20150513nazionale2

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ANNO XLV . N. 114 . MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
MASOCHISTA
A CHI
Norma Rangeri
F
orse un altro sciopero, probabilmente il blocco degli scrutini. Le toppe
che frettolosamente il governo ha
messo al disegno di legge sulla scuola devono essere apparse peggiori del buco se
ieri i sindacati sono usciti dalla riunione a
palazzo Chigi con un «no, grazie», determinati a rafforzare la battaglia.
Del resto una delle battute di giornata
più volgari Renzi l’aveva pronunciata proprio qualche ora prima dell’incontro all’indirizzo dei professori («la scuola non è
l’ammortizzatore sociale degli insegnanti»), considerati dei poveracci che pensano solo al (magro) stipendio.
Mentre si avvicina la data di elezioni regionali che saranno ricordate come quelle delle liste impresentabili, Renzi non si
trattiene e colpisce duramente qualunque forma di vita alla sua sinistra. Obiettivi preferiti, il sindacato e l’opposizione interna. E mena fendenti nel tentativo di fare il pieno dei voti in libera uscita dal centrodestra spappolato, maldestramente
mascherato da una rivendicazione a sé
del riformismo vincente.
Non il patto del Nazareno, non l’abolizione dell’articolo 18, non il jobs act, non
la controriforma della scuola, non le riforme costituzionali sarebbero le ragioni di
una deriva centrista del "partito della nazione" e di una perdita di consenso nei
mondi tradizionalmente schierati a sinistra. Ma è «la sinistra masochista in Liguria che dà la possibilità a Forza Italia di essere rianimata», sarebbe il deputato Luca
Pastorino, candidato alle regionali liguri
la causa della temuta (e improbabile) resurrezione berlusconiana. E non è una
battuta ma il cuore della sua lunga passeggiata elettorale davanti alle telecamere di Repubblica.it.
Il presidente del consiglio, per l’occasione vestito con la giacca del segretario del
Pd, ha irriso la minoranza del partito da
cui evidentemente teme di ricevere qualche dispiacere elettorale. E così ha sparato
cannonate portando a termine la rottamazione della vecchia classe dirigente.
Con i toni arroganti che ne contraddistinguono il profilo politico, ha preso a bersaglio gli ultimi esponenti della vecchia nomenclatura colpevole di lesa leadership
(«Non è che se non ci sono Bersani e D’Alema non c’è più la sinistra»). A parte il fatto
che D’Alema e Bersani sono ancora nel Pd
ed espellerli a mezzo stampa non è il massimo dell’eleganza nemmeno nel PdR, sostenere che i poveri masochisti alla Fassina dovrebbero «ricordare quando il Pd
perdeva davvero col 25%», è una di quelle
carte false buone per la propaganda visto
che il segretario-presidente è seduto a palazzo Chigi proprio grazie al tanto disprezzato partito del 25 per cento che lo ha portato al governo.
Sarebbe più prudente prenderne atto,
anche perché continuare a sbandierare il
40 per cento raggiunto alle europee, in vista delle regionali potrebbe rivelarsi un
azzardo.
EURO 1,50
Il sinistro
«Sindacati e minoranza Pd lavorano per resuscitare Berlusconi». L’uomo del patto
del Nazareno accusa la sinistra di intelligenza col nemico e intanto espelle via web
Fassina, D’Alema e Bersani, «masochisti» che vogliono perdere PAGINE 2, 3
INTERVISTA | PAGINA 2
Gotor: «Basta
propaganda, Renzi
attacchi la destra»
RIFORMA | PAGINA 3
Offerta ritirata:
«Senato elettivo?
Mi pare difficile»
PENSIONI | PAGINA 4
Rimborsi, Padoan
vola a Bruxelles
e concorda il niet
TORTURA | PAGINA 15
«Caro Cantone,
in democrazia
la polizia è punibile»
REPORTAGE
Guerra siriana,
il coraggio
di non fuggire
da Aleppo
Nella città martoriata dai combattimenti tra l’esercito regolare e i
ribelli islamisti di al-Nusra, che
non risparmiano neanche gli
ospedali, 400 mila persone hanno scelto di non unirsi alla marea
di profughi (tre quarti degli abitanti) in fuga. Monta l’odio della
popolazione contro tutti gli schieramenti
IEZZI |PAGINE 8, 9
DOSSIER AMNESTY
«Per i migranti
la terra libica
è piena
di crudeltà»
«Implementare misure per contrastare i trafficanti senza fornire
un’alternativa alle persone che
scappano dal conflitto in Libia
non risolverà la piaga dei migranti», dice il direttore di Amnesty
International per il Medio Oriente e Nord Africa Philip Luther
presentando il nuovo rapporto
intitolato «La Libia è piena di
crudeltà».
FAZIO |PAGINA 6
INCONTRO CON I SINDACATI SULLA SCUOLA
Governo bocciato,
scrutini a rischio
D
ue ore di incontro a palazzo Chigi (ma senza Renzi).
I leader di Cgil, Cisl e Uil insoddisfatti degli emendamenti al
disegno di legge minacciano nuove proteste: il blocco degli scrutini
e un possibile nuovo sciopero.
Ma spuntano dal governo un nuovo incontro dopo il passaggio al
Senato e una "trattativa" con il ministro Giannini. Intanto Renzi era
su twitter.
FRANCHI |PAGINA 5
STUDENTI
Protesta riuscita,
bloccato il 30%
di prove Invalsi
CICCARELLI |PAGINA 5
MATTEO RENZI FOTO LAPRESSE-FABIO CIMAGLIA
BIANI
SPECIALE RAI DOMANI IN EDICOLA
EDITORIA
La Germania ospite
al Salone del libro
RAUL CALZONI l PAGINA 10
APRE CANNES 68
Sulla Croisette
a lezione di cinema
PICCINO, RENZI l PAGINA 12 , 13
Per rilanciare
l’economia
bisogna
percorrere
nuove strade,
fecendo leva
sulle risorse
ambientali
e sull’ingegno
già presenti
nel Belpaese
ARTICOLO
Ermete Realacci
a pagina 15
In tv il segreto
che seppellisce
tutti i partiti
pagina 2
il manifesto
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
IL SINISTRO
Democrack •
L’autore del patto del Nazareno rovescia sulle opposizioni interne
l’accusa di aiutare Berlusconi: «Sono masochisti, come in Liguria»
Renzi versione torrente impetuoso si abbatte sulla sinistra Pd, il nemico
della campagna delle regionali. Bersani e D’Alema? «Non è che se non
ci sono loro non c’è la sinistra». Fassina esce? «Problema suo».
Le minoranze si ribellano. Ma lui le accompagna all’uscita
ROMA
«C
on tutto il rispetto per
D’Alema e Bersani non è
che se non ci sono loro
non ci sono i Ds». Facendo spallucce
come un giovanotto al bar, Matteo
Renzi in un colpo si libera di due big
in realtà già rottamati, riesumati giusto per sferrare il calcio finale. «Torrente impetuoso» torna dunque a
scorrere, ammesso che si sia mai fermato. Complice la campagna per le
regionali, il Renzi che ieri pomeriggio risponde a Repubblica Tv è un fiume in piena. Si spericola senza temere contraddizioni. Come sullo scandalo delle liste campane: «Alcune liste che sostengono De Luca hanno
candidati che non voterei nemmeno
costretto», dice, perché sono «impresentabili» e «ingiustificabili» e lo «imbarazzano», ma «Le liste del Pd sono
pulite». Poi se la prende con la «sinistra masochista» ligure (il candidato
ex Pd e ora anti-Pd Pastorino e i suoi
grandi elettori Civati e Cofferati), rea
di voler «rianimare Forza Italia», pazienza se fu il patto del Nazareno a tenere in vita il Cavaliere, politicamente parlando.
Renzi si abbatte sulla «palude».
Ma non su obiettivi a caso: il nemico
scelto per la campagna delle regionali è quello che ha ancora a casa. E
che invita a sloggiare. Lui, non precisamente incalzato dalle domande
del cronista, nega che sia in atto
l’espulsione dal Pd della famiglia ex
ds: «La stragrande maggioranza del
gruppo dirigente viene da lì, a partire
da Orfini e Serracchiani. Il Pd è sempre stato questo, non è che la sinistra
c’è solo dove c’è D’Alema. Il gruppo
dirigente del Pd è plurale, non è che
se non ci sono i volti storici manca la
Se ne vanno?
Me ne infischio
sinistra». Ce n’è per chi è già uscito,
come Pippo Civati, reo di aver aperto
le iscrizioni alla sua newsletter: «Dicevano a me che personalizzavo il partito, ora vado sul sito di Civati e leggo
’aderisci a per Civati’, a una sigla. È il
colmo». «È solo una newsletter», replica Civati. Ma Civati è una vicenda
archiviata, oggi tocca a Stefano Fassina. L’insofferenza dell’ex responsabile economico del Pd è ormai a un
punto di non ritorno. In mattinata il
deputato gli ha scritto una lettera sul
ddl scuola: sbagliato nell’«imposta-
zione», non nella «comunicazione».
Per lui ormai «il tracciato del Pd è insostenibile» La replica è tagliente:
«Spero che Fassina rimanga, se non
rimane è un problema suo non nostro». Tradotto: francamente me ne
infischio.
La minoranza scatena quel po’
che può: «Renzi sbaglia. Non è un
problema solo di Fassina se uno come lui ha dubbi sul Pd. È un problema di tutto il Pd», dice Roberto Speranza. «L’arroganza di Renzi è preoccupante e imbarazzante, per lui», dice Alfredo D’Attore. Che punta il dito
contro il rinvio dell’elezione del nuovo capogruppo alla camera: «Non abbiamo mai discusso delle dimissioni
di Speranza, non abbiamo mai discusso di una scelta grave come la fiducia sulla legge elettorale, ora apprendiamo via sms di un rinvio
dell’assemblea senza motivazioni.
Vuol dire che viene riconosciuto il fatto che sulla scuola ciascuno potrà
esprimere la propria libera valutazio-
ne in assenza di capogruppo». Si arrabbia anche Bersani: masochisti?
«Una mistificazione, abbiamo visto
che si può vincere poco, tanto, pochissimo, ma si vince essendo fedeli
ai valori e ideali del centrosinistra ed
essendo alternativi al centrodestra.
Dall’Ulivo in poi abbiamo sempre
vinto così». Gianni Cuperlo chiede
«un po’ di cautela» per evitare «frasi
consolatorie, buone per i comizi».
Ma la verità è che dentro il Pd qualcosa si è rotto, e nell’area renziana
non c’è nessuno disposto a difendere il dissenso. La stagione del Pd plurale, comunque sia andata, è finita.
Lo stesso Fassina lo certifica con rassegnazione: «Renzi vuole un Pd normalizzato al renzismo. Ma il problema non è il sottoscritto, ma la parte
del popolo democratico che è già andata via dopo la svolta liberista sul lavoro, la deriva plebiscitaria sulla democrazia e l’intervento regressivo
sulla scuola. Senza di loro, non senza
Stefano Fassina, non è più il Pd». d.p.
IIntervista/ IL SENATORE GOTOR: SINISTRA MASOCHISTA? LUI GOVERNA CON I VOTI DEL 2013
«Da Renzi solo propaganda
Attacchi la destra, non noi»
Daniela Preziosi
S
enatore Miguel Gotor, dice il suo
segretario che voi della minoranza
Pd siete «una sinistra masochista
che vuole sempre perdere». Vuole sempre perdere?
Ma no, Renzi è nervoso, sarà la campagna
elettorale. Preferirei che attaccasse la destra, anziché la sinistra. Vorrei ricordargli
che in Italia negli ultimi vent’anni il centrosinistra ha vinto per tre volte le elezioni. E
lo ha fatto in un’idea di alternativa alla destra. Sarebbe bene continuare così.
Renzi replicherebbe: la terza volta è
quella del 2013, quando Bersani ha
«non vinto».
Renzi sta governando con quel risultato. E
quando noi arriveremo alla fine della legislatura, come sosteniamo ogni giorno, in
forza del risultato del 2013 il Pd avrà governato per cinque anni e svolto una funzione di perno del sistema politico. I fatti,
quelli che contano più della propaganda,
parleranno da soli.
Renzi dice: «Non è che se nel Pd non ci
sono D’Alema e Bersani non c’è la sinistra». E ancora: «Se Fassina se ne va è
un problema suo». Vi sta invitando a togliere il disturbo?
Renzi è in difficoltà ed emerge il lato arrogante. L’uscita di una personalità come
Fassina dal Pd non sarebbe una questione
personale ma di tutto il Pd, e lui come segretario dovrebbe affrontarla.
Se si porrà il tema di nuovi addii, come
li affronterete? La discussione sulle dimissioni del capogruppo alla camera
Speranza, per esempio, avvenute un
mese fa, è stata ancora rimandata a dopo il voto.
Evidentemente nel variegato mondo del
renzismo sotto il tappeto ci sono più problemi di quello che viene raccontato.
Ma la minoranza porrà il problema della
diaspora?
Siamo in campagna elettorale e Renzi gioca sempre lo stesso schema: ha bisogno di
creare un nemico interno, che gli serve per
essere appetibile a destra. Ma al di là dei
suoi schemi ci sono le questioni di merito:
noi al senato abbiamo tenuto comportamenti coerenti su dei passaggi chiave. 24
senatori Pd non hanno votato l’Italicum.
Non siamo una corrente, abbiamo sensibilità diverse e questa eterogeneità è stata la
nostra forza. Quando arriverà la riforma
del senato continueremo con coerenza a
invitare il segretario a lavorare all’unità del
Pd. Abbiamo delle proposte, su queste ci
concentreremo.
Le dica.
Come noto c’è un rapporto fra riforma elettorale e quella del senato. L’Italicum doveva cambiare in punti qualificanti e invece
non è cambiato: è stato un errore anche
perché si è ridotta la base politica a sostegno delle riforme. E quindi, proprio a partire dai difetti dell’Italicum, la riforma del senato dovrà cambiare soprattutto in due direzioni. Se l’Italicum ci consegna una sola
camera politica a maggioranza di nominati, il senato dovrà essere composto da eletti dai cittadini, contestualmente alle regionali. Secondo punto: con l’Italicum abbiamo indirettamente cambiato la forma di
governo in un premierato elettivo di fatto
senza sufficienti contrappesi. Per un giusto equilibrio istituzionale il senato dunque dovrà avere poteri di controllo, di vigilanza e di garanzia. Sul piano delle norme
è possibile farlo, sempreché ci sia la volon-
«La riforma del senato deve
cambiare. Se passerà con
i voti di Verdini gli italiani
lo valuteranno. Ma non esco
dal Pd, darò battaglia»
tà politica.
Ritiene che si possa tornare anche
sull’elezione diretta dei senatori? Alcuni
autorevoli costituzionalisti dicono di no.
Lo so, ma sto alle regole: tutto ciò che non
è identico si può cambiare. Sull’elettività
ad esempio i testi non sono identici, quindi si può intervenire. Ripeto: dipende da
una volontà politica.
Quanto alla volontà politica, sul ritorno
al senato elettivo l’ultima parola di Renzi è stato un no.
Su questo Renzi ha posizioni ondivaghe.
Nel giro di un mese ha detto una cosa e il
suo contrario. Siamo sotto elezioni, aspettiamo che il boccino della propaganda si
fermi. Ma resta un punto: è bene che le riforme si realizzino a partire dall’unità del
Pd. Ed io credo che sia anche necessario.
Potrebbe nascere un gruppo di responsa-
bili ex forzisti. E i vostri voti potrebbero
non essere più indispensabili.
L’alternativa sarebbe una sostituzione
dei senatori del Pd con il nucleo toscano
e verdiniano del patto del Nazareno e con
qualche fuoriuscito qui e lì? Io non credo
che sia una soluzione auspicabile. E comunque gli italiani sapranno valutarla
con serenità.
In quel caso lei che farebbe?
Stiamo parlando di cosa farà il parlamento. Il parlamento parlerà con i voti.
Nel caso la riforma non passasse, per
Renzi c’è il voto anticipato.
Il voto è una minaccia che non funziona:
nel caso non ci sarebbe ancora la legge
elettorale. Insomma, non è un’ipotesi. E
comunque non sto a un film in cui oggi mi
si chiede una valutazione su una cosa che
forse avverrà il 7 agosto, o in autunno. Ci
sono tre mesi, in politica un tempo lunghissimo, vediamo che succede.
Usciranno altri suoi compagni della minoranza. Lei ci sta pensando?
No, sono convinto che soprattutto nel
nuovo sistema che si va realizzando sia
più utile una sinistra riformista dentro il
partito democratico. È sia più utile restando nel Pd per opporsi a ciò che il Pd sta diventando.
Cos’è diventato il Pd? Il suo segretario
dice che a sostegno del candidato del
Pd campano ci sono nomi «impresentabili» che lui stesso non voterebbe. Sono
fan di Mussolini, uomini di Nicola Cosentino. È normale che voi candidiate gente
che voi stessi non votereste?
Assolutamente no. Non dovrebbero esserci le condizioni politiche perché un segretario dica cose di questo genere parlando
di un candidato che lo ha sostenuto a congresso portandogli il 70 per cento dei voti.
E questo è un indizio di quello che stiamo
diventando. Ma per evitarlo bisogna dare
battaglia politica dentro il Pd.
Se lei votasse in Campania voterebbe
De Luca e i suoi impresentabili?
Per fortuna non mi trovo in questa condizione.
DA OGGI PARTE ASTARADICALE.IT
Marco Pannella: «Renzi?
Un bischero toscano»
Renzi? «Un bischero toscano». Così Marco Pannella in un’intervista al settimanale
Chi. Fra i due non c’è mai stato feeling:
«Non ha valori davvero profondi. È insofferente nei confronti di chi è in età avanzata», dice l’anziano leader, ma è «molto
abile. Ma quali sono i valori su cui sta
costruendo la sua rivoluzione? E soprattutto, gli importa davvero di costruire qualcosa di valore?». Da oggi i radicali italiani
celebrano i loro primi 60 anni mettendo
all’asta gli oggetti donati da iscritti e simpatizzanti, un vero ’tesoretto’ della storia
italiana. Sul sito www.astaradicale.it sono
già visibili i primi lotti, che saranno acquistabili tramite Ebay a partire dalle 14 e
30 di oggi, in concomitanza con la conferenza stampa che si terrà nella storica
sede in via di Torre Argentina.
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
il manifesto
IL SINISTRO
Referendum •
pagina 3
Civati presenta i quesiti che potrebbero smontare la nuova
legge elettorale. Contro i pluri candidati che «turbano» Prodi
RIFORMA · Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze
MATTEO RENZI
LAPRESSE
«Senato elettivo? Scherzavo»
Andrea Fabozzi
«A
me sembra molto complicato tornare all’eleggibilità del senato, sia
da un punto di vista tecnico che
politico. L’articolo due della riforma sostanzialmente è chiuso». Così diceva ieri mattina Matteo Renzi. Ed era lo stesso che un
mese fa assicurava: «Cambiare la riforma
costituzionale? Tornare al senato elettivo?
Per me si può fare». Anche il suo intervistatore era lo stesso, il giornalista di Repubblica Claudio Tito - allora su carta, ieri in video. Cos’è cambiato nel frattempo? Il primo Renzi, quello di un mese fa, parla alla vigilia del voto finale sull’Italicum. «Il leader
del Pd gioca la carta della trattativa sulla riforma costituzionale», è la sintesi del giornale amico. Nel frattempo il voto c’è
stato, qualcuno ha creduto alla promessa e i dissensi non sono bastati
a fermare la nuova legge elettorale.
Il paradosso è che ha più ragione
il Renzi di oggi che quello di metà
aprile. Come sanno bene i deputati
della minoranza Pd che avevano
provato a cambiare l’articolo 2 della riforma costituzionale, ma erano
stati battuti (da un contro-emendamento del futuro capogruppo Rosato) proprio perché al governo interessava approvare la legge in un testo «blindato», non più modificabile al senato. A questo punto un ripensamento sull’eleggibilità dei senatori, per quanto auspicabile, dovrebbe poter contare su un’interpretazione disinvolta del regolamento
da parte del presidente Grasso. Che
non è impossibile, come dimostrano i precedenti dei «canguri», tutti
però consonanti ai desideri del governo. La contrarietà del presidente
del Consiglio fa pensare che quella
strada debba considerarsi chiusa.
Anche il piano B che Renzi e i renziani
stanno offrendo ai sostenitori del senato
elettivo può risolversi in una falsa promessa. Dicono che, blindata la riforma, si potrà
agire sulla legge attuativa, quella che a regime detterà le regole per la selezione dei
nuovi senatori da parte dei consigli regionali. La proposta è quella di rendere riconoscibili i consiglieri-senatori già nel corso delle
elezioni regionali, o in alternativa di premiare i più votati. Ma c’è un problema: il nuovo
senato sarà organo perpetuo, che si rinnova senza passare per lo scioglimento.
L’eventuale nuova legge si applicherebbe
dalle elezioni regionali del 2020 e prima di
allora (e anche dopo) dovrebbero coesistere senatori con due diverse legittimazioni.
La confusione è probabilmente un indice
delle difficoltà che Renzi vede davanti a sé,
dal momento che al senato la maggioranza
può contare su un vantaggio assai ristretto.
È vero che Forza Italia è ormai terreno di
conquista, ma dall’altra parte si presenta determinata la pattuglia di venti senatori dissidenti del Pd. Renzi mette già in conto qualche modifica alla riforma costituzionale
(magari le stesse che alla camera è stato impossibile discutere), purché il percorso della revisione sia completato entro quest’anno. Eppure ieri ha voluto precisare che
«l’Italicum è efficace anche senza riforma
costituzionale» - quindi anche se il senato rimarrà elettivo - malgrado si tratti di una legge elettorale riservata alla sola camera.
Italicum che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale, ma che sarà valido, -per
la «clausola di salvaguardia» - solo
dal luglio 2016. I suoi avversari nel
frattempo si organizzano e Pippo
Civati presenterà oggi due quesiti
referendari con i quali si possono
smontare alcuni degli aspetti più
critici della legge: i capilista bloccati
e le pluricandidature; «aspetti che
turbano», ha detto ieri Romano Prodi, perché «in questo modo si gestiscono dall’alto un numero rilevantissimo di parlamentari». Con il referendum si potrebbe anche pensare
di far cadere il turno di ballottaggio,
trasformando così l’Italicum in una
legge proporzionale nel caso nessuna lista raggiungesse il 40%, soglia
prevista per il premio di maggioranza. Ma sono aspetti che andranno
approfonditi, dal momento che la
giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di referendum
elettorali è assai rigorosa. Non si
può rischiare di raccogliere le firme
invano.
CAMPANIA · Il premier: «Candidati imbarazzanti, ma nelle liste collegate». Cuperlo: «Perché?»
Quelli che «neanche io li voterei»
Adriana Pollice
NAPOLI
«I
l Pd ha candidati seri e puliti»: Renzi
alla fine ci deve mettere la faccia sul
pasticcio elezioni in Campania. Non
solo sulle regionali. A Ercolano i guai sono
iniziati con l’annullamento del tesseramento, gonfiato da cognomi vicini ai clan della
zona, per arrivare agli avvisi di garanzia a
sindaco e vice dem e finire con l’annullamento delle primarie. Rinviato a giudizio
per associazione a delinquere anche il collega sindaco Pd di Giugliano Antonio Poziello: primarie annullate e caos perché Poziello si presenta comunque con sei liste in appoggio. «Abbiamo cambiato candidato a Ercolano e a Giugliano - spiegava ieri Renzi -,
siamo intervenuti in modo molto forte. Su
alcune liste collegate si può discutere, alcuni candidati, personalmente, non li voterei
neanche se costretto. Ma il Pd ha candidato
i puliti». E su Vincenzo De Luca che, per ef-
UNIONI CIVILI
La Commissione dà parere favorevole
ma Ncd vota no e annuncia battaglia
La commissione affari costituzionali del senato dà parere favorevole al ddl sulle Unioni civili, il cui testo base era stato approvato in commissione giustizia a fine marzo. Ma la maggioranza
si spacca: l’ok sulla costituzionalità del testo arriva dal Pd e da
Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Sel; Area popolare (Ncd e Udc) vota contro insieme alla Lega. E Gaetano Quagliariello insiste nel giudicare il provvedimento incostituzionale («limitarsi a
espungere il nome del matrimonio quando se ne ricalca la disciplina giuridica è una inutile,
ipocrita e pericolosa operazione di maquillage», tuona), mentre Maurizio Sacconi avverte:
«Non esistono unioni che Ap possa accettare». Solo Area popolare ha presentato più di tremila emendamenti (su quattromila circa), 282 a firma Carlo Giovanardi. I 5 Stelle commentano:
«E’ già chiaro che se si riuscirà a dare al paese una legge che finalmente riconosca pari dignità alle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali, sarà solo grazie al contributo fondamentale del M5S». L’accelerazione voluta da Renzi per provare a portare a casa il provvedimento entro le regionali si scontra dunque con gli alleati e il sottosegretario alle riforme Ivan Scalfarotto
ritiene «abbastanza sorprendente e inspiegabile che un alleato di governo scelga un atteggiamento deliberatamente ostruzionistico» su un ddl che, sottolinea lui stesso, «costituisce un
prudente punto di mediazione rispetto a più avanzate normative presenti ormai nella grande
maggioranza dei paesi civili».
fetto della legge Severino
non potrebbe entrare in carica se eletto governatore?
«La candidatura ha una contraddizione che non si può
negare. Ma quando è stato
consentito a De Luca di fare
le primarie si è preso atto
che quella norma è stata disattivata a Salerno e a Napoli, nell’esperienza concreta
quel problema è superabile.
Lo verificheremo».
Gianni Cuperlo non è
convinto: «La domanda è
una sola: perché sono stati
messi in lista certi personaggi e perché si è arrivati a questo punto?». Più esplicito
Salvatore Vozza, candidato
di Sinistra a lavoro: «Sia De Luca che Caldoro (in lizza per un secondo mandato con Fi
ndr) sono degli ipocriti, ma il capo degli ipocriti è Renzi, questi incandidabili stanno nelle loro liste: si nascondono dietro un’affermazione generica per autoassolversi, rinviando ai singoli elettori l’individuazione
delle persone. Fuori i nomi».
Ma chi sono questi impresentabili? De Luca è stato esplicito: «Mi candido per vincere
e per farlo servono anche i voti di destra». La
destra ringrazia e si organizza. Nella civica
De Luca presidente c’è il prefetto Franco
Malvano, che sfidò sotto le insegne di Fi il
sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. In
Campania in rete troviamo di tutto: Enrico
Maria Natale, aspirante sindaco a Casal di
Principe, ex Forza Italia considerato vicino a
Cosentino, il padre è stato arrestato due volte per camorra; Vincenzo De Leo, segretario
del Fronte Nazionale a Casal di Principe
(candidato a Napoli); l’ex vice coordinatrice
Pdl di Caserta ed ex assessore Teresa Ucciero; Antonio Amente, forzista di punta; il sindaco azzurro di Santa Maria a Vico Alfonso
Piscitelli; Angelina Cuccaro, assessore di Fi
a Santa Maria Capua Vetere; Rosalba Santoro, moglie di Nicola Turco inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa e amico di Cosentino. Stessa lista ma a Napoli, c’è
Carlo Aveta: esponente de La Destra e frequentatore dei raduni di Predappio finito
nella bufera per un post anti gay. Con il fedelissimo di Mussolini c’è anche Attilio Malafronte, consigliere comunale di Pompei finito ai domiciliari per presunta compravendita di sepolture. Capolista di Centro democratico è Annalisa Vessella Pisacane, consigliere regionale uscente della maggioranza di
Caldoro e moglie di Michele Pisacane che
sostenne Berlusconi con i Responsabili nel
2011; in lista anche Giovanni Zannini, depennato dalla civica di De Luca insieme a
Ucciero per volere della segreteria regionale. In Campania libera c’è Tommaso Barbato, indagato per presunta compravendita di
voti alle ultime politiche.
Renzi ha annunciato che sabato sarà a Napoli per inaugurare la stazione Municipio
della metropolitana. L’ufficializzazione non
c’è ancora (De Luca vuole almeno un’altra
discesa a Napoli intorno al 27). La città ribolle: da domenica notte due licenziati della
Fca di Pomigliano sono su una gru del cantiere della metro. Chiedono che la loro causa sia discussa e protestano contro il governo: «Il piano Marchionne è diventato legge
con il Jobs act». I movimenti annunciano la
manifestazione Renzi statt ‘a casa: «Non accetteremo zone rosse».
MANCATA SCORTA A BIAGI
La prescrizione
salva Scajola
e De Gennaro
BOLOGNA
N
essun colpevole e nessuna responsabilità penale per la decisione di non rinnovare la scorta
a Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalla nuove Brigate rosse la sera del
19 marzo del 2002. A decidere la fine
del procedimento contro Claudio
Scajola e Gianni De Gennaro per avvenuta prescrizione è stata ieri la sezione
distrettuale del tribunale dei ministri di
Bologna una volta accertata l’intenzione dell’ex ministro degli Interni e
dell’ex capo della Polizia, entrambi indagati per cooperazione colposa in
omicidio colposo, di non rinunciare al
diritto di avvalersi del diritto derivato
loro dal trascorrere del tempo. «A questo punto faranno i conti con le proprie
coscienze», ha commentato la decisione il legale della famiglia Biagi, l’avvocato Guido Magnisi. Per la difesa di Scajola e De Gennaro, la decisione del tribunale di archiviare il procedimento era
inevitabile. «La richiesta della procura
di ascoltare De Gennaro era inammissibile, perché l’indagato non può rinunciare alla prescrizione, possibilità invece ammessa per gli imputati, ha detto
l’avvocato Franco Coppi che assiste
l’ex capo della polizia (tesi contestata
dai giudici per i quali non esiste in merito una giurisprudenza consolidata).
Per i legali di Scajola, invece, si è trattato «di un procedimento assolutamente
surreale», mentre attraverso il suo ufficio stampa l’ex ministro ha fatto sapere
che «mai è stato chiesto» a Scajola «se
avvalersi o meno della prescrizione».
L’inchiesta bis che si proponeva di
scoprire i perché della mancata assegnazione di una scorta al giuslavorista
collaboratore dell’allora ministro del
Welfare Roberto Maroni, aveva avuto
una svolta il 26 febbraio scorso con la
decisione della procura bolognese di indagare Scajola e De Gennaro. Per i magistrati entrambi avevano gli elementi
per valutare i rischi che correva Biagi e
gli strumenti per intervenire. Se lo avessero fatto - è il ragionamento dei pm se avessero ordinato una seppur minima forma di protezione nei confronti
del giuslavorista, probabilmente Biagi
non avrebbe subito l’attentato che lo
ha ucciso. Invece nonostante i loro ruoli al vertice della pubblica sicurezza, né
Scajola né De Gennaro si mossero, rimasero «del tutto inerti».Una convinzione che i magistrati hanno motivato
con il fatto che i due indagati non
avrebbero preso in considerazione le
relazioni dei servizi che individuavano
Marco Biagi come un obiettivo dei terroristi per il ruolo ricoperto, ma non
avrebbero ascoltato neanche le tante
«autorevoli segnalazioni circa l’elevata
esposizione del professor Biagi a rischio attentati».
Visto però il tempo trascorso dai fatti, il solo modo perché si potesse arrivare all’accertamento della verità sarebbe
stata la disponibilità da parte dell’ex ministro e dell’ex capo della polizia a non
avvalersi della prescrizione. Cosa che,
per un motivo o per un altro, non è stata fatta, rendendo così impossibile procedere. «La prescrizione era la nostra richiesta», è stato l’unico commento rilasciato a caldo dal procuratore capo di
Bologna, Roberto Alfonso. Evita ogni
polemica Roberto Maroni, che quando
era ministro del Welfare aveva in Biagi
un suo stretto collaboratore. «Non entro nel merito delle questioni e delle
prescrizioni - ha detto il presidente della Lombardia - per me rimane il dolore
di quello che è successo. Ho un ricordo
ancora molto vivo di Marco Biagi».
pagina 4
il manifesto
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
LAVORO
PENSIONI · Bruxelles: la risposta alla Consulta rispetti «i margini di sicurezza sul deficit». Padoan: «Def a saldi invariati»
Rimborsi non a tutti, lo chiede la Ue
Antonio Sciotto
I
l decreto sulle pensioni arriverà entro la settimana: lo ha dichiarato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, uscendo
dall’Ecofin di Bruxelles, facendo intendere che la questione è stata oggetto di confronto al tavolo Ue e
che la Commissione è in attesa di
una soluzione che le dovrà piacere. I commissari hanno anticipato
un sostanziale via libera alla politica economica del governo, ma
non a caso hanno posto l’accento
sulla sentenza della Consulta, spie-
Renzi e Alfano
confermano che
la sentenza verrà
«interpretata». Cgil:
«Ok ma ci consulti»
gando che aspettano di sapere quale via percorrerà il governo.
Padoan ha spiegato che si sta lavorando a «una soluzione che minimizzi l’impatto sulla finanza pubblica e che permetta di continuare
a rispettare, come indicato nel Def,
tutti i parametri di finanza pubblica». Insomma, si farebbe in modo
di rimanere al 2,6% di deficit indicato quest’anno: anche se proprio
dall’Europa potrebbe venire una
ulteriore flessibilità, tale da permettere all’Italia di arrivare fino al
2,8%, e di racimolare così ulteriori
3,2 miliardi di euro che si aggiungerebbero al "tesoretto" già rimediato innalzando l’asticella dall’originario 2,5% fino appunto al 2,6%.
La Commissione, che discuterà
oggi il testo elaborato sulle nostre
prospettive economiche, chiede
che quanto verrà speso per lo
sblocco delle indicizzazioni venga
compensato in modo da restare
con un margine di sicurezza sotto
il tetto del 3%, e impegnandosi a
raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2017. Le misure
per «compensare appropriatamente» l’impatto della sentenza della
Consulta - dice la bozza di raccomandazioni Ue - «devono assicurare che l’Italia resti nel braccio preventivo del Patto, che sia rispettato
il "margine di sicurezza" sul defi-
cit, che l’"obiettivo di medio termine" sia raggiunto in 4 anni».
Quindi, sostanzialmente, non
cambierebbero impegni e obiettivi
dell’Italia, ma le si potrebbe lasciare la possibilità di alzare il livello
del deficit fino al 2,8%, parametro
che lascerebbe un margine di sicurezza, un "cuscinetto" dello 0,2% rispetto al target del 3%.
Ma appunto non è ancora detto
che si faccia ricorso a questa possibilità. Quel che è certo, è che il governo non ha la minima intenzione di restituire tutto a tutti. Insomma, interpreterà il più possibile la
sentenza per tarare i risarcimenti e
non sconvolgere i conti. Lo ha fatto capire Padoan, ma soprattutto
lo ha dichiarato lo stesso premier
Matteo Renzi, e poi in serata lo ha
ribadito il ministro degli Interni e
leader di Ncd Angelino Alfano.
«La sentenza (della Consulta,
ndr) non dice che bisogna pagare
domani tutto, che è obbligatorio restituire tutto. Può darsi che offra
margini, verificheremo», ha detto
Renzi nel corso di una lunga e arti-
MILANO · Il gip sequestra 1,2 miliardi a Lugano
L’area Ilva si risanerà
con il «tesoro» dei Riva
Gianmario Leone
U
na decisione attesa ma che
può segnare una svolta nella
storia dell’Ilva di Taranto. Il
gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo
ha infatti sbloccato nella giornata di
lunedì gli 1,2 miliardi di euro sequestrati nel maggio 2013 ai fratelli Emilio (morto nell’aprile 2014) e Adriano
Riva e a due consulenti accusati di
truffa allo stato e trasferimento fittizio di beni. Il gip ha accolto la richiesta dei tre commissari straordinari
dell’Ilva Gnudi, Carrubba e Laghi.
L’operazione è prevista dall’ultima legge «salva Ilva», così come dalle leggi 89/2013 e 6/2014. Ma mentre
i provvedimenti precedenti ne disponevano diversamente l’uso - quella
del 2014, ad esempio, all’aumento di
capitale dell’Ilva -, l’ultima indica invece come obiettivo unico l’attuazione del piano ambientale. Ora i commissari potranno emettere obbligazioni pari all’importo sequestrato,
che saranno intestate al Fug (Fondo
Unico di Giustizia) e per conto dello
stesso a Equitalia Giustizia spa quale
gestore. La misura cautelare del sequestro penale sulle somme si con-
vertirà in sequestro delle obbligazioni di prossima emissione.
Ora la magistratura elvetica deve
notificare l’ordinanza del gip alla
banca Ubs di Lugano. Il «tesoro» dei
Riva si trova nelle casse delle banche
svizzere Ubs e Aletti (gruppo Banco
Popolare) ed è intestato a 8 trust domiciliati sull’isola di Jersey, paradiso
fiscale inglese. Attualmente sono su
conti italiani presso il Fug 120 milioni di euro (60 liquidi e 60 in titoli) del
sequestro Riva: questo permetterà
ad Ilva di emettere le prime obbligazioni incassando le relative somme.
Inoltre, sugli 1,2 miliardi ammonterebbero a non più di 800 milioni di
euro le somme liquide. È probabile
che i legali di Adriano Riva presenteranno un ricorso in Cassazione, ma
ciò non impedirà l’esecuzione del
provvedimento. Le somme sequestrate ai Riva si andranno ad aggiungere ai 400 milioni di euro di finanziamenti (300 saranno erogati da Cdp e
100 da Banca Intesa e Banco Popolare) coperti dalla garanzia dello Stato
(proprio lunedì la Corte dei Conti ha
dato l’ok al decreto del Mef in materia), e ai 156 milioni provenienti dal
contenzioso Fintecna.
BRACCIANTI · Il dramma di Ragusa diventa teatro
La drammatica storia delle braccianti rumene sfruttate e violentate da
caporali e imprenditori agricoli del ragusano diventa uno spettacolo teatrale. L’Associazione Santa Briganti in occasione del festival teatrale Scenica 2015, che si svolge a Vittoria dal 9 al 17 maggio, ha prodotto uno
spettacolo in collaborazione con la Flai Cgil intitolato «Sera Biserica» sul
tema dello sfruttamento del lavoro nelle serre. Lo spettacolo si terrà il 15
maggio, alle 21, al Teatro Comunale Vittoria Colonna. Lo scorso mese di
aprile un imprenditore vittoriese è stato arrestato per violenza e abuso ai
danni di una donna romena alle sue dipendenze da 8 anni. «La Flai Cgil
- spiega lo stesso sindacato - è impegnata da anni a contrastare il fenomeno dello sfruttamento diffuso nelle campagne ai danni di braccianti
stranieri e italiani, e ha più volte denunciato casi estremi di violenza e
sfruttamento sessuale, richiedendo di incentivare l’attività di contrasto
attraverso controlli da parte delle forze dell’ordine». «Denunciare non
vuol dire generalizzare e tacciare come sfruttatori, o peggio stupratori,
tutti gli imprenditori del settore - conclude la Flai Cgil - L’iniziativa di produrre uno spettacolo teatrale su questi temi vuole rappresentare un momento di riflessione diretto a tutti». Conferenza stampa venerdì alle
10,30 nella Sala Mandarà a Vittoria con Jean René Bilongo (Flai Cgil).
colata intervista a RepubblicaTv.
«Nei prossimi giorni - ha aggiunto
il presidente del consiglio - verificheremo le carte della sentenza,
l’abbiamo appresa dalle agenzie il
30 aprile che è stato un brillante
modo per festeggiare il primo maggio, verifichiamo per evitare gli errori che ha fatto chi ci ha preceduto. Lo faremo il prima possibile».
Alfano ha risposto alla seguente
domanda, posta dalla radio Rtl
102,5: sul caso pensioni Renzi ha
detto che non bisogna restituire
tutto a tutti e subito, è questa la linea ufficiale del governo? «È questa, e credo sia conforme a quello
che ha detto la Corte Costituzionale che è stata interpretata molto rapidamente e molto sommariamente da parte di taluni osservatori»,
ha replicato il ministro.
Un’apertura a questa ipotesi è
venuta dalla segretaria generale
della Cgil, Susanna Camusso, che
ha parlato uscendo dall’incontro
di Palazzo Chigi sul ddl scuola: «Il
governo può decidere con quali
modalità e con quali caratteristiche» applicare la sentenza della
Consulta sull’indicizzazione delle
pensioni «ma penso dovrebbe farlo confrontandosi anche con i sindacati per trovare soluzioni che
non siano, come quelle prese in
passato, bocciate dalla Consulta».
Camusso chiede quindi non solo un incontro (promesso tra l’altro dal ministro Poletti alle organizzazioni dei pensionati), ma anche,
più in generale, un confronto
sull’intera riforma Fornero.
Le opposizioni, al contrario, anche per trovare un efficace argomento di protesta, pressano perché la sentenza venga applicata in
via estensiva, ovvero restituendo
tutto a tutti e subito: Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, di Forza Italia, chiedono di «rispettare la
sentenza» e di «pagare tutto».
Identica richiesta viene da Matteo Salvini, segretario della Lega:
«Arriviamo a 20 miliardi di euro
che stanno cercando di trovare
non per tutti e non subito».
Torino/ I FAMILIARI CHIEDONO LA VICINANZA DELLO STATO
Eternit, in attesa del processo bis
governo e regione assenti in aula
Mauro Ravarino
TORINO
N
on è e non può essere come sei anni fa,
quando iniziava – il 6 aprile 2009 – la prima udienza preliminare del maxi-processo Eternit, dichiarato prescritto lo scorso novembre. All’epoca il Tribunale di Torino si era riempito di persone, provenienti da tutta Europa, e di
speranza. Nel corso degli anni, le vittime della fibra-killer sono aumentate (60 decessi l’anno nella sola Casale Monferrato) e diminuiti gli auspici
di giustizia, dopo la contestata sentenza della Cassazione. Ieri, davanti al gup Federica Bompieri, si è
aperta l’udienza preliminare del
processo Eternit bis, in cui la procura di Torino contesta al magnate
svizzero Stephan Schmidheiny
l’omicidio volontario per la morte,
per malattie correlate all’amianto,
di 258 persone, tra operai e residenti, fino al 2014 nelle zone dove sorgevano gli stabilimenti Eternit in Italia. «Un processo – prova a rassicurare il pm Raffaele Guariniello – che non corre il
rischio di prescrizione».
Da Casale è arrivato un pullman carico di familiari. «È dura ricominciare tutto dall’inizio, ma abbiamo fiducia», commenta Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto. «La nostra lotta continua, non possiamo fare altrimenti», aggiunge Romana Blasotti, presidente uscente dell’Afeva. Lo
scoramento è palpabile, ma il movimento resiste.
«Siamo qui con determinazione e con forza di volontà. Speriamo che questa volta la giustizia e il diritto possano coincidere», sottolinea il sindaco della cittadina piemontese, Titti Palazzetti. Il Comune
di Casale ha richiesto di costituirsi parte civile, così
come alcune decine di parenti delle vittime, i sindacati (Cgil-Cisl-Uil regionali), le associazioni Afeva e Medicina Democratica, l’Inail.
Mancano ancora all’appello la presidenza del
Consiglio, nonostante le promesse di Renzi ai familiari lo scorso autunno, e alcune Regioni interessa-
te dalla presenza degli stabilimenti. «Ci sono 14
udienze preliminari, ci auguriamo – ha spiegato Nicola Pondrano, presidente del Fondo vittime
dell’amianto ed ex operaio Eternit – che presto ci
sia una convergenza del mondo istituzionale e politico al nostro fianco. Non possiamo permetterci
di essere beffati anche questa volta: dunque, perché non mettere in campo, a partire dallo Stato,
tutte le forze disponibili?». In serata è arrivata la
conferma dal governatore Sergio Chiamparino
che il Piemonte si costituirà parte civile. Silenzio,
invece, da Palazzo Chigi.
La difesa di Schmidheiny è
partita subito all’attacco, sostenendo come il processo Eternit
bis «violi i diritti umani». L’accusa di omicidio volontario viene
definita «assurda». E la Procura
di Torino, nel promuoverla, starebbe, secondo Astolfo Di Amato (legale dell’imprenditore svizzero), «ignorando doppiamente il principio “ne bis in idem”, in quanto i fatti sono gli stessi del processo precedente». Guariniello, a margine dell’udienza, ha ribattuto: «È stata
la stessa Cassazione a dirci che nel processo precedente si parlava solo del disastro ma non entrano in gioco gli omicidi. Questo ci ha dato un’ulteriore spinta per andare nella direzione di un nuovo processo con un nuovo capo d’accusa». Il pm,
insieme al collega Gianfranco Colace, contesta,
inoltre le aggravanti di aver commesso il fatto per
«mero fine di lucro» e «con mezzo insidioso», perché avrebbe omesso l’informazione a lavoratori e
cittadini sui rischi e promosso una «sistematica e
prolungata» opera di disinformazione. Guariniello ha poi concluso: «Il nostro Paese è l’unico in
cui si fa un processo e questo è un vanto per la
giustizia di tutta Italia. È un caso che può fare
scuola anche in altri Paesi».
L’udienza preliminare è stata aggiornata a giovedì per permettere alla difesa di esaminare le
carte relative alla numerose richieste di costituzione di parte civile.
Il Gup decide
sulla base della
nuova accusa
di omicidio
volontario
WHIRLPOOL
Vertenza lenta,
Carinaro e None
aspettano certezze
«S
piragli», «aperture». Alla
quarta riunione del tavolo
- con altre tre già previste
- la vertenza Whirlpool va avanti a
passi piccoli e lenti. L’azienda continua a dirsi pronta a dialogare, ma
non mette le carte sul tavolo. Specie sui possibili spostamenti di produzioni che garantirebbero la sopravvivenza di Carinaro (Caserta)
con i suoi 815 esuberi dichiarati e
None (Torino), siti inizialmente destinati alla chiusura nel piano industriale della multinazionale americana che ha acquistato Indesit.
Ieri al ministero dello Sviluppo
economico è andata in scena la prima «ristretta». Alla riunione con
l’Ad di Whirpool Italia Davide Castiglioni questa volta hanno partecipato solo i segretari generali e nazionali di Fim, Fiom e Uilm - senza
gli Rsu dei vari stabilimenti - con la
padrona di casa Federica Guidi e il
sottosegretario al Lavoro Teresa
Bellanova. Di solito sono queste le
riunioni in cui si fanno i passi avanti decisivi nelle vertenze. Ieri non è
successo. Rimandando tutto a venerdì - quando si incontreranno solo azienda e segretari generali - e a
mercoledì prossimo - quando è
prevista una nuova ristretta al ministero. Ancora non fissata ma già assicurato invece una nuova plenaria con tutti gli Rsu per discutere
più approfonditamente del destino di ogni sito italiano.
«Abbiamo fatto un passo avanti
nel dialogo tra le parti dando disponibilità a ricercare progetti e attività che creino occupazione, con particolare riferimento alle regioni
Campania e Piemonte», fa sapere
in una nota Whirlpool. Lasciando
ai prossimi incontri del 15 e del 20
maggio «l’ulteriore approfondimento». A precisa domanda della
Fiom, l’azienda ha spiegato che la
possibilità di spostare produzioni
su Carinaro non sarebbe legata alla sola erogazione di 80 milioni in
ricerca promessi dal presidente
(uscente) della Regione Caldoro.
Sul tema comunque ha fatto leva
anche la sottosegretaria Bellanova
(Pd) che alle elezioni appoggia De
Luca.
Variegate le reazioni sindacali: la
Fim è positiva, la Uilm preoccupata, la Fiom aspetta di valutare le novità. «Si è aperto un piccolo spiraglio che andrà confermato e consolidato nel prosieguo del negoziato
- spiega il segretario generale della
Fim Cisl Marco Bentivogli - . L’accordo Indesit prevedeva lo spostamento di piattaforme produttive a
Carinaro, da lì bisogna partire»,
chiude Bentivogli.
«È stato un incontro deludente
che non ha risolto nessuno dei problemi sul tappeto, men che meno
quello di Carinaro», dichiara invece il segretario generale della Uilm
Rocco Palombella. «Non se ne è
proprio parlato», attacca, nonostante «settimane di scioperi e mobilitazioni».
«La possibilità di altre attività, interne o esterne, per salvaguardare
l’occupazione ed evitare le chiusure di Carinaro e None, e una nuova
piattaforma che potrebbe rafforzare le produzioni in Campania vanno prese con cautela: l’azienda
non ha ancora tradotto nulla di esse in proposte concrete», commenta Michela Spera, segretario nazionale Fiom, presente al tavolo assieme a Maurizio Landini.
«Faremo il possibile affinché
quelle che oggi sono state delle lievi aperture diventino le basi per
una discussione seria ed efficace
orientata alla tutela di tutti i lavoratori», dichiara il segretario generale dell’Ugl metalmeccanici, Antonio Spera. m. fr.
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
il manifesto
SCUOLA
LA PROTESTA CONTRO LA RIFORMA. A DESTRA, SIT-IN CONTRO LE PROVE INVALSI. SOTTO, LA FILOSOFA VALERIA PINTO
pagina 5
TEST · Sciopero contro il Ddl Renzi-Giannini
Invalsi, il boicottaggio
dei quiz fa il record
Roberto Ciccarelli
A
A PALAZZO CHIGI · Cgil, Cisl e Uil: scrutini a rischio e nuove proteste. Ma strappano un nuovo incontro
«Modifiche insufficienti»
I sindacati non cedono
Massimo Franchi
B
locco degli scrutini e possibile nuovo sciopero. Sulla riforma della scuola i sindacati non mollano e, anzi, rilanciano
la protesta, insoddisfatti dalle - poche - modifiche apportate al testo
originario del disegno di legge. A
differenza di quanto accaduto contro il Jobs act, questa volta anche
la Cisl - sebbene più cauta - si allinea. Una unità che fa spuntare dal
governo la promessa di un altro incontro dopo il passaggio al Senato.
A palazzo Chigi, ma senza Renzi. A otto mesi dall’ora e 47 minuti
dell’ultimo incontro - l’ormai lontanissimo 7 ottobre - Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo sono tornati alla
mitica Sala Verde della sede della
Nelle stesse ore
la concertazione 2.0
di Renzi: dialogo su
twitter e la promessa
di un #matteorisponde
presidenza del consiglio. Nessuno parla più di concertazione. Però il governo ha dovuto fare - una
piccola - marcia indietro dovuta
alla straripante protesta contro la
Buona scuola di Renzi e al successo - almeno il 70 per cento di adesione - dello sciopero di martedì
scorso. Assecondando la richiesta
di Cgil, Cisl e Uil (più Gilda e
Snals) di non accontentarsi
dell’incontro della scorsa settimana al Nazareno con il vicesegretario e presidente del Pd.
La cifra di quanto il sindacato abbia comunque ottenuto una trattativa la dà il duetto finale al tavolo
fra Susanna Camusso e il neo sottosegretario alla presidenza del
Consiglio - ed esperto in rapporti
col sindacato - Claudio De Vincenti. Al momento del congedo il segretario generale Cgil chiede: «Ma
come? Ci lasciate rinviandoci alle
commissioni parlamentari per le
audizioni? E non date risposte?».
De Vincenti allora è costretto a promettere un nuovo incontro a palazzo Chigi: «Le categorie incontreranno il ministro Giannini e dopo il
passaggio al Senato torneremo ad
incontrarci qui».
Fuori da palazzo Chigi dunque
l’insoddisfazione per le mancate
risposte fa il paio con l’inizio di
una possibile trattativa. «L’incontro con i sindacati è dovuto al fatto che la mobilitazione ha colpito
anche il governo e reso evidente
che non c'è condivisione» sul ddl
scuola. «Ora è tutta nel governo la
responsabilità di decidere se con
quel mondo vuole condividere le
risposte o se tira dritto. Il fatto che
abbiano proposto un calendario
dice che non sono sicuri di tirare
dritto», commenta Susanna Camusso. «È ancora come se avessimo la pistola puntata alla tempia», è la metafora forte usata dal
leader Uil Carmelo Barbagallo. Se
all’uscita i toni della Cisl sono stati più concilianti - «deciderà la categoria ma il dialogo è positivo e i
passaggi parlamentari possono
consentirci molte modifiche» non meno dura è stata Annamaria Furlan. Nel suo intervento al tavolo ha attaccato frontalmente il
governo: «Le modifiche che sono
state introdotte in parlamento
non sono sufficienti perché non ri-
muovono i punti critici che noi
non condividiamo. Se si fossero
fatti prima altri incontri con il Governo sicuramente avremmo costruito un percorso più utile per
cambiare la scuola», ha attaccato.
Sul merito saranno le categorie
ad incontrare il ministro Giannini
- che ha comunque dovuto ammettere che «restano divergenze
forti, ma c’è la volontà di dialogo»
- e le richieste rimangono sempre
le stesse: stralcio delle assunzioni
dal ddl con un apposito decreto
che tenga conto di tutti i precari;
cancellazione delle assunzioni a
chiamata e degli albi territoriali;
meno presidi «sceriffi» o «sindaci»
e più collegialità nelle decisioni su
assunzioni e piano formativo
triennale.
Per rimettere le cose al proprio
posto e non far fare voli pindarici
ai sindacati, il governo oggi comunque incontrerà anche le associazioni dei genitori. Tra le quali
spicca il Moige.
Nelle stesse ore dell’incontro
governo-sindacati, il presidente
del Consiglio portava avanti il suo
personalissimo dialogo sulla scuola. Su Twitter. Prima ha risposto
ad un tirocinante (Tfa), categoria
ora esclusa dalle assunzioni:
«Comprendo la rabbia, ma lei sa
che noi siamo chiamati ad applicare la legge», ha risposto a Gaetano. Poi ha concluso con un giudizio ultimativo: «Il dialogo su La
buona scuola è utile» e con un più
prosaico: «Torno alle riunioni»,
promettendo però per i «prossimi
giorni» «un #matteorisponde». La
concertazione 2.0.
lle 10 del mattino di ieri nei
«trending topic» su twitter
svettava il boicottaggio
all'#invalsi2015. In un paio d'ore
la più grande protesta contro il
modello neoliberista di valutazione registrata da quattro anni a
questa parte (adesioni al 23%) si
è trasformata in uno sciopero virtuale contro il Ddl Renzi-Giannini-Pd che giovedì sarà discusso
in aula alla Camera. «Valutati con
delle "x"? Classificati con un codice? Siamo persone, non macchine” hanno scritto da Vimercate e
rilanciato da Lamezia Terme.
«Qui abbiamo tutti scioperato.
Schedare e classificare non equivalgono a valutare» hanno scritto
gli studenti da Pescara. «Saperi
critici contro standardizzazione!»
hanno risposto quelli da Roma.
Lo sciopero è stato anche concreto: intere classi hanno consegnato le prove in bianco. A Trieste il
test invalsi è stato boicottato costruendo "opere d'arte" con sedie e banchi, «così le hanno definite i docenti» racconta il collettivo Oberdank che ha postato foto
di vere installazioni. A Bari
«un'ampia adesione ha coinvolto
il 70% degli studenti mentre a
Brindisi il 90%» sostiene la coordinatrice Uds Puglia Arianna Petrosino. «Mi sa, mi sa/Ca me n'aggia/Tornà a cas'/ Cca' so tutt
sciem» si è letto su una foto diffusa da uno studente napoletano
mentre i suoi coetanei sfilavano
in corteo in centro contro il governo. «Ragazzi, se venite è bene, se
non venite è meglio» avrebbe detto un docente di matematica, a
INTERVISTA · Valeria Pinto, autrice di «Valutare e Punire» sulla critica alla meritocrazia
La resistenza necessaria della scuola
U
n «salto di qualità» nella consapevolezza degli effetti della valutazione
sulla vita degli studenti e dei docenti.
Per Valeria Pinto - docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli e autrice di un attuale volume sulla valutazione nell'università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) - il successo delle proteste contro le prove Invalsi 2015 è il segno che in questi mesi,
in corrispondenza con la riforma Renzi sulla
scuola, c'è stato uno scarto di percezione su
un tema fondamentale. «Fino a qualche tempo fa – afferma - la valutazione era un tema
per addetti ai lavori. C'era un monopolio tecnico che non permetteva la discussione. Oggi sono in pochi a cadere nel tranello che la
confonde con il giudizio. Il giudizio comporta un momento di invenzione. La valutazione è invece un processo meccanico che mette fuori gioco l'interpretazione. La riforma
della scuola viene dopo l'approvazione del
Jobs Act e quella della legge elettorale. La
strategia a mosaico di Renzi è ormai delineata ed è stata compresa».
A cosa servono le prove Invalsi?
A misurare e a commisurare, cioè a mettere
in concorrenza scuole, docenti, studenti,
una parte del paese contro l'altra. In generale si vuole far passare l'idea che l'educazione
dev'essere fondata su criteri oggettivamente
misurabili. Una volta fissati determinati
obiettivi dall'alto si adottano le strategie per
raggiungerli. A questo proposito, i valutatori
parlano di un esperimento di ingegneria sociale. L’espressione è da intendere in senso
letterale, non metaforico. Le prove Invalsi, i
test Pisa, e tutti gli altri dispositivi della valutazione rispondono a una visione politica
che si realizza attraverso indicatori e non
con l'interpretazione.
Il Ddl Renzi-Giannini sulla scuola viene criticato in particolare per l'autoritarismo del
preside-manager. Sono timori giustificati a
suo parere?
Sì. Si sta delineando una scuola dove viene
meno la democrazia, mentre avviene un accentramento fortissimo delle decisioni in capo ad un'unica figura. È un modello di organizzazione verticistico che dirige un apparato tecnico senza lasciare spazio alla differenza. In questo sistema che opera per un fine
prestabilito e univoco verrà meno ogni momento di vera libertà e possibilità di sottrarsi
alla macchina dell'educazione. Gli insegnanti diventeranno tecnici dell'insegnamento
che devono mettere in opera ciò che è stato
deciso dall'alto.
E gli studenti?
Vivranno in una scuola dove il modello aziendale sarà applicato completamente, senza alcuno scarto.
Nel suo libro ha descritto la riforma Gelmini come uno strumento per «valutare e punire» studenti e docenti. La «Buona Scuola» a cosa servirà?
La scuola sta reagendo, non me l’aspettavo.
Nonostante tutto, è rimasta un'enclave
dov'è ancora viva l'idea del «pubblico». La
scuola rappresenta uno degli ambiti politicamente decisiva perché nelle sue aule si formano le soggettività che votano, consumano
e producono. Agire oggi su di essa significa
portare un attacco contro una zona ultra-sensibile della società che ha opposto
una resistenza al processo neoliberale in corso. Se passerà la riforma questo processo si
completerà in maniera pericolosa.
In autunno la riforma
dell’università dove Renzi
applicherà un nuovo Jobs
Act a docenti e precari
È stata annunciata per il prossimo autunno
la «Buona Università». Che cosa prevede?
L'istruzione sarà sottratta alla pubblica amministrazione ed è probabile che le posizioni
di chi è assunto a tempo indeterminato verranno messe in discussione. Per i precari si
parla di un Jobs Act dedicato solo a loro. In
generale, non sarà modificata la linea della
Gelmini ma, anzi, approfondita. Per questo
spero che la scuola oggi riesca a contenere
l'offensiva. Mi sembra che il governo si sia reso conto che la sua è stata una mossa sbagliata. Se continueranno a forzare la mano,
com'è probabile, dovremmo attendere una
nuova riforma che andrà avanti travolgendo
ogni dissenso. Nessuno ha posto il problema
della trasformazione dell'idea di istruzione
prospettata da Renzi. Oggi l'università è debole. ro. ci.
dimostrazione del dissenso tra i
docenti che hanno aderito allo
sciopero indetto dai Cobas o allo
«sciopero breve di mansione» dichiarato da Usb scuola. A Bologna ha fatto notizia il flashmob
dal titolo «Il grande quiz InFalsi»
in piazza re Enzo, in pieno centro. La prova è stata messa in scena a ruoli invertiti: erano gli insegnanti a rispondere ai quiz e gli
studenti a somministrarli. «L'Invalsi non è un metodo di valutazione ma di misurazione – sostiene il coordinamento precari scuola Bologna - E poi non bisogna dimenticare che fa parte dell'esame di terza media. C'è una forte
contraddizione, in merito. Bisognerebbe discuterne ma non ce
n'è la minima intenzione». Anche questi docenti chiedono il ritiro del Ddl sul «Buona Scuola».
Sul suo blog la docente Marina
Boscaino sostiene di avere rinunciato a 17 euro di stipendio, mentre il comitato «Adotta la Lip» ha
aderito alla terza giornata di protesta contro il Ddl. «Il metodo del
test a crocette non è adeguato a
dare uno spaccato completo riguardo le capacità degli studenti
La protesta contro
i test basati su un
concetto di «merito»
che ignora le
diseguaglianze
e nemmeno il questionario sulla
condizione sociale di partenza è
adeguato» spiega Alberto Irone
della Rete degli studenti medi
che all'alba di ieri ha realizzato
un flashmob al Miur. Tra le migliaia di tweet c’è anche un ritratto preciso della protesta diffusa.
Sotto la minacciosa scritta in un
questionario «Non girare la pagina finché non ti sarà detto di farlo!” si è letto: «Boicottiamo i test
Invalsi perché costano 14 milioni
di euro, soldi sprecati mentre si
taglia il diritto allo studio; perché
sono basati su un concetto di merito sbagliato e ignorano le diseguaglianze socio-economiche; sono antidemocratici perché costruiti dal Miur e dall'Invalsi e
non da enti di ricerca autonomi.
La valutazione è un tema da decidere nelle scuole e dal basso».
«Da oggi partirà lo sportello Sos
per difendere gli studenti da ritorsioni e illegittime sanzioni – sostiene Danilo Lampis, coordinatore dell'Unione degli studenti Nella nostra proposta “Altra Scuola” la valutazione non è una schedatura, ma valorizza le capacità,
migliora la didattica, educa alla
cooperazione».
Questa critica articolata al modello Invalsi che ha colto impreparati il governo e il Pd. «È un boicottaggio indecente» ha detto il
sottosegretario all'Istruzione Faraone (Pd). «Boicottare le prove
Invalsi significa usare gli studenti
a fini politici. La battaglia politica
va fatta fuori dalle aule scolastiche» ha detto la responsabile
scuola Pd Puglisi. Gli studenti ragionano invece con la loro testa e
criticano il modello econometrico e aziendalista di una valutazione che ha lo scopo di controllarli
e trasformarli in cittadini imprenditori di se stessi. Questa mobilitazione dimostra l’esistenza di
un mondo che non si lascia valutare passivamente, né pacificamente.
pagina 6
il manifesto
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
SOCIETÀ
ROMA
Perché Marino
non si occupa
davvero dei Rom?
Alessandro Capriccioli*
I
Luca Fazio
Q
uand’anche l’Europa trovasse un accordo per bombardare l’obiettivo sbagliato - lo scafista, dipinto come il male assoluto - il "problema" in Libia
non sarebbe risolto. Non si arresterebbe la conta dei morti (i migranti moriranno lontano dal canale di
Sicilia, se può essere di consolazione) e certamente non terminerebbero le sofferenze per migliaia di
persone che fuggono da fame e
guerre. «Implementare misure per
contrastare i trafficanti senza fornire un’alternativa alle persone che
scappano dal conflitto in Libia
non risolverà la piaga dei migranti», dice il direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e
Nord Africa Philip Luther.
Non sono lamentose considerazioni, è la realtà che Amnesty ha indagato con il suo nuovo rapporto
intitolato «La Libia è piena di crudeltà». Si leggono i motivi politici e
storici che spingono i migranti a
sfidare la morte nel Mediterraneo
per arrivare in Europa - niente che
non sia già noto a Federica Mogherini e ai ministri della Ue - ma an-
Appello a Tunisia
ed Egitto affinché
aprano le frontiere
ai rifugiati
che diverse testimonianze di abusi,
violenze sessuali, torture e persecuzioni religiose. Il testo contiene anche un appello alla Tunisia e
all’Egitto affinché allarghino le maglie alle frontiere per permettere a
migranti di lasciare la Libia (trafficanti e bande criminali hanno rubato i loro passaporti e anche per questo non possono fare altro che imbarcarsi per lasciare il paese).
«Le indicibili condizioni in cui si
trovano i migranti insieme alla crescente assenza di legalità e ai conflitti armati in corso nel paese - dice
Philip Luther - rendono evidente
quanto sia pericoloso oggi vivere in
Libia. Senza percorsi legali per fuggire e cercare salvezza, queste persone sono costrette a mettersi nelle
mani dei trafficanti, che le sottopongono a estorsioni, attacchi e altri
abusi». Il rapporto non fa sconti alla
comunità internazionale, accusata
di essere rimasta a guardare la Libia
«discendere nel caos» dopo la fine
dell’intervento della Nato del 2011.
Ormai è diventato il principale paese di transito per i rifugiati in fuga
dai conflitti dell’Africa sub sahariana e del Medioriente. Non è più
possibile chiudere gli occhi, dice
l’associazione, e limitarsi a distruggere le imbarcazioni dei trafficanti
senza predisporre rotte alternative
e sicure e senza «adottare misure
concrete per affrontare le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto
umanitario commesse da tutte le
parti coinvolte nel conflitto libico».
I rifugiati di religione cristiana sono i più a rischio. Provengono da
Nigeria, Eritrea, Etiopia ed Egitto.
Sono stati rapiti, torturati, uccisi e
perseguitati. «Ultimamente - si legge nel rapporto di Amnesty International - almeno 49 cristiani, per lo
più provenienti dall’Egitto e
dall’Etiopia, sono stati decapitati o
fucilati in tre esecuzioni sommarie
di massa rivendicate dal gruppo Stato islamico». Non è difficile raccogliere testimonianze come quella
di Charles, un cristiano nigeriano di
trent’anni aggredito da una banda
criminale lungo le coste libiche: «Arrivavano, ci rubavano i soldi e ci frustavano. Non potevo far presente alla polizia il mio credo cristiano perché quelli come noi non gli piacciono. Nell’ottobre del 2014 sono stato
sequestrato da quattro uomini armati che si erano accorti che avevo
con me una bibbia». Lo hanno torturato per due giorni, poi è riuscito
AMNESTY INTERNATIONAL · Nell’ultimo rapporto la denuncia delle violenze sui migranti
«La Libia è piena di crudeltà»
a scappare da una finestra. Questo
per dire che «i leader europei devono assicurare che i migranti in fuga
non siano mai rimandati indietro
in Libia».
Le persecuzioni lungo le rotte
dei trafficanti non sono solo di natura religiosa. I migranti che provengono dalle zone sub sahariane,
compresi i minori, durante il tragitto «vengono torturati per costringere loro e le loro famiglie a pagare
un riscatto». Chi non può ricevere
denaro viene ridotto in schiavitù.
Le donne, soprattutto quelle che
viaggiano sole, rischiano di essere
stuprate, «vengono obbligate a fare sesso in cambio del rilascio o
del permesso di proseguire». Ci sono molte testimonianze. «Mi hanno portato fuori città - ha raccontato una nigeriana - hanno legato
mio marito a un palo per le mani e
le caviglie e mi hanno stuprato davanti ai suoi occhi, erano in tutto
undici». Con l’arrivo in Libia, in attesa di salpare su qualche imbarcazione di fortuna, la situazione non
BIRMANIA
350 migranti Rohingya
abbandonati in mare
Circa 350 migranti Rohingya in fuga dalla
Birmania sono stati abbandonati a bordo
di un barcone al largo della Thailandia,
senza carburante e ormai senza cibo né
acqua da tre giorni. A denunciarlo è stato
Chris Lewa, responsabile dell'Arakan
Project, un'associazione che monitora le
condizioni della minoranza musulmana
discriminata in Birmania. «Hanno chiesto
di essere salvati urgentemente», ha detto
Lewa dopo essere riuscita a mettersi in contatto con uno dei migranti,
aggiungendo che una cinquantina delle persone a bordo sono donne, e
che il barcone si trova probabilmente al largo del sud della Thailandia
vicino alla Malesia. Nelle ultime 48 ore, circa 2 mila migranti - tra Rohingya e bengalesi - sono approdati sulle coste malesi e indonesiane. Un
barcone con 400 persone è stato respinto dall'Indonesia e rispedito verso la Malaysia, secondo le autorità locali dopo che i migranti sono stati
riforniti di provviste. Negli ultimi tre anni, oltre centomila Rohingya sono
fuggiti dalla Birmania a bordo di barconi gestiti da trafficanti senza scrupoli, in fuga dalle violenze della maggioranza buddista e lasciando spesso alle spalle famiglie che vivono in squallidi campi di sfollati.
cambia. I migranti vengono segregati anche tre mesi in case diroccate, senza acqua né cibo. Alcuni rifugiati siriani hanno raccontato di essere stati trasportati in furgoni frigoriferi in cui passava poca aria:
«Due bambini hanno iniziato a soffocare e hanno smesso di respirare, i genitori li schiaffeggiavano per
fargli riprendere conoscenza. Noi
battevamo sulle pareti ma l’autista
non si fermava, in seguito i bambini si sono ripresi». Infine, i centri di
detenzione per i migranti, «le cui
condizioni sono terribili e in cui la
tortura è la regola». Percosse quotidiane, «con tubi di gomma dietro
le cosce», e stupri ripetuti per mesi. Le autorità libiche «devono immediatamente porre fine alla sistematica detenzione di migranti»,
conclude Philip Luther.
Amnesty International, all’Europa, «ai paesi ricchi», chiede di più:
«Il mondo non può continuare ad
ignorare il suo obbligo di concedere asilo a chiunque fugga da tale
abuso terribile».
Bologna/ SABATO PROSSIMO, ANNIVERSARIO DELLA RIVOLTA DI AUSCHWITZ
Rom e sinti in marcia contro
i rischi di «un nuovo Olocausto»
Carlo Lania
ROMA
D
a troppo tempo sentono crescere
intorno a loro un clima ostile, per
non dire violento. Lo avvertono
ogni volta che accendono la televisione
nel vedersi descritti quasi sempre e solo come gente che vive in campi pieni di immondizia e con i topi che scorrazzano tra
le gambe dei bambini. Un’immagine che
poi finisce col ripercuotersi inevitabilmente nei discorsi della gente e, cosa ben peggiore, in quelli dei politici. «Sembra di essere tornati ai tempi del fascismo, quando discorsi razzisti come quelli che si sentono
oggi portarono poi al varo delle leggi razziali» dice con tono preoccupato Davide
Casadio, il presidente dell’Associazione
Sinti italiani in viaggio. Un clima che fa ancora più paura da quando la Lega ha fatto
di rom e sinti uno dei suoi obiettivi principali, tanto che Matteo Salvini ha promesso di abbattere i campi rom il giorno in cui
governerà il Carroccio.
Per mettere fine a questo clima, ma anche per spiegare che «non tutti viviamo
nei campi e comunque se anche ci vivi
non vuol dire automaticamente che rubi»,
i rom e i sinti italiani hanno deciso di ribellarsi indicendo per sabato prossimo, 16
maggio, una manifestazione nazionale a
Bologna. La data prescelta non è casuale.
Il 16 maggio del 1944 i quattromila rom e
sinti imprigionati ad Auschwitz si ribellarono ai nazisti venuti a prenderli per ucciderli. Non solo gli uomini, ma anche le donne
e bambini si difesero disperatamente a col-
pi di pietra riuscendo a respingere i loro
aguzzini. La rivolta durò più di due mesi, fino al 4 agosto quando, dopo aver affamato
le loro vittime, i nazisti riuscirono a ucciderne 2.897. «Oggi c’è il rischio di un nuovo Olocausto se in Europa dovesse andare
al potere l’estrema destra», ha avvertito
nei giorni scorsi Casadio. «Salvini ha violato palesemente tutte le leggi comunitarie
che impediscono a un politico di alimentare odio e aizzare la gente ad agire in modo
violento contro una specifica comunità,
creando un clima da pogrom».
Da cancellare, oltre ai toni violenti delle
destre, ci sono anche una marea di luoghi
comuni. A partire da quelli secondo cui sarebbero proprio rom e sinti a voler vivere
nei campi. Come spesso accade, la realtà è
molto diversa. In Italia risiedono 180 mila
rom e sinti ma solo 40 mila di loro vivono
nei campi e non è detto che sia una scelta.
Tutti gli altri hanno un alloggio, mandano
i figli a scuola, lavorano. La metà di loro è
cittadino italiano, nella maggior parte dei
casi integrato o comunque che cerca di esserlo.
Chi invece vive nei campi paga per tutti,
specie se si tratta di bambini. Secondo un
rapporto dell’Associazione 21 Luglio 1 su 5
tra quanti crescono negli insediamenti
non andrà mai a scuola, solo l’1% frequenterà la scuola superiore mentre quasi nessuno entrerà mai in un’aula universitaria.
«Ogni giorno si registrano 1,5 discorsi di
odio antizigani, e l’87% è riconducibile a
esponenti politici», denuncia sempre l’associazione.
La Lega ha già definito la manifestazione di sabato «una provocazione» e presentato un disegno di legge regionale che istituisce un fondo, già ribattezzato «fondo ruspe», per lo «smantellamento dei campi
rom». Da parte sua Forza Italia ha indetto
invece un sit in nel pomeriggio». Non tutti,
però, la pensano così. Al corteo, che prenderà avvio da via
Gobetti, parteciperanno le comunità sinti e rom provenienti da tutta Italia (sono previste
tra le due e le tremila persone)
ma hanno assicurato la loro
presenza anche esponenti di
Pd, Sel e Radicali, mentre il
presidente del commissione
Diritti umani di palazzo Madama, Luigi Manconi, rappresenterà il presidente del Senato
Piero Grasso. «Anche noi abbiamo contribuito a costruire
l’Italia», ricorda Casadio. «Rom e sinti hanno partecipato alla Resistenza e sono morti per liberare l’Italia dal nazifacismo. Eppure non c’è nemmeno un giorno della
memoria per le vittime sinti e rom dell’Olocausto, quello che nella lingua sinta chiamiamo ubaro merope, la grande uccisione. Sabato sfileremo tutti con dei giubbini
gialli per fare capire che siamo rimasti
esclusi dalla società».
ntendiamoci: verificare, come sta
facendo la giunta Marino a Roma
nelle ultime settimane, che i fruitori di pubblici servizi siano effettivamente in possesso dei requisiti per goderne è un’attività doverosa, che dalle
nostre parti viene trascurata fin troppo spesso e che quindi, quando viene
svolta in modo efficace, deve essere salutata con favore, siano i destinatari di
quelle verifiche persone rom e non.
Ragion per cui, se dai controlli del
Comune di Roma viene fuori che qualche rom col conto in banca pieno di
zeri occupa un posto nei cosiddetti
"centri di accoglienza" senza averne diritto, invitarlo ad andarsene e
a lasciare il posto ad altri appare ineccepibile.
Ciò premesso, è bene tenere presente che il fenomeno riguarda sì e no
qualche decina di persone, a fronte di
circa ottomila rom che vivono nei
campi a Roma: ottomila persone che
il conto con gli zeri non l’hanno mai
avuto e che da quei campi, che con il
concetto di accoglienza hanno pochissimo a che vedere se si eccettua il nome, non andrebbero sgomberati, ma
portati via e condotti verso percorsi di
inclusione abitativa e sociale.
Ecco, questa frenetica attività consistente nello smascherare una manciata di finti poveri dovrebbe essere considerata pressoché un dettaglio, rispetto al compito infinitamente più importante, e molto più impegnativo, di progettare un’esistenza dignitosa e offrire
un futuro ai poveri veri: e la sensazione è che ci si dedichi a svolgere questa
attività "di nicchia" con tanto zelo, e a
comunicarne i risultati con tanta enfasi, come se si trattasse di un rimedio risolutivo a chissà quale problema, al
solo scopo di distogliere l'attenzione
dal fatto che sul resto, che poi rappresenta il grosso della questione
rom, si continui a fare poco, per non
dire niente.
Sappiamo bene che per chi governa
certe tentazioni sono forti, quasi irresistibili. Sappiamo bene che è fin troppo comodo contare sulla punta delle
dita gli sporadici casi che assecondano, alimentano e poi cavalcano i pregiudizi della gente (“altro che povertà,
i rom sono tutti ricchi sfondati”), unirsi al coro gridando allo scandalo e infine attribuirsi il merito di mettere le cose a posto, piuttosto che farsi responsabilmente carico di tutti gli altri, la
cui esistenza smentisce quei pregiudizi in modo drammaticamente inequivocabile se solo ci si sofferma a guardarla per quella che è.
Eppure farsene carico è necessario.
Anzi, è ormai divenuto ineludibile, ora
che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce non le piccole, e per molti
versi miserabili truffe di pochi individui sparpagliati qua e là, ma il gigantesco business milionario che a Roma ha
prosperato per anni sulla pelle dei
rom, facendo perno, sul sistema incancrenito della cosiddetta “accoglienza”
e costando ai romani decine di milioni
di euro l’anno.
Quindi, per riassumere: ben vengano i controlli. Purché sia chiara una cosa: limitarsi a smascherare qualche decina di persone che barano sul conto
in banca per occupare abusivamente
un container non significa occuparsi
seriamente della questione rom; perché occuparsene seriamente vorrebbe
dire cercare di superarli tutti, quei container, insieme ai “campi” nei quali sono collocati, abbandonare l'approccio
emergenziale e assistenzialista di questi anni e, come già hanno fatto con
successo altri paesi europei, reinvestire nei in percorsi di inclusione le risorse che sino ad oggi sono state sperperate e utilizzate solamente per segregare
ed escludere.
Si tratta di una questione complessa
e delicata, che ha bisogno di interventi
lungimiranti e graduali, e ogni giorno
più urgenti. Noi di Radicali Roma, che
abbiamo denunciato il sistema criminale di gestione dei campi e proposto
al Sindaco Marino l’adozione di un piano di inclusione ancora prima dello
scandalo di “Mafia Capitale”, ci prepariamo ad aprire una stagione di iniziative popolari proprio su questo tema:
perché superare i campi non soltanto
si può, ma, dopo aver preso atto dello
scempio che rappresentano, si deve.
*segretario radicali Roma
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
il manifesto
INTERNAZIONALE
pagina 7
KATMANDU · Un nuovo terremoto di grado 7.3 ha provocato vittime, migliaia di feriti e sfollati
Altra scossa, Nepal senza tregua
Il paese è ancora alle prese
con gli effetti e le vittime
del sisma dello scorso 25
aprile. Si complicano i
soccorsi e l’arrivo degli aiuti
PAKISTAN · Dopo «lo scoop» del Pulitzer Hersh
Tutti i dubbi e le bugie
di Obama su bin Laden
Marta Santomato Cosentino
KATMANDU
I
n Nepal la terra continua a tremare. A poco più di due settimane dal violento terremoto - 7.8 sulla scala Richter - che ha messo in ginocchio il paese, ieri pochi minuti prima
delle 13 (ora locale) una nuova forte scossa, 7.3,
ha fatto crollare, durante un lungo e interminabile minuto, gli edifici che l’urto del sisma dello
scorso 25 aprile aveva risparmiato.
In mattinata tutte le reti nazionali avevano
diffuso la notizia che il pericolo ormai era rientrato e che le persone avrebbero potuto tornare
a casa. Poche ore dopo, la nuova scossa con epicentro a 15 km di profondità sotto Namche Bazar vicino all’Everest, 80 km a est di Kathmandu, non lontano dal confine cinese. Anche a
New Delhi e in altre zone del nord dell’India così come a Dacca, la capitale del Bangladesh e in
Cina, alle persone è sembrato di «stare in barca
con il mare in tempesta».
Secondo il Ministero dell’Interno sono almeno 40 le vittime - alcune in India - e oltre un migliaio di feriti. Numeri destinati ad aumentare
man mano che proseguono le ricerche e che si
aggiungono agli 8 mila morti e agli oltre 16 mila
feriti del primo sciame sismico. A Kathmandu
ancora una volta le persone si sono riversate tutte in strada, il più lontano possibile dagli edifici.
Erica Beuzer cooperante del Gruppo di volontariato civile italiano ha raccontato che nella capitale «le persone si sono attrezzate per passare la
notte all’aperto in ripari di fortuna nell’ennesima notte insonne. Le serrande dei negozi sono
tutte abbassate, hanno aperto qualche ora solo
i negozi di generi alimentari per permettere di
fare scorta di viveri». Le persone sono paralizzate dalla paura e quello che preoccupa adesso,
più che un’altra scossa, è la tenuta di nervi della
popolazione, stremata prima di tutto psicologicamente.
Insieme all’entità dei danni quello che è difficile da prevedere, al momento, è l’impatto di
questa nuova scossa arrivata proprio mentre si
cercava, a fatica, un ritorno alla normalità. Il timore che scoppi una rivolta è pari a quello della diffusione di un’epidemia provocata dalla
presenza di corpi e carcasse di animali ancora
sotto le macerie. Le devastazioni provocate
Emanuele Giordana
D
SOCCORSI A KATMANDU DOPO LA SCOSSA DI TERREMOTO DI IERI, A DESTRA OSAMA BIN LADEN /LAPRESSE
dall’ultima scossa ritardano ulteriormente lo
stato di avanzamento dei soccorsi che, prima
ancora dell’inefficienza e dell’elevato tasso di
corruzione che olia i meccanismi che muovono
l’apparato statale nepalese, devono superare
un ostacolo di ordine prettamente logistico che
attiene alle dimensioni dell’aeroporto.
Lo scalo della capitale - rimasto chiuso ieri
per una manciata di ore - è piccolo, nonostante
il gran via vai di turisti, e per nulla attrezzato a
gestire un elevato flusso di arrivi. Montagne di
cibo, medicinali, tende sono stipate, accatastate, quasi dimenticate sulla pista di atterraggio
in attesa che la dogana finisca di ispezionare un
pacco alla volta e che il governo trovi le risorse
per distribuirli. A questo si aggiunge la mancanza di coordinamento che provoca una distribuzione disomogenea. La Commissione locale
per i diritti umani, durante una ricognizione
nei distretti più colpiti dal sisma, Sindhupalchok, Dolakha e Kavre, ha denunciato che coloro che vivono nei pressi delle principali vie di comunicazione hanno ricevuto più aiuti degli abitanti delle zone remote. «La distribuzione - ha
spiegato - si è concentrata in poche aree, nella
maggior parte dei villaggi non è ancora arrivato
niente. La situazione è aggravata anche dalla
presenza di un elevato numero di funzionari e
GIAPPONE · Diventa presidente del fondo-proteste
Il regista Miyazaki contro
la base Usa a Okinawa
IL REGISTA D’ANIMAZIONE GIAPPONESE MIYAZAKI /LAPRESSE
Marco Zappa
TOKYO
D
opo aver dato l'addio lo
scorso anno al mondo dei
lungometraggi animati, il
regista Hayao Miyazaki ritorna alla
ribalta. E non per una creazione
della sua matita; bensì per il suo
impegno a favore della causa di
Okinawa.
Miyazaki – creatore di alcuni dei
capisaldi dell'animazione giapponese come Totoro, Nausicaa della
Valle del vento o La Città incantata
e fondatore del pluripremiato Studio Ghibli – è stato nominato presidente della Fondazione Henoko
(in giapponese: Henoko kikin), un
fondo destinato al sostegno economico delle proteste contro l’ampliamento di Camp Schwab, una
base militare Usa sulla costa centro-orientale dell’isola di Okinawa,
a oltre 1500 km a sud di Tokyo. Il
fondo è stato creato con le donazioni di imprenditori, politici locali e
celebrità di portata internazionale
come Miyazaki e nazionale come il
co-presidente della fondazione,
Shuntaro Torigoe, volto noto della
tv e del giornalismo.
«La smilitarizzazione di Okinawa - ha scritto Miyazaki in un
messaggio pubblico diffuso dopo
la sua nomina - è di vitale importanza per la pace di tutta l'Asia
orientale». La nomina del maestro
degli anime alla presidenza dell’ente è un segno dell'ambizione del
movimento ad allargare la propria
rete e per esercitare pressione sugli organi che contano. Miyazaki
non è nuovo all’impegno politico.
Nel 2003 rifiutò di ritirare l'Oscar
vinto con La città incantata in segno di protesta contro l'intervento
Usa in Iraq. Nel 2013 era stato poi
tra i firmatari di un Libro bianco
per lo spostamento delle strutture
squadre di monitoraggio che, più che coordinare, intralciano le operazioni di soccorso». Molti
villaggi non sono ancora stati raggiunti perché
le strade sono impraticabili; gruppi di volontari
in bicicletta e moto hanno cercato di trasportare quanti più aiuti potevano caricandoseli sulle
due ruote mentre le reali condizioni di molte zone sono state appurate solo tramite le ricognizioni con gli elicotteri.
La conformazione orografica del territorio di
certo non aiuta e l’arrivo imminente dei monsoni obbliga a una corsa contro il tempo prima
che le piogge rendano ancora più impraticabili
le strade già interrotte dalle frane. «Ci sono tutti
gli ingredienti perché la macchina degli aiuti rallenti» ha spiegato Marco Rotelli, il segretario generale di Intersos, l’unica Ong italiana che si occupa di aspetti umanitari, ma comunque «il sistema che si è attivato in questo caso è quello
più funzionale possibile alla luce delle risorse disponibili». L’intero sistema dell’organizzazione
umanitaria esce da un 2014 difficile con interventi nelle Filippine, in Iraq, in Sud Sudan, nella Repubblica centrafricana, gli strascichi del
conflitto in Siria fino all’ebola, Gaza e tutto quello che ci sarà da fare in Yemen, che hanno prosciugato le riserve nei magazzini. Milioni gli euro che servono per ripristinare gli stock.
militari americane fuori da Okinawa. Al quotidiano locale Okinawa Times, Miyazaki ha spiegato:
«Dal momento che la popolazione
locale è determinata nella lotta
contro le basi Usa, da parte mia
non posso che dare il mio sostegno». Nei piani del governo giapponese, Henoko dovrà ospitare strutture, mezzi e personale della base
aerea di Futenma, una struttura
controversa situata in pieno centro abitato a Ginowan, a pochi chilometri da Naha, capitale dell'isola. La base salì agli onori delle cronache nel 1995 quando tre militari
americani lì di stanza rapirono e
stuprarono una dodicenne giapponese. Camp Schwab si trova invece
in una località relativamente poco
abitata ma affacciata sulla baia di
Oura, un’area importante - spiegano gli ambientalisti - dal punto di
vista naturalistico: la sua barriera
corallina ospita decine di specie di
granchi, pesci e mammiferi marini
come i sempre più rari dugonghi.
Con l’inizio dei lavori di espansione della struttura militare a gennaio del 2014 - accusano gli attivisti locali - alcune zone della barriera corallina sono state definitivamente compromesse.
Takeshi Onaga, governatore provinciale eletto a novembre scorso
con una piattaforma elettorale antibasi, aveva perciò ordinato a marzo scorso lo stop a tutti i lavori
nell'area. La voce del governatore
non è però mai arrivata a Tokyo e
tantomeno a Washington. E sulla
questione piovono nuove critiche
su Abe: come spiega il costituzionalista Sota Kimura dalle colonne del
settimanale Shukan Kinyobi, il governo starebbe violando la costituzione. In casi come quello di Henoko, spiega Kimura, il governo
non può prescindere dal giudizio
della popolazione locale via referendum.
ue ex militari pachistani
hanno confermato all’agenzia France Press che effettivamente un uomo dei servizi segreti di Islamabad fornì informazioni
agliUsa su Osama bin Laden: avrebbe dato una mano per identificarne
il Dna. È la prima conferma che riguarda le notizie contenute nell’articolo che Seymour Hersh ha pubblicato domenica sulla London Review of Books e che, sbugiardando
la Casa Bianca, fa tutto un nuovo
racconto della morte dello sceicco
del terrore.
Di questo «traditore» (che non sarebbe un uomo dell’Isi - i più potenti servizi pachistani - ma di un’altra
agenzia) si sa solo che ormai vive
negli Usa ma potrebbe essere la persona che Hersh - il giornalista divenuto famoso per aver rivelato nel
1968 il massacro di My Lay in Vietnam - ritiene responsabile di aver
«venduto» il nascondiglio di Osama
alla Cia per 25 milioni di dollari. La
Casa Bianca ha smentito la ricostruzione di Hersh che fa fare una pessima figura a tutto lo staff, da Obama
all’ultimo dei Navy Seal, i soldati
del team operativo che entrarono
nella casa di Abbottabad il 2 maggio del 2011 uccidendo bin Laden,
un uomo gravemente malato e indifeso. Una pessima figura su una storia totalmente ricostruita e che scrive - sarebbe «potuta uscire dalla
penna di Lewis Carroll», l’autore di
Alice nel paese delle meraviglie.
La ricostruzione di Hersh, che si
basa su una fonte anonima che descrive minuziosamente ogni parti-
EGITTO · Tre anni, già scontati, a Mubarak
Attivista comunista
di nuovo arrestata
Giuseppe Acconcia
L
a rivoluzionaria comunista e guida del movimento operaio, Mahiennour
el-Masry è stata arrestata ieri
ad Alessandria d’Egitto nel corso della prima udienza del processo che la vede imputata insieme ad altri nove attivisti.
Il giovane avvocato del partito dei Socialisti rivoluzionari
era stata condannata a due
anni lo scorso febbraio per
aver attaccato la stazione di
polizia al-Raml ai tempi
dell’ex presidente Mohamed Morsi (2012-2013).
Una condanna del genere
chiarisce come non importa chi sia al potere, i poliziotti egiziani sono intoccabili ed hanno un ruolo sempre più significativo nel paese dopo il golpe del 2013. In
attesa che la Corte di appello di Alessandria si pronunci sulla richiesta di scarcerazione, presentata dai suoi
avvocati, tra cui il comunista Khaled Ali, Mahiennour,
insignita a Firenze del premio internazionale Ludovic
Trarieux per il suo impegno
per la difesa dei diritti umani
in Egitto, resterà in carcere fino al prossimo 31 maggio.
Nel settembre dello scorso anno, la giovane era stata rilasciata dopo aver scontato 6
mesi di prigione in seguito ad
una condanna a due anni, ridotta in appello, inflitta per
aver violato la legge anti-proteste che impedisce di manifestare in Egitto in occasione
dell'anniversario dell’uccisione violenta di Khaled Said, il
giovane simbolo dei movimenti anti-regime di Alessandria d’Egitto.
Il socialista, Alaa Abdel Fattah è stato condannato a 15
anni per aver violato la legge
anti-proteste lo scorso novembre. Stessa sorte tocca agli attivisti di 6 Aprile, movimento dichiarato illegale, e 230 attivisti dei movimenti condannati all’ergastolo per le proteste
del novembre 2011.
Restano in carcere migliaia
di sostenitori dei Fratelli musulmani. I giovani all’interno
della confraternita hanno annunciato una riforma delle attività politiche del gruppo
con il trasferimento di potere
dai leader in prigione, incluso l’ex presidente Morsi, ai
più giovani attivisti islamisti.
Infine, l’ex presidente Mubarak è stato condannato a tre
anni di reclusione per corruzione.
Tuttavia l’ex raìs ha già
scontato la sua pena e resta
a piede libero. Anche i figli,
Alaa e Gamal, condannati a
quattro anni nello stesso processo, sono stati rilasciati
nei mesi scorsi.
colare sia della caccia a Obl sia
dell’operazione del 2 maggio, non
riempie tutti i buchi di un’operazione sulla quale circolò più di una versione e numerosi aggiustamenti di
tiro ma semmai ne aggiunge altri.
Dubbi che ora si fanno più consistenti dal momento che Hersh dimostra non solo che la Casa bianca
mentì ma che tradì il patto coi pachistani, che- nella persona del capo della Forze armate Ashfaq Parvez Kayani e in quella del direttore
dell’Isi Ahmed Shuja Pasha - fecero
un accordo preciso: dal momento
che gli americani avevano scoperto
(grazie al «traditore» in seno all’intelligence) che l’Isi custodiva bin Laden in una dorata prigionia ad Abbottabad, avrebbero dato luce verde al raid a due condizioni. La prima, che Obl fosse ucciso. La seconda, che non si venisse mai a sapere
il ruolo del Pakistan nel facilitare
l’operazione che infatti (a parte l’incidente a un elicottero) si svolse senza intralci: né guardie armate, né intercettazioni aeree e – ironizza l’articolo – nemmeno una macchina dei
pompieri quando uno degli elicotteri andò a fuoco.
In buona sostanza, Usa e Pakistan prepararono la trappola con
l’accordo che nessuno ne sarebbe
venuto a conoscenza per evitare a
Islamabad una figuraccia (custodiva il capo dei capi) e per evitare ritorsioni (come avrebbero reagito i
jihadisti)? Secondo la fonte di Hersh l’Isi teneva prigioniero bin Laden utilizzandolo come leva per manovrare sia i talebani sia i qaedisti.
La sua morte non poteva essere imputata ai pachistani. Obama però
tradì il patto rivelando che l’operativo si doveva alla collaborazione pachistana. Poi l’ammissione frettolosa fu smentita. Ma ciò che appare
evidente dal racconto di Hersh è
che la cosa doveva avvenire in
tutt’altro modo e che fu l’incidente
dell’elicottero a obbligare tutti a far
circolare la vera storia ( comunque
artefatta) che forse sarebbe stata
raccontata in altro modo addirittura menzionando un altro luogo
(Osama fu subito portato in Afghanistan). Anche la narrazione sul corpo dello sceicco morto, misteriosamente sepolto in mare e senza che
se ne sia mai vista una immagine,
subì un’accelerazione, che portò a
costruire fandonie una sull’altra, arricchite da falsi dossier. Obama del
resto, dice Hersh, doveva essere rieletto e con la morte di bin Laden
avrebbe potuto, come fece, dichiarare la guerra in Afghanistan «missione compiuta».
Che la Casa bianca si trovi in
grande imbarazzo è abbastanza evidente. Qualcuno ha accusato Hersh di aver utilizzato troppe fonti
anonime che non rendono credibile il suo racconto. Ma Hersh è un
giornalista credibile e, del resto, le
fonti anonime sono da sempre acqua al mulino dei reporter specie se
la loro autorevolezza è in grado di
farcele ritenere veritiere e verificate.
La vicenda apre adesso due fronti.
Il primo è interno: nel Paese dove
dire le bugie è ritenuto un fatto gravissimo, Obama macchia il suo ultimo vestito da presidente.
Ma si macchia anche quello di
Hillary Clinton (presente nella famosa stanza operativa che seguiva
il raid dagli Usa) e l’intera amministrazione. A parte la ricaduta d’immagine in tutto il mondo (siamo
abituati a che mentano i servizi segreti ma se lo fa un presidente la cosa è un po’ diversa), cosa succederà
ora coi pachistani? E quali effetti
avrà la grande bugia sui terroristi assetati di ogni buona ragione per
spargere sangue?
pagina 8
il manifesto
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
REPORTAGE
Nella seconda città della Siria 400 mila
persone - quel che rimane dei suoi 2 milioni
di abitanti - resistono a una guerra che non
risparmia neanche gli ospedali. Tra cumuli
di macerie, senza luce né acqua, monta
l’odio per tutti gli schieramenti. «Non
vogliamo né le forze di Assad né i ribelli»
Federica Iezzi
ALEPPO
Y
aman ci dice che «il tonfo delle pale del
rotore di coda degli elicotteri e l’esplosione di ordigni liberati dalle truppe del governo siriano ormai sono rumori familiari; familiare è la corsa disperata delle mamme con
in braccio i figli verso i piani più bassi degli edifici già devastati; e familiare è anche l'inevitabile carneficina umana negli ospedali». Non sono sicuri nemmeno quelli. Bombe e mortai
cancellano senza alcun preavviso l’esistenza
di uomini che lavorano, vivono e muoiono tra
quelle vecchie mura macchiate di iodio.
Nella metà orientale di Aleppo si muore. La
città è contesa tra le forze governative, che hanno il controllo della parte occidentale e che
continuano ad avanzare verso nord, e le forze
di opposizione, con capolista il Fronte al-Nusra, il braccio siriano di al-Qaeda, che ha il controllo della parte orientale della città. Il quartiere di Sheikh Maqsoud è sotto il controllo delle
autorità curde. Almeno 19 gruppi armati invece gareggiano per i quartieri al confine tra le
tre aree. Cumuli di macerie alti decine di metri
coprono vie e strade dell’antico tracciato ellenistico. I segni di una guerra che ha promesso la
speranza, ma ha invece consegnato alla Siria
solo anni di disumanità.
Solo polvere grigia e odore di fuoco
«Ieri pomeriggio ho respirato dentro una nuvola di fumo e polvere, dopo aver sentito quel rumore assordante che ti scoppia dentro il torace. Era un’esplosione vicino a una bancarella di frutta. Né il venditore né il suo cliente si
sono tirati indietro. Io ero dall’altra parte della strada», ci racconta Hanan. Carrelli di
arance, mele, banane e cocomeri gettati violentemente per terra senza più colori né sapori. Solo polvere grigia e odore di fuoco. E’
questa oggi Aleppo.
Chiediamo a Khalil, un vecchio signore del
quartiere di al-Sakhour, perché 400.000 perso-
ne si ostinano a rimanere ancora ad Aleppo. Risponde con un sorriso, una rarità nel nord della Siria. «Questo è il posto da dove vengo e questo è il posto dove morirò».
Nei giorni scorsi, il quartiere è stato nuovamente e duramente ferito da raid aerei delle
truppe governative. Colpito l’al-Sakhour hospital, costretto a sospendere tutte le attività. Nel
solo mese di marzo nell’ospedale sono stati
ammessi 2444 pazienti e sono state eseguite
più di 300 procedure chirurgiche d’urgenza.
Mentre ad al-Sakhour i feriti vengono malamente medicati nei pochi sotterranei e rifugi rimasti, di fronte, nel quartiere di al-Shaar, il
Fronte Islamico cura i suoi combattenti in un
ospedale da campo, ambiguamente sponsorizzato dagli Emirati Arabi.
La nuova famiglia di Ammar
Ammar cammina sui ciottoli lisci e tra i palazzi
smembrati di al-Shaar, zoppicando vistosamente. Kefiah a quadretti bianchi e neri in testa, una sorta di uniforme militare verde scuro, nessuna arma. Ha 21 anni e il Fronte Islamico è la sua nuova famiglia. Lui la chiama così.
È saltato su un ordigno: «Sono stato operato
già una volta - dice -, ho viti e placche di acciaio nella mia gamba sinistra. Ho avuto un’infezione sulla ferita. Non cammino ancora bene.
Ma tornerò presto a combattere. Allah mi ha
dato una seconda possibilità».
Secondo l’ultimo report di Human Rights
Watch, su Aleppo si combatte una guerra aerea indiscriminata e illegale contro i civili.
Nell’ospedale da campo di al-Shaar c’è una
connessione internet via satellite. Ammar segue così i suoi "fratelli". Questo è l'unico modo per avere notizie. Per quasi due anni nelle
zone della Siria contro il regime, tutti i mezzi
di comunicazione, telefoni fissi e rete mobile
sono stati tagliati. «Quando combattevo avevo
un walkie-talkie sempre con me, è così che comunicavo le mie posizioni, i miei spostamenti,
le mie azioni».
Dai rubinetti che rimangono nelle case mar-
Aleppo, l’ostinaz
toriate, l'acqua corrente c’è per un'ora a settimana. È appena sufficiente per riempire i serbatoi stipati sui tetti delle case. Layal ci dice:
«Quando non ci riesco devo comprare l'acqua
da un pozzo. I nuovi pozzi sono stati scavati in
modo casuale, in mezzo a quartieri affollati,
senza gli ingegneri o gli studi».
Ci racconta che nel quartiere di al-Sukkari
hanno energia elettrica per circa quattro ore
al giorno, così tante persone pagano per avere una fonte alternativa di luce. Spesso l'elettricità manca per una settimana intera. I
commercianti locali hanno investito molto
denaro in grossi generatori e distribuiscono
energia elettrica agli altri con un canone
mensile. Mentre parla, Mohamad piangendo le tira l’hijab. «Voglio portare la mia bici
fuori per giocare, ma i miei fratelli non me lo
permettono, perché è passato un aereo di Assad nel cielo». Mohamad ha solo sette anni e
non ricorda la vita prima della guerra.
Layal gli spiega pazientemente che qualcuno potrebbe prenderlo. Ci dice con il terrore
negli occhi: «Potrebbero buttare il suo corpo
ovunque. Non ci sono le autorità a indagare,
non c’è polizia. Ci sono gruppi di ribelli grandi e piccoli che si dividono strade e edifici e
GLI EFFETTI DELLA GUERRA CIVILE
SULLA CITTÀ DI ALEPPO.
IN ALTO A DESTRA
UN BOMBARDAMENTO SAUDITA
SULLA CAPITALE YEMENITA SANA’A
/FOTO REUTERS
SIRIA · Combattono governativi ed Hezbollah, contro al-Nusra e Is sostenuti da Ankara e Riyhad
Due battaglie decisive nella regione di Qalamoun
I
n Siria la guerra regionale tra i
due grandi assi, sunnita e sciita, è ormai diretta. Da una parte Hezbollah e Damasco, impegnati nella strategica battaglia di
Qalamoun; dall’altra Arabia saudita e Turchia che, pur di far saltare
la testa di Assad, si appoggiano a
gruppi jihadisti che ufficialmente
dicono di combattere.
Da una settimana epicentro dello scontro è la regione di Qalamoun, a cavallo tra Siria e Libano:
campi di battaglia sono il villaggio
siriano di Ras al-Maara e la città libanese di Nahleh. Obiettivo
dell’esercito siriano e Hezbollah,
dispiegati nella zona, è assumere
il controllo delle strategiche colline usate dai jihadisti del Fronte
al-Nusra per lanciare offensive
contro la valle del Bekaa, in Libano, target da anni delle opposizioni siriane e, più recentemente, di
al-Nusra e Stato Islamico. Offensive che hanno insanguinato il Libano, trascinando il Paese dei Cedri
- ancora una volta - nel vortice dei
settarismi che hanno accompagnato la sua storia e quella dell’influente vicino siriano.
La controffensiva guidata da Damasco e Hezbollah ha permesso
la riconquista di una serie di villaggi nelle ultime ore, costringendo i
qaedisti a riposizionarsi a Talit
Moussa, la più alta delle colline di
Qalamoun. Presi da Assad la collina di Ras al-Maara (che garantisce
il controllo della frontiera e delle
vie di comunicazione tra l’ovest e
la capitale Damasco) e il valico di
Ma’br al-Kharbah (usato dagli islamisti per far passare armi da un lato all’altro del confine). Sul lato libanese, al-Nusra ha abbandonato
anche le posizioni conquistate intorno alla martoriata città di Arsal.
Allo scontro tra asse sciita e jihadisti si sovrappone la faida interna tra al-Nusra e Isis, passati in
pochi mesi dal patto di non aggressione siglato in chiave anti-Assad allo scontro per il controllo del territorio siriano. Guidati da obiettivi parzialmente diver-
si (nazionale al-Nusra, transnazionale lo Stato Islamico), seppur
nati dalla stessa radice qaedista, i
due gruppi hanno scelto come
campo di battaglia la stessa regione di Qalamoun. Uno scontro
partito sui social network, dove
al-Nusra ha annunciato di voler
sradicare il califfato, accusandolo
di preferire attaccare miliziani
del Fronte piuttosto che stringere
con loro un’efficacia alleanza.
La battaglia tra al-Nusra e Damasco intanto prosegue anche a
nord, nella provincia di Idlib. Preda è l’ospedale della città di Jisr
al-Shughour, occupata dai jihadisti due settimane fa. Da allora hanno preso d’assedio l’ospedale
all’interno del quale si trovano
250 soldati governativi, fedelissi-
mi di Assad e le loro famiglie. La riconquista di Jisr al-Shugour sarebbe una vittoria strategica di enorme portata per il presidente, sia
per la posizione geografica (a poca distanza da Latakia, roccaforte
alawita) che per il suo significato
simbolico.
Ma Assad deve guardarsi da
ben altri nemici: i jihadisti sul terreno non sono attori solitari, ma
parte integrante di un fronte ben
più ampio. Per mesi Arabia saudita e Turchia sono state accusate di
essere responsabili della crescita
repentina di gruppi jihadisti nella
regione. Ora scoprono le carte, altro schiaffo alla strategia ufficiale
degli Stati uniti. Ankara e Riyadh
stanno attivamente sostenendo
una coalizione di islamisti, Jeish
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
il manifesto
REPORTAGE
pagina 9
INTERVISTA · L’analista yemenita Maysaa Shuja al-Deen
«In Yemen non vince nessuno
Né Iran, né Arabia Saudita»
Chiara Cruciati
«C
zione di chi resta
la gente conosce solo quelli che hanno basi
nel loro distretto. Qui vicino ci sono i combattenti del gruppo Fistaqum Kama Omarit.
Gli altri non li conosco».
Il mondo dei ribelli e la vecchia Aleppo sono separate da una linea a zig-zag da sud-est
a nord e il controllo dei territori è rimasto
praticamente invariato per mesi. Le uniche
cose che hanno ancora in comune sono il
caffè e il narghilè.
Il paesaggio è ripetitivo: sagome di edifici
quasi crollati, camere aperte e facciate intatte. Squadre di elettricisti rattoppano linee
elettriche rotte dopo ogni attacco. Ospedali
sotterranei continuano a funzionare, mantengono banche del sangue e continuano
campagne di vaccinazione.
La solita infezione cutanea
Le indicazioni per arrivare nel quartiere di
Bustan al-Qasr suonano addoloranti. «Passa l’edificio completamente distrutto. Poi
gira a destra dopo l’edificio con i graffiti colorati e appena dopo sorpassa la casa da
cui si vede l’interno di una cameretta con
una culla rosa».
L’ospedale del quartiere è ormai un relitto: un groviglio di macerie, cavi e polvere,
con la metà del soffitto mancante e parti
dell'edificio completamente rase al suolo. È
saturo di bambini con la solita infezione cutanea che torna con il caldo, l’«Aleppo bollire» come la chiamano qui.
«Non ci sono più medicine, che prima arrivavano dalla Turchia, e queste piaghe diventano ogni giorno più grandi. Non posso fare
al-Fatah (Esercito della Conquista), di cui fa parte anche al-Nusra.
L’accordo tra il presidente turco
Erdogan e re Salman è stato siglato a marzo a Riyadh, riporta The
Independent, effetto del disappunto turco e saudita per il mancato
intervento militare occidentale
contro Assad. Funzionari turchi interpellati sempre da The Independent non hanno negato: la Turchia starebbe fornendo assistenza
logistica e intelligence, l’Arabia
saudita denaro e armi che transistano dal poroso confine turco-siriano. Una notizia che ha travolto
Washington, a stretto giro dal lancio del programma Usa di addestramento di ribelli siriani in Turchia e Giordania. (chi. cru.)
niente» racconta Amira, giovane dottoressa
con alle spalle anni di studi a Damasco. Non
va via da Aleppo perché non vuole entrare
nella schiera dei sette milioni di sfollati interni in Siria o nella squadra dei quasi quattro
milioni di siriani rifugiati all’estero.
Quelli che restano di solito fanno pochi lavori umili: guidano macchine trasformate in
taxi, gestiscono minuscoli internet caffè, o
Il Fronte al-Nusra controlla
la zona est, l’esercito sta
a ovest. Almeno 19 gruppi
armati si contendono
i quartieri tra le linee
semplicemente vendono merce di contrabbando. Le organizzazioni non governative
portano solo riso e olio. Tutto il resto entra
per vie illegali. Un rivolo di aiuti si fa strada
attraverso i confini labili della città.
Anche nel silenzio della notte, in quartieri
interi consumati dal buio, la guerra va avanti. La gente ha iniziato a odiare tutti gli schieramenti. «Non vogliamo né le forze del regime né i ribelli. Vogliamo solo vivere in pace», ci dice Majd. Prima lavorava per il progetto rifiuti solidi del Programma Onu per
lo sviluppo. «Avevo un po’ di soldi per comprare il pane per me e i miei vicini. Ora non
ho più niente. Aleppo è un'ombra, un guscio. Interi quartieri sono stati svuotati di residenti e case».
hi sta vincendo la guerra in
Yemen? Nessuno. Non segna
punti l’Iran, non ne segna
l’Arabia saudita: il primo viene sconfitto sul piano diplomatico, la seconda su
quello militare». L’analista yemenita
Maysaa Shuja al-Deen, giornalista per
al-Monitor e il think tank Jadaliyya, ne
è convinta: in Yemen perdono tutti.
L’abbiamo raggiunta al telefono e discusso con lei degli attuali sviluppi regionali, alla luce della guerra fredda in
corso tra le due potenze.
In uno dei suoi ultimi articoli lei afferma che in Yemen sia Iran che Arabia
saudita non riescono ad imporsi come vincitori.
Teheran sta archiviando un successo
diplomatico con l’accordo sul nucleare,
ma in Yemen che tipo di risultato ha ottenuto? La risoluzione del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu non ha preso in alcuna considerazione gli sforzi diplomatici
iraniani, ma ha riconosciuto il governo
ufficiale unica rappresentanza legittima e imposto agli Houthi di ritirarsi dalle città occupate. Questo contraddice alla base l’iniziativa diplomatica iraniana, che si fonda sul negoziato tra le parti coinvolte ma non menziona - come
precondizione - il ritiro del movimento
Houthi. Da parte sua l’Arabia saudita
ha lanciato un’operazione militare,
«Tempesta Decisiva»con l’obiettivo di
riportare al potere il governo Hadi e di
porre fine all’espansione Houthi a sud.
Eppure, il governo non è stato rimesso
al suo posto e gli Houthi e le forze militari fedeli all’ex presidente Saleh si stanno espandendo nelle province di Marib, Taiz, Aden e Dali.
Riyadh è preoccupata dalla legittimità
internazionale che l’accordo sul nucleare fornirebbe all’Iran. Questa ha spinto i Saud all’intervento in Yemen?
Gli ultimi sviluppi sul nucleare iraniano preoccupano l’Arabia saudita perché potrebbero mettere fine all’isolamento internazionale dell’Iran e quindi
avallare indirettamente l’espansione
della sua influenza nella regione. Penso
che la guerra saudita in Yemen intenda
mandare un messaggio: Riyadh non ac-
cetterà alcun accordo e dimostrerà la
sua forza nella regione. Lo Yemen è il
cortile di casa saudita: re Salman non
potrebbe mai permettere un ingresso a
gamba tesa dell’Iran nel paese. Per questo ha preferito la soluzione militare a
quella del negoziato.
Quali sono i reali rapporti tra Houthi e
Iran? In passato tali relazioni non
sembravano così strette (provengono
da sette sciite diverse). L’alleanza
che denunciano Usa e sauditi è legata soltanto a interessi temporanei e
immediati o ha radici più profonde?
Esiste un’influenza iraniana sugli
Houthi sin dagli anni Ottanta quando il
fondatore del movimento, Hussein al
Houthi, visitò Teheran e prese in prestito gli slogan della rivoluzione iraniana.
Tuttavia gli Houthi appartengono ad
una diversa setta sciita e sono originariamente un gruppo locale yemenita:
per questo prima non esisteva con
l’Iran un’alleanza permanente e strutturata. Non si può però affermare che siano dei meri pupazzi in mano iraniana:
gli Houthi si sono avvicinati a Teheran
nel momento in cui i loro nemici interni si sono rafforzati, nel momento in
cui hanno capito di aver bisogno di sostegno dall’esterno.
Una delle ragioni dell’attuale crisi
sembra essere la frammentazione interna alla società yemenita, a livello
sociale, etnico, politico. Quali sono i
gruppi che si contendono oggi il controllo del paese?
La mappa delle divisioni politiche dello Yemen è fondata sull’identità, viste
l’assenza di un’ideologia di riferimento
e la debolezza dei partiti politici. Lo Yemen era diviso tra nord e sud fino
all’unificazione, avvenuta nel 1990. Il
nord era governato da Zaydilmamah
dal 1962, per poi divenire una repubblica pesantemente influenzata dall’Arabia saudita. Il sud, occupato dalla Gran
Bretagna, si liberò nel 1967 per divenire
una repubblica marxista. Dopo l’unità
è scoppiata la guerra civile, nel 1994, da
cui il partito comunista del sud ne uscì
sconfitto. Ciò ha portato alla nascita di
un sentimento di marginalizzazione da
parte delle regioni meridionali che hanno cominciato a chiedere, convinte di
essere state escluse dal potere centrale,
la secessione dal nord. Anche la parte
settentrionale del paese, però, vive le
sue divisioni interne: una divisione settaria tra la maggioranza Zaydi, che risiede a Sana’a e nel profondo nord; la componente sunnita, che vive per lo più lungo la costa e nelle città orientali di Ibb e
Taiz; e il gruppo sciita Houthi.
Le interferenze saudite hanno radici
lontante. Quale può essere il destino
del paese se Riyadh dovesse perderne il controllo?
Non è facile predire il futuro dell’influenza saudita in Yemen. Il dopo guerra sarà caotico e l’Iran resterà influente,
almeno in alcune zone del paese. Riyadh, in ogni caso, non perderà mai del
tutto il controllo che esercita sul nostro
paese perché finanzia le tribù e compra
così la loro fedeltà. Allo stesso modo
continuerà a comprarsi la fedeltà di certi partiti politici. Lo Yemen resterà comunque il suo cortile di casa.
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il manifesto
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
CULTURE
SALONE DEL LIBRO
La costellazione tedesca
Raul Calzoni
A
pochi mesi dai festeggiamenti con cui si è ricordato
il venticinquennale della riunificazione, la Germania si presenta come paese ospite al Salone del
libro di Torino – il cui tema, «Le
meraviglie d’Italia», si collega idealmente a quello dell’Expo internazionale di Milano – con circa
venticinque autori e oltre quaranta case editrici, fra cui la Wagenbach, che celebra con una mostra i
suoi cinquant’anni di attività. Sarà
una buona occasione per tentare
un bilancio della letteratura tedesca più giovane, e per presentare
all’Italia gli ultimi lavori dei suoi
consolidati talenti.
Fra questi, Ingo Schulze, che
nelle sue diverse opere (tradotte
da Mondadori prima e da Feltrinelli poi) torna sulle difficoltà di
adattamento dei tedeschi orientali al modello sociale dell’occidente, ricostruendo la parabola esistenziale di individui comuni, le
cui certezze sono crollate con il
Muro di Berlino: sia nelle sue ventinove Semplici storie (2001) che
nei tredici racconti di Bolero berlinese (2007), come pure in Adam e
Evelyn (2009) riemergono le ombre della transizione dalla Germania socialista a quella contemporanea, e il tema chiave dello scrittore insistentemente riverbera le
stranianti ricadute del crollo della
Repubblica democratica tedesca
sui suoi ex cittadini.
GERHARD RICHTER,
«MOTORBOOT», 1965
Esplorazioni fantastiche
Negli ultimi anni, Schulze ha esteso i confini della sua narrativa oltralpe: lo ha fatto in Angeli e arance (2011) e in Siete giunti a destinazione (2013), libri nei quali offre
due pregevoli resoconti di altrettanti viaggi nel sud Italia, condotti
sulle orme di fin troppo autorevoli
predecessori tedeschi, fra i quali
naturalmente Goethe che, ritratto
da Tischbein nella campagna romana, campeggia sul manifesto
del Salone torinese attorniato dalle eccellenze contemporanee del
made in Italy: il cinema, la moda,
la cucina, il car styling, la musica e
naturalmente i libri.
Espressione del dialogo italo-tedesco, l’opera di Schulze è importante anche per la sua apertura
all’ideale goethiano della «letteratura mondiale» e per la predilezione verso il dialogo interculturale e
interdisciplinare, al cui appello rispondono un po’ tutti gli scrittori
di lingua tedesca presenti al Lingotto. Daniel Kehlmann, per esempio, sarà al Salone con il suo nuovo romanzo F., dopo il successo di
La misura del mondo (Feltrinelli,
2006), in cui l’incontro fra il naturalista e viaggiatore Alexander von
Humboldt e il matematico e astronomo Karl Friedrich Gauss diventa espressione del dialogo interdisciplinare fra due culture, apparentemente lontanissime, la scienza della natura e quella della letteratura. L’iniziale, che dà il titolo
all’ultimo romanzo di Kehlmann,
sta per «Fatum», ma indica anche
il malvagio protagonista del libro
che Arthur Friedland, personaggio principale, sta scrivendo ispirandosi alla riflessione filosofica
di Schopenhauer.
Da tutt’altra sponda, Frank
Schätzing sarà al Salone come rappresentante di una vena narrativa
che si esprime in avvincenti thriller fantascientifici, in particolare Il
quinto giorno (Nord, 2005; Teadue, 2007), in cui un esploratore
dei tempi moderni, il biologo marino Sigur Johanson, deve affrontare una terribile pandemia che mette a rischio l’umanità; ma molto
coinvolgente è anche Limit (Nord,
2010), ambientato sia nello spazio
Il Lingotto di Torino ha invitato quest’anno
la Germania come paese ospite, privilegiando
le nuove generazioni della sua letteratura,
senza dimenticare i classici contemporanei
che sulla terra, dove Schätzing affronta in una cornice fantastica i
temi scottanti dello scontro ideologico fra Oriente ed Occidente e
della lotta fra superpotenze per le
risorse ambientali e per le fonti
energetiche. A Torino, Schätzing
presenterà il suo nuovo lavoro, un
thriller geopolitico intitolato Breaking News (Nord), con il quale si
è allontanato dal genere fantascientifico per raccontare attraverso il reporter di guerra Tom Hagen l’attuale situazione del Medio
Oriente e il ruolo svolto da Israele.
Il corpo del destino
Le giornate torinesi saranno una
buona occasione per conoscere il
meno noto, ma anche lui pluripremiato, Lutz Seiler, che ha pubblicato in Italia (per Del Vecchio)
l’antologia di liriche La domenica
pensavo a Dio e un volume di racconti intitolato Il peso del tempo:
al Salone presenterà il suo riuscitissimo romanzo d’esordio, Kruso,
ambientato nell’estate del 1989 e
quindi sul crinale storico fra divisione e riunificazione della Germania, che gli è valso nel 2014 l’ambitissimo «Deutscher Buchpreis», il
premio dell’Associazione librai e
editori tedeschi.
Tra le scrittrici, Katja Petrowskaja – nata a Kiev nel 1970 e
trapiantata a trent’anni a Berlino
– è nota per avere raccontato in
Forse Esther (Adelphi) gli effetti
della Shoah nella sua città natale,
mentre Monika Zeiner sarà presente con L’ordine delle stelle sopra Como (Keller), romanzo in cui
un melancolico triangolo amoroso si consuma fra Berlino e l’Italia
dando luogo a un dialogo interculturale sui temi del destino, della
musica e dell’amore. Da un’altra
prospettiva, si concentreranno su
argomenti analoghi anche le performance poetico-musicali di Dalibor Markovic, artista dello spoken
word e del beatboxing, che propone al pubblico i suoi ritmati esperimenti di Slam poetry.
Del resto, la presenza della Germania al Salone non sarà affidata,
com’è ovvio, ai soli scrittori, e dunque un po’ tutti gli ambiti culturali
esibiranno le loro menti migliori.
La sociologia sarà rappresentata
da Wolfgang Streeck, che introdotto da Luigi Reitani, Angelo Bolaffi
e Jas Gawronski discuterà il suo ultimo lavoro, Tempo guadagnato.
La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli); mentre la filosofia farà scendere in campo Peter Sloterdijk, che con Federico
Vercellone presenterà la traduzione italiana della sua opera maggiore, la trilogia di Sfere (Cortina) e da
Markus Gabriel, giovane protagonista tedesco del dibattito sul
«nuovo realismo», che ripercorrerà con Maurizio Ferraris i cardini
del suo ultimo lavoro, Perché non
esiste il mondo (Bompiani). Il Salone darà anche l’occasione di incontrare uno dei maggiori egittologi viventi, il fondatore della teoria
della «memoria cultuale», Jan Assmann, che terrà una lectio magistralis titolata «Miti d’Egitto e nascita degli dèi».
Dalla sfera del giornalismo arriveranno Günter Wallraff, che nel
suo Germania anni dieci (L’orma
editore) indaga i quotidiani inferni del precariato nel mondo del lavoro contemporaneo, e l’autore
italo-tedesco Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die
Zeit di Amburgo e coeditore del
quotidiano berlinese Der Tagesspiegel, che stasera terrà il discorso di apertura del Salone. La
Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung invierà al Lingotto Volker
Weidermann, che dialogherà con
Luigi Forte sul suo bestseller,
L’estate dell’amicizia (Neri Pozza),
in cui si racconta dell’incontro a
Ostenda nell’estate del 1936 fra
Stefan Zweig e Joseph Roth con
Hermann Kesten, Egon Erwin Kisch, Ernst Toller, Arthur Koestler e
Irmgard Keun, tutti esiliati dal nazismo nella piccola città belga affacciata sul Mare del Nord.
Tra gli esponenti del giornalismo e della narrativa nati negli
anni settanta – una generazione
ampiamente rappresentata nel
palinsesto di «LetteraTorri meravigliose», dove saranno ospitati
autori italo-tedeschi – ci sarà Daniel Wagner, di cui Fazi ha tradotto Il corpo della vita, romanzo
che ha come protagonista un
omonimo dell’autore e dove si
racconta il suo percorso di inseguimento del significato della vita nel tempo che precede e che segue il trapianto di fegato cui deve
sottoporsi. Della stessa generazione di Wagner, Sebastian Fitzek,
definito lo «Stephen King tedesco», porta al Salone torinese il genere del thriller psicologico: il
suo bestseller, già tradotto in ventinove lingue, Noah (Einaudi) è la
storia di un senzatetto che si ritrova nella Berlino contemporanea
senza memoria e che cerca, lungo le pagine del romanzo, di ricostruire il proprio passato, innestando tuttavia una serie di eventi catastrofici. Ancora a Berlino è
ambientata la vicenda delle due
quattordicenni, Nini e Jameelah,
protagoniste di Latte di tigre
(Bompiani), scritta da Stefanie de
Velasco, nata nel 1978, che nella
sua opera affronta tra droga, sesso e alcool la difficile e disincantata vita dei giovani nella periferia
della metropoli tedesca.
Tra gli esponenti della generazione anni Settanta, Jennifer Teege – di madre tedesca e di padre
nigeriano – dopo avere scoperto
di essere nipote del boia del campo di concentramento di Schindler’s List, cerca di giungere a patti con un tanto ingombrante passato nelle pagine del suo romanzo titolato Amon. Mio nonno mi
avrebbe ucciso (Piemme), dedicato all’aguzzino Amon Göth.
Autrice fra due culture, quindi
testimone del dialogo interculturale che «LetteraTorri» intende
promuovere, è anche la più giovane scrittrice presente alla manifestazione, Olga Grjasnowa, nata nel 1983 in Azerbaigian e traferitasi in Germania nel 1996, dopo lunghi soggiorni in Polonia,
Russia e Israele: in Tutti i russi
amano le betulle (Keller) racconta la storia di Maša, un’esule
ebrea azera del nuovo millennio,
che nella sua vita incrocia la questione della multiculturalità della Germania contemporanea ai
temi della grande storia dei pogrom di Sumgait contro gli armeni e della Shoah.
Infanzie evaporate
Di matrice autobiografica, ma del
tutto radicata in Germania, è anche La scomparsa di Philip S.
(e/o) di Ulrike Edschmid, artista e
scrittrice nata nel 1940 a Berlino,
che con questo suo romanzo ci
trasporta negli anni di piombo tedeschi, ricostruendo la vita del
protagonista, morto durante un
conflitto a fuoco con la polizia in
un parcheggio di Colonia nel
maggio del 1975. Di derivazione
autobiografica è pure Quando tutto tornerà a essere come non è
mai stato (Marsilio) di Joachim
Meyerhoff, in cui lo scrittore racconta la storia dell’infanzia del
piccolo Josse, che si svolge fra la
casa dei genitori e il manicomio
dove lavora suo padre, una storia
rievocata grazie alla poetica del ricordo, che si consuma nella struggente aspirazione a un mondo
che non tornerà mai più.
Dedicata all’infanzia è anche la
presenza al Salone di Nadia Budde, illustratrice berlinese nata nel
1967 che con il suo libro d’esordio, Uno due tre quatto quatto (Salani 2004), ha conquistato il «Premio tedesco per la letteratura per
ragazzi». Dello stesso anno, è Isabel Kreitz, autrice di graphic novels, anche lei pluripremiata per
avere illustrato libri che hanno tematizzato la cultura giovanile, come Berlino. Itinerari d’autore di
Cécile Calla (Edt, 2012), ed eventi
storici e politici della Germania,
come La scoperta della Carrywurst (Black Velvet, 2007), novella di Uwe Timm, autore purtroppo assente al Salone nonostante
la recentissima uscita (da Mondadori) della Volatilità dell’amore.
Moltissime, dunque, le chances
che il Salone offre – in collaborazione con il Goethe Institut, che
nel 2015 festeggia il sessantesimo
anniversario della fondazione della sede torinese – di conoscere
nuovi autori; e altrettante le opportunità di tornare a ascoltare riferimenti ai classici contemporanei.
Se l’intento del padiglione tedesco è far conoscere attraverso i
suoi libri un «paese poco noto» –
come dice la lectio magistralis che
Claudio Magris terrà giovedì – è
scontato il richiamo agli scrittori
che hanno fatto grande la letteratura tedesca del secondo Novecento: Günter Grass, da poco scomparso, e naturalmente Uwe Johnson, morto già nel 1984, ma del
quale è appena apparsa la traduzione dell’opera prima, La maturità del 1953 (Keller), un classico fin
dal suo Congetture su Jakob, gratificato fra l’altro di quella etichetta
che lo volle primo, vero «scrittore
delle due Germanie», una etichetta che si sarebbe volentieri scollato di dosso.
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
oltre
tutto
il manifesto
CULTURE
BIENNALE ARTE, GLI ITALIANI E IL GUATEMALA
«Sweet Death», questo è il titolo, si profila come una
rassegna all’insegna dell’eccesso ospitata dal padiglione del
Guatemala alla Biennale Arte di Venezia. Tra le collaborazioni
italiane del padiglione del Guatemala si segnalano due
opere, una di Garullo&Ottocento e l’altra di Paolo Residori.
La prima rappresenta la scultura di Silvio Berlusconi disteso
in una urna-bara di vetro, come un santo, a significare la fine
della Seconda Repubblica attraverso l’immagine di uno dei
leader più rilevanti che a mò di Biancaneve potrebbe destarsi
«RAISE UP» DI HANK WILLIS
Marco Assennato
T
ra le pubblicazioni e i convegni organizzati in occasione
del trentesimo anniversario
della morte di Michel Foucault,
una particolare attenzione merita
il prezioso libro, edito in Italia da
Cronopio, con il titolo Foucault e le
genealogie del dir-vero (pp. 170, euro 18). Curato con perizia dal collettivo di ricerca Materiali Foucaultiani, il volume raccoglie gli atti di
una giornata di studi tenutasi
all’Ehss di Parigi, nel 2013, al fine
di sollecitare «una prima discussione critica del progetto foucaultiano di una genealogia del soggetto
moderno e delle pratiche di veridizione ad esso strettamente connesse, nelle società occidentali». Oltre
ad un’elegante introduzione firmata da Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini e Martina
Tazzioli, il volume si avvale di una
serie di saggi che disegnano differenti scandagli del tema: sulla densità storica dei dispositivi di soggettivazione insistono Irrera, Lorenzini, e Frédéric Gros; sull’antinomia
tra confessione e parresia, Laura
Cremonesi; su governo, giurisdizione e veridizione, Gianvito Brindisi
e Bernard E. Harcourt; sul rapporto tra volontà di sapere e asse etico-sessuale della ricerca foucaultiana, Michel Senellart; e sull’uso possibile della genealogia del «dir-vero» per decriptare i rapporti di forza che determinano il regime di governo dei rifugiati e dei migranti,
Martina Tazzioli.
Una ricerca preziosa, s’è detto:
preziosa e urgente, anche rispetto
alla discussione critica e militante.
Infatti l’insistenza con la quale Foucault sottolinea il nesso essenziale
tra i diversi modi di manifestazione della verità, il governo degli indi-
Tra contropotere
e potere. Un volume
collettivo su alcuni temi
sviluppati
dal filosofo francese
vidui e la costruzione della soggettività, precipita le nozioni-chiave
del suo lavoro dal piano strettamente filosofico a quello immediatamente politico - allargandone
tuttavia in modo considerevole temi e problemi. Il testo ruota attorno alla domanda che Foucault si
pone dal 1980: «Perché, in che forma in una società come la nostra
esiste un legame così profondo
tra l’esercizio del potere e l’obbligo per gli individui di diventare essi stessi attori essenziali nelle procedure di manifestazione
della verità?».
Una questione di genealogie
Questione tanto più dirimente se
ripensata nell’alveo del dibattito
sulla biopolitica. Com’è noto già
nel suo celeberrimo corso del
1978-1979, dedicato all’analisi dei
regimi neoliberali, Foucault non si
limitava semplicemente a fissare
l’economia come «ultima istanza»
della politica - in ciò collocando le
sue analisi del potere in una prospettiva produttiva compatibile
con le analisi del Capitale di Marx
(come da ultimo ha visto bene Pierre Macherey) - ma spingeva quella
«ultima istanza» oltre la pura determinazione strutturale del politico,
verso qualcosa che da allora in poi
resterà decisivo: il mercato, la teoria economica neoliberale, si impongono come rivelatori della verità a cui il politico deve attenersi. «Il
mercato - scriveva Foucault - deve
dire il vero e deve farlo in relazione
alla pratica del governo». Il neoliberalismo, insomma, si è costituito
innanzitutto come vettore di veridizione, spazio decisivo nella produzione di uno specifico rapporto tra
manifestazione della verità e governo degli altri.
La ricerca che il volume di Cronopio si propone di avviare assume allora il carattere dell’urgenza,
proprio perché registra e insiste
sull’altro versante del problema
pagina 11
dal sonno profondo; la seconda opera, «Parsmoke», è una
grande bottiglia di profumo a forma di clessidra ripiena di
mozziconi di sigaretta e di vaselina durex, vero e proprio
memento mori o vanitas, atto a significare la caducità e la
precarietà del vizio (fumo) e del piacere (sesso).
MEMORIA · L’episolario di Fausto Gullo
La Storia nelle lettere
di un dirigente del Pci
vela una potente carica ideale.
Gullo era un punto di riferimento per tanti. A partire dal traumatico triennio che porterà il fascismo al potere e fino al secondo
dopoguerra, i mittenti delle lettere gli descrivono situazioni politiche e condizioni sociali dei rispettivi territori, ragionando
con lui sulle sorti del Paese.
La sua personalità traspare
proprio dal grande rispetto che
manifesta nei confronti degli interlocutori. È una corrispondenza serrata, a tratti carica di pathos, mai inficiata da personalismi e cadute di stile. Grazie ad
un gioco di specchi, l’intensità
che pervade le parole dei corrispondenti riflette l’immensa capacità politica del ricevente, la
sua straordinaria umanità. E
quando è proprio egli stesso a
scrivere, non si esprime mai
con tono populistico. Così nel
suo epistolario capita di ritrovare, gomito a gomito, Togliatti e
la maestrina che chiede lumi
sul materialismo storico, il militante della remota sezione di un
paesino sperduto e il collega ministro che gli chiede ragguagli.
Lo stesso figlio di Fausto, quel
Luigi Gullo che diverrà autorevole e stimato penalista, all’amore
verso il padre alterna lucide disamine dei diversi contesti storici
e politici. Ne scaturisce l’immagine di un Paese spaccato dallo
scontro di classe e da enormi differenze sociali e culturali, ma
proteso verso una coraggiosa ricostruzione civile prima ancora
che statuale. Il libro di Oscar
Greco rappresenta un’utile e
piacevole lettura per gli appassionati di storia. Ma è soprattutto un lavoro prezioso per quanti
vorrebbero rinverdire il sistema
valoriale della sinistra.
Claudio Dionesalvi
L
SAGGI · «Foucault e le genealogie del dir-vero», un libro per Cronopio
Pratiche di resistenza
nei labirinti della verità
del dir-vero, quello delle pratiche
di soggettivazione che si danno nel
confronto con le verità storiche.
Gli autori del volume, in altri termini, da una parte invitano a ricostruire una cartografia politica della verità; e d’altro canto ribadiscono e
dimostrano quanto, nei cantieri
foucaultiani, le dinamiche di assoggettamento siano sempre indissociabili da pratiche di resistenza, innovazione, reversibilità. Le genealogie del dir-vero servono per avviare una riscrittura critica della storia
del lògos moderno, delle sue pratiche di verità e delle varie tecnologie in cui esse trovano consistenza:
dunque, non per ribadire i limiti intransitabili del linguaggio della ragione, ma, al contrario, per sbarazzarsi definitivamente dall’«illusione del codice» o della razionalizzazione totale delle pratiche di soggettivazione. Il dir-vero diviene così il campo di un conflitto etico-politico decisivo, nel quale si contrappongono, come sottolinea
nel volume Frédéric Gros «un materialismo etico della veridizione» e «un idealismo epistemologico della verità».
Le strutture della «riflessività»
L’ontologia storico-critica del tardo Foucault serve quindi a regionalizzare il regime del discorso vero ivi compreso quello del mercato,
del calcolo, della misura - per leggervi diverse procedure specifiche
di razionalità, come tali contestabili e reversibili. Si tratta di una forma epistemologico-politica di critica dell’assoggettamento prodotto
dai dispositivi universalistici, dalle
teorie del limite, e da ogni tecnica
dedita all’oggettivazione del soggetto nella forma della conoscenza
- come spiega bene Orazio Irrera
nel suo contributo. Articolare il politico all’epistemologico, del resto,
non significa altro che mettere al lavoro le «strutture storiche di riflessività» (Gros) all’interno delle quali
ci costituiamo in quanto soggetti:
per riconoscerne le condizioni politiche di produzione, individuarne
le contraddizioni, e rovesciare i
rapporti di forza dai quali risulta
un determinato partage tra ciò che
vien dato per vero e ciò che s’ammette come falso. Ciò fuga ogni
dubbio - come dimostra Daniele
Lorenzini - sulla «portata direttamente politica della genealogia del
soggetto moderno di Foucault»: politica perché aperta, storica, relazionale, contingente, modificabile,
collettiva. E politica perché esposta a pratiche d’innovazione e rivoluzione in ogni punto di fissità del
sistema della conoscenza.
La verità è una forza politica,
quindi, in un doppio senso: perché
diretta contro gli uomini al fine di
assoggettarli, almeno nel suo stringente rinvio alle pratiche di governo. Ma la verità è anche una forza
di soggettivazione, un’eccedenza,
un sovrappiù che si squaderna nei
rapporti di forza da cui è prodotto
il sé, ma che al contempo contribuisce a scardinarli e modificarli - come nel caso della parresia o del gesto dei cinici. Questa ambivalenza
del dir-vero vale in ogni disciplina
scientifica (giurisprudenza, economia, psicologia, medicina e così
via seguitando) laddove ciò che costringe e lega i soggetti a un determinato ordine del discorso rinvia
in fondo alla forza che attribuiamo
a un determinato sistema di veridizione. Una forza sostanzialmente
derivata dal rapporto tra l’oggettivazione dei soggetti nella forma
dell’evidenza scientifica e la questione del governo degli uomini. Il
cantiere di ricerca che gli autori individuano in Foucault, allora riapre l’orizzonte della critica politica
sul piano delle forme di razionalità, invita a proseguire il lavoro operando per distinzioni non più dialettizzabili: laddove alla presunta verità del mercato e della concorrenza non possono che corrispondere stili di vita che di quella verità producono una critica
feroce e selvaggia.
a storia del Novecento
atraverso le lettere scritte
e ricevute da Fausto Gullo, uno degli uomini politici che
hanno ricostruito l’Italia dopo
gli orrori del fascismo. Calabrese, giurista, comunista, Gullo arrivò al Ministero dell’agricoltura
nei governi Badoglio e De Gasperi; dal 1946 fu ministro della
Giustizia, continuando a guardare in basso, scrivendo il testo di
quella riforma agraria che prevedeva la concessione delle terre
incolte ai contadini. Una riforma che, se fosse stata applicata,
avrebbe cambiato la storia del
Mezzogiorno.
Con la prefazione di Piero Bevilacqua, per i tipi di Guida Editori, il giovane storico Oscar Greco pubblica Caro compagno,
l’epistolario di Fausto Gullo,
una vivace e gustosa raccolta di
lettere custodite con cura.
Ricercatore presso l’università della Calabria, Greco non è
nuovo a simili imprese. È molto
conosciuto e stimato soprattutto negli ambienti libertari per le
sue interessanti pubblicazioni
sulla storia degli anarchici italiani emigrati in America.
Il volume dedicato a Gullo,
mantenendosi ancorato al rigore scientifico che da sempre ispira il gruppo di lavoro da cui Greco proviene, nel fluire delle pagine assume il ritmo del romanzo
storico. Resterà spiazzato chi si
aspetta la consueta monotonia
degli epistolari. A parlare sono
le voci degli interlocutori dell’illustre destinatario: personaggi
politici, donne ed uomini del popolo, parenti, compagni di lotta.
Ogni singola missiva, persino la
più apparentemente frivola, ri-
SAGGI/2 · «Vie di fuga» di Paolo Cacciari per Marotta & Cafiero Edizioni
L’uscita di sicurezza della decrescita
Mauro Trotta
«P
er non rimanere travolti sotto le rovine del progetto occidentale di dominazione del mondo attraverso
il progresso, lo sviluppo e la crescita, sarebbe prudente preparare delle vie di fuga». Ed è proprio
quanto intende fare Paolo Cacciari con il suo ultimo libro non caso intitolato proprio Vie di fuga
(Marotta&Cafiero, pp. 219, euro
10). Innanzi tutto, però, occorre
analizzare e rendere il più chiara
possibile la situazione attuale,
le condizioni che la hanno determinatata e le prospettive catastrofiche che si prospettano
se non si riesce a cambiare il
più presto possibile e radicalmente la direzione.
Il testo, così, si apre con due capitoli dedicati appunto alla disamina approfondita della forma
assunta nella contemporaneità
dal capitalismo e dall’ideologia
neoliberista egemone nel mondo
e alla crisi che, a partire dal 2008,
si è abbattuta sul sistema economico globalizzato, colpendo in
particolare, nell’ambito dei paesi
più sviluppati, l’Europa. In maniera chiara e comprensibile si
analizzano le diseguaglianze che
ormai sono diventate strutturali
all’interno dell’Occidente, il peso
e l’importanza che l’ideologia del
debito ha assunto non soltanto a
livello economico ma come strumento di controllo sociale e poli-
tico, l’insostenibilità ambientale
dell’attuale modello di sviluppo,
la crisi della democrazia legata
all’imporsi del modello neoliberista. Si indagano le ragioni dell’attuale crisi che, in pratica, viene
letta come crisi non congiunturale ma strutturale.
Questo non vuol dire, come
mette lucidamente in chiaro Paolo Cacciari, né che l’agonia del sistema debba durare poco. Ma
anche no, né che si aprano automaticamente prospettive migliori in termini di uguaglianza e libertà. E infatti, in maniera molto
significativa, l’ultima parte dedicata al discorso per così dire analitico è intitolata Altri tunnel in
fondo al tunnel.
Dopo aver messo in luce una
serie di esperienze, diverse tra lo-
ro, a volte limitate, ma comunque volte a contrastare praticamente il sistema dominante e a
costruire forme di vita e di socialità alternative, Cacciari passa ad
esaminare quelli che sono i punti
focali del suo discorso, gli elementi a partire dai quali costruire vie di fuga. Si susseguono, così, i capitoli dedicati rispettivamente a Beni comuni, Lavoro, Democrazia, Decrescita.
L’approccio è sempre analogo.
Si tratta innanzi tutto di indagare
a fondo il concetto cercando di
far emergere quello che effettivamente i beni comuni piuttosto
che il lavoro o la democrazia significhino oggi, mettendo in evidenza anche le diverse concezioni che le attraversano e puntando ad arrivare a quello che potremmo definire un campo semantico e di attività pratica – e
politica –possibile e condivisa.
Il discorso, infatti, si snoda esaminando le posizioni più diverse
– seppur, naturalmente, all’interno di una parte politica ben definita, quella dei movimenti o, comunque, della sinistra – ma prefigurando, comunque, possibilità
di azione comune. Un discorso a
parte merita l’ultimo capitolo,
quello dedicato alla decrescita.
La teoria di Latouche, infatti, non
soltanto per la posizione che riveste all’interno del testo sembra
stagliarsi come l’elemento che
può, secondo l’autore, contribuire in maniera decisiva a tenere in-
sieme tutti gli altri elementi, una
sorta di ombrello in grado di tessere relazioni solide tra i vari elementi individuati. Infatti, proprio
nell’ultima pagina emerge in modo esplicito come la decrescita
possa funzionare da elemento
unificatore rispetto agli altri: «La
decrescita è il passaggio da un
modello di uso predatorio e dissipativo delle risorse naturali e
umane a uno più equlibrato e socialmente equo. La decrescita associata alla gestione condivisa
dei beni comuni è portatrice di
un progetto di autonomia, di autogoverno e di autentica democrazia. Decresita e beni comuni
(....) come processo concretamente attivabile a livello individuale
utilizzando al meglio la potentissima creatività umana: il lavoro
concreto, vivo, completo, motore
interno della trasformazione».
Libro davvero interessante,
scritto in maniera chiara, utilissimo soprattutto per come riesce
ad attraversare praticamente tutte le teorie nate negli ultimi anni,
e non solo, dalle lotte dei vari movimenti a livello mondiale, Vie di
fuga sembra rivestire particolare
importanza proprio nella situazione attuale perché pare prefigurare a livello testuale quel processo di ricomposizione pur all’interno delle varie diversità, attuato
da esperienze come Syriza in Grecia, e che sarebbe auspicabile si
mettesse finalmente in moto anche in Italia e nel resto d’Europa.
pagina 12
il manifesto
VISIONI
Cannes
68
Cristina Piccino
CANNES
C
annes 2015 ha il sorriso enigmatico
di Ingrid Bergman, troppo presto
invece per sapere se almeno la selezione ufficiale si ispira alla «lezione» rosselliniana di cui l’attrice è stata corpo e interprete nelle sue declinazioni migliori.
Oppure a quella della nouvelle vague impertinente di Agnés Varda a cui verrà consegnata la Palma d’oro d’onore. Per questo «Viaggio nel Cinema» dunque, come
sempre le attese sono molte su una Croisette assolata, con i lavori ancora in corso,
il Palais sguarnito, il profumo dell’estate
arrivata troppo presto. E se anche come rituale vuole nel salutarsi in coda aspettando l’accredito si dice: «Mamma mia sono
già stanco! » oppure: «Oddio come si farà
a vedere tutto!» nessuno rinuncerebbe
all’appuntamento per niente al mondo.
Cannes è sempre Cannes che si voglia o
meno, e il Festival guidato dall’imperturbabile (anche alle critiche) Thierry Frémeaux lo sa. Per quindici giorni ti risucchia
in una bolla, e come gli scolaretti diligenti, armati delle nostre tesserine che separano gli uni dagli altri categoricamente, si
va avanti e dietro sul lungomare, quest’anno accessoriati anche di cartellina azzurra, la borsa gadget molto hypster e molto
carina. Per una scrollata di realtà basta salire sul treno, alla prima stazione francese
i poliziotti buttano giù tre ragazzi africani,
altri due più svegli salgono alla stazione
successiva. Sono passati attraverso i monti raccontano. Benvenuti in Francia.
Le critiche si diceva. Che ovviamente
non mancano anzi Frémeaux è stato severamente criticato per non avere preso in
concorso il nuovo film di Arnaud Desplechin, Trois souvenirs de ma jeunesse - nel
bel cartellone della Quinzaine di Edouard
Waintrop - con cinque film targati Francia a sbandierare l’orgoglio nazionale di
una cinematografia che i dati dello scorso
anno, a differenza dei nostri, dicono in ottima salute.
Il rifiuto in gara di Desplechin è diventato un caso nazionale. Il film ritrova Mathieu Amalric, l’attore alter ego del regista, e Emmanuelle Devos, il suo doppio
femminile, letteratura e riferimenti musi-
–
I
l sito ufficiale della Provenza, testualmente e onestamente scrive «Cannes non eccelle per originalità, quanto per opulenza e vistosità». Dunque, agli amanti del cinema, spente le luci in sala o durante una giornata in cui il programma
del Festival nulla offre loro, non resta che deambulare lungo la Croisette? Si rassicurino, le alternative
esistono. Anche per pranzare o cenare a prezzi moderati. Fate due
passi, discosti dalle strade più fitte
di turisti, e fermatevi ogni volta che
apparirà uno dei tanti muri dipinti
seguendo, è ovvio, il tema del cinema. Incontrerete Buster, Marylin, il
«marsigliese» Delon... Le buone forchette avranno due obbiettivi: la
rue Meynadier, ricca di effetti speciali per palato e olfatto grazie alle
botteghe di formaggi, dolci, specialità provenzali, vini; il mercato Forville, che manda in scena le star del-
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
Thierry Frémeaux ha messo a punto un cartellone fitto di titoli
per la kermesse che apre con «La tete haute» di Emmanuelle Bercot
ULTIMI RITOCCHI PRIMA DEL VIA DI CANNES 68/FOTO REUTERS, SOPRA «THE YOUTH» DI SORRENTINO, «YAKUZA» DI MIIKE E «MAD MAX» DI MILLER
Sulla Croisette
viaggio nel cinema
Tanti film in corsa per la Palma. E non mancano le polemiche
per l’opera di Desplechin non in gara ma «solo» alla Quinzaine
cali per raccontare un amore perduto...
Il quotidiano Le Monde nel tradizionale inserto dedicato al Festival ha puntato
su Natalie Portman in copertina, l’eroina
di Guerre stellari esordisce come regista
(fuori concorso) portando sullo schermo
l’Amoz Oz di Una storia d’amore e di tenebra (di cui è anche protagonista) progetto
ambizioso per un film che i bene informati danno come piuttosto nullo.
Ancora a proposito della selezione ufficiale qualche giorno fa il quotidiano
Libération scriveva: «Frémeaux ha giocato la carta
dei nomi sicuri con qualche novità».
Ma l’alternanza tra registi «noti» e abituali della
selezione cannois, e new
entry è da sempre una caratteristica del Festival.
D’altra parte la scorsa edizione con una serie di
grandi autori - Dardenne,
Mike Leigh, Godard, Assayas, Cronenberg - ha prodotto molte (belle) sorprese, a prova che non sempre il «nuovo» corrisponde di per sé a ricerca e
qualità.
L’unica opera prima in
gara quest’anno è Saul Fia (Il figlio di
Saul) di Laszlo Nemes, una storia ambientata nei campo di concentramento dove il
protagonista, ebreo, cerca disperatamente di seppellire il corpo di un ragazzo, forse suo figlio. Nemes viene dalla «scuola»
di Bela Tarr, di cui è stato assistente, sembra che il film sia un capolavoro. Lo scopriremo molto presto visto che è programmato nei primissimi giorni festivalieri.
Meno «nuovo» è invece Yorgos Lanthimos, nome di punta del cinema greco
contemporaneo (quello della crisi e
post-Angheloupoulos per intenderci). Certo Lobster è la sua prima corsa alla Palma
d’oro ma Kynodontas (2009) ha vinto il
Certain Regard - giuria presieduta da Paolo Sorrentino - e l’inquietante Alps è stato
in concorso alla Mostra di Venezia.
La novità per Lanthimos sono la scelta
di un cast internazionale e di girare in inglese Rachel Weisz, Colin Farrell - passaggio comune al Matteo Garrone del Racconto dei Racconti - in gara il 14 in
comtemporanea all’uscita nelle nostre sale - e di altri registi sulla Croisette come Joachim Trier, naturalmente Paolo Sorrentino in The Youth.
Prima volta anche per Valérie Donzelli
in corsa alla Palma con Marguerite&Julien, Frémeaux si era fatto sfuggire il meraviglioso La guerre est declareè, che aveva
fatto impazzire la Croisette e l’indice di
gradimento della Semaine de la Critique
che lo aveva presentato come evento speciale.
Rovesciamenti. È il caso del nuovo film
di Apichatpong Weerasethakul, Palma
d’oro con Lo zio Boomer che è stato «aggiunto» all’ultimo momento nella selezione del Certain Regard (il film si chiama Cemetery of Splendour), sezione sulla carta
dedicata alle scoperte - del tipo piccoli re-
gisti crescono per la Palma d’oro - e che
da qualche tempo sembra invece diventata la riserva per correggere il tiro sulle «clamorose» assenze dal concorso. Qualche
anno fa avevamo visto al Certain Regard il
magnifico Lo strano caso di Angelica di De
Oliveira, tra i suoi film recenti più belli, o
il Godard di Film socialisme... Quest’anno
al Certain Regard c’è anche Naomi Kawase (Sweet Red Bean Paste) regista molto
amata da Cannes il cui film era tra quelli
dati in gara prima della conferenza stampa ufficiale.
L’impressione è comunque che Frémaux abbia composto il programma in
equilibrio ancora più complicato, e non
solo per il numero di film - 19 in concorso
e 19 al Certain Regard più eventi speciali,
fuori concorso - ma anche per la griglia
molto affollata dei primi giorni.
E oltre il Palais?
La Quinzaine inaugura con l’imperdibile nuovo film di Philippe Garrel, L’ombre
des femmes, e la masterclass di Jia
Zhang-ke, di cui rivedremo Platform, brilla sinergia tra l’autore sessantottino di Le
La prima volta
di Donzelli in concorso,
il tris di autori italiani
mentre la Semaine
inaugura con Wajeman
lit de la vierge, e il regista cinese lanciato
dalla Francia ai tempi del suo primo film,
Pickpocket, incursione critica nella Nuova
Cina capitalista colta nel suo momento di
feroce trasformazione.
Alla Semaine partenza invece con Les
anarchistes, opera seconda di Elia
Wajeman.
Oggi dopo il film di apertura (francese)
di Emmanuelle Bercot La tete haute, sarà
anche il giorno della proiezione per la
stampa internazionale di Il Racconto dei
racconti. Intervistati dal quotidiano Le
Monde i fratelli Coen noti per la loro laconicità hanno detto: «Essere in gara aiuta
la discussione su un film anche se non
sempre si premia il migliore».
Lo sapremo tra dodici giorni.
–
SanaMente
Buone forchette ed effetti speciali
Luciano Del Sette
le erbe aromatiche, l’olio, la frutta, i
banchi di pesce. Lì troverete la menta, il basilico, il peperoncino così cari allo scrittore Jean Claude Izzo, e
lì assaggerete i biscottini all’anice,
meno fighetti delle madleinettes
proustiane.
Carnot è una larga via distesa per
quasi tre chilometri, disegnata da
palazzi e ville liberty, art deco, nouveau. Non limitatevi a uno sguardo
d’insieme, e invece soffermatevi
sulle decorazioni dipinte o scolpite,
infilatevi con garbata noncuranza
nell’atrio di un portone. Un bel cast
di celebrità passate a miglior vita
conta il cimitero del Grand Jas,
1866, analogo, per «ospiti», al romano e acattolico cimitero di Testac-
cio. Accoglie, infatti, le cappelle delle facoltose dinastie locali e gli stranieri che, arrivati a Cannes, non
l’hanno più lasciata. Riposano nel
Grand Jas, fra i tanti, l’attrice Martine Carole, l’attore e cantante Georges Guétary, gli scrittori Klaus
Mann e Prosper Mérimée, il drammaturgo Eugène Brieux, la ballerina Olga Khokhlova, il poeta irlandese William Bonaparte Wyse.
Storia, leggende e natura vanno
in scena sulle isole di Lerins. Attrezzatevi per un pranzo al sacco, poiché, stando a nostri ricordi abbastanza freschi, i ristoranti di Sainte
Marguerite e Saint Honorat non
brillano per cibo e conto finale. Sainte Marguerite deve la sua fama al
mito della Maschera di Ferro; alle
rovine celtiche, romane e medioevali; alla rocca fortificata che ospita
il Museo del Mare, ai profumi intensi della sua vegetazione. Personalmente amiamo di più Saint Honorat, sede di un’abbazia del Quinto
Secolo retta dai Cistercensi, che dalla coltivazione delle vigne traggono
un nettare di tutto rispetto. I monaci propongono visite guidate del
complesso religioso per apprezzarne fino in fondo le vicende e l’arte.
Il carnet del buon mangiare e bere
conferma alcuni indirizzi dello scorso anno, segnalati sempre in occasione del Festival, e ne aggiunge di
nuovi. Nel primo caso, rinnovata fiducia va a Le jardin secret, 2 rue
des Frères, 04/93387263, scenografie orientali, verde, tavoli ben distribuiti e illuminati da candele, accolgono per un vino, un tè, un cocktail, piccoli piatti ben cucinati e originali, 12/18 euro; a La Meissounière, 15 rue du 24 aout,
04/93383776, cucina francese e
buone proposte in wok dalla cucina asiatica, si pranza con meno di
venti euro; a L’assiette provençale,
9 quai Saint Pierre, 04/93385214,
Vieux Port, due menu degustazione di carne o di pesce a 24 e 29 euro, cucina squisita, servizio attento,
posto piacevole, prenotare; a Le
Fish and Chips Cannes, 2 place du
marché Forville, 04/93995594, per
dieci euro, consumazione sul posto
o take away, pesce croccante e chips fritte sul momento, più una buona birra.
Novità sono l’Absinthe Bar di Antibes (una decina di chilometri da
Cannes), 25 cours Masséna, cantina accanto al mercato coperto, dove regna l’assenzio in mille varianti, accompagnato da musica live;
bouillabaisse magistrale a Le caveau 30, 45 rue Felix Faure. tel.
04/93390633, 30/35 euro badando
ai vini, ambiente Belle Epoque; Le
restaurant Arménien, 82 boulevard
de la Croisette, tel. 04/93940058, come da nome ha menu armeno esuberante di portate fredde e calde,
sui 35 euro. «Non chiedere ciò che
puoi fare per il tuo paese. Chiedi cosa c’è a pranzo», affermava, cinico,
Orson Welles. Rendetegli omaggio
a Cannes anche da parte nostra.
[email protected]
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
VISIONI
GIUSEPPE BERTOLUCCI
A quasi tre anni di distanza dalla morte, il regista viene ricordato attraverso
la prima edizione del festival: «Giuseppe Bertolucci, il suo cinema, il suo
teatro, la sua televisione (18-24 maggio)», organizzata dall'Assessorato
alla Cultura e alle Politiche Giovanili della Regione Lazio insieme all'ATCL,
in collaborazione con Teatro di Roma e Casa del Cinema. Inaugurazione al
teatro Argentina lunedì prossimo con Giovanna Marini in un concerto e con
Roberto Benigni che introdurrà la proiezione del film «Berlinguer ti voglio
bene». «Giuseppe Bertolucci era incapace di coltivare un solo orticello spiega l'assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili Lidia Ravera - e ciò
CANNES 68 · Si rafforza la presenza transalpina con ben 13 lavori
L’invasione francese
tra reale e immaginario
Eugenio Renzi
CANNES
U
n po’ di cifre. Quest’anno,
al festival di Cannes, 19
lungometraggi concorrono per la palma d’oro, 19 per il
premio Un certain regard, 16 nella Quinzaine des réalisateurs, 7 alla Semaine de la critique. Il totale
fa 54. Di questi, 13, vale a dire più
di un quinto, sono francesi. E sarà un film francese ad aprire tutte
le principali sezioni (con l’eccezione di Un Certain regard). Contando i film fuori concorso e i corti il
rapporto sale a un quarto del totale. È molto? È troppo ? Prima di
averli visti, è meglio tacere. Però
si può dire che la presenza massiccia di titoli francesi è una tendenza che si è andata rafforzando
in questi ultimi anni sulla Croisette. Mentre ogni altra industria
francese arranca nella crisi, la produzione cinematografica gode di
ottima salute – spinta dal sistema
di redistribuzione delle ricette (bestia nera dei liberisti della UE)
che tassando le piattaforme di distribuzione audiovideo (cinema,
televisione, internet) riversa sul cinema circa due miliardi di euro
l’anno. Ma l’effervescenza dell’industria non implica ipso facto
che il festival di Cannes sia obbligato a selezionarne così tanti, né
a metterli così in avanti.
Quali sono questi film? Commentando a caldo l’annuncio della selezione ufficiale, avevamo già
speso qualche parola sui quattro
autori che concorrono per la palma d’oro: Audiard, Donzelli,
Maïwen, Brizé. A questi, nel frattempo, si è aggiunto Guillayme
Nicloux. Nicloux è conosciuto sia
come romanziere che come regista (nel 2012, lo si ricorderà, aveva presentato a Berlino un nuovo
adattamento de La Religieuse di
il manifesto
una svolta pascaliana, dalla razionalità all’intuizione, allora si tratta
di una buona notizia. Vedremo.
Seulement, si fa per dire, due
film francesi in competizione alla
Semaine de la critique, che di solito ha una politica abbastanza attenta alla produzione nazionale.
Il nuovo corso è incarnato candidamente dal manifesto dove una
giovane donna si slancia in un abbraccio aperto al mondo intero. I
due titoli sono: Jeunesse des
loups-garous di Yann Delattre e
La Fin du dragon di Marina Diaby. L’accostamento produce un
chiasmo che si ritrova anche negli intrecci, il primo confronta il
sentimento amoroso alla crudeltà dell’esistenza, l’altro mescola
l’ordinario all’insolito con un tocco burlesco. Ma se due vi sembran pochi, ecco che un altro film
francese (fuori concorso) è stato
scelto per aprire le danze. Si tratta di Les Anarchistes d’Eli
Wajeman e se ne dice un gran bene. Tra le «séances spéciales» tro-
G. DEPARDIEU E I. HUPPERT IN «VALLEY OF LOVE» DI NICLOUX, SOTTO «TROIS...» DI DESPLECHIN
Diderot, dopo quello di Rivette
che nel 1966 fece gran scandalo.
Non sappiamo come sarà Valley
of Love, ma a Nicloux va un premio per aver riportato alla Croisette una delle coppie più belle del
cinema francese, del cinema di
sempre: Gérard Dépardieu et Isabelle Huppert (in Loulou di Pia-
lat, Cannes nel 1980).
Ci eravamo sorpresi dell’assenza del film di Arnauld Desplechin
in competizione che finalmente
ha trovato posto presso la concorrenza, alla Quinzaine des réalisateurs. Annunciando il colpaccio, il
direttore, Eduard Waintrop, lo ha
definito «il più emozionante dei
film di Desplechin». Ora, i film di
Desplechin sono sempre molto
cervellotici, raramente emozionanti. Per darne un’idea, si potrebbe pensare al primo Moretti. Alcune ossessioni sono simili: quella
della psicologia per esempio. Altre
no. Trois souvenirs de ma jeunesse
è la storia di uno smemorato, Paul
Dedalus, che come il Michele Apicella di Palombella Rossa è un personaggio ricorrente, uno strano alter ego del regista che Desplechin
aveva introdotto nel 1994 con uno
dei suoi film più noti: Comment je
me suis disputé, ma vie sexuelle. In
genere, l’aggettivo « emozionante» sa di slogan pubblicitario e, per
lo più, promette male. Ma, se vuol
dire che a Desplechin è riuscita
che lo distingueva da altri era la volontà di maneggiare tutti i mezzi che
aveva a disposizione. Nonostante il suo status di 'marginalità
consapevole', poiché non amava l'essere mainstream, Bertolucci era
deciso a superare le barriere: grazie a questa caratteristica il festival potrà
essere cross-mediale». Info e programma completo: www.atcllazio.it
INCONTRI · La regista Valentina Pedicini
Nelle miniere sarde
un universo parallelo
Giovanna Branca
ROMA
A
Un’industria ricca
quella del cinema
grazie anche ai
proventi della
tassazione
sull’audiovideo
viamo un lungometraggio di
Louis Garrel che, ripropone in formato lungo il fortunato trio del
corto La règle des trois (accanto a
L.G., Vincent Macaigne et Golshifteh Farahani).
Al computo dei film francesi,
abbiamo omesso una sezione
che non poteva entrare nel calcolo perché la selezione è costituita
per forza di cose quasi interamente da film francesi (o coprodotti con la Francia) : stiamo parlando dell’ACID (Associazione
del Cinema Indipendente per la
sua Diffusione). Il programma è
deciso da cineasti i cui film sono
stati mostrati nelle passate edizioni e i quali sponsorizzano a loro volta dei films, per lo più prime opere senza distributore.
Questo rende l’ACID una selezione estremamente fragile, piuttosto ineguale ma anche molto interessante da seguire. Alcune
proiezioni ACID segnano i momenti migliori di Cannes. Uno di
questi potrebbe essere il film di
Benoit Forgeard. Forgeard è attore, autore, regista. Fa parte di un
gruppo di autori che ruota attorno all’indipendente Ecce Films
di Emmanuel Chaumet. Nei suoi
cortometraggi ha fatto vedere un
cinema poetico e politico al tempo stesso, quasi sempre sopra le
righe. Su carta, Gaz de France
sembra portare la ricetta a maturazione, con un film che prende
in prestito l’ironia dei fratelli
Marx per dire: se la fantascienza
vi sembra raccontare l’attualità
vi sbagliate, in realtà è già storia.
Vedremo.
cinquecento metri sotto il livello del mare esiste un mondo che viene dal passato e
non ha un futuro: quello della miniera e dei suoi lavoratori. Valentina Pedicini, nel suo Dal Profondo,
scende in questo universo parallelo per riportare alla superficie la voce di chi lo abita ogni giorno, come
i padri ed i nonni prima di loro: i
minatori. E tra loro un’unica donna, Patrizia, anche lei orgogliosa «figlia e nipote» della miniera, guida
e anfitrione della regista pugliese
nelle sue profondità .
Sotto Iglesias, in Sardegna, c’è infatti l’ultima miniera di carbone italiana, che nei mesi in cui Pedicini
era lì lottava per restare aperta,
mentre oggi, come racconta lei
stessa «è in perdita, ha chiuso, ma
restano delle persone per la manutenzione e per la messa in sicurezza». Il De Profundis che ci consegna Valentina è quindi quello di
questo paese sotterraneo, grande
quanto la città che lo sovrasta.Tutto era cominciato con una ricerca
sulle miniere sarde abbandonate
che, spiega la regista, «Mi hanno
fatto sempre pensare ad un set cinematografico pazzesco inutilizzato. Poi ho scoperto che c’era ancora una miniera attiva, l’ultima italiana, dove lavorava una delle pochissime minatrici in Europa. La
conoscenza di Patrizia mi ha convinta a continuare». Da quel momento in poi, Pedicini ha passato
circa tre anni a lavorare a Dal profondo, di cui uno intero insieme ai
minatori, spesso sottoterra con loro.» Il girato che ha portato alla superficie il materiale che è entrato
nel film viene da 28 giorni passati
in miniera. Guidati dai minatori,
scopriamo non solo il loro mondo
parallelo, ma dobbiamo riconsiderare tutto quello che credevamo su
di esso. «Sono arrivata - racconta
la regista - con il pregiudizio da
continentale, ma anche da documentarista: dopo 3 giorni in miniera mi chiedevo com’è possibile nel
INTERVISTA · Daniele Pellizzari della Banda Elastica parla del nuovo album «Embè?»
«Indipendenti per far musica in modo diretto»
Fabio Francione
E
mbè?, terzo cd della Banda Elastica Pellizza, «è un ritorno all’indipendenza, al
far musica in modo semplice e diretto». Comincia così, senza rete, il racconto di
Daniele Pellizzari, voce chitarra e autore dei
testi e delle musiche del gruppo piemontese:
nudo e spogliato delle «esperienze poco felici» avute nel 2012 con la pubblicazione di Io
sono, soprattutto «per via di una gestazione
dell’album molto complessa, anche nel rapporto con la produzione». Distribuito come i
precedenti dalla Incipit Records/Egea Music,
Embè? ha perso dei primi lavori le collaborazioni illustri che, ora, osservate dalla prospettiva dell’ascolto delle nuove canzoni, risultano ancor più superflue. «Non ci sono più,
questo è un cd autoprodotto a differenza de-
gli altri. L’abbiamo pagato noi, insieme a un
amico imprenditore fiorentino impiegato nel
sociale. Io stesso ho lavorato per molto tempo come educatore in una comunità. Circa
una decina d’anni. Ora sono fuori da quel
mercato, non ho un lavoro fisso e per vivere
faccio un po’ di tutto, dal vendere libri sulle
bancarelle all’imbianchino».
Stilettate di vita quelle che Pellizzari, lancia in resta, cerca di trasmettere: «abbiamo
registrato nello studio del nostro batterista
senza l’assillo del tempo e influenze esterne;
eravamo tutti rilassati e concentrati sui brani». Un lavoro: «artisticamente libero». E lo si
avverte anche nel tentativo di recuperare influenze già presenti nell’ep d’esordio, Goganga, un titolo più che di indirizzo, quasi un manifesto di ciò che sarà Embè?. «Mi fa piacere
il riferimento a una certa canzone d’autore.
Sono cresciuto ascoltando Gaber, Jannacci,
la comicità di Cochi e Renato». Anche la comicità stralunata di Mario Marenco (una delle voci storiche di Alto gradimento con Arbore e Boncompagni in radio, ndr) lo ha influenzato. Uno dei brani più dissacranti e ironici,
Le forze disarmanti, lo cita esplicitamente.
Pellizzari ha 48 anni, figlio dell’emigrazione degli anni ’50 che s’insediava nella provincia di Torino: «ho saltato tutta la scena underground e new wave torinese degli anni 80 e
90. Mi piaceva il blues, preferivo ascoltare i
Led Zeppelin e Bob Dylan». Nei suoi testi tanti riferimenti al quotidiano ereditati dai genitori di origini pugliesi. Ma ci sono anche riferimenti altri come il cinema o la fantascienza: «da adolescente insieme ai poeti e scrittori della beat generation. A vent’anni fui fulminato da Kerouac e da Burroughs. Ora leggo
pagina 13
con fatica». Echi di queste letture s’avvertono
nei testi, peraltro modernissimi nella svolgersi narrativo, restando ancorati alla rima: «mi
rifaccio a Fabrizio De André; amo le forme
originarie anche nella musica. Scrivo canzoni da trent’anni ormai e ho maturato con il
tempo un mio stile. L’ho raggiunto con fatica, sono stato sempre severo con me stesso.
Ho sempre tenuto a che le mie canzoni fossero piene di dignità».
2015 voler continuare a fare un lavoro che, se non porta alla morte
per incidente, ne porta una per malattia, ed è incredibilmente usurante. Ed è la forza del documentario:
i rapporti che ho instaurato con i
minatori mi hanno aiutata a vedere oltre». Questo luogo fatto di cunicoli, tubi e macchinari, di gallerie che, «nell’apparente uniformità
di un nero infinito sono molto diverse tra loro», ricorda la visione futurista del cinema di fantascienza
anni’80: buio, umido, labirintico
come in Alien e Blade Runner.
«Quando sono arrivata giu spiega Pedicini - il primo riferimento che ho avuto è stato 20.000 leghe sotto i mari. Poi ho cominciato
a scoprire i macchinari abbandonati dopo l’uso, che risalgono a 50/60
anni fa e rimandano a tutt’altro immaginario. Esteticamente abbiamo lavorato molto perché sembrasse un film di fantascienza». Da
narratrice, cerca il più possibile di
fare in modo che le voci del film
contribuiscano a scrivere questa
storia che «non è sui minatori, ma
fatta con loro. Rispecchia la loro
«Girando ’Dal profondo’
i lavoratori mi hanno
aiutato a superare tutti
i miei pregiudizi»
percezione di quel mondo sotterraneo, di persone che non hanno prospettive lavorative all’esterno, ma
ancor più hanno una dignità un orgoglio e un attaccamento al lavoro
che io non ho mai trovato in nessun altro». Sono loro stessi a mostrarci «l’ agonia, gli ultimi sussulti
di vita di un mondo che sta per crollare». Il De profundis - continua la
regista - è «anche la preghiera dei
morti, che si invocano in chiesa per
aiutarli a salire verso il paradiso. E
per me i minatori gridavano il loro
desiderio di essere riconosciuti, che
si sapesse della loro esistenza».
Dal profondo è tra i cinque finalisti del Mese del documentario, e
verrà proiettato oggi alla Casa del cinema di Roma. Al momento però
Valentina Pedicini sta lavorando a
qualcosa di molto diverso «Tutti si
aspettavano un documentario, ed
io faccio un corto di finzione. Ma
c’è una ragione personale: la storia
è vagamente autobiografica, e da
documentarista mi sembrava più
forte, per parlare di me, utilizzare il
linguaggio della finzione e mettere
un filtro. È una storia piccolissima,
sull’ultima giornata di vacanza di
cinque bambini. Ma in realtà si tratta della fine dell’infanzia, prima di
entrare nel mondo degli adulti e
scoprire che non è così bello e accogliente come l’avevamo immaginato». Interamente girato in esterni,
nella natia Puglia, è un bel salto dalla claustrofobia di Dal Profondo.
«Però - chiosa Pedicini - resto documentarista nell’animo, perché credo che il documentario abbia delle
possibilità espressive nuove e maggiori rispetto ai film di finzione, ma
anche perché è un lavoro fatto con
il corpo e quindi da regista ti mette
sempre in gioco».
–
il manifesto
RI-MEDIAMO
–

I media incarcerati
Vincenzo Vita
I
l testo sulla diffamazione è in terza lettura alla Camera dei deputati. Si è detto da più parti che l’attuale articolato
ha bisogno di una revisione – dal meccanismo della rettifica, all’entità delle sanzioni pecuniarie, all’annoso tema delle querele temerarie, alla specificità solo parzialmente riconosciuta dei blog - ma è ormai
almeno condivisa l’abolizione del carcere. In un quadro certamente più disteso rispetto all’omologo dibattito della passata
legislatura.
Allora, in controluce, si stagliava il caso
di Alessandro Sallusti, che si voleva salvare da un’ingiusta detenzione. Le liti che
accompagnarono il dibattito segnalavano
l’arretratezza di molte componenti del ceto politico nell’affrontare il problema. Tuttavia, il caso provocò un positivo clima di
opinione e non mancarono manifestazioni pubbliche. A coronare la mobilitazione
arrivò la grazia concessa dall’allora Presidente Napolitano.
Se il carcere è stato definitivamente
abolito da ogni previsione normativa in
fieri, paradossalmente sta passando sotto
silenzio l’imminente misura cautelare a
carico di Antonio Cipriani. Si tratta di un
valente professionista, assente dai talk
show e quindi estraneo alla cerimonia mediatica. Ma non certo meno meritevole di
una battente iniziativa democratica. L’appello – che sicuramente sarà fatto proprio
dagli organismi di categoria e non solo- interpella le coscienze e, ovviamente, andrà
indirizzato al nuovo Presidente Mattarella. Nessuna pressione indebita, ma una
valutazione sul carattere ineguale del diritto.
Attenzione. L’Italia è in caduta libera
(65° posto secondo Freedom House) nelle
classifiche sulla libertà di informazione
anche perché tuttora esiste nell’ordinamento italiano la previsione del carcere.
Antonio Cipriani, direttore di Globalist.it,
ha lavorato a l’Unità per diversi anni ed è
stato il responsabile del quotidiano E Polis, dove ha collezionato querele in quantità, fino alla condanna «alle sbarre» comminata dal tribunale di Oristano. Trentaquattro processi a carico del direttore,
visto che la società editrice fallì tra debiti
e accuse di bancarotta. Insomma, non deve finire così, se esiste una giustizia giusta.
Il caso di Antonio Cipriani è solo la punta dell’iceberg. La Federazione della stampa ha pochi giorni fa raccolto dall’oblio il
caso de l’Unità (a sua volta né unico né
isolato: pure il manifesto ha ferite al riguardo, come svariate altre testate). Dopo
la messa in liquidazione della Nuova Iniziativa Editoriale nel giugno del 2014, sono 26 tra ex direttori (Concita De Gregorio ha subito pignoramenti) e giornalisti a
dover pagare il conto delle decine di querele. Si tratta di richieste di risarcimenti
per oltre 500mila euro. E mezza dozzina
sono già provvedimenti esecutivi.
Il Partito democratico che – si è appreso dall’efficace puntata di Report della
scorsa domenica - aveva un ruolo determinante in base ad un patto parasociale
ha l’obbligo morale di intervenire. In vari
modi, tra cui un emendamento immediato, volto a inserire i costi delle querele nelle procedure fallimentari. Lo stesso ministro Orlando è sembrato interessato ed
aperto. Come è urgente costituire – a cura
degli editori e della Presidenza del consiglio - uno specifico Fondo di solidarietà.
Insomma, l’informazione è proprio a rischio (per non dire dell’assurda esiguità
del Fondo ordinario per l’editoria) e i buchi aperti dalle vicende istituzionali diventano crepe se l’articolo 21 della Costituzione viene così abrogato.
–
Oggi a Udine si svolge l’ultima udienza del processo che vede imputato
Filippo Giunta, lo storico organizzatore del Rototom Sunsplash, per agevolazione del consumo di sostanze durante l’edizione del Festival del
2009, l’ultima ad essere organizzata
a Osoppo nel parco del Rivellino.
Un processo iniziato sull’onda repressiva della Fini-Giovanardi e di una
furiosa caccia alle streghe.
A seguito dell’assedio lanciato dalle
forze dell’ordine durante quell’edizione, furono effettuati 103 arresti fra i
150.000 frequentatori del festival ai
sensi della nuova normativa antidroga. Per lo più consumatori di cannabis, vero obbiettivo della legge. Un
assurdo accanimento nei confronti
del Festival che coinvolse anche
Ispettorato del lavoro, Vigili del Fuoco, Noe, Nas, Finanza, Vigili urbani
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
COMMUNITY
EMILIA ROMAGNA
Mercoledì 13 maggio
LA FOLLE GUERRA Nella mostra «Che
divisa porti, fratello? Nessuna. Il fronte interno», ampio spazio ad Augusto Masetti e alla
follia della guerra. Ribellione e pazzia, pacifismo e devianza si intrecciano anche nella
vicenda di Federico Siena, il partigiano sordomuto internato in manicomio dopo la Liberazione. La mostra è aperta tutte le mattine,
domenica esclusa, fino al 30 maggio. I curatori sono disponibili anche fuori orario. Info:
348 9870912.
 Biblioteca Comunale di San Giovanni in Persiceto (Bo)
LAZIO
Mercoledì 13 maggio
STRADAROLO CROWDFUNDING Torna
Stradaolo e sarà Stradarolo Big. Una dedica
speciale a Francesco Di Giacomo nella sua
città e nel festival che lui ha sempre amato
e aiutato a crescere. Per far decollare la
nostra mongolfiera di sogni abbiamo bisogno
del tuo sostegno ed è per questo che abbiamo deciso di accedere alla piattaforma di
crowdfundind Musicraiser. «Il nostro festival
immaginifico, spiegano gli organzizatori, un
esperimento concreto di arte su strada e di
racconto del territorio, la periferia della metropoli, il suo andare e tornare, l'odissea
pendolare, ospiterà tanti artisti, dalla musica, al teatro, alla letteratura, al giornalismo,
al circo. Come sempre il Festival è totalmente gratuito ma i contributi istituzionali sono
insufficienti. Per rilanciarlo è necessario il
tuo, il nostro contributo. Non c'è molto tempo e più ’big’ sarà il tuo sostegno, più grande la ricompensa, come l'ospitalità in B&b e
la cena con gli artisti al dopofestival nel
mitico Cantinone».
 Info e condivisioni: facebook/twitter. Ecco il link http://www.musicraiser.com/it/projects/4111-stradarolo-big-festival
Giovedì 14 maggio, ore 18
CATASTROFE PALESTINESE In occasione della Nakba, catastrofe palestinese, proiezione del film Nakba di Monica Maurere.
Interventi fra gli altri di: Jacopo Venier, Maurizio Musolino, Tana De Zulueta e Bassma
Saleh.
 Sala Zavattini, Fondazione Aamod,
via Ostiense, 106, Roma
LOMBARDIA
Mercoledì 13 maggio, ore 21
RESTIAMO UMANI Nell’ambito della rassegna dedicata alla Palestina, proiezione
stasera del film «Restiamo umani - The Reading movie» di Luca Incorvaia e Fulvio Renzi.
 Cinema Nuovo Eden, via Nino Bixio,
9, Brescia
PIEMONTE
Venerdì 15 maggio, ore 18
L’AQUILONE In In occasione della giornata
contro l’omolesbotransfobia: presentazione
del libro: «Sventola l’aquilone» di Donata
Testa. Intervengono l’autrice e Erberto Rebora del Maurice glbtq.
Biblioteca, via Ex deportati ed internati, 22 Luserna San Giovanni (To)
TOSCANA
Mercoledì 13 maggio, ore 21
ESSERE DIVERSI «Felice chi è diverso.
una storia di libertà» di Gianni Amelio, viene
proiettata oggi nell’ambito della rassegna
Rights Now - Cinema per i diritti. Novantatre
minuti di storia della società italiana in 20
interviste ad altrettanti omosessuali.
 Cinema Eden, via Guadagnoli, 2,
Arezzo
Tutti gli appuntamenti:
[email protected]
le lettere
pagina 14
INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU:
www.ilmanifesto.info
[email protected]
Sul bambino «balilla»
Ha avuto un certo rilievo
mediatico il fatto del bambino
di quattro anni che in un asilo
di Cantù faceva il saluto
romano, gesto «rivendicato»
dai genitori del piccolo in
quanto «conforme alle loro
idee» (!). La vicenda è senza
dubbio da stigmatizzare, ma
minacciare di cacciare il
bambino se il fatto continuerà
a ripetersi è la cosa, a mio
giudizio, più sbagliata che si
possa fare: è proprio il
compito della scuola, e degli
educatori, far capire alle
giovani menti in formazione il
significato di certi gesti, cosa
sta dietro a certe ideologie e
quali disastri esse hanno
provocato. Non è
rimandandolo in seno ad una
famiglia che continuerà a
educarlo in maniera orrenda
che si può risolvere questo
tipo di problema. Bisogna
sempre tenere a mente quello
che «impose» Primo Levi a
noi «che a sera torniamo
nelle nostre tiepide case»
ricordare, sempre, a noi
stessi e agli altri «che questo
è stato» prima che sia troppo
tardi ed essere costretti a
domandarci, di nuovo, «se
questo è un uomo».
Mauro Chiostri
Indignazione relativa
E’ terribile la notizia della
tassista violentatata e
derubata da un nostro
connazionale. Proprio negli
stessi giorni Salvini incontrava
Casa Pound nella Roma che
ha «ospitato» questa tragedia.
Non ho sentito proclami né
urla del leader leghista contro

lo stupratore-rapinatore;
posso ben immaginare cosa
sarebbe successo se il
criminale fosse stato di altre
nazionalità, come già capitato
in passato: giorni e giorni di
polverone mediatico, attacchi
xenofobi e razzisti con il
plauso della grande massa
italiota, strumentalizzazione di
queste tragedie a fini
esclusivamente di
propaganda politica. Così non
è stato, per fortuna;
d’altronde Salvini insieme a
certi suoi impresentabili
colleghi di partito, vedi
Bitonci, sono troppo
impegnati a dar la caccia ai
disperati che perdono di vista
i criminali di casa nostra. Ma,
si sa, l’incoerenza regna
sovrana: prima di giudicare il
reato stesso evidentemente
alcuni hanno bisogno di
conoscere la nazionalità di
chi quel reato lo compie.
Una sorta di «indignazione
relativa», difficile da capire
per chi non conosce la realtà
di questa «piccola» Italia.
Resta l’amaro in bocca e la
sensazione che anche le
vittime siano un po’ meno
vittime se il criminale è del
nostro piuttosto che di «altri»
paesi.
Rudi Menin Venezia
CasaPound ha il nuovo duce
Nell’incontro elettorale tenuto
da Salvini, ieri 10 maggio, in
un hotel a Lecce, l’uditorio,
misto
camerati-casapoundiani, in
visibilio ha intonato
ripetutamente, come da
registrazione diffusa su Fb,
duce, duce, duce. Questa
sera in TV sull’apporto
fascista che rimpopola il suo
seguito Salvini ha driblato sul
tema, ritenendo ormai sepolti
fascismo e comunismo ed
anzi dal suo pallottoliere
risulterebbe più alto il numero
delle vittime... del secondo
sistema. Ma chi lo ha
osannato a Lecce al grido di:
duce, duce, duce, o col
saluto romano, come avviene
altroce, è, secondo Matteo,
da considerare solo un
arretrato di 70anni.
Altri slogan intanto
s’elevavano alti, fuori
dall’albergo, ad opera del
folto presidio antifascista con
giovani, docenti, associazioni
e rappresentanti dell’Anpi,
Arci, Altra Sinistra e D.A.: no
al fascismo, no al razzismo,
no alla secessione
double-face di una lega
para-nazionalista.
Giacomo Grippa Lecce
Pubblicità sessista
Lo fanno apposta. Sanno
perfettamente che la
pubblicità è sessista, sanno
che la gente protesterà.
Sanno perfettamente che in
tal modo a pubblicità si
aggiungerà altra pubblicità.
Sbagliano volendo sbagliare,
giacché l'errore in tal caso dà
frutti. Mi riferisco alla nuova
pubblicità con la quale la
casa editrice De Agostini
pubblicizza il suo nuovo sito
Deabyday, che promette
"tante soluzioni e consigli
per la vita di tutti i giorni" e
mostra un sacco da boxe
vestito di un perizoma di
pizzo nero e lo slogan: «Da
come tenersi in forma a
come tenersi marito». Ed
infatti, secondo le previsioni
della casa editrice, la
pubblicità che si aggiunge
alla pubblicità è arrivata. Su
Change.org, è stata subito
avviata una petizione per
chiedere la rimozione della
pubblicità e le scuse per
tutte le donne. A scrivere la
petizione è Anna Maria
Arlotta, che nel 2011 ha già
creato una pagina
Facebook, «La pubblicità
sessista offende tutti»,
contro le rappresentazioni
della donna oggetto in tv e
nella pubblicità. Io
chiederei, invece, alla De
Agostini di far seguire
un’altra pubblicità sessista:
un sacco da boxe vestito di
uno slip da uomo e lo
slogan: «Consigli da come
tenersi in forma a come
tenersi la moglie».
Francesca Ribeiro
FUORILUOGO
Rototom, Bob Marley è innocente!
Leo Fiorentini
di vari comuni, tutti impegnati a trovare fantasiose irregolarità nell’organizzazione del Rototom.
Oggi Giunta, assistito dagli avvocati
Alessandro Gamberini e Simona Filippi, sarà in tribunale per rendere la
sua testimonianza e forse per ascoltare la sentenza. Siamo convinti che
si arriverà ad una piena assoluzione
ma un grave delitto è stato far perdere ad Osoppo un grandissimo evento
musicale e culturale.
Il Friuli, terra di Pier Paolo Pasolini,
Loris Fortuna e Beppino Englaro, è
stato purtroppo il teatro di una ope-
razione repressiva e di censura di
un’intera comunità, colpevole di amare il reggae e quindi la cannabis, per
una supposta proprietà transitiva fantasiosamente applicata al diritto penale.
Osoppo rimpiange il suo Festival,
che aveva garantito più di 500.000
euro di investimenti regionali sul Parco del Rivellino, e che secondo stime
de il Sole 24 ore faceva girare fra i 5
e i 7 milioni di euro. Un rimpianto
per gli amministratori di Osoppo, che
insieme all’intera comunità locale e
ad un vasto movimento di artisti, in-
tellettuali e attivisti si sono schierati
nel tempo al fianco degli organizzatori sotto lo slogan «Non processate
Bob Marley».
Del resto in Spagna a Benicassim,
dove è emigrato nel 2010, il festival
è cresciuto continuamente confermandosi come il Festival Reggae più
importante d’Europa incrementando
le presenze sino alle 240 mila dello
scorso anno. L’Università di Castellon ha stimato una ricaduta economica sul territorio di circa 24 milioni di
euro. Anche per questo difficilmente
Rototom tornerà in Italia. Insomma
Osoppo, il Friuli e l’Italia hanno perso, a causa dell’ottusa foga proibizionista, non solo un grande evento musicale e culturale, ma anche una
grande risorsa per l’economia locale.
Con la sentenza di oggi ci auguriamo
si compia un ulteriore passo verso la
sconfessione delle politiche proibizioniste italiane, almeno nelle aule dei
tribunali.
Mentre il mondo guarda avanti, oltre
la «war on drugs», le sue vittime ed i
suoi palesi insuccessi, in Italia il dibattito sulla riforma della politica
sulle droghe fatica ad arrivare sui
Il nostro «mondo di mezzo»
«Il degrado, in Campania, ha
assunto i caratteri di
degenerazione sistemica,
per responsabilità di uomini
e gruppi politici che hanno
sostituito se stessi e le
proprie clientele a tutti i
meccanismi democratici,
dalla funzionalità della
pubblica amministrazione al
rispetto delle regole
principali della convivenza
civile. Questa è la ragione
per la quale così estese
sono le disfunzioni della
pubblica amministrazione e
la crisi dei servizi pubblici,
così bassa la qualità della
vita dei cittadini, così
elevata la rapina dei beni
pubblici, dal suolo
all’ambiente». Così scriveva
la Commissione
parlamentare antimafia
nella Relazione sulla
camorra redatta nel 1993.
La Commissione denunciava
l’assenza di politiche sociali
dirette all’istruzione, al
lavoro, alla casa, al
sostegno per i più deboli. La
Relazione termina con
queste parole:
«Un’economia pubblica
senza spirito pubblico e
un’assistenza senza
efficienza hanno schiacciato
la società civile
trasformando i diritti in
favori. La ripresa civile deve
rovesciare questi rapporti e
deve abbandonare la strada
della straordinarietà.
Occorrono una straordinaria
ordinarietà, la ricostituzione
del moderno Stato di diritto,
l’etica della responsabilità».
Ecco, appunto,
responsabilità. Quanto
quella Commissione affermò
per la Campania potrebbe
oggi dirsi per gran parte del
Paese e della sua classe
dirigente. A cominciare da chi
ci amministra dovremmo
presentare il conto a chi ha
avvelenato il mare e la
morale, a chi ha rubato il
futuro ai nostri figli. Anche la
«terra dei fuochi» è un parto
del «mondo di mezzo».
Gaspare Bisceglia
–
tavoli della politica nonostante la
Fini-Giovanardi sia ormai stata cancellata dalla Corte Costituzionale.
Se in Parlamento qualcosa si muove,
con la costituzione di un intergruppo
per la legalizzazione della cannabis
recentemente promosso da Benedetto Della Vedova, il Governo pare voler far finta di niente.
Il Cartello di Genova sta mettendo a
punto un calendario di iniziative con
al centro la pubblicazione di un nuovo Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga. La Società della Ragione intende aprire il confronto su una
nuova legge sulle droghe, proprio da
Udine.
Un appuntamento fondamentale, per
costruire una posizione italiana seria
e riformatrice in vista di Ungass
2016, la sessione Onu sulle droghe
prevista per il prossimo anno.
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
il manifesto
COMMUNITY
Economia circolare,
esperienze per uscire dal tunnel
C
hi pensa di poter rilanciare l’economia continuando con le stesse modalità di prima si sbaglia di grosso.
Non si esce dalla crisi aspettando che accada qualcosa, come
se dovesse «passà a’ nuttata»,
per dirla con Edoardo. Bisogna
individuare nuove strade facendo leva sulle risorse profonde
del nostro Paese: un patrimonio enorme fatto di ambiente,
qualità, creatività, bellezza e, soprattutto di ingegno. A tal proposito vorrei citare l’esempio
di Camerata Picena dove vecchie lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie dismesse invece di andare in discarica vengono recuperati e rimessi in commercio
con tanto di garanzia per gli acquirenti, e dove ha appena
aperto il primo outlet per elet-
degli inceneritori.
Da un nuovo approccio al
problema non arriva solo una
risposta di carattere ambientale ma anche di carattere economico, un contributo alla ripartenza dell’economia. Nel settore del riutilizzo si genererebbero fino a 10.500 nuovi occupati.
Lo sviluppo del riciclo determinerebbe una crescita di 12.000
occupati rispetto alla situazione attuale. Il valore della produzione nell’industria di preparazione passerebbe da 1,6 miliardi attuali a 2,9 miliardi. E anche
la manifattura riceverebbe una
potente spinta dalla sistematica disponibilità di materia prima seconda.
All’economia circolare si affiancano le tante esperienze di
sharing economy che stanno diventando parte delle nostre abi-
Per rilanciare
l’economia ci vuole
innovazione. E va
abbandonato il ciclo
lineare di produzione
trodomestici usati. Nei suoi capannoni si smontano, aggiustano e rimontano motori di lavatrici, serpentine di frigoriferi e
cestelli di lavastoviglie in grado
di funzionare ancora per anni.
E’ un’attività simile a quella delle molte imprese che recuperano materia prima "seconda"
dai Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).
Le apparecchiature elettroniche celano al loro interno miniere preziose di materie prime
estratte da prodotti e non dal
sottosuolo. In questo modo materiali e componenti destinati
una volta alla discarica, tornano nel ciclo della produzione.
Il progetto viene portato
avanti da un’azienda dell’anconetano (la Agp) ed è sostenuto
da Legambiente. «Second Life», il nome già dice tutto, nasce per promuovere il riutilizzo dei prodotti usati prolungandone il loro ciclo di vita e
sostenere la cultura del riuso.
Una iniziativa importante e
concreta che guarda con occhio attento alle esperienze di
economia circolare in Italia.
Quello che una volta veniva fatto dai "rigattieri" oggi assume
una configurazione industriale che prende a modello l’economia della condivisione e del
riuso. Possiamo dire, come affermano i suoi stessi dirigenti,
che è un’impresa «figlia della
crisi», un’azienda che nasce
dalle difficoltà di questi anni
durissimi decidendo di percorrere la strada dell’innovazione
e della qualità, riuscendo a superare gli ostacoli scommettendo sul futuro.
Riuso degli
elettrodomestici,
riciclo dei rifiuti,
mobilità sostenibile
e sharing economy
Ermete Realacci
Dalla linearità (produzione –
uso – scarto) si passa alla circolarità (produzione – riciclo – riuso). Quello che fino ad oggi sembrava valere per gli elementi di
base - carta, vetro, metallo etc. adesso si estende sia alle materie prime "seconde" e alla componentistica. Si esplora una nuova frontiera dell’economia che
sarà sempre più importante per
dare qualità alla società, competitività alle imprese e lavoro.
Quando si parla di rifiuti il
pensiero corre ai cumuli di
spazzatura che si accatastano
nelle strade delle grandi città,
ai disastri della Terra dei fuochi
o alle mille disfunzioni del ciclo
di smaltimento. Eppure l’Italia
è terra di contraddizioni con situazioni che vanno dalla crisi
drammatica della Sicilia ad
esperienze di eccellenza. Basti
pensare che Milano è la prima
metropoli europea, insieme a
Vienna, per raccolta differenziata e medaglia d’oro mondiale
fra le grandi città per numero
di persone servite dalla raccolta dell’organico. Sono centinaia i piccoli e medi comuni sparsi dal nord al sud dove la differenziata è oltre il 70%.
L’obiettivo "rifiuti zero" è ormai una possibilità tecnologica
ed economica concreta in grado di dare forza e competitività
alla nostra economia e non solo un orizzonte culturale. La
corretta gestione dei rifiuti va
considerata come un settore
strategico per la tutela dell’ambiente, ma anche per ripensare
in chiave circolare la nostra economia. Lo abbiamo detto di recente presentando «Waste
End», una report realizzato da
Symbola e Kinexia, con una serie di proposte per abbattere,
in cinque anni, due terzi dei rifiuti avviati a discarica, raddoppiare la raccolta differenziata,
aumentare il numero di impianti di compostaggio e di preparazione al riciclo e per ridurre il numero delle discariche e
tudini di vita quotidiana. Se
qualcuno mi avesse detto qualche anno fa che a Milano ci sarebbero state trentamila persone ad usare il car sharing sarei
stato dubbioso. Adesso sono
centoventimila. Nessuno lo immaginava. I ciclisti di Roma si
stanno organizzando per promuovere e sostenere il Grab, il
grande raccordo anulare ciclabile. Un anello che si dovrebbe
connettere con le altre piste
che convergono verso il centro
della capitale. Una risposta di
mobilità sostenibile alle strade
intasate dal traffico e al anche
al caro-carburante ma, soprattutto, una straordinaria occasione per un suggestivo tour fra le
bellezze di Roma.
Riuso di elettrodomestici, piste ciclabili, nuovo approccio al
ciclo dei rifiuti, sono processi
che stanno prendendo sempre
più spazio nella nostra economia, dettati dalla crisi e dalla necessità, ma anche dalla voglia
di cambiamento. Occasioni di
nuovi stili di vita e allo stesso
tempo di sviluppo e occupazione. Per questo possiamo dire
che, per il nostro Paese, quello della green economy non
solo è una strada obbligata,
ma anche conveniente per tutti: per l’economia, per l’occupazione, per l’ambiente e per
la qualità della vita dei cittadini. Perché il nostro Paese ha
le energie per farcela, per superare uno dei suoi momenti
più difficili dal dopoguerra e
tornare ad avere fiducia nel futuro. L’importante è che l’Italia faccia l’Italia.
pagina 15
TORTURA
Caro Cantone,
la polizia democratica
non vuole l’impunità
Patrizio Gonnella
I
n queste poche righe mi rivolgo personalmente a Raffaele Cantone, di cui apprezzo l’enorme impegno giudiziario e
culturale contro la corruzione. Pare che il
presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione abbia detto di essere «rimasto indignato dopo la sentenza della corte dei Diritti
dell’uomo di Strasburgo: i fatti della Diaz sono vergognosi, ma le indagini su quei fatti
hanno consentito di individuare le responsabilità, anche dei vertici, senza bisogno del reato di tortura». Avrebbe anche detto che «la
polizia italiana è democratica da molto più
tempo di quanto le sentenze della Corte Europea facciano pensare che sia». È stato il Secolo XIX di Genova a riportare le sue affermazioni, virgolettandole. Non le condivido.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Diaz ci ricorda che l’Italia
non ha mai adempiuto a un obbligo derivante dal diritto internazionale in base al quale
la tortura è un crimine, la cui persecuzione
non ammette eccezioni. Uno Stato democratico forte è uno Stato che non ha paura di
mettere sotto giudizio i propri custodi
dell’ordine pubblico qualora responsabili di
crimini di tale portata. È viceversa tipico dei
regimi dispotici il volersi assicurare l’impunità attraverso l’immunità formale e sostanziale delle proprie forze di polizia. In Italia c’è
bisogno del reato di tortura. Per affermarlo
non uso le mie parole ma quelle di un collega di Raffaele Cantone, il giudice Riccardo
Crucioli di Asti che così scriveva in una sentenza del 2012 che mandava di fatto impuniti quattro poliziotti penitenziari accusati di
fatti gravissimi nei confronti di due detenuti.
«I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura… in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti
che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Dunque chi tortura in Italia va
incontro all’assoluzione o all’incriminazione per fatti molto meno gravi, coperti dalla
prescrizione o dall’assenza di querela.
Infine il giudice Cantone afferma che l’Italia ha una polizia democratica. Argomento
che trova un rafforzamento nell’esigenza di
criminalizzare la tortura. È la polizia non democratica che ha bisogno dell’impunità. Il
delitto di tortura non deve essere interpretato come un qualcosa pensato contro le forze
di polizia. Tutt’altro. È una forma di garanzia per la gran massa di poliziotti che si muovono nel solco della legalità.
Nelle scorse settimane la Camera aveva
approvato un testo, frutto di un lungo, tortuoso e dibattuto percorso parlamentare.
Quel testo è oggi in discussione al Senato dove esponenti del Nuovo Centrodestra e di
Forza Italia lo ritengono troppo penalizzante per le forze dell’ordine. Io ritengo che la
corruzione sia un male dell’Italia che ci fa
perdere credibilità nella scena internazionale. Però anche la mancata qualificazione della tortura come un crimine produce lo stesso effetto. La sentenza della Corte europea
nel caso Diaz segue svariate raccomandazioni di organismi internazionali che ci avevano redarguito su questo terreno. Per questo
è una sentenza sacrosanta. Perché a Genova
(nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto), ad Asti o a Parma (dove vive il sacerdote
Franco Reverberi accusato di complicità nelle torture in Argentina negli anni della dittatura; la Cassazione meno di un anno fa ha
negato l’estradizione in quanto in Italia manca il crimine di tortura e non si può estradare per fatti che da noi non sono perseguiti) i
giudici non hanno potuto dare giustizia alle
persone torturate.
*presidente Antigone
il manifesto
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chiuso in redazione ore 22.00
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pagina 16
il manifesto
L’ULTIMA
Andrea Oskari Rossini *
SARAJEVO
A
lcune centinaia di donne ascoltano in silenzio. Sul lato sinistro
del palco ci sono le testimoni.
Dall’altro lato ci sono le esperte del
Tribunale che, alla fine di ogni sessione, riportano le singole storie nel contesto della guerra contro le donne
che viene combattuta in questa regione, e non solo. Siamo nel Bosanski
Kulturni Centar, storico auditorium
nel centro di Sarajevo. Le donne prendono la parola una dopo l’altra, emergendo al centro del palco dalla penombra. Una testimone, di un villaggio della Bosnia orientale, racconta
degli stupri subiti a 15 anni nel campo di concentramento di Bratunac.
«Un’altra forma di campo»
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
storie
la necessità di garantire la sicurezza e
il rispetto per le parole delle donne.
«Ascoltando, in uno spazio sicuro,
diamo un riconoscimento al dolore
che loro hanno sofferto durante e dopo la guerra», mi spiega Lepa Mladenovic, consulente del Centro contro
la violenza sulle Donne di Belgrado.
Al via a Sarajevo la prima
sessione internazionale
della «Corte» - promossa dalle
Donne in Nero di Belgrado che ha dato la parola
a molte vittime di guerra
e dopoguerra. Alla sbarra
la violenza di genere ovunque
Denuncia e condivisione
Il tribunale
Continua descrivendo la solitudine
del dopoguerra, la povertà, il matrimonio e l’inizio di un nuovo incubo
di violenza («un’altra forma di campo»). Quando racconta del divorzio, e
che «hanno preso la mia adolescenza, ma il mio presente e futuro non lo
avranno», tutta la platea si alza in piedi. Le donne applaudono senza fermarsi. Non è solo un segno di rispetto. È uno scambio di energia.
La forza che proviene dal palco, il
racconto della resistenza a situazioni
inenarrabili, si trasmette alla platea e
viceversa.
Il linguaggio accademico - qui ci sono alcune tra le più importanti teoriche e pensatrici del movimento femminista internazionale - si mescola
con quello di donne di campagna coSARAJEVO,
me se fosse la cosa più naturale. Le teLA «SESSIONE
stimonianze continuano per molte
PUBBLICA»
ore, e per tre giorni. Tra gli elementi
CON LA QUALE
che ricorrono sempre più spesso ci soIL TRIBUNALE
no la continuità della violenza, le sue
DELLE DONNE
conseguenze di lungo periodo nella
È SCESO
vita personale, familiare e delle comuIN PIAZZA
nità, l’impunità dei torturatori («gli assassini camminano tranquilli per la
strada»), la misoginia delle istituzioni, l’importanza delle reti di donne
(«questo è l’unico Tribunale in cui io
sia mai comparsa»).
Le regole del Tribunale delle Donne prevedono che i giornalisti non
possano registrare o fotografare. Gli
uomini presenti sono pochissimi.
DELLE DONNE
Al centro del processo ci sono le testimoni, che provengono da tutte le
nuove repubbliche nate dopo la fine
della Federazione jugoslava.
Daša Duhacek, che insegna studi
di genere alla Facoltà di Scienze Politiche di Belgrado, ci spiega la genesi
dell’iniziativa: «Alla fine degli anni
’90, alcune attiviste dei Balcani hanno incontrato Corinne Kumar, militante tunisina dell’organizzazione
per i diritti umani El Taller, durante
lo svolgimento di un Tribunale delle
Donne in Sud Africa. L’idea di avviare
un processo simile in Europa è stata
ripresa principalmente dalle Donne
in Nero di Belgrado. Alcuni anni più
tardi, le attiviste hanno avviato un
lungo lavoro con quante hanno resistito al nazionalismo, si sono opposte
all’arruolamento degli uomini, han-
no subito crimini che nessuno ha giudicato, dando voce a quante non hanno avuto voce».
Giustizia, un approccio femminista
«Questo evento arriva alla fine di un
lungo processo cui hanno partecipato
circa 5.000 persone», precisa Staša
Zajovic, delle Donne in Nero di Belgrado. «Abbiamo lavorato per circa 4 anni e mezzo con le donne a un livello di
base, e coinvolto accademici e collettivi di artisti. Abbiamo imparato molto
dalle amiche indiane, studiato i diversi modelli di giustizia transizionale,
ma alla fine abbiamo sviluppato nuovi
modelli e metodi. Noi non siamo contro la giustizia tradizionale - precisa
Staša Zajovic - ma abbiamo sempre saputo che la giustizia istituzionale, sia a
livello internazionale che locale, non
può soddisfare i bisogni delle vittime».
Secondo la filosofa Rada Ivekovic,
presente all’incontro, il Tribunale delle Donne di Sarajevo rappresenta un
evento storico in quanto «costituisce
un precedente. In questo momento
stiamo vivendo una situazione di vera e propria caccia alle donne, dappertutto. Nei Balcani però le donne
hanno cominciato a parlare, e questa
è una cosa nuova, che ci permette di
sperare e di imparare dalla base, laddove i saperi teorici e accademici non
sono sufficienti. La data di oggi rappresenta un evento al quale ci potremo sempre richiamare in futuro, qui
sono state dette cose che vengono documentate, c’è un archivio che verrà
conservato dalle Donne in Nero, è un
patrimonio importantissimo».
Nelle tre giornate l’enfasi resta sul-
«Vogliamo sapere cosa è successo,
ma anche condividere emotivamente
la loro situazione, in modo che non si
sentano sole. Lo scambio che avviene
tra il palco e la platea è importantissimo, l’applauso è importantissimo,
vuol dire sì, sei sopravvissuta, sì, conosciamo il dolore che hai dovuto sopportare, sì, siamo solidali con te come donne, condividiamo il tuo bisogno di giustizia. Perché questi incontri servono anche per guarire a livello
emozionale, ma naturalmente vogliamo giustizia».
Nora Morales de Cortiñas, Madre
di Plaza de Mayo venuta a Sarajevo
per partecipare ai lavori del Tribunale, mi chiarisce il concetto: «I genocidi, i torturatori, gli stupratori devono
restare in carcere fino alla morte, non
c’è amnistia possibile. Non si tratta di
vendetta, ma di giustizia».
Al termine delle testimonianze, domenica mattina, prende la parola il
collegio giudicante del Tribunale,
composto da femministe, scrittrici e
attiviste (Vesna Rakic, Gorana Mlinarevi, Chris Campbell, Latinka Perovi,
Charlotte Bunch e Vesna Teršelic.
Le donne leggono le raccomandazioni e i verdetti preliminari. Prima della lettura, però, il pensiero
va alla Macedonia, «sull’orlo del
precipizio». Rada Zarkovic, bosniaca, Donna in Nero e fondatrice della
cooperativa «Insieme» di Bratunac,
mi ricorda che «le reti delle donne sono l’unica cosa che funzionava anche
durante la guerra, in condizioni impossibili. La consapevolezza di questa forza è stata accresciuta dall’esperienza di questo Tribunale, oltre ogni
mia aspettativa. Questo è importante
anche per quello che potrebbe avvenire in futuro».
Le decisioni finali del Tribunale delle Donne saranno pubblicate tra qualche settimana sul portale Zenski Sud.
* Osservatorio Balcani e Caucaso