anche durante la guerra, in condizioni impossibili. La consapevolezza di questa forza è stata accresciuta dall’esperienza di questo Tribunale, oltre ogni mia aspettativa. Questo è importante anche per quello che potrebbe avvenire in futuro». Le decisioni finali del Tribunale delle Donne saranno pubblicate tra qualche settimana sul portale Zenski Sud. * Osservatorio Balcani e Caucaso
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