CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLV . N. 115 . GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 OGGI CON LE MONDE DIPLOMATIQUE A EURO 3,50 MIGRANTI WAR ACT Tommaso Di Francesco S e non fosse tragica l’immagine che Renzi e Mister Pesc Mogherini danno di sé sul dramma dei migranti e sull’ ennesimo intervento militare in Libia, diremmo che ricordano «Oltre il giardino». La differenza è che nel film il protagonista era simpatico, per l’interpretazione di Peter Sellers e la trama di fraintendimenti che fanno di uno sprovveduto un profeta della finanza e un modello di vita. Renzi e Mogherini sfiorano invece il ridicolo, per un governo italiano che si vende - per i sondaggi, le elezioni o un twitter? l’incredibile «non decisione» dell’Ue di ripartire le quote dei migranti fra i 28 Paesi membri: in tutto 20 mila e già presenti nei campi, per un costo di 50milioni di euro. Sarebbe questa la svolta di una Unione europea chiusa dentro la fortezza del Pil più bello d’Occidente? Eppure il presidente Juncker aveva riconosciuto «l’errore di cancellare l’operazione Mare Nostrum». Ma a guardar bene il «grandioso» annuncio altro non è che pura chiacchiera. Perché i 28 paesi dell’Ue nonostante la meschinità della proposta, sono divisi: mezza Europa con in testa la Gran Bretagna dice no alle quote, come tutti i paesi dell’Est. Ma il piatto forte è che, a fronte di questo vuoto dopo migliaia di morti nel Mediterraneo, avanza la proposta di una nuova guerra come soluzione definitiva. E grazie a The Guardian che ha raccontato le 19 pagine del piano «strategico» presentato da Mogherini all’Onu, ecco la conferma: l’obiettivo sono gli «scafisti». Se milioni di esseri umani fuggono dalle guerre e dalla miseria delle quali siamo partecipi interessati, il nodo di fondo possono mai essere gli scafisti, che certo gestendo un traffico malavitoso, purtroppo sono i soli a corrispondere a questo disperato bisogno di fuga? Nero su bianco, sta scritto che faremo la guerra con una «vasta gamma di capacità aeree, marittime e terrestri» con «intelligence, sorveglianza e ricognizione bombardamenti, squadre d’imbarco, unità di pattuglia, forze speciali». Previste anche «vittime innocenti». Una guerra da mare, cielo e terra con effetti collaterali. Che sarà «da terra» Mogherini lo smentisce, ma pare confermato visto che Cina e Russia agitano il veto in sede Onu sui raid aerei, mancando, finora, l’accordo con il Paese interessato; stessa questione per l’intervento via mare che entrerà nelle acque territoriali libiche. CONTINUA |PAGINA 2 L’Europa si divide sui profughi, E la Libia avverte: pronti a reagire L a Commissione europea vuole imporre delle «quote» obbligatorie agli stati membri per dividersi con maggiore solidarietà i rifugiati, per far fronte alla situazione di emergenza nei paesi di «prima linea», in particolare in Italia: il sistema della relocation è proposto da Bruxelles nell’Agenda europea sull’immigrazione, approvata ieri dal collegio dei commissari, con qualche anticipo rispetto al previsto, ma dalla proposta del commissario Avramopoulos hanno già preso le distanze Inghilterra, Irlanda e Danimarca. Intanto il governo di Tobruk avverte l’Europa: «Non tollereremo navi la cui presenza non è stata autorizzata». ACCONCIA, LANIA, MERLO |PAGINA 2,3 www.ilmanifesto.info BIANI INTERVISTA Carlotta Sami (Unhcr) promuove le quote Ue: «È cambio di marcia, ma attenti ai ritardi» LUCA FAZIO |PAGINA 2 Alla vigilia della discussione della riforma alla camera e con i sindacati sul piede di guerra, Matteo Renzi sale in cattedra e spiega, in un video di 16 minuti, la sua «buona scuola» agli italiani. Un grande spot, in stile berlusconiano, che rivela le difficoltà del premier-segretario a pochi giorni dalle regionali PAGINA 5 DAL VIDEO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO Il gran maestro STORICO ACCORDO | PAGINA 7 PENSIONI | PAGINA 6 SALONE DEL LIBRO Nello sciame dell’homo digitalis Il decreto non c’è Proteste e ricorsi sì Consulta inascoltata DOTTI, MAZZEO, PIGLIARU, VECCHI l PAG. 10,11 NO ITALICUM | PAGINA 4 CANNES 68 Sinfonia giapponese per Hirokazu Kore-Eda CRISTINA PICCINO l PAG. 12 Concordato al via tra la Palestina e il Vaticano In attesa dell’incontro tra papa Francesco e abu Mazen, primo storico negoziato. Israele reagisce duramente: «È stata una delusione» Civati, due referendum per provare a partire BURUNDI | PAGINA 7 Dopo le proteste, l’annuncio dei militari: «È un colpo di Stato» SPECIALE TV | ALL’INTERNO Indietro tutta, la vecchia frontiera del governo tweet Informazione, talk, fiction, ascolti, piattaforme. Piccola mappa dell’alto e del basso dello schermo italiano tra generalista e pay. pagina 2 il manifesto GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 QUANTI ANCORA Bruxelles • Presentata l’agenda Ue. I migranti verranno divisi per quote ripartite in base alla popolazione, Pil e disoccupazione dei Paesi che li ospiteranno Europa divisa sulle (poche) Solo ventimila profughi verranno divisi tra gli Stati membri. Ma non tutti accettano: Inghilterra, Irlanda e Danimarca si tirano fuori Anna Maria Merlo PARIGI L a Commissione europea vuole imporre delle «quote» obbligatorie agli stati membri per dividersi con maggiore solidarietà i rifugiati, per far fronte alla situazione di emergenza nei paesi di «prima linea», in particolare in Italia: il sistema della relocation è proposto da Bruxelles nell’Agenda europea sull’immigrazione, approvata ieri dal collegio dei commissari, con qualche anticipo rispetto al previsto. La proposta, in applicazione dell’articolo 78 comma 3 del Trattato di Lisbona, riguarda solo 20mila persone in due anni, mentre l’Onu aveva chiesto all’Europa di assicurare un’accoglienza di almeno 20mila l’anno, comunque una sproporzione visto che gli arrivi in Europa sfiorano ormai i 200mila solo negli ultimi mesi e sono stati 300mila nel 2014. Per salvarsi l’anima di fronte alla vergogna dei morti nel Mediterraneo, Bruxelles presenta un testo di «raccomandazione» agli stati membri, che dovrà però ancora passare il vaglio del voto del Consiglio (a maggioranza qualificata) ed essere discussa all’Europarlamento. Le reticenze sono forti. La Commissione ha già stabilito due tabelle, una per la ripartizione delle relocation (ricollocamenti) e una per quella del resettlement (reinsediamento), sempre su base di quote per paese, questione di più lungo periodo che verrà precisata entro fine maggio. I criteri che guidano la redistribuzione sono quattro: il pil del paese (che pesa al 40% sulla decisione), la popolazione (40%), il tasso di disoccupazione (10%) e la presenza di richiedenti asilo già accolti si base volontaria (10%). Con questi criteri, la Germania dovrà accogliere il 18,4% dei rifugiati, la Francia il 14,1%, l’Italia l’11,8%, (e in seguito il 9,9% per i reinsediamenti, 1989 persone), la Spagna il 9,1%, la Svezia il 2,9%. Questo sistema di «quote» è DALLA PRIMA Tommaso Di Francesco Ora è risaputo che di «governi» in Libia ce ne sono quattro: a Tripoli degli islamisti, a Tobruk del generale filo-occidentale Haftar che farà «come con il cargo turco», a Bengasi è caos, a Derna c’è il Califfato, tutti legati ad aree petrolifere e a Paesi arabi contrapposti. Quale governo si presterà all’intervento militare che già definiscono «un’aggressione»? Già prepariamo provvigioni - ieri a Roma i rappresentanti di Banca libica e Fondo d’investimenti libici hanno riottenuto i fondi sovrani delle quote di Unicredit già dello Stato guidato da Gheddafi. Chi saranno i perdenti del nuovo protagonismo bellico italiano? Soprattutto i profughi che già il governo di Tripoli comincia ad arrestare a centinaia e per i quali si preparano nuovi campi di concentramento. Non è valso a nulla dunque l’insegnamento della guerra Nato del 2011: fuggirono tutti gli immigrati che nel paese lavorava- studiato per correggere la situazione attuale, dove, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, «il 72% dell’asilo è concesso da 5 paesi» (Germania, Gran Bretagna, Francia, Svezia e Italia). Per Timmermans, si tratta di un sistema «oggettivo, equo, trasparente, basato su dati comprensibili ad ogni cittadino». Ma la Commissione ha fatto i conti senza l’oste. Intanto, tre paesi possono rifiutare di partecipare, la Gran Bretagna e l’Irlanda, che godono di un opt-in (opzione di adesione all’iniziativa) e la Danimarca (che ha un opt-out, un’opzione di ritiro preventivo). Ieri, Londra ha detto tutto il male che pensa dell’idea delle quote di Jean-Claude Juncker: la ministra degli Interni, Theresa May, vuole piuttosto «un programma attivo di ritorni» e prende le distanze da Lady Pesc, Federica Mogherini, rifiutando l’idea che «non un singolo rifugiato o migrante intercettato in mare sarà respinto contro la sua volontà». L’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca hanno detto «no» alle quote obbligatorie. Anche la Polonia è contraria all’obbligatorietà e propone «sforzi in funzione dei mezzi», facendo valere che Varsavia già accoglie molti ucraini. Per la Polonia, che al massimo accetterebbe qualche rifugiato di religione cattolica, sono i paesi con un passato coloniale che devono farsi carico dei migranti. Timmermans ha comunque precisato che le «quote» riguarderanno sono «casi specifici» (come la Siria o l’Eritrea) e che «ogni stato potrà continuare a determinare se accorda o meno l’asilo», anche nel caso di relocation d’emergenza. Siamo lontani dall’interpretazione di Mogherini, secondo la quale «finalmente» è arrivata «una risposta europea, una risposta globale, che coglie tutti gli aspetti del problema». L’Agenda sull’immigrazione della Commissione avrebbe l’ambizione di rifondare la politica migratoria della Ue. Ma questo progetto di Juncker viene contestato da molti stati, che non vogliono intrecci tra asilo e immigrazione economica. La proposta di Bruxelles contiene non solo un incitamento a definire una politica di asilo comune (resettlement) e l’ipotesi per il 2016 di una revisione del regolamento di Dublino (che obbliga il paese di arrivo ad esaminare la domanda d’asilo), ma si concen- no, un milione e mezzo di persone, più i migranti africani intrappolati nel conflitto. Né crea problemi a Renzi e Mogherini che il conflitto in Libia sia stato uno smacco per Obama - con l’uccisione l’11 settembre 2012 da parte degli jihadisti ex alleati Usa dell’ambasciatore Chris Stevens - che ora non a caso li manda avanti da soli, fino a concedere la guida militare della missione. Uno smacco per cui si dimisero il segretario di Stato Hillary Clinton e il capo della Cia David Petraeus. In Italia male che vada, siccome l’obiettivo è «distruggere i barconi», la nuova guerra gliela voterà perfino Salvini che ha inventato il target. Ed è possibile che ricompatterà le anime del Pd. In fondo non è stato D’Alema, con la Nato nel 1999, a fare, con tanti effetti collaterali sugli innocenti, la prima guerra «umanitaria»? Definimmo quella scelta come «costituente»: bisognava dare prova internazionale che «la sinistra» al governo sapeva anche fare una guerra. Stavolta s’aggiunge alle tante nefandezze del governo Renzi solo come «war act». tra anche sulla lotta all’immigrazione clandestina, la guerra ai trafficanti e la securizzazione delle frontiere esterne. Nel 2013, secondo i dati Eurostat, su 425mila rifiuti del diritto di asilo, solo 167mila persone hanno lasciato il territorio europeo. Gli altri sono rimasti come clandestini. Prossimamente ci sarà un vertice a Malta, con i paesi di origine della migrazione e quelli di transito, per affrontare le cause della decisione di emigrare e la repressione dei traffici di esseri umani. Sul tavolo c’è anche un’«opzione navale», ha precisato Mogherini, che secondo il Guardian potrebbe anche passare per l’invio di forze di terra in Libia per distruggere i barconi. L’opzione sarà discussa al vertice dei ministri degli esteri della Ue di lunedì 18 maggio. Intervista /LA PORTAVOCE CARLOTTA SAMI: È UNA SVOLTA MA BISOGNA FARE SUBITO L’Unhcr promuove l’agenda Ue: «Impensabile qualche mese fa» Luca Fazio P er Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), l’agenda per l’immigrazione approvata dalla Commissione Ue è un buon testo: «Impensabile qualche mese fa». Federica Mogherini ha detto che si tratta di una giornata storica per l’Italia. Anche lei la pensa così? Si tratta di una svolta molto importante nell’approccio, un cambio di marcia deciso: per la prima volta si prende atto che la crisi epocale che investe il Mediterraneo può essere affrontata solo se tutti i paesi europei agiscono insieme. Il punto fondamentale è che questa nuova politica deve essere messa in atto da subito, non si possono più avere esitazioni. La Ue ha fissato la quota di rifugiati da distribuire in Europa. Si parla di 20 mila profughi che attualmente risiedono nei campi (1 ogni 25 mila abitanti). Meno di 2 mila saranno assegnati all’Italia (9,94% del totale). Non sono numeri drammaticamente sottostimati? Non è così. Noi avevamo chiesto di allargare le quote fino a 20 mila persone, stiamo parlando di profughi che sono già nei campi, come i siriani per esempio. Per quelli che invece sono già in territorio europeo sono stati stabiliti nuovi criteri per la ripartizione, ed è molto positivo che si siano messi d’accordo su questo punto controverso. L’Italia dovrebbe essere fuori da queste quote perché è già uno dei paesi più esposti alle ondate migratorie. Anche questo è un principio importante. In più nel testo sono previste altre misure positive, come l’ampliamento delle quote previste per l’immigrazione legale. Inoltre si fa riferimento a un maggiore sforzo per il salvataggio delle persone che rischiano il naufragio, con l’aumento dei fondi e l’ampliamento geografico del pattugliamento in mare. Duemila persone sulle nostre coste arrivano in due giorni di sbarchi, e l’anno scorso ne sono arrivate 200 mila. Che ne sarà dei nuovi arrivi? Dovrebbero rientrare in questo sistema, quelli che richiedono asilo potranno restare in Europa, e per alcune nazionalità sono previste procedure più veloci, per esempio per i siriani. In teoria quasi tutte le persone che sbarcano fuggendo da guerre e povertà possiedono i requisiti per presentare domanda di asilo. Non proprio, l’anno scorso su 200 mila sono state circa il 50%. Quindi per l’Unhcr la nuova agenda europea sull’immigrazione non presenta alcuna criticità? La nostra valutazione in questo momento è positiva, dico solo che qualche mese fa un documento di questo tipo era del tutto impensabile. Secondo il Guardian, anche se Mogherini ha smentito, l’Europa avrebbe previsto un attacco di terra in Libia. In ogni caso, le sembra sensata un’operazione militare contro gli scafisti? Bombardar- li con gli aerei o con le navi non rischia di peggiorare le condizioni dei migranti che sono trattenuti come prigionieri? Non c’è un riferimento esplicito al bombardamento e in ogni caso qualunque azione dell’Europa dovrà compiersi con il riconoscimento del diritto internazionale. Resta il fatto che nelle acque internazionali ogni intervento sulle barche avrà sempre lo scopo di salvare le persone. Ma per distruggere le barche senza un intervento di terra bisognerà pur bombardarle. Su questa questione molto complessa i contorni non sono ancora chiari. Tecnicamente non ho ancora capito come sarà possibile intervenire per distruggere le barche dei trafficanti. Il consiglio di sicurezza dell’Onu non si è ancora espresso, lunedì prossimo i ministri degli esteri dell’Europa devono decidere. Naturalmente, qualunque siano le decisioni prese, bisogna garantire la sicurezza dei migranti che sono già vittime. Inghilterra, ma anche Repubblica Ceca e Slovacchia, non accettano la politica della distribuzione dei migranti in tutti i paesi. Non rischia di fallire anche questa opzione che sembra essere la più sensata? No. Alcuni paesi possono anche rifiutarsi di accogliere i profughi ma il documento verrà comunque adottato. GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 il manifesto QUANTI ANCORA Tobruk • Il governo avverte l’Europa: «Non tollereremo navi la cui presenza non è stata autorizzata. In caso contrario pronti a bombardarle» quote TURCHIA, 7 MORTI DI IPOTERMIA Una tragedia senza fine, e non nelle fosse del Mediterraneo, ma per la disperazione di chi fugge via terra, come accadde 20 giorni fa in Macedonia per dieci migranti africani falciat da un treno. È accaduto ieri al confine tra la Turchia e l’Iran. E la morte è avvenuta per ipotermia, ed è toccato a 6 bambini e ad una donna di nazionalità afghana. Tentavano tutti di entrare clandestinamente in Turchia a piedi nel percorso impervio che porta ad attraversare la rischiosa frontiera iraniana. La tragica notizia è stata riportata dall’agenzia turca ufficiale Anadolu. Altri 13 migranti dello stesso gruppo, in fuga dalla guerra e dalla miseria afghana, sono stati ricoverati e cinque di loro versano in gravi condizioni. Il gruppo di clandestini, 33 in tutto, sono stati trovati dai militari turchi nei pressi della cittadina di Caldiran, al confine con l'Iran. Anche l’agenzia privata Dogan, ha voluto sottolineare che i migranti sono tutti di nazionalità afghana. BRUXELLES · Lunedì verrà presentato il piano per contrastare gli scafisti «Previsti interventi a terra» del Consiglio di sicurezza Onu, anche a Cina, Russia e Stati uniti, Paesi dei quali occorre il via libera se si vuole che dal Palazzo di vetro esca una risoluzione che dia una cornice di legalità internazionale a qualunque intervento si pensi di fare in acque libiche. Non a caso proprio Mogherini nelle scorse settimane si è recata a Pechino, Mosca e New York per spiegare quanto accade ogni giorno nel canale di Sicilia. Il sospetto che la lotta contro gli scafisti si trasformi in un pericolosissimo pretesto per mettere «gli stivali sul terreno» del caos libico, resta comunque sullo sfondo e viene anzi alimentato dallo sco- FEDERICA MOGHERINI FOTO LAPRESSE ROMA D a Bruxelles Federica Mogherini smentisce categoricamente: «Non stiamo programmando alcuna operazione di terra il Libia». Eppure le anticipazioni fatte ieri mattina dal Guardian secondo le quali la missione europea contro gli scafisti non escluderebbe la possibilità di un intervento sul suolo libico, hanno fatto scalpore e creato un certo imbarazzo negli uffici dell’Unione europea. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue ha aggiunto di aver già chiarito all’Onu che quella che si sta mettendo a punto in questi giorni è «un’operazione navale». Escluso l’utilizzo di aerei quindi e, soprattutto, l’impiego di truppe a terra. Per sapere chi ha ragione tra il quotidiano inglese - solitamente bene informato sulle vicende europee - e Lady Pesc basterà aspettare cinque giorni. Salvo rinvii è infatti fissata per lunedì prossimo, 18 maggio, la data in cui proprio la Mogherini presenterà al Consiglio degli Esteri dei 28 il piano messo a punto contro le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di uomini nel Mediterraneo. Piano limato al centimetro per renderlo accettabile oltre che a Francia e Gran Bretagna, membri europei Il documento pubblicato dal Guardian non esclude «operazioni in Libia». Mogherini smentisce op del Guardian. Il giornale cita un documento di 19 pagine in cui vengono riassunti i termini della missione senza escludere un intervento a terra. «Una presenza a terra può essere presa in considerazione se viene raggiunto un accordo con le autorità competenti», è scritto nel documento in cui si spiega anche come la missione «dovrebbe richiedere una vasta gamma di capacità aeree, marittime e terrestri. Queste potrebbero includere: intelligence, sorveglianza e ricognizione, squadre di imbarco, unità di pattuglia (aeree e marittime), interventi con forze speciali». Il tutto comprendendo anche «azioni lungo la costa, in por- FOTO LAPRESSE Libia/ LE SCELTE DELLA UE PREMIANO IL PARLAMENTO DI TRIPOLI, TOBRUK INSORGE Haftar: «Bombarderemo le navi non autorizzate» Giuseppe Acconcia I l piano per gestire l’incremento del flusso di migranti che raggiungono le coste italiane e greche, varato ieri dall’Unione europea, segna un punto a favore del parlamento di Tripoli. Prima di tutto, allontana le possibilità di un attacco contro la Libia che fino a qualche giorno fa pareva imminente, come ha ieri confermato l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini. E poi dà credito al pur discutibile piano in cinque punti, annunciato dal governo tripolino, che tra le altre cose prevede l’arresto dei migranti in territorio libico prima che tentino di imbarcarsi ma non parla della caccia a fuorilegge, scafisti e contrabbandieri che infestano le coste libiche. Per questo le mire espansionistiche dell’ex generale Khalifa Haftar sulla Tripolitania sembrano per il momento ridimensionate. Sono bastati così gli annunci di ieri per innalzare l’allerta lungo le coste della Cirenaica. Se il piano Ue prevede anche la possibilità di valicare le acque territoriali libiche per distruggere i barconi o fermare i contrabbandieri, Haftar ha subito minacciato di bombardare le navi che si avvicineranno alla Libia. «Bombarderemo le navi non autorizzate», si fa sapere dalla marina dell’operazione Dignità (Karama) che ha appoggiato il tentato golpe di Haftar. «Non esiteranno a proteggere frontiere e acque territoriali con tutta la forza di cui disponiamo», si legge in un comunicato diffuso ieri. pagina 3 I militari pro-Haftar si sono già dati da fare bombardando il cargo turco Tuna lo scorso lunedì. «Non ci hanno assolutamente avvertito. Quello che intendono per avvertimento è probabilmente il primo bombardamento» da terra, ha specificato Zafer Kalayci, il secondo ufficiale del cargo. Kalayci, ferito nel corso dell’attacco, ha così smentito gli avvertimenti annunciati da Tobruk prima che venisse sferrato l’attacco. I militari filo-Haftar avevano denunciato il presunto tentativo di rifornire i jihadisti asserragliati a Derna da parte del cargo turco. Eppure, secondo le ricostruzioni fornite ieri da Ankara, il secondo bombardamento contro il cargo avrebbe avuto luogo addirittura quando la nave già aveva lasciato le acque territoriali libiche. Haftar ha anche avvertito che qualora il piano dell’Ue per i flussi migratori venisse attuato accreditando le politiche della Tripolitania, da dove la maggioranza dei migranti parte, anche i jihadisti di Derna e Sirte arriverebbero sui barconi di migranti diretti in Europa. Queste dichiarazioni, ormai consuete, confermano soprattutto fino a che punto l’ex agente Cia, manovrato dal Cairo, usi la questione del terrorismo per portare avanti la sua strategia, nonostante una profonda debolezza dei militari che lo appoggiano. Proprio ieri la Corte penale internazionale ha annunciato di voler indagare sui presunti crimini commessi in Libia dallo Stato islamico. I militanti dell’Isis hanno rivendicato numerosi attacchi di alto profilo in Libia, tra cui la decapitazione di 21 cristiani egiziani nel mese di febbraio e di 28 copti etiopi a marzo. Ma Tobruk non ci sta a vedere la bilancia pendere in favore di Tripoli. E così le minacce all’Italia si fanno sempre più suadenti. Il ministro dell’Informazione del governo di Tobruk, Omar al Gawari, ha puntato il dito contro il governo italiano per il mancato sostegno al parlamento della Cirenaica, minacciando di aprire le porte agli investimenti russi se la politica estera italiana, a suo dire al momento accondiscendente verso Tripoli, non dovesse cam- biare. A dare respiro alle casse della Banca centrale libica che fin qui si è mantenuta neutrale nella distribuzione degli introiti dalla vendita del petrolio, seppur a prezzi stracciati per la crisi che sconvolge il paese, sono arrivati però ieri gli annunci dei soci libici in Unicredit. I vertici di Unicredit, il presidente Giuseppe Vita e l’amministratore delegato Federico Ghizzoni, hanno incontrato a Roma il presidente della Banca centrale libica, Saddek Omar El Kaber e il presidente della Lia (Libyan investment authority), Abdulrahman Benyezza auspicando una rinnovata presenza del gruppo in Libia. La Lia ha legami stabili con il governo di Tobruk. to o in rada». Eventuali azioni a terra potrebbe servire per distruggere le navi dei contrabbandieri e i depositi di carburante senza escludere, specifica il documento, la possibilità che si verifichino vittime innocenti: «L’abbordaggio delle navi dei trafficanti in presenza di migranti sarebbe scritto nel documento secondo il Guardian - presenta un alto rischio di effetti collaterali, inclusa la perdita di vite». Quello che accadrà nelle prossime settimane dipende in gran parte dalle decisioni che verranno prese nei prossimi giorni dall’Onu. Sempre per lunedì prossimo, infatti, è attesa la risoluzione del Consiglio di sicurezza e dai suoi contenuti si capiranno i margini di azione della missione europea e come si pensa di distruggere i barconi degli scafisti, particolare ancora poco chiaro. Nel frattempo i segnali che arrivano dalla Libia non sono incoraggianti, con il governo di Tobruk che mette le mani avanti e avverte l’Europa «a non toccare la sovranità delo Stato», avvertendo «tutte le imbarcazioni a non entrare nelle acque territoriali libiche se non dopo u coordinamento con gli organi competenti» Altrimenti, è la minaccia, il governo provvisorio «reagirà con bombardamenti come quelli contro il cargo turco». c.l. LE REAZIONI Per Renzi e M5s «passi in avanti» critico Salvini A. Po. M atteo Renzi ieri ha affidato l’analisi politica a un tweet: «Giornata di passi in avanti su flessibilità, immigrazione Ue, crescita economica. C’è ancora molto da fare, ma non si molla». La distribuzione dei migranti proposta da Bruxelles piace al premier. Matteo Salvini non si è fatto contagiare dall’entusiasmo e ha replicato: «Accordo europeo sull’immigrazione? Per dirla con Fantozzi, una ’cagata pazzesca’. Da domani altri sbarchi, altri clandestini da mantenere in albergo. Grazie Renzi, Alfano e Mogherini. Non ritengo che i finanziamenti ricevuti dall’Italia dal fondo Frontex negli anni passati possano rappresentare una sorta di do ut des rispetto all’accoglienza sfrenata alla quale stiamo assistendo» insiste Salvini. Finale profetico: «Il ministro libico Omar al Gawari ha dichiarato che nelle prossime settimane arriveranno in Italia terroristi dell’Isis a bordo dei barconi dei migranti. Renzi e Alfano, pericolosi incapaci, fermate gli sbarchi subito se non volete essere corresponsabili e complici di eventuali attentati in Italia». Per il ministro Alfano invece è «un segnale di solidarietà concreta nei confronti dell’Italia». All’insegna del ’meglio tardi che mai’ il commento del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini: «L’Europa ha capito che l’emergenza umanitaria in atto è una questione europea. È vergognoso che questo accada dopo 23mila morti. Credo che Junker debba ottenere molto di più dagli stati». Nicolini indica alcuni nodi aperti: «Attivare forme sicure e legali d’ingresso dei profughi, oltre che un dovere morale, è anche l’unico modo serio per contrastare la tratta di esseri umani. Le quote di resettlement sono invece una risibile risposta all’emergenza umanitaria in atto. 20 mila profughi all’anno da distribuire in Europa sono persino meno dei 23 mila morti sepolti dal mare. Di fronte ai 170 mila arrivati nel 2014, sono un affronto per l’Italia». Segnali di apertura dai parlamentari pentastellati: «L’inserimento delle quote è una proposta del M5s contenuta in una mozione che il 18 dicembre scorso ha ottenuto l’approvazione nel parlamento italiano. Quello dell’Europa è solo un primo passo, per quanto importante, che non può prescindere dal superamento del Trattato Dublino III e il principio di chi primo accoglie poi gestisce. Le nostre proposte in tema di immigrazione prevedono anche di istituire un testo unico europeo in materia di asilo, concordare con i paesi di provenienza e transito un piano comune di gestione dei flussi, istituire il mutuo riconoscimento: ovvero chi gestisce l’immigrato e lo regolarizza lo fa a nome di tutti i paesi europei che si impegnano quindi a riconoscerlo». Per Save the children si tratterebbe di un primo passo: «Attendiamo di verificare la volontà di ogni stato membro di farsi carico della protezione e del supporto dei migranti più vulnerabili. La responsabilità degli stati Ue inizia ancora prima che i migranti raggiungano le nostre frontiere». pagina 4 il manifesto GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 POLITICA In molti studiano il modo di portare la nuova legge davanti agli elettori, l’ex deputato del Pd fa il primo passo. Ma il M5S si sfila subito DEMOCRACK Domenico Cirillo ROMA Minoranza sempre più divisa verso la resa dei conti C ivati fa il primo passo, sicuro che anche chi oggi si mostra prudente seguirà. Il deputato da poco uscito dal Pd ha annunciato ieri due quesiti referendari per abrogare due tra gli aspetti peggiori della nuova legge elettorale, in Gazzetta ufficiale da nemmeno una settimana. Il primo referendum punta a eliminare i capilista bloccati e pluri-candidabili in dieci collegi. Il secondo vuole far sparire il turno di ballottaggio: se una lista riesce a conquistare il 40% al primo turno avrà il premio «di maggioranza» (15% di seggi in più). Altrimenti l’Italicum funzionerà come una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 3%, molto simile al Consultellum lasciato in piedi dalla sentenza con cui la Corte costituzionale ha abbattuto il Porcelluma (ma lì c’erano sbarramenti più alti e una sola preferenza invece di due). «Arrivare con il referendum a un sistema uninominale partendo dall’Italicum non è possibile, dobbiamo fare i conti con la brutta legge che ci ha dato il parlamento», ha spiegato intervenendo a un seminario organizzato dall’associazione civatiana «è possibile» il costituzionalista Andrea Pertici, che ha lavorato sui quesiti. Il passaggio dei referendum alla Corte costituzionale - previsto solo dopo che saranno state raccolte le 500mila firme necessarie - si presenta stretto. La giurisprudenza della Consulta in materia è molto rigorosa, i quesiti che puntano ad abrogare delle specifiche disposizioni devono contemporaneamente essere «omogenei» e «unitari», il che è assai complicato essendo necessario tagliare via dalla legge tutte le disposizioni collegate - in questo caso - ai capilista e al ballottaggio. In più la normativa di risulta deve essere «coerente e immediatamente applicabile», ed è questa la ragione per la quale non è percorribile la strada di un referendum di totale abrogazione. Anche se l’Italicum è una legge elettorale assai particolare visto che resta «sospesa» fino al 1° luglio del 2016, dunque in teoria non ci sarebbe alcun danno a farla cadere completamente entro quella data - resterebbe in piedi il Consultellum che la stessa Corte ha battezzato. Purtroppo è molto difficile. Per riuscirci l’ufficio centrale per il Maria Teresa Accardo ROMA S ITALICUM · Civati presenta i quesiti contro i capilista e il ballottaggio: vediamo chi ci sta Due referendum, per partire referendum dovrebbe ricevere la richiesta entro settembre di quest’anno: anche nel caso fosse possibile partire subito - e non è ancora questa la situazione - le firme andrebbero raccolto durante l’estate. Arduo. Oltre a Civati, ha annunciato di volersi muovere - con qualche cautela in più - anche il Coordinamento per la democrazia costituzionale costituito da associazioni, sindacati, parlamentari e costituzionalisti. Mentre l’avvocato Felice Besostri che con l’avvocato Aldo Bozzi è riuscito a portare il Porcellum davanti ai giudici costituzionali e a farlo bocciare, sta studiando analoghi ricorsi per sottoporre anche l’Italicum al giudizio di legittimità. Contro l’Italicum, dopo Prodi, ieri si è pronunciato anche il politologo Giovanni Sartori: «È uno schifo costruito da persone che non sanno nulla di leggi elettorali, hanno costruito le soglie di maggioranza sulle prospettive di voto del Pd». Ma quale potrebbe essere il fronte del Sì a uno o più referendum abrogativi dell’Italicum? Ieri nel corso del seminario romano si è sostanzialmente sfilato il Movimento 5 Stelle. Il deputato Danilo Toninelli ha detto che non essendo possibile un referendum totalmente abrogativo e meglio lasciar perdere, perché l’Italicum resterebbe comunque una pessima legge. ««Meglio concentrarsi REGIONALI · Gli uomini di Scajola oggi con Paita Pastorino: «Invotabili Pd ci sono anche in Liguria» GENOVA A nche in Liguria il Pd ha infarcito le liste di invotabili. Lo dice Luca Pastorino, candidato presidente della Rete a sinistra, in questi giorni bersaglio privilegiato, si fa per dire, degli attacchi di Matteo Renzi che lo ha definito «la sinistra masochista», quella «che vuole sempre perdere». Pastorino è un deputato civatiano che ha lasciato il Pd prima di Civati ed ora corre contro il suo ex partito rischiando di portarsi via con sé consensi preziosi per la burlandiana Paita, in cima ai sondaggi ma di misura. E la preoccupazione di Renzi si capisce, spiega Pastorino: anche in Liguria le liste del Pd hanno nomi inguardabili, proprio come in Campania e nella Puglia. «Nel Ponente ligure assistiamo alla trasformazione dello scajolismo in paitanesimo, lo hanno notato tutti. Nelle liste di Imperia e Savona, Imperia in particolare, ci sono nomi che sono espressione del mondo scajoliano che si sono rinnovate nelle liste a sostegno di Raffaella Paita. Se a questo si aggiunge tutto quello che era a contorno dell’alleanza, poi interrotta, con Area Popolare, è chiaro che al Pd ligure sta succedendo qualcosa, esattamente come a quello campano e quello pugliese. Quei nomi in lista sono frutto di una scelta politica». Altro che rottamazione, prosegue il candidato presidente: «Renzi ama rottamare? E allora perché ha rifatto la carrozzeria di Burlando (il presidente uscente, ndr) proponendo la Paita? Perché ha consentito che le primarie diventassero un pericoloso sberleffo delle regole? Perché ha umiliato Sergio Cofferati e il sindacato? Perché non è stato chiaro con le alleanze al centro e a destra? Non sono domande e basta, sono accuse precise perché noi non abbiamo paura di guardare in faccia la realtà». CORTE COSTITUZIONALE Che fine ha fatto il ricorso sulle legge per le europee? Che gli attacchi ripetuti del presidente del Consiglio ai giudici della Corte Costituzionale dopo la sentenza sulle pensioni abbiano cominciato a fare effetto? Se lo chiedono in molti, visto che si fa attendere la decisione della Consulta sulla legge elettorale per le europee. La causa è stata discussa in udienza pubblica un mese fa, il 14 aprile. La questione di non manifesta incostituzionalità riguarda lo sbarramento al 4% che non sembrerebbe trovare alcuna spiegazione logica visto che nella scelta degli europarlamentari non si presentato esigenze di «governabilità». L’avvocato dello stato ha difeso, per conto del governo, la legittimità della legge italiana (in Germania la soglia di sbarramento, più bassa, è invece caduta da oltre un anno proprio davanti ai giudici costituzionali). Ma ha anche chiesto in subordine che i giudici salvino almeno i risultati delle europee dell’anno scorso. È sembrato un modo di prepararsi al peggio, praticabile fino a un certo punto dal momento che un paio di liste - Fratelli d’Italia e Verdi - hanno impugnato i risultati. Cinque eurodeputati tra Pd, Pdl e M5S possono rischiare. Ma la Corte, ancora a ranghi ridotti (mancano due giudici da eleggere in parlamento), può andare incontro alla situazione di parità che si sarebbe già verificata nel caso delle pensioni. E non ha ancora deciso. a. fab. sul referendum confermativo della riforma costituzionale, lì non c’è quorum e in un solo colpo potremmo abbattere sia la riforma che l’Italicum», ha detto. Contraria al referendum anche la senatrice di Forza Italia Anna Maria Bernini, che pure ha garantito che il suo partito voterà contro la riforma al senato, ma nei giorni scorsi altri esponenti del terremotato partito berlusconiano si erano detti favorevoli. Mentre la deputata di Sel Celeste Costantino ha detto che bisognerà studiare con grande attenzione i quesiti. «È chiaro che da solo non faccio un referendum - ha detto Civati ma se c’è un riscontro politico e i partiti lo sostengono, se lo sostengono quelli del Pd che hanno detto di essere contro l’Italicum, allora non ci sono problemi né organizzativi né di numeri». E poi rivolto ai 5 Stelle ha aggiunto: «È sbagliato mettere da parte questo referendum adesso possibile, per parlare già di quello sulle riforma costituzionale che non è ancora stata approvata. Evitiamo di aiutare Renzi, la legge costituzionale deve ancora portarla a casa». Campania/ LO SCRITTORE AVEVA ATTACCATO LE LISTE PD Impresentabili, De Luca tira dritto: su di me Saviano dice sciocchezze Adriana Pollice NAPOLI «N el Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di Gomorra, indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss. Il Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione consolidata. E cioè alla politica ci si rivolge per ottenere diritti: il lavoro, un posto in ospedale... Il diritto non esiste». Roberto Saviano la scorsa settimana è intervenuto a testa bassa nella campagna elettorale per le regionali del sindaco decaduto di Salerno, la polemica prosegue da allora. «Le liste di De Luca non sono affatto liste con nomi nuovi e in nessun caso trasformano il modo di fare politica in Campania. Direi che ricalcano le solite vecchie logiche di clientele», la conclusione dello scrittore. Tirato in ballo, l’aspirante governatore ha replicato, in un crescendo: quello che succede nelle altre liste non è mia responsabilità, con me persone per bene, sono io l'anticamorra. Non è servito a voltare pagina così ieri Vincenzo De Luca ha replicato a muso duro: «Saviano? Sulle liste ha detto un’altra enorme sciocchezza. Ha già fatto un errore enorme quando ha fatto appello al popolo campano per non andare a votare alle primarie e il popolo campano se ne è infischiato andando a votare in massa. Ho la sensazione che si stia avvitando nella sua immagine, perché quando comincia a dire che Raffaele Cantone è un’operazione di immagine, che Franco Roberti non serve a niente, siamo al paradosso». Stoccata finale: «Vorrei chiedere con molto garbo a Saviano di non confondere la battaglia contro la camorra con l’offesa alla dignità di altre persone che la pensano diversamente da lui e che non sono disponibili, per la vita che hanno alle spalle, ad accettare nessuna lezione sul versante della lotta alla camorra. Io qualche lezione potrei darla, non accettarla, anche a Saviano». Naturalmente ce n’è anche per il governatore uscente e suo competitor, Stefano Caldoro, definito «l’unico impresentabile in Campania, eletto dal sistema di potere di Nicola Cosentino e che oggi sta facendo campagna elettorale appoggiandosi sul sistema di potere di Luigi Cesaro». Tuttavia una piccola autocritica sui nomi al centro del ciclone Vincenzo De Luca pure l’ha fatta, a mezza bocca, durante il suo tour elettorale: «Arrabbiato? No, sono proprio incazzato. Che devo dire che è colpa di Nello Mastursi e di chi lavorava alle liste? Io sono un uomo, oltre ad essere il candidato, quindi sono io che mi prendo la responsabilità». Persino l’ex sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, affonda il colpo: «Non ci si collega con gli impresentabili, è l’abc dell’etica della politica». Alessandra Mussolini, capolista in regione per Forza Italia, ci va proprio a nozze: «Nel centrosinistra non hanno capito perché Saviano ha sparato a zero contro le liste del Pd, non capiscono perché Cantone, messo da Renzi sulla legalità, spara a zero contro le liste di De Luca e non si capisce perché Guerini, da braccio destro di Renzi, dica che non si può fare campagna elettorale con gli impresentabili. Ma il primo degli impresentabili è Vincenzino. L’avessimo fatto noi sarebbe sceso Mattarella a Napoli per dirci che non lo potevamo fare, non li potevamo candidare». e Matteo Renzi mena come un fabbro contro la sua minoranza interna, «la sinistra masochista che vuole sempre perderee», nella minoranza interna del Pd sta per arrivare al redde rationem. E cioè il tempo del chiarimento finale fra i «responsabili», ovvero quelli che fanno la stampella sinistra del governo, e il gruppo dei dissenzienti che sulla scuola si stanno già orientando a votare contro il testo del governo. Succederà dopo le regionali, quando con ogni probabilità ci saranno nuovi addii al Pd. Fra i dem per l’area critica tira un’ariacci. Ma è durissimo anche il mestiere dei responsabili, il gruppo di ex bersianiani che, per fare un esempio, alla camera ha accettato di votare il jobs act giurando, come aveva fatto l’ex Fiom Cesare Damiano, di essere «soddisfatto per la nuova formulazione dell’art.18» dello statuto dei lavoratori, salvo poi essere smentito dallo stesso Renzi che martedì ha rivendicato di aver «abolito l’art.18» come «hanno fatto Schroeder e Blair». Ieri mattina il gruppo dei «responsabili», che sarebbero una quarantina, si è riunito alla camera per ribadire la collocazione «non renziana» ma la disponibilità a non far mancare i voti al governo. Assente il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, impegnatissimo sul fronte Expo ma anche determinato a buttarsi alle spalle l’ex padre politico Pier Luigi Bersani perché «la sfida di Renzi è la nostra sfida». Presenti invece Cesare Damiano, Matteo Mauri, Enzo Amendola, Micaela Campana, Dario Ginefra e i sottosegretari Teresa Bellanova e Umberto Del Basso De Caro. All’uscita alle agenzie hanno spiegato che rivendicano «di agire in continuità con i due principi ispiratori di Area riformista: responsabilità e autonomia. C’è uno spazio nel Pd per chi non è renziano acritico o antirenziano cronico, è uno spazio di politica e buonsenso che si può esercitare sui diversi provvedimenti del governo». Sulla ddl scuola «lavoriamo perché sia migliorata il più possibile», ma sia chiaro da subito che «quel lavoro in parte è stato già fatto in commissione e che la riforma della scuola non deve diventare l’oggetto di una discussione strumentale alle dinamiche interne al Pd». La precisazione è cruciale perché nell’area dei dissenzienti c’è invece chi ha fissato nel disegno di legge la propria linea del Piave. È il caso di Stefano Fassina, che ormai tutti danno in uscita dal Pd proprio sull’onda delle contestazioni degli insegnanti e degli studenti. A parole i responsabili dicono che cercheranno di ricomporre la frattura con i quasi quaranta deputati che non hanno votato l’Italicumo. «Ferma restando», spiega un deputato, «la linea di responsabilità che ci porta a dire no allo scontro frontale e sì al dialogo costruttivo». Altra partita però, a Montecitorio, è quella dell’elezione del nuovo capogruppo, dopo le dimissioni di Roberto Speranza. Il candidato ’naturale’ è Ettore Rosato, da sempre riferimento dell’ala renziana. Ma il voto è segreto, e ora che le minoranze hanno perso la presidenza, il loro sì sarà «responsabile» ma non gratis. Più complicato il puzzle dem di Palazzo Madama. Dopo le regionali si riaprirà la partita delle riforme costituzionali sulle quali Renzi dice di voler trattare. Lì la minoranza è formata da un nucleo di 24 senatori che, almeno al momento, sono fermamente decisi a cambiare il nuovo senato e ne propongono l’eleggibilità. Se Renzi volesse assicurare comunque la maggioranza alle riforme, dovrebbe rimpiazzarli con un nuovo gruppo di «responsabili» ex Fi. Che però dovrebbe avere quegli stessi numeri. GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 il manifesto IL GRAN MAESTRO pagina 5 RIFORMA· Un video e una lettera per spiegare i contenuti del ddl scuola e risollevare i consensi prima delle regionali Lo spot del preside del consiglio ccendi il video, c’è Matteo Renzi che risponde sulla riforma della scuola. Con gessetti colorati e lavagna ieri il presidente del consiglio Renzi ha esposto in un video di 18 minuti caricato sul sito di palazzo Chigi uno dei principi-cardine della riforma sulla quale il suo governo si sta giocando la faccia alle elezioni di fine mese: «Il principio di fondo è dare più soldi a chi li merita». Si parla dei 500 euro annui a testa per i «consumi culturali» dei docenti e dei 200 milioni di euro assegnati solo al 5% dei docenti direttamente dai «presidi-manager», la nuova figura dell’azienda-scuola istituita dal Ddl oggi in aula alla Camera. Il voto finale è slittato a mercoledì 20 maggio. confacenti alla sua idea triennale di scuola. «Contro il Ddl useremo ogni mezzo, il Ddl va ritirato» assicura Sel. Battaglieroil Movimento 5 Stelle che con un video di Di Battista ieri ha risposto a Renzi invitando a partecipare al sit-in di protesta dei sindacati e degli studenti il 18 e19 maggio a Montecitorio. Sel, M5S e Lega presenteranno una relazione di minoranza alla Camera. Nel video e nella lettera il «preside del Consiglio» Renzi ha rivendicato l’assunzione dei 100 mila precari (un terzo di quelli esistenti) e ha stigmatizzato la protesta contro i quiz Invalsi e la paventata astensione dagli scrutini dei sindacati: «Così non si fa un servizio alla scuola o ai ragazzi» ha detto. Una reazione che prova quanto il governo sia stato colpito dal succes- «Per gli insegnanti non vale più il principio per cui nessuno mi può giudicare» Il testo oggi alla Camera. Continua la mobilitazione: il 18 e 19 sit-in a Montecitorio Roberto Ciccarelli A Con il consenso in ribasso tra la sua base elettorale (gli insegnanti) il capo del governo rilancia la vecchia ricetta ispirata dai cantori della «meritocrazia»: chi si oppone alla sua riforma non vuole essere «valutato»: «In questo momento ha detto Renzi - non può valere il principio nessuno mi può giudicare».Nessun dubbio sul fatto che sia proprio il modello di valutazione scelto dall’esecutivo ad essere aspramente criticato, insieme al sistema decisionale spiccatamente autoritario che esso comporta. Renzi sembra avere dimenticato che una parte determinante della sua riforma della scuola, gli «scatti di merito» e la cancellazione del contratto nazionale degli insegnanti, è stata bocciato dal 60% dei partecipanti alla consultazione online sulla «Buona Scuola». La versione della riforma giunta ormai allo stadio finale è il risultato di un compromesso che ha affidato il riconoscimento del «merito» all’arbitrio di una sola persona: il preside. Su questo punto, le modifiche al Ddl sono state minime, diversamente da quanto il presidente del Consiglio ha detto. Sentito il parere di una commissione eletta dal collegio docenti, il dirigente scolastico deciderà da solo il docente «meritevole» a cui riconoscere un aumento. I problemi di questo nuovo assetto della scuola italiana non sono stati minimamente affrontati dallo spot pomeridiano diffuso da palazzo Chigi. Renzi, invece, ha evocato una presunta maggioranza dei docenti che si lamentano dei colleghi scansafatiche. Premiarne il «merito» significa per lui restituire il «prestigio sociale» venuto meno anche a causa della «nuova generazione dei genitori». Considerata l’esiguità delle risorse stanziate, e l’arbitrarietà del sistema proposto, queste velleità sembrano invece l’antefatto ideale per moltiplicare la competizione tra i docenti e i torti reciproci. Un proposito ribadito in una lettera ai docenti di 120 righe diffusa nel tardo pomeriggio di ieri: «La nostra proposta non è »prendere o lasciare» - ha scritto Renzi- Siamo pronti a confrontarci. La Buona Scuola non la inventa il Governo: la buona scuola c'è già. Siete voi. O meglio: siete molti tra voi, non tutti voi». Parole che confermano la volontà di superare il sistema della contrattazione e una residuale idea di collegialità nella scuola. Gli attacchi feroci ai sindacati rivolti dai suoi fedelissimi rientrano in una strategia che vuole re- UN FOTOGRAMMA DEL VIDEO DI MATTEO RENZI. A DESTRA, LA MINISTRA DELL’ISTRUZIONE GIANNINI alizzare a tutti i costi una macchina educativa neoliberista. L’aria è quella di uno scontro finale. In questo modo il governo intende dare continuità alla riforma di centro-sinistra Berlinguer-Zecchino sull’«autonomia». Su questo andrà alla guerra contro tutti. Il video di Renzi è chiarissimo su questo punto. C’è tuttavia un problema: nella sua riforma l’«autonomia» è di uno solo: il preside. Tutti gli altri dovranno eseguire i suoi ordini. Per Renzi è fondamentale far passare questo principio politico. Il preside selezionerà i docenti dagli «albi» e stabilirà gli aumenti di stipendio come un capo azienda (o di governo). È l’elemento rende EMPOLI Scuola in fiamme, 180 studenti evacuati Un incendio provocato da un corto-circuito ha fatto evacuare ieri l'Istituto professionale Ferraris-Brunelleschi di Empoli (Firenze). Dentro c'erano 180 studenti. Nessuno è rimasto intossicato o ferito. I vigili del fuoco hanno evacuato l’intera scuola. Il prefabbricato è stato costruito nel settembre 2008 e fa parte di un più grande plesso scolastico, che risale ai primi anni Settanta. La parte colpita dall'incendio «è un edificio dotato delle necessarie certificazioni». La vicenda ha suscitato apprensione fra studenti e genitori e ha sollevato le polemiche dei sindacati. «Mentre il Governo annuncia a parole stanziamenti per risanare le scuole italiane - ha commentato l'associazione di consumatori Codacons - nei fatti la questione della sicurezza degli istituti rimane una emergenza». Per l’Unione degli Studenti era «evitabile. Sappiamo che gli studenti hanno denunciato le condizioni indegne in cui erano costretti a fare lezione ma le loro denunce sono rimaste inascoltate. Il Governo utilizza strumentalmente la tematica dell'edilizia scolastica per elaborare le ennesime promesse che non si traducono in interventi concreti». tavolo tecnico che si è riunito in municipio a Empoli ha trovato una soluzione temporanea. La situazione è seguita da Laura Galimberti - coordinatrice della Struttura di Missione per l'edilizia scolastica di Palazzo Chigi. la riforma indigeribile e Renzi ne è consapevole. Questa è la critica di fondo rivolta dal mondo della scuola, e non solo dai sindacati, a una riforma che accentra il potere decisionale in una figura ricavata su quella del premier («il preside del Consiglio» ha titolato tempo fa Il Manifesto). «Abbiamo ampiamente dimostrato che i 500 euro per la formazione e i 200 milioni per il merito sarebbero stati meglio impiegati per un contratto nazionale che da 7 anni i docenti attendono - ha risposto a caldo Rino Di meglio della Gilda - Renzi è in difficoltà, non parla della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi». Tra le proteste dei renziani, ieri Vendola (Sel) ha ricordato che tale figura rischia di generare clientele, nepotismi e raccomandazioni quando dovrà «selezionare» mediante «auto-candidatura» uno dei 100.701 precari assunti a settembre più so delle proteste e sottovaluta la libera volontà degli studenti, e dei docenti ad opporsi al suo progetto. Questo, in fondo, è il motore dell’opposizione a Renzi in questo momento. «Il governo ci vuole strumentalizzare» ha detto Danilo Lampis (Uds) al termine di un incontro a Palazzo Chigi con il governo e altre rappresentanze studentesche. La mobilitazione continua «insieme a insegnanti e genitori, compreso il blocco degli scrutini». Intervista IL SEGRETARIO CISL SCUOLA FRANCESCO SCRIMA «L’unità sindacale non cederà. Blocco degli scrutini extrema ratio» A lcuni la considerano la vera strategia di Renzi: assunzioni. Ma la vostra confederazione ieri parlatrattare con il sindacato per rompere il fronte va invece di un piano pluriennale, non di decreto. finora unitario. E l’anello debole della catena Il decreto lo vogliamo tutti. Così come tutti pensiaè da tutti considerata la Cisl. L’unica confederazione mo che il decreto non risolva il problema del precache non ha scioperato contro il Jobs act, quella che riato. E quindi tutti chiediamo un piano pluriennale storicamente ritiene qualsiasi tavolo come lo strudi assunzioni. Mi spiego meglio: dati i tempi brevi mento per arrivare ad un accordo, ad un comproper la discussione della riforma abbiamo chiesto un messo. Le parole di apertura al dialogo di Annamaprovvedimento di urgenza per assicurare le 100mila ria Furlan all’uscita dall’incontro di palazzo Chigi soassunzioni per l’inizio del prossimo anno scolastico. no suonate come un campanello d’allarme per gli alMa il solo decreto non basta. Dobbiamo dare rispotri sindacati. Ma da via Po confermano che la deciste agli abilitati, agli Ata e ai supplenti che dopo la sione su come muoversi ora e su possibili nuove prosentenza della Corte europea hanno diritto all’asteste «spetta alla categoria». sunzione. E lo si può fare in due-tre anni. Francesco Scrima, segretario della Cisl Scuola da Lo sforzo di equilibrismo però andrà misurato con 10 anni. Il fronte unitario dei sindacati della scuole risposte del governo. Quali punti dovranno essela terrà o siete pronti a romre soddisfatti per accettare pere appena Renzi farà qualuna mediazione e ritirate le che piccola concessione? proteste? Secondo me non c’è il rischio I punti prioritari delle nostre ridella tenuta. Perché a palazzo chieste di modifica sono tre: Chigi noi sindacati della scuoprecariato, super poteri dei la ci siamo presentati con una presidi e contratto. Sul precapiattaforma comune che noi riato ho già detto. Sui poteri abbiamo esplicitato assieme dei presidi siamo contrari al a tutti gli altri. fatto che possano decidere Però Annamaria Furlan non chi assumere, con gli assurdi vuol sentir parlare di blocco albi territoriali, e chi premiadegli scrutini. Dice che colre. In più la modifica fatta dalpirebbero solo famiglie e rala commissione è folle: per togazzi. gliere potere a loro si è deciso Il blocco degli scrutini è una che la valutazione degli inseextrema ratio. Capisco voi la fanno anche studenLa categoria minimizza le gnanti giornalisti che cercate il titolo ti e genitori. Infine c’è il tema ma concentrare tutto su quedel contratto bloccato da sette differenze con la Furlan sta forma di protesta è sbagliaanni e del fatto che solo la con«Chiediamo tre modifiche, trattazione può trattare del sato. Questa non è la prima vertenza che faccio unitariamenlario accessorio e dei premi. se non ci ascoltano te. E le posso dire che un conSta dicendo che se non vercontinueremo la protesta» to sono le dichiarazioni che alranno accettati tutti e tre le cuni sindacalisti fanno fuori proteste andranno avanti? da palazzo Chigi e un conto sono quello che dicono Sto dicendo che se i risultati ottenuti non saranno dentro. considerati soddisfacenti tutti assieme e unitariaÈ un’accusa grave. mente decideremo cosa fare. Non mi permetto di giudicare il comportamento deQuindi non esclude il blocco degli scrutini e un gli altri sindacati. Dico semplicemente che noi della nuovo sciopero? Cisl, che siamo un sindacato contrattualista, diciaRipeto: il blocco degli scrutini è l’extrema ratio. Non mo sempre le stesse cose sia al governo che ai giorgridiamo al tuono prima di vedere il lampo. La renalisti. Inoltre mi lasci dire una cosa: la sinistra è sponsabilità ora è nelle mani del governo che deve sempre stata contraria al blocco degli scrutini, era modificare ampiamente la riforma. E per ora non lo una cosa da sindacati autonomi o corporativi. ha certamente fatto in modo soddisfacente. Siamo Il blocco degli scrutini e un nuovo sciopero è stato in attesa di una convocazione per discutere con il annunciato in caso di mancato accoglimento delministro Giannini. Vedremo come andrà e poi decila vostra piattaforma. E quindi sul merito dei proderemo il da farsi. Senza anticipare le reazioni. Perblemi. A partire dalla richiesta di un decreto sulle ché diversamente è inutile sedersi al tavolo. VALUTAZIONE La legittima protesta contro i quiz Invalsi Anna Angelucci «I naccettabile», ha commentato irritata la Ministra linguista Stefania Giannini. «Indecente» ha twittato il sottosegretario Faraone che, non laureato, ci pare la persona giusta per contribuire alla riforma della scuola (a proposito di meritocrazia). E ancora, «anacronistico, parasovietico, negazionista, luddista», ha tuonato con pittoresco climax il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Presidi Mario Rusconi, nelle sue dichiarazioni a La Stampa. Questa la variegata sfilza di epiteti con cui è stato bollato l’atteggiamento degli insegnanti italiani che ieri si sono sottratti all’operazione Invalsi. Ovvero di quei docenti che hanno legittimamente scioperato per tutta la giornata, oppure effettuato lo sciopero della mansione astenendosi dal somministrare i test, o semplicemente non hanno corretto i fascicoli, attività aggiuntiva e dunque non obbligatoria. Forme di dissenso e di protesta previste e tutelate dalla legge, ma proditoriamente definite «boicottaggio» e «sabotaggio» su tutti i media e sui social. Siamo all’ennesima, insopportabile manipolazione delle parole. Da parte di esponenti di un governo in calo di consenso culturale e politico, che reagisce all’evidente difficoltà in cui si trova esasperando la proterva imposizione di un modello di scuola, e di società, che il mondo della scuola, e la società, stanno strenuamente respingendo. A meno che non si vogliano convincere 60 milioni di italiani che tutti i docenti, tutti gli studenti e tutti i genitori mostratisi solidali nella protesta di ieri contro i test Invalsi siano minus habentes manipolati dai sindacati. Quello di ieri non è stato un sabotaggio. Chiamiamo le cose con il loro nome. Quello di ieri è stato, per i docenti che hanno espresso la loro posizione critica in piena autonomia, il legittimo e doveroso esercizio critico delle loro competenze tecniche in merito ad un aspetto fondamentale della didattica, cioè la valutazione. Che è e deve essere sempre articolata e multidimensionale e non può essere circoscritta ad un unico strumento, il test standardizzato, peraltro basato sull’applicazione di un modello probabilistico, quello di Rasch, ampiamente criticato a livello internazionale. Sono anni che docenti e studenti si cimentano con i test Invalsi, fin dalle elementari, sperimentandone ogni volta i limiti, le incongruenze, la millantata oggettività che li costringe nei binari del pensiero unico, della risposta unilaterale, della negazione oppressiva di ogni capacità di comprensione e di formulazione divergente. La letteratura scientifica contemporanea in ambito docimologico e sociologico, unitamente allo studio dei casi delle diverse applicazioni in Europa e in America della pratica del test per misurare gli apprendimenti degli alunni, inducono molta cautela nella difesa a spada tratta di uno strumento impreciso, imperfetto, culturalmente riduzionistico e del tutto incongruo rispetto alle attività realmente svolte con gli studenti nelle nostre scuole. E, non ultimo, troppo spesso piegato a esigenze politiche altre, e non per eterogenesi dei fini. Riflettere su questi aspetti della valutazione, sul legame stringente che c’è e che ci deve essere con i processi di insegnamento e apprendimento, nella loro costante dimensione relazionale, e farlo insieme agli studenti e alle loro famiglie non è boicottaggio. È cultura. pagina 6 il manifesto GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 ECONOMIA PENSIONI · I sindacati chiedono «rimborsi subito», e i dirigenti annunciano ricorso. Il decreto dovrebbe arrivare lunedì Dai manager alla Cisl, tutti contro Pil in ripresa: +0,3 Cgil e Uil: «Ma manca il lavoro» Antonio Sciotto D L’ ai manager fino alla Cisl, sulla questione pensioni è tutto un ribollire, e per il momento le rassicurazioni del governo - si farà in fretta, entro lunedì prossimo hanno fatto sapere da Palazzo Chigi - non calmano nessuno. I più preoccupati appaiono Federmanager e Manageritalia, visto che l’aria che tira è quella di rimborsi parziali e che escluderanno quasi certamente le fasce di reddito più alte. Le associazioni, che tra l’altro sono autrici di uno dei ricorsi che poi ha dato luogo alla sentenza della Consulta, sono decise a impugnare, se non saranno soddisfatte Si stanzierebbe una cifra non oltre i 3-5 miliardi, il resto si rinvierebbe alla legge di stabilità dalla soluzione individuata dall’esecutivo. E intanto la Fnp Cisl annuncia «mobilitazioni». «Salvo la restituzione totale a tutti, non esiste un intervento a rischio zero. Qualsiasi misura che prevedesse un rimborso solo ad alcune fasce di pensionati o una graduazione nei rimborsi, facendo scattare restituzioni parziali, sarebbe illegittimo. E le categorie promotrici dell’azione da cui è scaturita la decisione della Corte Costituzionale, sono pronte a fare ricorso», annuncia l’avvocato Riccardo Troiano, legale di Federmanager e Manageritalia. Interessante, per tutta la platea dei pensionati danneggiata dal blocco deciso dal governo Monti (adeguamento 2012 e 2013), le spiegazione dell’avvocato Troiano: «Una graduazione dei rimborsi è, in teoria e in pratica, impossibile - spiega - La sentenza della Consulta, dal giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, è efficace e la norma dichiarata incostituzionale non è più in vigore. Quindi, tutti quelli che percepiscono un trattamento superiore a tre volte il minimo sono legittimati a chiedere il rimborso della rivalutazione non corrisposta 2012-2013 e gli arretrati relativi a 2014 e 2015 che vanno rivalutati alla luce dei maggiori importi dei due anni precedenti. Di per sé, un intervento del legislatore non è indispensabile: la sentenza è autosufficiente». «Questo - prosegue il legale - non vuol dire che ci sia un divieto di legiferare: Parlamento e governo possono, nella loro discrezionalità, intervenire sia sulla platea degli aventi diritto sia sulla modalità e i tempi della restituzione. Ma a quel punto si dovrà valutare se l’intervento è in linea con il dettato costituzionale come interpretato dalla sentenza. E la sentenza non ha detto, né poteva farlo, che si possa intervenire restituendo solo a determinate fasce di reddito». I sindacati aspettano ancora una convocazione: era stata ri- il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri FOTO REUTERS chiesta due giorni fa da Susanna Camusso (Cgil), e in effetti il ministro del Welfare Giuliano Poletti si era impegnato a fissarne una dopo insistenti richieste di Spi, Fnp e Uilpensionati, ma finora tutto tace. Quindi ieri la Fnp Cisl ha preso carta e penna: «Il governo applichi immediatamente la sentenza della Corte Costituzionale e ci convochi urgentemente per stabilire i tempi e i modi ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha fissato l’approdo del decreto per il consiglio dei ministri di lunedì (rinviando quindi l’appuntamento già annunciato per domani, venerdì), ma non determinando nessun ordine del giorno per lasciarsi mano libera: anche per un ulteriore rinvio. Incombono infatti le elezioni. Ci sono varie ipotesi sul tappeto: una parla del rimborso di solo un anno dei due di blocco, un’altra di rimborsi progressivi per gli assegni a partire da tre volte il minimo fino a un tetto tra i 2.500 e i 3.500 euro lordi, rimandando la soluzione per gli anni a venire, con le relative coperture, alla legge di stabilità in autunno. In ogni caso, si parla di interventi massimi tra i 3 e i 5 miliardi di euro, non oltre al momento, perché i conti non reggerebbero. SENTENZA INTERPRETATA · Governo «di parte» sul precedente del 2007 vare a giorni il tema della solidarietà non c’è. E ancor di meno si prevede che il blocco delle rivalutazioni - sebbene solo per le pensioni sopra 8 volte il minimo - sia utilizzato all’interno del sistema pensionistico. Magari per innalzare le pensioni da fame dei giovani che tutti dicono di voler aiutare. Ma nessuno - a partire dalla Fornero ha mai aiutato. Ecco dunque che un decreto dell’operazione, altrimenti siamo pronti alla mobilitazione», ha annunciato. E il segretario Gigi Bonfanti: «Non vi è alcuna necessità di una specifica richiesta all’Inps da parte dei pensionati ai fini del ricalcolo delle pensioni, poiché si tratta di una sentenza automatica». I tre sindacati saranno oggi in presidio a Bologna e Potenza. Un faccia a faccia ieri mattina tra il premier Matteo Renzi e il Senza «solidarietà» blocco illegittimo T ecnici da una parte, giuristi dall’altra. Conti pubblici contro possibili ricorsi. Il decreto che il governo si appresta a varare per far fronte alla sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità del blocco della rivalutazione delle pensioni dovrebbe far tremare i polsi di qualunque legislatore. Se l’attenzione mediatica finora si è concentrata sul problema del rispetto del Def e del parametro europeo del 3 per cento fra deficit e Pil, il rispetto della sentenza e i possibili - già ieri probabili - ricorsi per un mancato rispetto della sentenza stessa potrebbero avere effetti molto più gravi e duraturi. Esattamente come quelli della riforma Fornero. Perché la logica che muove il governo Renzi è la stessa che mosse quello Monti: considerare le pensioni semplicemente come una spesa pubblica. Reiterando la ratio che la Consulta ha sonoramente bocciato. Dando per assodato che il decreto prevederà di rimborsare le rivalutazioni solo fino ad una determinata soglia, il governo - in tutte le dichiarazioni fatte in questi giorni - sostiene di rispettare la sentenza. E nel farlo si cita il passaggio della IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 [email protected] STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL [email protected] SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. Bargoni 8, 00153 Roma tel. 06 68896911, fax 06 58179764 il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. 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Bargoni 8, 00153 Roma ISTAT certificato n. 7905 del 09-02-2015 chiuso in redazione ore 22.00 tiratura prevista 37.8699 sentenza in cui si ricorda il precedente del via libera al blocco della rivalutazione «ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo Inps» nella sentenza 316 del 2010. Si tratta di un provvedimento adottato dal governo Prodi nel 2007 che faceva parte del famoso Protocollo sul welfare con le parti sociali - l’ultimo esempio di concertazione - del 23 luglio. La citazione fatta da chi propugna il blocco delle rivalutazioni è infatti assai incompleta. E soprattutto non tiene conto delle motivazioni per cui fu decisa quella norma. Cosa che invece fa la Corte costituzionale nella sua sentenza. Il blocco fu infatti deciso per finanziare il superamento del cosiddetto «scalone» introdotto da Maroni - il colpo di mano con cui il governo Berlusconi modificò l’età minima per accedere alla pensione di anzianità, spostandola di colpo da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010 e a 62 dal 2014. La Corte più volte infatti sottolinea come «la ratio della norma» contemperava «l’esigenza di reperire risorse necessarie a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008 dell’età minima per l’accesso alla pensione di anzianità», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità». E ancora: «Si trattava di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità». Il concetto di «solidarietà» dunque è centrale per la Consulta. E si esplica in maniera molto precisa: i soldi recuperati con il blocco devono essere usati all’interno del sistema pensionistico per aiutare altre categorie. Sia nel caso della riforma Fornero sia nel probabile testo del decreto che il governo dovrebbe appro- Fu usato per togliere lo «scalone». Per la Corte si può utilizzare solo lasciando i proventi nel sistema previdenziale che abbia la stessa ratio della riforma Fornero spalancherebbe il fianco a ricorsi che, coerentemente con la sentenza, sarebbero accolti. Provocando un ulteriore buco nei conti pubblici. Perché la sentenza della Corte va «letta, capita e interpretata», come dicono all’unisono gli esponenti dell’esecutivo. Ma va letta tutta. Non solo nelle parti che sembrano dare ragione al governo. m. fr. Italia è fuori dalla recessione. L’annuncio è venuto ieri dall’Istat, che ha pubblicato i dati relativi alla crescita del Pil nel primo trimestre del 2015: il prodotto interno lordo è tornato a crescere, segnando un aumento dello 0,3% rispetto all’ultimo trimestre del 2014. Su base annua, invece, la variazione è nulla. L’istituto di statistica ha spiegato che la crescita registrata nei primi tre mesi di quest’anno è la più alta da inizio 2011: per ritrovare un aumento più significativo bisogna risalire al primo trimestre di 4 anni fa, quando il Pil salì dello 0,4%. Ma ieri sono stati pubblicati anche i dati europei, da Eurostat: nell’Eurozona il Pil è in crescita dello 0,4% nel primo trimestre 2015, in accelerazione dopo il +0,3% del quarto trimestre 2014, il +0,2% del terzo e il +0,1% del secondo. La Germania segna +0,3% come l’Italia, +0,6% per la Francia e +0,9% per la Spagna. Giù per il secondo trimestre consecutivo il Pil in Grecia (-0,2% dopo il già pesante -0,4% dell’ultimo quarto del 2014). Molto positivo il commento del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Il dato sul Pil è superiore alle nostre aspettative. È presto per cantare vittoria, ma è il segnale della svolta impressa dalle politiche del governo. Con il mix di riduzione di tasse, sostegno a consumi, stimolo a investimenti e riforme abbiamo creato le condizioni per cogliere la finestra di opportunità determinata dal Qe e dal calo del petrolio», dice. Questo dato, aggiungono all’Economia, «rende ancora più a portata di mano il raggiungimento dell’obiettivo di crescita dello 0,7% nel 2015, indicato dal Def». Critici i sindacati: «Il Pil avanza a velocità di lumaca, siamo tornati in deflazione e, mentre nell’area Ocse si registra un calo della disoccupazione, in Italia la percentuale sale al 13%», dice il segretario Uil Carmelo Barbagallo. Scettica anche Susanna Camusso, leader della Cgil: «Il quantitative easing e la dinamica del prezzo del petrolio mi pare che da soli potrebbero determinare una crescita del Paese anche superiore. La crisi del sistema produttivo è ancora molto impegnativa». Il premier Matteo Renzi lega il dato alla vertenza scuola: «I dati Istat parlano di un +0,3 ma non serve a niente tornare a crescere se non torniamo a crescere nelle scuole. L’Italia non sarà mai una superpotenza diplomatica, geografica, demografica ma potrà tornare a essere una superpotenza culturale». Per Beppe Grillo la ripresa «è solo una balla del governo», scettici anche Adusbef e Federconsumatori («Segnale debole, niente entusiasmi»), ed è cauto anche Giorgio Squinzi di Confindustria: «Positivo ma non entusiasmante». AMBIENTE · Il testo passa senza alcuna modifica. Da martedì in Aula Ecoreati, al senato sì liscio come l’olio la commissione approva senza air gun Eleonora Martini ROMA È andata liscia come l’olio (nero). Dribblati gli emendamenti che chiedevano le reintroduzione del divieto di air gun - soppresso all’ultimo minuto alla Camera - e travasato il tutto in un ordine del giorno che «impegna il governo» a monitorare l’impatto ambientale della tecnica usata dalle compagnie petrolifere (fotocopia di quello già approvato a Montecitorio), il resto non ha trovato opposizione. «Testo #Ecoreati passa in commissioni #Senato senza modifiche. Paese attende legge da oltre 20 anni: ora in Aula ognuno si assuma responsabilità», twitta il ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti. E il riferimento è ai senatori di Sel, ad alcuni ex grillini del Gruppo misto e a Gal che hanno già promesso battaglia per mettere fuorilegge le esplosioni in mare usate per sondare il sottosuolo alla ricerca di idrocarburi. Il provvedimento dovrebbe ora approdare nell’Aula di Palazzo Madama già martedì prossimo per il sì definitivo che il Pd vorrebbe incassare entro la settimana. Ma se anche Legambiente e Libera, promotrici di una campagna per l’introduzione degli ecoreati nel codice penale, si dicono soddisfatte e chiedono che ora si arrivi velocemente al traguardo finale, c’è invece chi assicura che l’ultimo passaggio «non sarà facile». Subito dopo il voto delle commissioni Am- biente e Giustizia, la senatrice Loredana De Petris è a dir poco contrariata e definisce «vergognoso» l’atteggiamento del governo, rappresentato da Galletti, in commissione: «Il ministro - riferisce - ha detto che la questione dell’air gun verrà affrontata in un decreto dedicato alle piattaforme off shore (forse già lunedì in Cdm, ndr), ma in realtà non c'è niente di concreto e sappiamo che la posizione nel governo è diversa». Per De Petris, che minaccia «emendamenti in Aula anche da parte di Sel» sull’air gun, la cosa grave «è che c’è un’azione deliberata a vantaggio delle compagnie straniere - sono loro che usano quella tecnica - che qui hanno trovato il Bengodi». A fronte dell’entusiasmo con cui Ermete Realacci, primo firmatario del testo base, definisce il risultato di ieri «una buona notizia per l'ambiente e la salute dei cittadini», si registra poi una ulteriore divaricazione tra le posizioni del M5S che rivendica di aver «dato un contributo decisivo per l’approvazione della legge» che è «un punto importante del nostro programma elettorale», e i fuoriusciti che oggi gravitano nel Gruppo Misto. I quali definiscono l’escamotage dell’ordine del giorno sull’air gun «un contentino per noi e un grande regalo per i potenti. Il governo invece doveva sospendere le autorizzazioni in attesa delle direttive Ue». Indietro tutta Non è un paese per innovatori Vincenzo Vita N on è un paese per innovatori. Anzi. Per quanto il Presidente-segretario dica e ridica e “disintermedi” con i tweet, la realtà italiana - nella sua “pornografica” evidenza - è di un luogo arretrato e senza visione. Altro che futuro, siamo a un tuffo nel passato. Qualche esempio. I giornalisti rischiano ancora il carcere per diffamazione, contro ogni indicazione europea. Numerose testate chiuderanno i battenti, se il Fondo per l’editoria non viene almeno un po’ rimpinguato e se non si governa la transizione dall’ambiente analogico a quello digitale. Il servizio pubblico radiotelevisivo - sulla base del disegno di legge del governo ora al Senato - torna a più di quarant’anni fa: come allora, sotto l’egida del potere esecutivo. Sembra il suggello della controriforma istituzionale in corso d’opera: verso un autoritarismo fatto di personalizzazione della politica e di uso stabile della cerimonia mediatica. Ma riprendiamo il filo. E lasciamo stare per carità di patria il pasticcio dell’”Agenzia per l’Italia digitale” (Agid). Il “punto di catastrofe” è costituito dalla vicenda del Piano della banda larga e ultralarga. Qui è in atto qualcosa di poco chiaro. Telecom, Metroweb, ora Enel (?). Perché una simile confusione? Servirebbe un “compromesso positivo” tra i diversi soggetti - nazionali e locali (e sì, la fibra richiede il protagonismo dei territori) - con un indirizzo garantito dalla sfera pubblica: dalla “neutralità” della rete all’accesso libero. Così, è lecito chiedersi come mai non si investa di più sulla produzione dei contenuti: la creatività c’è, eccome, ma deve battagliare con tagli e burocrazie. La storia corre sul “filo” e su programmi, film e audiovisivi. In un contesto crossmediale, multipiattaforma, riunificato dai linguaggi digitali. E’ in corso l”addomesticamento sociale” delle forme contemporanee di comunicazione: modi e stili di consumo lontani dal piccolo mondo antico. Insomma, è in gioco un pezzo della democrazia. Guai se all’evoluzione tecnica corrispondessero ulteriori pesanti divisioni: culturali e sociali. Infine. La ministra Boschi ha rilanciato il tema inquietante per la storia italiana- del conflitto di interessi. Ci sono testi in Parlamento, tutti migliori della fragilissima norma in vigore. Se ne estragga uno a sorte e lo si approvi. A meno che la legge sia solo una metafora. Tendenze · On demand, una rivoluzione che seppellisce i partiti Rai · Il verso non cambia, il governo se la canta e se la suona Il futuro del servizio pubblico Una riforma o una mossa tattica? Carlo Freccero Q uale sarà il futuro del servizio pubblico televisivo? E’ difficile prevedere il futuro. In genere la cosa migliore è analizzare il presente per coglierne le tendenze. E la tendenza in atto, a partire da Netflix, va in direzione di una televisione on demand. L’on demand rappresenta una vera e propria rivoluzione del medium televisivo, perché sancisce la fine della tv così come noi la conosciamo. E infatti le caratteristiche dell’on demand vanno in direzione opposta alle scelte generaliste. In primo luogo sparisce il palinsesto, che ha funzionato sino ad oggi come orologio sociale, scandendo la quotidianità delle nostre vite (h. 20 tg, h. 21 varietà, seconda serata talk show…). L’effetto più drammatico della sparizione del palinsesto è la perdita della sincronia e quindi della condivisione. Condividere in un tempo comune un dibattito, crea uno spazio sociale, un’agorà virtuale che contribuisce alla partecipazione diretta agli eventi politici e di costume. Pensiamo all’importanza del talk show e della televisione all’epoca di Mani Pulite: fu la televisione a traghettarci fuori dalla Prima Repubblica, a sostituire alla politica grigia e anonima dei partiti, la politica del leader, a identificare il partito con la persona capace di dibattere in pubblico, di “caricare” l’elettorato. Tutto questo sta sparendo o è già sparito. La crisi del talk show è anche una crisi mediatica. L’on demand è per la fiction (cinema, serie) o per lo sport. L’evento informativo e il dibattito sono sempre più relegati sulle reti tematiche d’informazione. Attualmente il dibattito sulla riforma della Rai non riguarda tanto la missione del servizio pubblico, quanto la sua occupazione da parte dei partiti. Bene, una televisione on demand non si presta a nessuna occupazione, perché manca di spazi pubblici di discussione e di indottrinamento. Però abbiamo esordito dicendo che si tratta solo di tendenze. Non sappiamo in quanto tempo si realizzeranno e se si realizzeranno totalmente. E’ probabile che la televisione generalista sopravviva, pur perdendo peso. In realtà la tv on demand ha un limite nell’essere un servizio a pagamento, mente la televisione tematica richiede interessi e competenze specifiche. Resterà sempre un segmento del pubblico che farà riferimento alla generalista, ma sarà la fascia di pubblico più dequalificata. Quando parliamo di servizio pubblico ci riferiamo dunque ad una televisione generalista sopravvissuta alle reti tematiche per mancanza, da parte del suo pubblico, sia di capitale economico che culturale. E questa involuzione comincia a rendersi visibile. Nella sera di giovedì 23 aprile un programma come Il Segreto, telenovela spagnola costruita per un pubblico femminile e popolare, ha superato le tre reti Rai e ha raggiunto il 19,19% di share con 4.857.000 spettatori. Un programma di questo genere solo pochi anni fa avrebbe raccolto un’audience marginale (in gergo si direbbe un’audience di controprogrammazione). E’ a partire da questa tv che si pone oggi la domanda di come dovrebbe essere riformato il servizio pubblico televisivo. CONTINUA |PAGINA IV Roberto Zaccaria U na premessa innanzitutto. Il tema della Rai e della sua riforma occupa da tempo la scena politica. Un tempo fin troppo ampio, almeno per il decisionismo di questo governo. Si era detto che la legge doveva essere fatta prima del rinnovo del mandato del Cda. Si era ipotizzato il decreto, come ormai si fa per quasi ogni provvedimento, ma poi quest’ipotesi era stata messa da parte, forse anche per qualche autorevole suggerimento. Il disegno di legge viaggia però al rallentatore. Prima le indecisioni a Palazzo Chigi, poi il passaggio al Quirinale infine l’approdo al Senato. Ma quanto tempo ci vorrà per arrivare all’approvazione di un testo? Non mi pare che una legge di questa natura possa impiegare meno di tre-quattro mesi in prima lettura e lo stesso tempo alla Camera. Sarebbe già un record! Mi sembra difficile ormai il rispetto della scadenza massima della durata del Consiglio e dei suoi vertici prevista per il prossimo luglio. La legge non potrà essere approvata, secondo le più rosee previsioni, prima della fine dell’anno. Lo scenario più realistico sembra dunque o quello di una proroga significativa dell’attuale Consiglio (prassi verificatasi spesso in passato, ma che non pare nelle corde del premier) o il rinnovo con le regole della Gasparri. Questa seconda ipotesi, più probabile, consentirebbe al governo di ottenere risultati simili a quelli ipotizzati e magari con qualche critica al parlamento per i suoi ritardi. Il ddl sulla Rai si muove sia tecnicamente che politicamente all’interno del disegno della legge Gasparri (2004) e del Testo unico sulla radiotelevisione (2005), verso i quali si procede con la pura tecnica dell’emendamento. Tra l’altro questa tecnica ha provocato qualche incomprensione e qualche allarme, del tutto ingiustificato, come nel caso dei limiti alla pubblicità della Rai. Qualche giornalista alla ricerca di improbabili retroscena ha letto le disposizioni abrogate della legge Gasparri e ha pensato alla solita furbizia di qualcuno che voleva favorire la Rai. Ma la stessa materia abrogata era stata già trasferita all’art.38 del TU della radiotelevisione che continua ad essere in vigore. Se proprio si fosse voluto innovare in questo campo dei limiti alla pubblicità sarebbe stato molto più incisivo un intervento che finalmente ponesse fine alla sciagurata pratica degli sforamenti (rispetto ai limiti di affollamento previsti per legge). CONTINUA |PAGINA IV Intervista · All’inseguimento del circo mediatico, con ogni «mezzo». Andrea Salerno racconta «Gazebo» «Siamo gonzi terribilmente seri» Micaela Bongi D al 22 maggio i «gazebers» cronici dovranno restare a casa il venerdì all’ora di cena. Gazebo (@welikechopin su twitter, perché il titolo allude alle elezioni primarie, ma gli autori sono pur sempre ragazzi degli anni ’80), chiude la terza stagione uscendo dalla «nicchia» per approdare, con cinque puntate settimanali, in prima serata. Andrea Salerno, una delle firme del programma di Raitre, non è preoccupato: «Abbiamo cambiato spesso collocazione e durata. Ma è nella natura stessa di un Gazebo. Il Gazebo dove lo metti sta, si può spostare facilmente, non mette radici. Più seriamente è la voglia di continuare a sperimentare e di mettersi in discussione». Come nasce Gazebo? Nasce dopo un pranzo. Nasce dall’intuizione di Diego Bianchi di unire un gruppo di persone che si conoscevano poco, che a volte si erano sfiorate, con percorsi differenti e esperienze professionali molto diverse: il sottoscritto, Marco Damilano, Makkox, Antonio Sofi. L’idea era quella di provare a raccontare il nostro Paese usando linguaggi nuovi, mischiando satira e giornalismo, il mondo reale e quello alterato «Rompiamo le liturgie della narrazione politica. Il nostro è un programma strano, espelle tutto quello che non è gazebico» dei social network. Alcuni di noi venivano dalla tv, altri dal web, altri dalla carta stampata. Avevamo tutti lavorato con Diego, ma separatamente e a progetti diversi. Ognuno aveva i suoi riferimenti. Obbiettivo che ci trovò subito d’accordo: provare a frullare tutto, Te lo do io il Brasile di Grillo, gli studi arboriani di prima generazione come Speciale per voi, la migliore informazione visiva, musica dal vivo e altro ancora. Al centro di tutto, la piccola telecamera di Diego, il suo terzo occhio, la grande capacità di riprendere e montare con uno stile unico, la capacità di essere ‘autorevole’ perché presente. Una tv-jazz, tutto live: Diego racconta e mostra video, Makkox disegna e la musica suona. Questa la base di partenza. Altro non sapevamo, né di noi, né di quello che avremmo fatto. Ci hanno aiutato tre cose: l’affiatamento; l’attualità che per le prime dodici puntate ci regalò eventi straordinari che ci fecero da palestra, una rete (Raitre) che ci permise - cosa sempre più rara - una sorta di libera sperimentazione in onda. Uniti solidi e capaci musicisti e un tassista pazzo, preso per studio il retro del Teatro delle Vittorie dove viene registrato Affari tuoi, il gioco è cominciato. Quale fabbrica produttiva mette in moto? Gazebo è girato interamente con le telecamerine, con i telefoni, con Ipad, insomma con qualsiasi cosa sia estremamente duttile. Una trasmissione a basso budget, resa possibile dall’aver capito che a volte anche la ripresa di una diretta trasmessa su un monitor di computer è sufficiente a raccontare la realtà. Diego monta anche il suo “grezzone”, tutto il resto viene supportato da un montaggio della Rai. Le riprese e tutto lo studio sono frutto della grande professionalità della squadra Rai del Delle Vittorie che da subito si è divertita con il resto del gruppo e ha dato un grande apporto affinché un piccolo retro di uno studio avesse un’anima e una riconoscibilità televisiva. La produzione è divisa tra Fandango Tv e Rai. Ma la modalità produttiva principale di Gazebo è che tutti possono trovarsi a partecipare a tutti i livelli, dalle riprese all’essere protagonisti in video. La produzione di Gazebo stessa è diventata uno degli elementi di narrazione e probabilmente anche una delle caratteristiche principali che la rendono una trasmissione unica nel suo genere. Spostamenti in moto, riunioni di redazione, tutto è rappresentato, tutto fa parte del racconto gazebico, del racconto di quel ‘circo mediatico’ che accompagna ormai ogni evento di cronaca, lo condiziona, lo trasforma, lo rende tale. Tra autoreferenzialità ostentata e radicalità dei contenuti, anche il reportage, come quelli sull’immigrazione, è trattato in modo nuovo. L’occhio e la capacità di Diego di essere partecipe e coprotagonista del documentario che gira è la chiave di volta e la caratteristica che permette di affrontare in modo diverso ogni argomento che sia Sanremo o un drammatico viaggio tra gli immigrati di Rosarno. Oltreoceano hanno inventato Vice e certo gonzo journalism, noi abbiamo Gazebo. E’ una questione di linguaggio, sia visivo sia narrativo. Significa rompere le liturgie a cui il pubblico è abituato e portare sul piccolo schermo modelli che più frequentemente e stabilmente si trovano su Youtube, sui social, in quel mare che è la Rete dove non ci si preoccupa della pulizia di un’inquadratura o dell’audio, anzi: in quella sporcatura e imperfezione il racconto sembra ritrovare uno straccio di reale, di verità, e di credibilità. Quella credibilità che potremmo perdere domattina, ma che fino ad ora ci ha permesso di fare i buffoni e i giornalisti senza danneggiare né i primi né i secondi. Le partenze in vespa sono un omaggio morettiano? Un omaggio morettiano sicuramente, ma soprattutto più semplicemente una soluzione pratica: è la mia Vespa, quella che uso tutti i giorni. Il parco “mezzi” di Gazebo è composto anche di un’Harley di Pierfrancesco da Termoli e del taxi di Mirko, se per questo. La Vespa è un modo per spostarsi velocemente, rende bene l’idea dell’azione, e soprattutto ancora non mi spiego come Diego riesca a fare a mano libera delle riprese ferme che neanche su un camera car. Nel momento della crisi dei generi televisivi, con i talk-show in depressione, Gazebo inventa un modo nuovo di occuparsi di politica. E' la matrice della rai "guglielmina" aggiornata all’epoca dei social? Oppure? Ma, questo bisognerebbe chiederlo a Guglielmi. Di quella stagione straordinaria che nel bene e nel male ha contribuito alla decostruzione dei modelli culturali che avevano accompagnato la tv dalla sua nascita e il novecento e la sinistra italiana fino alla caduta del muro di Berlino, sicuramente ereditiamo la voglia di sperimentare e di mettere in discussione i linguaggi e le liturgie consolidate del piccolo schermo. Più semplicemente proviamo a raccontare le cose che raccontano tutti da un altro punto di vista. A volte ci riesce, a volte meno. Ma ci proviamo sempre e con grande rigore. Le nostre riunioni di redazione del lunedì sono così serie che a volte preoccupano pure noi. Perché non avete ospiti in studio? Non è una scelta definita. Spesso semplicemente non servono per costruire il nostro racconto. Gazebo ha la capacità di espellere qualsiasi cosa non sia “gazebica” da se stesso. Cosa significa "gazebico”? Ancora non l’abbiamo capito fino in fondo. Per esempio al momento un politico in studio non siamo ancora riusciti a metterlo. Non è che lo si esclude a priori, è il programma che al momento lo rifiuta in automatico. Una delle vostre particolarità è il racconto variamente declinato. E’ questo il senso della graphic novel invece del vignettista classico? Makkox con i suoi disegni live, i fumetti animati e i tutorial fanno parte della sinfonia. Il senso è proprio questo, dove non arrivano la telecamera, la musica o una gag, lì arriva sicuramente una matita. E’ proprio una possibile declinazione del racconto, di un racconto che dev’essere principalmente visivo. Che poi è strano, in un programma dove la parola di Diego si sovrappone ai filmati, dove lo spiegone di Damilano fissa alcuni chiodi, dove la classifica dei social è il trionfo del nuovo verbo, dove insomma le parole abbondano. Forse è proprio questo Gazebo: parole che fanno da chiodi per i fili narrativi di reportage e disegni. Ma domani sarò pronto a giurare che invece è l’esatto contrario. La musica ha un posto in prima fila. Come scegliete i gruppi? Il primo criterio è: decide Diego. Il secondo: devono suonare dal vivo ed essere molto bravi. Informazione · È qui che si misurano i rapporti di forza tra politica e tv. Ma la riforma Renzi se ne dimentica La scatola nera del talk show Christian Ruggiero T anto è ampio il dibattito attorno alla riforma della Rai, quanto sono scarni i documenti ufficiali attorno ai quali costruirsi un’opinione. Sul sito del Governo troviamo un asciutto pdf di quattro pagine, un documento programmatico intitolato «La nuova Rai». Che dedica molta attenzione al settore dell’informazione, dimenticandone però una parte importante: i programmi di approfondimento. I confini dell’offerta informativa della futura media company, «liberata» dalla politica e razionalizzata soprattutto nel settore informativo, si fermano alle testate giornalistiche, lasciando fuori lo sconfinato territorio dei talk show. Eppure proprio in quest’ennesima «anomalia» dello sviluppo dell’offerta informativa del servizio pubblico sta quel passaggio «dalla Rai dei partiti alla Rai dei professionisti» che lo stesso documento evoca. Un passaggio avvenuto già all’epoca di Tangentopoli, quando i Lerner e i Santoro costruivano le loro piazze virtuali per mettere in scena, proprio sul palcoscenico della tv di Stato, il processo alla politica che già avveniva nelle aule del Tribunale di Milano. Sotto accusa era la politica che aveva fatto della Rai l’esempio più concreto della spartizione delle risorse materiali e immateriali secondo una lottizzazione che solo in Italia ha potuto essere elevata a metodo scientifico. Nel successivo «ventennio», l’influenza della politica sul sistema informativo si è certo esercitata sui tg - ri- cordiamo la campagna elettorale del 2008, l’attenzione spasmodica delle prime due reti ai casi di cronaca nera riguardanti immigrati presunti clandestini, la scelta della terza rete di effettuare un reportage nei piccoli centri del Nordest per verificare quanto la paura percepita passasse per la rappresentazione della sicurezza nel piccolo schermo. I risultati sono stati magistralmente riassunti da Antonio Di Bella per una pubblicazione dell’Osservatorio Mediamonitor Politica intitolata «Perché la sinistra ha perso le elezioni»: «Lei perché ha votato Lega?» «Per la sicurezza. Non si è più sicuri» «Dunque lei ha subito un’aggressione» «No» «Nel paese dove lei vive accadono episodi violenti legati agli immigrati» «No. Però si sente che accadono delle brutte cose». Ma i risultati della ricerca mostrano anche molto altro: lo spazio della politica si è progressivamente sovrapposto a quello della tv, e i rapporti di forza tra questi due mondi sono visibili anzitutto nell’arena del talk. Osserviamo in un’ottica diacronica gli «eventi mediali» che hanno visto protagonista Berlusconi nelle elezioni della Seconda Repubblica «realizzata», quella che nasce nello shock del 1994 e si consolida a partire dal 2001. L’8 maggio di quell’anno Bruno Vespa trasforma il suo studio televisivo in quello di un notaio, per accogliere la firma, su una scrivania di ciliegio divenuta parte dell’immaginario politico italiano, il «Contratto con gli Italia- ni». Due Governi Berlusconi dopo, ecco il Cavaliere dare una scossa alla campagna sonnacchiosa del 2006 lanciando a Lucia Annunziata l’ultimatum del «mi alzo e me ne vado», creando un esempio da manuale della mutazione genetica del neo-giornalista, che pur di rivendicare il suo ruolo di professionista manda all’aria un’intervista con il presidente del consiglio. Due difficili anni di centrosinistra, ed ecco un’altra campagna elettorale, giocata su narrazioni che non potevano che trovare la loro sede ideale nel talk: quella dell’equazione del benessere rivista e corretta per salvare l’economia italiana che passava anzitutto per i destini dell’Alitalia contro quella della bella politica che tratteggiava, con eccessivo anticipo, la fine del bipolarismo. Un nuovo scenario che solo oggi si è realizzato, nel fragile tripolarismo in cui si dibattono i «grillini» (passati da una strategia ferocemente antitelevisiva per le politiche del 2013 all’innamoramento per il talk nelle Europee 2014) e in cui trova la sua dimensione televisiva e politica Matteo Renzi. Che non si esprime solo nelle comparsate all’interno dei talent della «concorrenza», ma anche e soprattutto nella iper-presenza e nelle solide performance del capo del governo che porta avanti questa riforma. Che si esprimono nelle arene più tradizionali come Porta a Porta, nei confronti con Lucia Annunziata In mezz’ora e nelle pigre serate di Che tempo che fa. Mentre la scatola nera del talk continua a registrare ogni oscillazione nei rapporti tra tv e politica anche nella tele-piazza ordinata di Ballarò e in quella eterodossa di Virus, nel salotto iperconnesso di Agorà e in quello domenicale de L’Arena, dove il processo alla classe dirigente procede, incurante del crinale tra «vecchio» e «nuovo» su cui si gioca la dialettica politica attuale. Lo scontro tra generalista e pay · La tv non è più un servizio universale. Un’anomalia che va colmata Vecchi vizi e nuove virtù Francesco Devescovi I l sistema della comunicazione sta attraversando una fase di profondi cambiamenti che toccano gli snodi più rilevanti del sistema. Nuovi media, grazie a continue innovazioni tecnologiche, si affermano a vantaggio di altri più vecchi, mentre il pubblico dimostra un’inaspettata capacità di selezione fra un’offerta sempre più ampia. Il rischio che si corre è che le potenzialità del nuovo siano vanificate da scelte politiche che rallentino il processo d’innovazione. La diffusione della banda larga, per esempio, è stata bloccata da contradditorie scelte di politica industriale e ciò ha determinato che la web-tv abbia avuto difficoltà ad affermarsi, secondo quanto richiesto dal mercato. E così la televisione è ancora incentrata sulla «vecchia» tv generalista, dalla quale molti si sono allontanati, passando alla tv a pagamento o all’astinenza vera e propria dalla televisione classica, con un servizio pubblico non ancora affrancato dalle vecchie logiche dell’occupazione da parte della politica, metodi che dovrebbero appartenere ormai alla «storia». Il nuovo ha difficoltà a subentrare al vecchio. Il rischio è che la comunicazione, che avrebbe dovuto agevolare l’integrazione sociale, abbia accentuato ancor più le divisioni fra chi si emancipa grazie all’utilizzo dei nuovi media e chi ne è escluso, arrivando a una nuova «povertà». Andiamo con ordine e analizziamo quanto sta avvenendo. Marco Giusti M agari non è così vero. Ma mi piace pensare, un po’ per spirito di polemica un po’ perché tutto quello che può rivitalizzare il nostro cinema va tentato, che Gomorra - La serie e, in parte, anche 1992, siano stati i migliori film della stagione cinematografica che si sta ora concludendo. Qualcosa, insomma, che si eleva dalla definizione di «fiction», di solito attribuita ai prodotti seriali televisivi, e diventa «cinema». In modo diverso, sia Gomorra che 1992 diventano cinema, anzi cinema come si faceva negli anni più eroici della nostra industria, proprio perché sono obbligati, dalla formula di seriali “alti” di Sky Atlantic e dalla vicinanza con serie molto amate e seguite come Games of Thrones o Boardwalk Empire o House of Cards, a seguire in qualche modo le stesse costruzioni narrative, le stesse impostazioni di montaggio alternato che seguono più personaggi, perfino analoghi modi di iniziare e finire le singole puntate. Strutturate quindi come seriali alti, da Hbo per interderci, obbligano sceneggiatori e registi, e qui penso soprattutto a Stefano Sollima e al suo gruppo, composto da due bravi registi come Francesca Comencini e Claudio Cupellini, a costruire al massimo livello la messa in scena. Senza puntare però né al cinema da 400 sale con quei dieci attori che vanno di moda che sei obbligato a prendere dai produttori, né alla regia del film da festival, altra malattia mortale della nostra industria. In qualche modo, Stefano Sollima, che è figlio di uno dei più illustri registi di genere che abbiamo avuto nel nostro paese, Sergio Sollima, autore di grandi spaghetti western, spy movies e avventurosi come Sandokan, non a caso grande seriale tv, riesce a trasportare nella fiction ricca di Sky sia la grande lezione del cinema di genere, qualcosa che abbiamo nel dna, sia a trascinare nel gioco registi magari fino a oggi più interessati a un cinema d’impegno, e penso a Francesca Comencini, altra figlia d’arte, che a sua volta si libera di una certa zavorra di cinema d’autore e porta nel nuovo genere tutta la sua finezza intellettuale. E permette a tutti di lavorare con attori meno noti, ma più freschi, che avranno cento volte più voglia di rischiare delle solite star. Anche nel caso di 1992, diretto da Giu- Il digitale terrestre, introdotto pochi anni fa, ha sconvolto il sistema. Attualmente ci sono circa novanta reti a livello nazionale. Un’offerta abbondante che ha consentito a nuovi gruppi di affermarsi (vedi Discovery), e a scoprire diversi canali tematici di valore. La crisi della tv generalista ha ridimensionato il predominio di Rai e Mediaset (insieme avevano il 90% di share nel 2000, poi sono scesi all’85% nel 2005, al 79% nel 2010 e ora sono arrivati al 71%), ma le quote perse dalle reti generaliste sono state in parte recuperate dai loro canali tematici. Nel frattempo la tv a pagamento (segmento nel quale la competizione è ristretta fra Sky e Mediaset) ha aumentato il parco degli abbonati, arrivando insieme a circa sei milioni, il 24% delle famiglie. Lo «scontro» fra la tv generalista e la pay sta caratterizzando questa fase. La tv generalista perde continuamente ascoltatori, perché i suoi programmi sono troppo ripetitivi e sconfinano, spesso, nel trash e perché il pubblico, o almeno una sua parte, è diventato più selettivo. La crisi della pubblicità (-25% negli ultimi dieci anni; dopo che nel decennio 1990-2000 aveva fatto registrare +47%) riduce inoltre gli investimenti sui programmi e ciò causa un ulteriore scadimento della loro qualità, mentre la tv a pagamento punta tutto sulla qualità e sull’esclusiva dei grandi eventi. Pur avendo raggiunto una quota significativa di abbonati, la pay continua ad intercettare gli spettatori delusi che «fuggono» dalla generalista. Una prima conseguenza di questo fenomeno è che la televisione non è più un servizio universale, quale è sempre stato. Il servizio pubblico dovrebbe, come una forma moderna di welfare della comunicazione, colmare proprio quest’anomalia. Nel 2014 il consumo medio giornaliero di televisione è stato pari a 255 minuti (4 ore e 25 minuti), ma va segnalato un atteggiamento diversissimo fra i vari gruppi. Dal pubblico-massa, si è passati a masse di pubblici, in cui vi sono i «bulimici» televisivi e gli «anoressici». I primi sono gli anziani e persone di livello economico e sociale basso, mentre i secondi sono rappresentati dai giovani in particolare. Per essi, ancor più per i cosiddetti nativi digitali, la tv è un medium vecchio per definizione, che usano magari solo per i grandi appuntamenti. Nella storia della comunicazione, c’è sempre un mezzo egemone, quello attorno al quale ruotano gli altri. Negli ultimi trent’anni è stata la tv; ora sta lasciando il posto al web, con velocità diverse fra i vari paesi. E il servizio pubblico come si pone in questa situazione di cambiamento? Nella sua lunga storia vive oggi il momento più delicato. La Rai è identificata come un’eredità della storia, seppur gloriosa, ma sulla quale è impossibile investire per il futuro per l’acclamata, così sostengono i critici, incapacità produttiva e per una programmazione che non si discosta da quella dei privati. Non a caso il canone è identificato come la tassa più «odiosa». Le ristrettezze delle risorse, il canone che ha un’alta evasione e la pubblicità che attraversa una crisi struttu- Serie · Da «Gomorra» a «1992», una liberazione per tanti registi Il bel sogno della fiction italiana è un tuffo nel cinema di genere seppe Gagliardi, dove non c’è neppure il legame con un forte film precedente come nel caso di Gomorra, si assiste a una liberazione della fiction tradizionale. Grazie, soprattutto, a un tema da cinema d’autore. O che il cinema d’autore avrebbe dovuto trattare, e non lo ha potuto fare per ovvi motivi di vigliaccheria politica o di moralismo da prima serata generalista. E’ vero, quindi, che 1992, magari, è una serie meno rifinita narrativamente di Gomorra, ma è anche molto più libera rispetto a schemi prefissati, a cominciare dal peso del gomorra movie, perché scrive qualcosa che né la nostra fiction né il nostro cinema hanno mai saputo e osato mettere in scena. E’ il tema, insomma, oltre alla già detta vicinanza con le serie americane, a farne una serie di culto immediato, ma anche a spingerla verso una direzione inaspettata, come quella del cinema di genere. Perché anche qui, dovendo comunque fare cinema piuttosto che fiction da tv generalista, ci si spinge nel mondo del film politico-scandalistico anni ’70, qualcosa che da anni non bazzichiamo più. E, visto che si è più liberi, si possono mettere in scena situazioni se non da pura commedia-sexy, da commedia di satira sociale, come la ra- gazza che per fare carriera in tv cede alle lusinghe dei corrotti e dei potenti, la ricca rampolla alto-borghese che non sa decidere se seguire le orme del padre o mettersi col poliziotto. E’ il luogo, insomma, in questo caso Sky Atlantic, a spingere i nostri registi a un fortunato ritorno al cinema di genere grazie alle serie «alte». Non a caso si parla di progetti come un Django seriale, un Diabolik moderno, una serie da girare in Almeria con cowboy contro zombi, oltre a quella, in lavorazione, sulle avventure del giovane Papa Bergoglio, The Young Pope, affidata a Paolo Sorrentino, mentre per altre si cercano di coinvolgere Sydney Sibilia o Matteo Garrone. Lo stesso Garrone ha riconosciuto più che possibile trasformare il suo Il racconto dei racconti in un seriale tv alla Games of Thrones. A ben vedere, oggi, hanno molti più limiti, di narrazione, di temi e di messa in scena, certi piccoli e grandi film d’arte che obbligano i registi al modello sub-Dardenne con la macchina da presa fissa sulla nuca della giovane protagonista sfigata. O a una scrittura che non deve chiarire nulla nei primi venti minuti di spettacolo, per cui neanche lo spettatore capisce nulla. Al punto che diventa più “genere” il cinema d’autore del cinema di genere stesso. E sfrutta meccanismi, spesso, importati dal cinema internazionale e non sempre davvero sentiti. Meglio, allora, questo sano ritorno al nostro Dna anni ’70 con l’avventuroso, la commedia, il poliziesco. Per tanti registi italiani, più o meno giovani, è davvero una liberazione. E per tanta nostra fiction, spesso modesta, mal scritta e mal diretta, potrebbe davvero essere una svolta interessante. Anche perché può finire per coinvolgere nell’operazione di riscrittura dei nostri codici cinematografici anche quanti si sono impegnati in questi anni nelle web series, altra forma intelligente e i novativa di seriale che, grazie all’esplosione del seriale televisivo, possono magari trovare una loro strada popolare. rale, comprimono ancor più gli spazi di mercato. L’attenuarsi degli effetti del conflitto d’interessi, a causa della parabola politica discendente di Berlusconi, ha (stranamente) colpito negativamente proprio la Rai, che di questo conflitto ha subito danni per decenni. Eppure mai come adesso, in un clima da pensiero unico, ci sarebbe bisogno di un vero servizio pubblico. Non si dovrebbe dimenticare che il servizio pubblico è un fondamentale anticorpo per la democrazia. Se si prendesse atto di questa realtà, sarebbe più facile individuare la corretta riforma della Rai. E si dovrebbe costruire il suo futuro migliorando l’esistente. Usa · Amazon, Netflix, la nuova generazione Quando la cronaca è una cosa serial Giulia D’Agnolo Vallan I l discorso di apertura di Next, un programma del Marché di Cannes sul futuro dell’industria dello spettacolo, quest’anno è stato affidato al responsabile dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos. Non ci sono serie televisive nel programma del festival ma la scelta di Sarandos non è casuale: non solo Netflix ha appena realizzato il primo lungometraggio di sua produzione (Beasts of No Nation, diretto dal regista di True Detective Cary Joji Fukunaga), l’intera strategia con cui la piattaforma streaming sta contribuendo a rivoluzionare la fruizione e la circolazione di entertainment ha veramente decollato quando Sarandos ha cominciato a puntare su contenuti originali; sotto forma di serie di altissima qualità come House of Cards o Orange Is the New Black. Si parla frequentemente di un’odierna Golden Age, un’età dell’oro della tv americana. Era definita così anche un’altra fase particolarmente creativa della sua storia, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’60 quando a un pool di grandi scrittori (Gore Vidal, Paddy Chayefsky, Rod Serling, Horton Foote…) e registi (Arhtur Penn, John Frankehneimer, Sidney Lumet, Robert Altman..) fu concesso di portare autorialità e sperimentazione a un mezzo nato da poco e che aveva bisogno di definirsi. Come allora, anche questo è un momento di evoluzione e di grandissima creatività - analogamente a Hbo e alle altre reti cavo a pagamento, piattaforme come Netflix, Amazon tv o Hulu, non basano le loro scelte sui rating e non dipendono dagli inserzionisti. In alcuni casi (Amazon, il più clamoroso) lo spettacolo è una parte minima del loro business. Il loro unico modo per attirare pubblico è la qualità del prodotto (che sta alzando anche quella dei network). Affidando le sue serie tv ad autori come Whit Stillmann, Garry Trudeau, David Gordon Green, Roman Coppola, Alex Gibney e persino Woody Allen, le produzioni originali di Amazon si sono per esempio allineate con l’immaginario e l’estetica del cinema indipendente Usa, assorbendone molti degli autori e attori, che si dicono entusiasti dell’esperienza. L’altro grande asset di questa seconda Golden Age è la diversificazione del prodotto: liberata dalla schiavitù di dover pensare a un pubblico di massa, come quello che si raccoglieva di fronte ai salotti e alle cucine delle sitcom, le nuove serie sono un mosaico infinito di realtà diverse, che spazia tra i generi, le sottoculture, l’immaginario, la politica e la storia. Quasi una proposta alternativa di «documentario» , un puzzle che si offre come specchio e funzione critica delle realtà che ci circonda e uno spaccato sociologico degli States in cui trovano posto bellissime (re) visioni del passato, come Mad Men, Sopranos, Masters of Sex, o Man(h)attan (sul making of della bomba atomica), feroci satire sulla politica (House of Cards, Scandal, Veep...) un’imitazione di Dallas ambientata in Medio Oriente (Tyrant, su Fx), una ambientata sullo sfondo dell’attuale boom del petrolio in North Dakota (Boom, su Abc) e un’altra a Key West (Bloodline, su Netflix), sanguinosi drammi di confine (The Border, su Fx) e la storia di un architetto californiano sui 60 che decide di cambiare sesso e la cui realtà famigliare include una figlia etero che diventa gay, almeno un aborto, allucinogeni vari, battute caustiche che non risparmiano l’Olocausto e flash back in un campeggio comunità anni ’70 per uomini che amano vestirsi da donna (è Transparent, su Amazon Tv e che ricorda America oggi di Altman). Porosissime e pensate sulla base di tempi di produzione più raipidi, le nuove serie sono in continua dialettica con l’attualità. In tempi strettissimi, hanno già (ri) messo in scena il razzismo della polizia (The Good Wife), la tortura (Madame Secretary, Homeland, 24...) e l’accordo con l’Iran (di nuovo Madame Secretary), le nefandezze di un gruppo di senatori repubblicani (Alpha House) e una donna alla Casa bianca (Veep). Spesso con più intelligenza, acume politico, rispetto per il pubblico e complessità di un tg. Digital relationship · Il servizio pubblico arranca dietro Mediaset e Sky La tv si fa smart, ma non la Rai Francesco Siliato L a televisione è il medium che più di altri ha utilizzato la digitalizzazione per moltiplicarsi. Mantiene così la propria centralità su informazione e intrattenimento, tra segmentazione di offerta e nuove forme di visione. L’intero comparto è mutato e lo sono i modelli di business. Molte trasformazioni sono gia avvenute e tante altre sono in corso d’opera. Il settore vive una crisi solo apparente: forte dinamico e in crescita, la crisi riguarda gli editori che non hanno pensato ad innovare in tempo, immaginando l’immutabilità o anche solo di poter ritardare quel che non ritarda. Invece non si sono mai viste tante immagini, anche televisive, e non vi è mai stata tanta pubblicità come da quando la rete diffonde video, con anche frammenti di televisione, e comunicati commerciali affollano siti e motori di ricerca. Tra il 2008 e il 2015 la visione di televisione da televisore è cresciuta da 9,9 a 11,4 milioni, ma la popolazione è cresciuta ancora di più, in realtà quindi il consumo è diminuito. E’ diminuito anche il numero di chi la guarda per un solo minuto (48 milioni di persone secondo Auditel). Ma è aumentato il tempo dedicato alla tv da chi vi dedica tempo. Telespettatori e telespettatrici trascorrono cinque ore e quarantadue minuti esposti a suoni e parole provenienti da un televisore. Ci sono delle ore in cui la presenza di pubblici è molto aumentata. Nell’ultimo decennio tra le 15 e le 18 l’aumento è di oltre due milioni di individui. Di oltre due milioni è l’aumento di persone sedute davanti a un televisore anche tra le ventiquattro e l’una della notte. Vi sono però donne e uomini che hanno smesso di alimentarsi di tv, sono oltre un 1,4 milioni tra chi ha età compresa tra i 25 ed i 34 anni. Il modo di informarsi e intrattenersi è mutato, ed è cambiata anche la modalità. Tanto da sospettare che la perdita di ascolto sia solo in parte reale. Tra applicazioni, visioni da Pc, Smartphone, Tablets non si esclude che brani e frammenti di tv siano recuperati da device diversi dal televisore. Ma il televisore è sempre più grande, con una sempre più nitida Da 7 a 197 reti nazionali, molte trasformazioni sono in corso. Rischiano gli editori fermi alla contemplazione di sé definizione, collegato ad apparati che ne consentono registrazioni immediate e visioni differite. E i televisori stessi sono connessi a Internet, offrendo visioni molto più spettacolari anche delle stesse pagine dei propri social media preferiti, ed è probabile che le Smart tv verranno utilizzate per essere insieme primo e secondo schermo, quello della visione e quello del commento sui social media, Twitter per l’immediatezza e Facebook per una maggior permanenza delle proprie parole alla vista di amiche e amici. Le Smart tv sono già presenti e hanno un grande futuro, in questo momento sono lo strumento con le maggiori potenzialità di crescita. In Italia negli ultimi mesi le persone che seguono la programmazione te- DALLA PRIMA Roberto Zaccaria Riforma, la mossa tattica del governo Sforamenti che un tempo erano praticati sistematicamente dalle emittenti tv (anche se per piccoli importi giornalieri) con un vantaggio che su base annua era decisamente rilevante (diciamo diversi milioni di euro?). Le “tecniche” di controllo dell’Agcom sono state sempre assai poco incisive e questo ha causato un danno obiettivo ai volumi di pubblicità dei mezzi non televisivi. Questo avrebbe potuto essere un intervento importante, ma sembra che non interessi a nessuno. Veniamo ora al merito del provvedimento che interessa la Rai. Non mi pare proprio che si possa definire una riforma. Esso è caratterizzato più da una visione retrospettiva che da uno sguardo rivolto al futuro. L’unico accenno ad una ridefinizione dei principi, non fosse altro che per adeguarli ai tempi che cambiano, è contenuto in una delega dai contenuti estremamente generici. Il concetto di indipendenza che costituisce uno dei cardini dei servizi pubblici europei è del tutto assente e infatti la governance è fondata su un accresciuto ruolo dei partiti e del governo. Nessuna rappresentanza, neppure simbolica è attribuita al pluralismo sociale (valore costituzionale). Si potevano inventare vari modi per rappresentare quel pluralismo, che costituisce l’ingrediente fondamentale dei servizi pubblici e invece si è tornati alla solita rappresentanza politica, tra l’altro senza nessuna mediazione, nessun filtro derivante dal possesso di requisiti adeguati di professionalità, senza nessun paletto neppure per le incompatibilità. Un bel salto all’indietro rispetto alle numerose proposte che giacciono in parlamento. La stessa idea di mantenere in vita, per di più indebolita, quella stessa commissione parlamentare che molti avevano detto di voler superare, ha un sapore decisamente anacronistico. I punti critici del ddl sono numerosi e già levisiva da un televisore connesso a Internet sono cresciute di oltre il 15% e superano i 3 milioni e mezzo. La distrazione data dal possesso di una tv connessa a Internet influisce sul consumo di televisione, chi dispone di Smart tv segue la programmazione proposta dai canali televisivi per 3 ore e 45 minuti, due ore in meno della media. Due ore di televisione in meno al giorno valgono il 25% del consumo di programmi televisivi, parte di questo 25% è dedicato al televisore ma non alla televisione. Su tempo e modalità di visione influisce infatti l’età. L’età media della popolazione televisiva Smart è di 41 anni, contro i 53 del popolo della tv e i 56 anni di età media delle reti generaliste. Le due condizioni, tempi e modi, sono collegate, più si è giovani meno si guarda la televisione più si cercano alternative, e va bene anche il televisore connesso. Nell’85% dei casi il televisore connesso a Internet è collocato in soggiorno, stanza dove del resto è collocata la maggioranza dei tv set superiori ai 40 pollici. Collocazione che implica maggior libertà di movimento, spazi più ampi per collegamenti a consolle, Home video e videogiochi. L’editore più seguito dagli smart consumatori connessi è Mediaset, al secondo posto non troviamo la Rai, ma la piattaforma Sky. Preoccupa il ritardo del servizio pubblico. Un servizio pubblico che ha da rigenerarsi e ricostituirsi su basi sociali ed economiche, che deve agire non più pensando a reti separate ma a piattaforme interconnesse, che deve progettare il suo essere pubblico ridisegnando il proprio ruolo e sforzandosi di ridurre la distanza che lo separa dai cittadini abbondantemente individuati. In luogo della nuova missione della Rai e del prolungamento della durata della concessione (in scadenza nel maggio del 2016) viene mantenuta la prospettiva equivoca della privatizzazione e il carattere provvisorio dell’intero quadro normativo (v art.12 ter, aggiunto alla legge Gasparri). Il governo della Rai rimane saldamente nelle mani dell’esecutivo e della «sua» maggioranza. Nessun barlume di indipendenza (valore costituzionale). Il Cda ha un solido nucleo di almeno 4 persone gradite alla maggioranza di governo. Il presidente sarà espressione di questa stessa maggioranza e l’amministratore delegato dovrà essere concordato (su «proposta») con l’Assemblea (pure essa espressione del governo). Vedo che c’è grande curiosità (molti si lasciano suggestionare dai dettagli) intorno al tema delle revoche. Non mi pare che ci siano rilevanti novità rispetto al passato e al codice civile. Aspetti di comicità si rintracciano nell’accenno alle 3 mensilità di buonuscita dell’Ad! Piuttosto l’Ad è potentissimo, un vero padrone dell’azienda. A quanto mi risulta una figura simile non esiste in nessuna parte d’Europa! Tutti i poteri sono nelle sue mani e nessuno oserà disturbare il manovratore. Anche quella timida autonomia concessa in precedenza ai direttori delle strutture editoriali, viene azzerata. Sarà ben difficile controllarlo da parte di un consiglio che non possiede le carte e a maggior ragione dal parlamento. Le decisioni più significative di questo intervento legislativo, oltre a questa sulla governance di dubbia costituzionalità, sono rinviate a due deleghe legislative. Mi riferisco al finanziamento e alla riscrittura del TU della radiotelevisione. Una totale assenza di criteri e di quei concetti di indipendenza, di pluralismo, di certezza di risorse che si ritrovano nella giurisprudenza costituzionale. La conclusione mi sembra una soltanto: visto che non si voleva il decreto, la legge verrà probabilmente abbandonata nei suoi contenuti più discussi. Il nuovo Cda verrà rinnovato con la Gasparri, che il metodo Monti ha già sufficientemente «addomesticato» alle esigenze dell’esecutivo, e per le altre decisioni fondamentali il governo manterrà la delega senza «principi e criteri direttivi». Cioè se la suonerà e se la canterà! Se questo accadesse, avremmo un bel risultato. Non vi pare? e recuperare la credibilità smarrita. Dieci anni fa Auditel monitorava sette reti nazionali, oggi 197, l’offerta televisiva si è moltiplicata, ma si sono moltiplicate soprattutto le alternative alla televisione, che difende e mantiene il suo ruolo centrale, ma fa sempre più fatica a recuperare risorse dal mercato pubblicitario. Che davvero il capitalismo di relazione sia finito, o si avvii alla fine, DALLA PRIMA Carlo Freccero La rivoluzione on demand che seppellisce i partiti Parlare di riforma del servizio pubblico televisivo può avere due opposti significati: stabilire la vocazione del servizio pubblico, il suo attuale significato, oppure, semplicemente, disciplinare l’occupazione da parte della politica nei confronti della televisione pubblica. In questa ultima direzione va la riforma di Renzi, come se cambiare leggermente chi nomina chi, potesse fare la differenza. D’altronde è comprensibile che il dibattito si sia arenato qui. La Rai nasce come una delle componenti dello stato sociale europeo. La sua funzione era pedagogica. Ed era di fatto considerata un complemento della pubblica istruzione. Da tempo questa funzione pedagogica è stata cancellata. In epoca recente, con un mio piano di riforma Rai presentato provocatoriamente in occasione di una mia autocandidatura a presidente, io suggerivo di sostituire la vecchia concezione pedagogica, basata sulla valorizzazione della tradizione culturale europea, con una nuova funzione pedagogica, incentrata non tanto sul capitale culturale, quanto sul capitale intellettuale. In breve: lavorare sull’intelligenza anziché sulla cultura. E’ evidente che, in un ciclo di smantellamento dello stato sociale, difficilmente la tesi della funzione pedagogica della tv può tro- lo si nota anche dall’enorme crescita costante delle nuove forme di pianificazione pubblicitaria, che sotto il nome cornice di Programmatic offre possibilità di pianificazione in tempo reale e all’asta. Con il Real Time Bidding, l’investitore pubblicitario sa chi sta comprando, sta comprando persone interessate alla tipologia di prodotto che lui vende. Non compra testate o reti televisive, compra chi nelle proprie navigazioni ha digitato le parole chiave che lo legheranno a chi quei prodotti vende. Il digitale significa fine, o quasi, delle intermediazioni relazionali, sono le macchine che comprano, vendono e collocano i comunicati commerciali, c’è solo da esercitare un click per Ok il prezzo è giusto. Con queste metodiche le relazioni storiche del mondo della pubblicità potrebbero svanire, e comunque certo verranno ridotte e lo sono già. Il mondo dell’informazione e dell’intrattenimento digitale è già video, è già programmatic, la televisione come sistema non corre molti rischi, i rischi li corrono gli editori fermi alla contemplazione di sé. vare accoglienza. Ma allora bisogna considerare l’ipotesi opposta. Se la tv non alza il suo pubblico, è il pubblico che abbassa l’audience e di conseguenza il dibattito politico. I partiti si preoccupano di occupare la televisione per ampliare il proprio elettorato. Ma c’è un ritorno dialettico che nessuno sembra considerare. L’audience è un fenomeno di livellamento verso il basso. Se questo livellamento avviene su un campione già selezionato come basso, perché residuale rispetto al consumo televisivo attivo, l’audience che ne scaturirà sarà sempre più elementare, rozza, aggressiva e la Politica non può non tenerne conto dato che dipende dai sondaggi. I politici cercano nella televisione una vetrina per indottrinare il pubblico. Ma, a sua volta, il pubblico della tv seleziona i politici in base a fattori di telegenicità, gradimento, e, appunto, audience. E, in una rete generalista residuale questi fattori saranno necessariamente tendenti al basso in una spirale discendente. Prendiamo un fenomeno come Salvini che, in un breve tempo e senza alcun monopolio o controllo del mezzo televisivo, ha portato la Lega nei sondaggi a percentuali superiori a Forza Italia. Salvini funziona in televisione perché fa appello agli istinti peggiori: egoismo, vendetta, chiusura verso l’altro. In una televisione non pedagogica sono sempre i valori più bassi a prevalere ed è la televisione che li impone alla politica, non viceversa. Una televisione generalista residuale può essere il brodo di coltura degli istinti peggiori e rischia di far involvere il dibattito politico. GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 il manifesto INTERNAZIONALE pagina 7 VATICANO · Concordato alla vigilia della visita di Abu Mazen. Reazione di Israele: «Delusione» Chiesa e Palestina, primo accordo Michele Giorgio GERUSALEMME L a notizia dell’accordo tra il Vaticano e lo Stato di Palestina, una breaking rilanciata in pochi secondi da tutte le agenzie del mondo, è arrivata ieri mentre Benyamin Netanyahu constatava con soddisfazione il voto favorevole della Knesset all’allargamento del numero dei ministri che faranno parte del prossimo governo. Il premier israeliano annuncerà in tempi stretti la lista dei ministri ma l’esecutivo che mette insieme il suo partito Likud, gli ultranazionalisti e partiti religiosi ortodossi, dovrà gestire un quadro internazionale poco favorevole, almeno in apparenza, alle politiche di Israele nei Territori palestinesi occupati. Non sorprende perciò che, all’annuncio della Santa Sede, Israele abbia replicato manifestando la sua forte «delusione» per una decisione che, a parere del ministero degli esteri, non contribuirebbe «a riportare i palestinesi al tavolo delle trattative». Il premier israeliano annuncerà in tempi stretti la lista dei ministri Una reazione attesa dal Vaticano che ha fatto con attenzione, e determinazione, le sue mosse ed è andato avanti fino alla realizzazione una intesa tanto ampia ed articolata che i palestinesi non possono vantare neppure con i «fratelli» arabi. Non è stato l’unico colpo ricevuto dal primo ministro israeliano perché, sempre ieri, importanti esponenti europei membri dello «European Eminent Person Group» - che include fra gli altri due ex ministri degli esteri francesi, Hubert Vedrine e Roland Dumas, gli ex primo ministri francese Michel Rocard e irlandese John Bruton, e lo spagnolo Javier Solana, un ex segretario generale della Nato - hanno inviato una lettera all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, attesa la prossima settimana in Israele e Territori occupati, che si dicono delusi per i risultati conseguiti dalla mediazione Usa ed invocano un approccio più deciso da parte dell’Ue nel conflitto israelo-palestinese. Netanyahu, scrivono, «ha poca intenzione di negoziare seriamente la soluzione dei Due Stati nel contesto del governo che sta costituendo». «L’Europa – si legge nella lettera - non ha ancora trovato un modo efficace per rendere Israele responsabile del modo in cui mantiene l’occupazione. È tempo di dimostrare seriamente alle due parti quanto l’opinione pubblica europea consideri le violazioni della legge internazionale, la perpetuazione di atrocità e la nega- PAKISTAN Attentato, 47 vittime a Karachi I Talebani pakistani hanno rivendicato l’attacco sferrato ieri contro un bus a Karachi sul quale viaggiavano 60 esponenti della comunità degli ismaeliti. Lo riferiscono i media locali, mentre è salito ad almeno 47 morti e 27 feriti il bilancio dell’attentato. Secondo la ricostruzione, otto uomini dei Tehrik-e-Taliban a bordo di motociclette hanno avvicinato il bus e hanno aperto il fuoco in modo indiscriminato. BURUNDI · Per Nkurunziza i militari «giocano» «Colpo di Stato», ma non per il presidente destituito il tentativo di destituzione dichiarandolo fallito. regnare in queste ore in Bu«Lo consideriamo un gioco e rundi è il caos istituzionale non un colpo di Stato militare» è dopo la destituzione del Prestato il commento del collaboratosidente uscente Pierre Nkurunzire presidenziale Willy Niyamitwe. za, annunciata dal generale ed ex L’azione dei militari arriva dopo capo dei servizi segreti Godefroid settimane di violente proteste conNiyombare. Mentre scriviamo, tro la decisione di Nkurunziza di non è ancora chiaro se si sia trattacandidarsi per il terzo mandato NELLA FOTO IL PAPA E ABU MAZEN, A DESTRA SCENE DELLE PROTESTE IN BURUNDI, SOTTO OBAMA /LAPRESSE to di un colpo di stato riuscito o soquinquennale alle presidenziali zione di diritti acquisiti». «Nascon«molto elaborato e dettagliato», ha accolto con favore il risultato lo tentato. La destidel prossimo giudersi dietro la leadership americaspiegano al Vaticano. Ci sono poi della votazione, inquadrata nei tuzione di Nkurungno. Candidatura 20 le persone na» è allo stesso tempo «poco proaltri capitoli su diversi aspetti deltentativi di dare una soluzione deziza è stata annundel tutto contraria duttivo e poco edificante», conclula vita e dell’attività della Chiesa finitiva, con il sostegno della cociata alla stampa alle disposizioni uccise durante dono i firmatari, secondo i quali nei Territori palestinesi sotto ocmunità internazionale, alla quedal generale della Costituzione anche crisi «apparentemente più cupazione israeliana. stione già affrontata con la risoluNiyombare in una le proteste di piazza e degli accordi di urgenti» come quelle in Siria, YeSenza dubbio l’accordo costituzione 181 del 29 novembre 1947 caserma della capipace di Arusha che e più di 50.000 men, Iraq e Libia possono essere isce un chiaro riconoscimento da dell’Assemblea generale delle Natale Bujumbura e posero fine a una quelle fuggite «una scusa», dato che «il contesto parte vaticana allo Stato di Palestizioni Unite, la quale prevedeva la trasmesso dalla raguerra civile (duradella Palestina è di 47 anni di ocna, in continuità con quanto la creazione di due Stati, di cui finodio privata Insagata 12 anni tra i ribelcupazione militare». Santa Sede aveva affermato già il ra uno solo ha visto la luce. niro: «Il presidente è stato rimosso li della maggioranza etnica Hutu e Il testo dell’accordo globale ieri 29 novembre 2012, al momento Il passo compiuto dal Vaticano dal suo incarico, il governo è scioll’esercito allora guidato dai Tutsi) a Roma ha un preambolo e un pridella risoluzione Onu che riconofa capire mons. Camilleri, rappreto. È istituito un comitato temporache ha fatto circa 300 mila vittime. mo capitolo sui principi e le norsceva la Palestina quale Stato ossenta perciò un forte richiamo al neo per il ripristino dell’armonia Il generale Niyombare, che è stame fondamentali della collaboraservatore non membro delle Narispetto del diritto internazionale nazionale la cui missione, tra le alto anche ex ambasciatore in Kenzione tra Vaticano e Palestina. Si zioni Unite. «Lo stesso giorno - rie delle risoluzioni dell’Onu sulla tre, sarà quella di ripristinare l’uniya, starebbe già in contatto con i esprime l’auspicio per una solucordava ieri sull’Osservatore Roquestione palestinese. Papa Frantà nazionale e la ripresa del procesgruppi della società civile, leader zione del conflitto tra israeliani e mano mons. Antoine Camilleri, cesco riceverà sabato prossimo il so elettorale in un clima pacifico e religiosi e politici per la formaziopalestinesi nell’ambito del princisottosegretario vaticano per i Rappresidente dell’Anp Abu Mazen giusto». ne di un governo di transizione. Anpio dei Due Stati e delle risoluzioporti con gli Stati - la Santa Sede, che assisterà anche alla canonizDa Dar er Salaam in Tanzania che se a questo riguardo, contattani della comunità internazionale. che ha anch’essa lo status di oszazione per la prima volta di due dove era in corso un summit regioto da Jeune Afrique, Pacifique NiniSegue un secondo capitolo sulla servatore presso l’Onu, ha pubblisuore palestinesi, nate nell’Ottonale sulla crisi in Burundi - il presinahazwe - uno dei leader della libertà religiosa e di coscienza, cato una dichiarazione. Questa cento. dente Nkurunziza ha condannato campagna anti-terzo mandato di Pierre Nkurunziza - ha dichiarato che «la società civile in Burundi non ha ancora preso una posizioFILIPPINE IRAQ USA ne ufficiale» sulla destituzione annunciata del presidente uscente: «È molto presto» ha spiegato il presidente del Forum pour la conscience et le développement (Focode). Sarebbero le scarse condizioni di Abu Alaa al Afri, presunto numero Non è altresì chiaro chi abbia il sicurezza le principali cause della due dello Stato islamico (Isis), sarebcontrollo della situazione. morte di oltre trenta persone, arse be stato ucciso in un raid nel nord Testimoni riportano l’emittente vive a seguito di un incendio scopdell’Iraq, stando alle notizie lasciate di Stato circondata dall’esercito; alpiato in una fabbrica di ciabatte trapelare dallo stato iracheno. Al Afri cuni soldati avrebbero tentato l’irJ. G. infradito in uno slum della periferia avrebbe dovuto assumere la guida ruzione all’interno, mentre altri di Manila, capitale delle Filippine. dell’Isis in caso di morte o incapaciiente «fast track» per Obama e i trattati commerciali con Asia avrebbero fatto resistenza. SporadiLo ha riferito la Bbc, aggiungendo tà del «califfo» Abu Bakr al Baghdaed Europa (Tpp e Ttip). Il senato americano, con il determinanca la presenza della polizia, consiche il bilancio potrebbe ulteriormendi. Iracheno, originario di una localite voto democratico, ha negato al presidente la possibilità di derata fedele al partito di Nkurunzite salire dato che vi sono almeno tà a sud di Mosul, Abderrahman Muprocedere rapidamente alle negoziazioni, intimando uno stop clamoza. Sarebbero più di 20 le persone altri 30 dispersi. L’incendio avrebbe stafa, meglio noto come Abu Alaa al roso. Emerge così in piena luce la clamorosa battaglia interna al partirimaste uccise durante le proteste avuto come causa la la scintilla di Afri, è un qaedista della generazione to, come non si vedeva da tempo. Gli accordi del Tpp e del Ttip sono di piazza scoppiate più di due settiuna saldatrice che sarebbe venuta di Baghdadi. Attivi in Afghanistan sottoposti a critiche tanto da parte dei democratici, quanto di parlamane fa e più di 50.000 quelle fuga contatto con prodotti chimici dalla metà degli anni 90. è tornato menti e società civili europei. I repubblicani, al contrario, chiedono gite nei paesi limitrofi. Secondo i all’ingresso della fabbrica. Gran parin Iraq nei primi anni 2000 per conche le trattative procedano spedite, specie quelle asiatiche che, non a dati del ministero degli affari interte delle vittime - stando alle prime trastare l’occupazione anglo-americacaso, terrebbero fuori ni della Tanzania, 11.000 rifugiati ricostruzioni - sono morte soffocate na, Afri aveva aderito all’ala qaedista dall’accordo commerciale burundesi, tra cui più di 8.000 dondal fumo acre che si è sprigionato irachena nel 2004, diventandone sei proprio la Cina. ne e bambini, si sarebbero riversadalla plastica usata per le infradito. anni dopo uno dei leader locali più Il risultato dell’opposite nella Tanzania occidentale sconAlcuni hanno mandato richieste di in vista. Secondo gli analisti, Afri nezione, realizzatosi nella volgendo la capacità delle organizaiuto via sms ai familiari prima di gli ultimi mesi sembrava aver assungiornata di martedì, ieri zazioni umanitarie locali e internamorire. Ci sono volute più di cinque to un ruolo di primo piano anche graha avuto altre ricadute. zionali. ore per domare l’incendio. zie al suo forte carisma. Non pochi hanno sottoliSi consideri che la Tanzania, seneato il silenzio della futude di una delle più grandi popolara candidata alla presidenzioni di rifugiati in Africa, accoglie za, Hillary Clinton. Impecentinaia di migliaia di burundesi gnata a guadagnare terree congolesi e ha in programma di no con l’elettorato che seconcedere la cittadinanza a condo i sondaggi avrebbe 200.000 rifugiati del Burundi. Sepermesso la vittoria a Obama, ovvero quello «liberal» - la candidata decondo l’Alto Commissariato mocratica sta provando a tenere un basso profilo, senza sbilanciarsi a dell’Onu per i rifugiati (Unchr) la sostegno del presidente e di un accordo il cui negoziato è stato da lei crisi odierna si starebbe indirizzanstessa avviato ai tempi in cui era segretario di Stato. Anche perché quel do verso uno «scenario peggiore» target di riferimento, non sembra particolarmente ispirato dalla sua che potrebbe portare a ben candidatura. 300.000 le persone in fuga. Intanto, Tanto più – come scrivono le agenzie di stampa - che nella faida inl’Unione Africana e i donatori occiterna tra presidente e democratici - ad aggiudicarsi il primo round è dentali, compresi Usa e Ue hanno stata proprio Elizabeth Warren, l’economista anti-Wall Street ora senacriticato la decisione di Nkurunzitrice del Massachussets che molti vorrebbero avversaria di Hillary nelza di correre per il terzo mandato le primarie. La sintonia politica tra Obama e la sua ex consigliera ecopresidenziale mentre il Belgio, ex nomica, ispiratrice della riforma di Wall Street che impone restrizioni potenza coloniale in Burundi, e alle banche e maggiori protezioni per i consumatori, appare in questi l’Ue hanno già dichiarato di voler giorni una cosa lontana. «Su molte cose io e lei siamo profondamente sospendere parte degli aiuti a caud’accordo, ma su questa, però, i suoi argomenti non reggono», ha detsa delle recenti ondate di violenze. to Obama in una recente intervista, affermando poi che la Warren «si Da Pretoria, il Ministero degli Estesbaglia». Da parte sua, la democratica continua ad apparire in tv per acri del Sudafrica ha reso noto di mocusare il presidente di non aver permesso ai senatori di leggere la boznitorare la situazione in Burundi za dell'accordo prima di votare: «ci chiede di votare per velocizzare un da vicino, ma che è ancora troppo accordo che è stato in gran parte già negoziato, ma rimane segreto» presto per stabilire se si tratti o no di un colpo di stato. Rita Plantera A Brucia una fabbrica, oltre trenta morti Il numero due dell’Isis Al-Afri «è stato ucciso» Stop democratico al Tpp vince «l’anti Wall Street» N pagina 8 il manifesto GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 CULTURE SALONE DEL LIBRO SAGGI · «Nello sciame» di Byung-Chul Han La povertà dell’homo digitalis Marco Dotti F che hanno finito col convergere verso una sorta di pentecostalismo digitale fondato sulla promessa di liberare l’uomo dal sé isolato, producendo uno spirito capace di intonarsi con il simulacro dell’altro (in realtà: solo una diversa declinazione dell’ «uguale) in uno spazio comune di risonanza (il web). Ciò che si è prodotto, dopo i primi decenni di net-entusiasmo, è però nient’altro che uno sciame acefalo, una folla di tipo orizzontale l’avrebbe chiamata Gustave Le Bon, in balia di un messianismo della connessione integrale sempre di là da venire eppure capace, già qui e ora, di dispiegare i suoi effetti nefasti. Assistiamo così all’erosione dello spazio pubblico, inteso come luogo del noi – un’erosione condotta però proprio in nome del «noi». L’Uguale risplende in una società interamente deprivata del suo «negativo», dove non solo ogni forma di opposizione, ma anche ogni azione è preventivamente eliminata e sostituita da un’informazione. Informarsi equivale a esserci. Comunicare equivale a essere. Questo il teorema di una società dove ogni interstizio e ogni chiaro-scuro viene bruciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza. orse dovremmo tornare a servirci di una vecchia parola, da troppo tempo dismessa dalla cassetta degli attrezzi: alienazione. Marx parla per la prima volta di alienazione (Entfremdung) nella sua tesi di laurea. Una tesi dedicata – come si sa - alle Differenze fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Qui, discutendo di atomismo, Marx nota come persino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indiviso, vi sia contraddizione, ossia un movimento che scinde, divide. A essere separati, in questa visione delle cose e del mondo, sono esistenza e essenza. La prima, alienata dalla seconda. Ecco perché nell’alienazione come avrebbe detto Adorno - «la vita non vive». Sperimenta, ma non vive. Non vive e non imprime quelle tracce d’esperienza che siamo soliti chiamare «il vissuto». In tedesco, due parole indicano le forme dell’ «esperienza»: Erlebnissen e Erfahrungen. Con la prima, siamo nel campo dell’episodico, di ciò che non si concatena. Con la seconda forma di esperienza, Erfahrungen, siamo nel campo di ciò che lascia tracce, segni, In nome della prestazione porta a mutamenti, eppure marca un’unità. Il fatto che, come scriveva Domina, in questa società, la forma Walter Benjamin, noi si sia entrati in del «soggetto di prestazione». Un sogun’epoca ricca di esperienze episodigetto avvinto in pratiche di auto-ottiche e povera di Erfahrungen, è un dato mizzazione dello sfruttamento di sé anautoevidente. Per ogni episodio, per che quando non lavora, anche quando ogni frammento esperienziale del prigioca, anche quando crea, anche quanmo tipo, cerchiamo marcatori esterni. do si sente immerso in un flow che Ma il «fuori» è precisamente ciò che ci chiama «libertà». Ecco perché il soggetsfugge: il mondo, afferma Byung-Chul to di cui parla Byung-Chul Han tutto è Han, è diventato additivo, non narratifuorché un homo ludens. Assomiglia vo. Sovrapponiamo frammento a frampiuttosto a quel homo festivus di cui mento, sperando di «fare spessore». parlava Philippe Muray: vivendo il carDalle vecchie fotografie e dai vecchi cinevale ogni giorno, finisce per sovvertimeli di viaggio, che ancora tentavano re la sovversione, per lottare contro la di «raccontare», siamo passati al marlotta e per resistere contro ogni resicatore instagram, al «mi piace», al «sostenza. Non sbatte i pugni sul tavolo, no qui», alle mappe che si ridefinisconon agisce: gioca con le dita su una tano infinitamente perché infinitamente stiera. Il reincanto del mondo passa mobili e auto-organizzantisi attorno al dal suo stordimento. «puntino» che ci rappresenta su uno La parola «digitale», ci ricorda non a schermo. Alla messa in caso Byung-Chul Han, scena, con le funzioni rimanda al digitus, al Un’appassionata «periscope» e le telecadito che conta. L’homo analisi critica mere connesse ventidigitalis conta, calcola, quattro ore su venti- della comunicazione misura. Anche quando quattro che verranno, non lavora, anche su Internet si unisce il retro scena. quando «crea» il suo e delle nuove forme mondo è segnato dal Povertà calcolo e dalla prestadi alienazione dell’esperienza zione. Passo dopo passo, ma dentro e fuori il web L’homo digitalis non sempre col passo del gioca, non crea, tanto gambero, l’alienazione dal mondo dimeno agisce. L’atrofia della mano per venta, come Marx ci ha insegnato, alieeccesso di non lavoro porta a un’artronazione del mondo. Inutile negare che si digitale delle dita, rendendo impossila potenza con cui questa doppia elica bile al soggetto ogni esperienza, anche alienante si torce ha subito e subisce l’esperienza della sottrazione fondaun’accelerazione sempre più radicale. mentale che lo riguarda. Sull’assoluta povertà di esperienza (ErPiaccia o meno il tono quasi profetifahrungen), sulla simmetrica proliferaco di Byung-Chul Han, la sua diagnosi zione di frammenti esperienziali e sulè spietata ma improntata al realismo: la sovraesposizione pornografica del dal digitale non è nata alcuna resistensé nella nostra postmodernità digitale za materiale che si possa superare per ha molto insistito Byung-Chul Han, fimezzo del lavoro. Al contrario, il lavolosofo tedesco di origine coreana, che ro si è avvicinato – questo sì – al gioco, sulla coda lunga della Scuola di Francoma nella sua dimensione digitale non forte si è fatto conoscere anche dai letha dato vita ad alcun tempo dell’ozio. tori italiani, grazie ai tre volumi editi L’antropologia idealizzata della classe da Nottetempo, La società della stancreativa avrebbe prodotto quindi solo chezza, Eros in agonia e La società dell’ennesima alienazione. Anche la biola trasparenza oltre a un interessante politica, nella visione di Byung-Chul ebook edito da goWare pochi mesi fa: Han, ha fatto il suo corso. Razionalità digitale. La fine dell’agire La società digitale è oramai postmorcomunicativo. tale, postnatale, post-politica, ma anA questi lavori, si affianca ora Nello che post-panottica – avverte sciame. Visioni del digitale (traduzione Byung-Chul Han. Solo se gli atomi si di Federica Buongionro, pp. 105, euro connettono l’un l’altro, in una rete che 12) che in qualche modo li integra e ne li isola nel momento stesso in cui li avviene integrato. Al cuore della riflessiovince questo sistema può reggere. I big ne di Byung-Chul Han c’è una critica, data, il data mining, la possibilità di molto chiara e evidente, a una visione controllare lo sciame partendo dalla dell’uomo immerso e alienato in uno previsione affettiva, emotiva, impulsipseudo ambiente digitale. È quella che va dei suoi movimenti sembra aprire l’autore chiama «antropologia idealizle porte a un tempo segnato da qualcozata dello sciame creativo». Un’antrosa che potremmo chiamare «psicopolipologia che si è declinata in forme di tica digitale». Uscirne è la questione spiritualismo, più o meno manifeste, cruciale. Il click che fa mov Benedetto Vecchi I l Muro di Berlino è caduto da pochi mesi e oltre le macerie del socialismo reale ha lasciato sul campo i manuali di strategia militare usati tanto ad Est che ad ovest del vecchio continente. La pianificazione su come organizzare gli eserciti della Nato o del Patto di Varsavia sono ormai carta straccia. In Cina qualche eccentrico generale comincia a definire nuove strategie per un mondo unipolare dove Pechino punta a diventare una nuova superpotenza economica e militare. Per questo, l’esercito popolare deve riorganizzarsi, partendo da una situazione di svantaggio tecnologico, ma con una carta vincente che gli Stati Uniti non hanno: la conoscenza del territorio e un saldo legame con la realtà sociale. Pechino immagina scenari di resistenza a una possibile invasione nemica, ma la teoria della «guerra simmetrica» è, nel tempo, diventata una sorta di bibbia per gli eserciti regolari del ventunesimo secolo. I robot in azione Dall’altra parte del Pacifico, gli Stati Uniti hanno un problema da risolvere: gestire una politica imperiale che prevede la possibilità di spostare in tempi rapidi le truppe ai quattro angoli del pianeta. L’esercito è visto come una forza di intervento poliziesco anche per fronteggiare insurrezioni popolari. Ed è in questa cornice che i think tank legati al Pentagono cominciano a sfornare studi su come organizzare unità dell’esercito a stelle e strisce per assolvere funzioni sia militari che di polizia. Il testo, che farà scuola, della organizzazione non governativa e conserva- trice Rand Corporation analizza a fondo non tanto come debba essere organizzato un esercito, ma come si muovono i «movimenti insurrezionali». Con straordinaria capacità analitica, la Rand Corporation parla dei movimenti sociali «insorgenti» come «sciami» che si formano, colpiscono per poi dissolversi. Il testo, reperibile in rete (www.rand.org/pub s / d o c u m e n t e d _ b r i e f i ngs/DB311.html) e firmato da John Arquilla e David Ronfeldt, anche se datato è ancora illuminante per la la chiarezza nell’esporre il punto di vista dell’esercito statunitense come forza di polizia internazionale, ma anche per la capacità di rappresentare il conflitto sociale nelle società contemporanee: i movimenti sociali sono caotici, eterogenei, senza una organizzazione centrale di coordinamento, ma quando agiscono appaiono come uno sciame, dove ogni partecipante si muove come se tutto sia stato attentamente organizzato. Nello stesso arco di tempo, fisici, matematici, filosofi e programmatori di computer sono alle prese con gli sconfortanti fallimenti dei progetti di intelligenza artificiale. Le speranze di costruire una macchina «pensante» sono, allora, archiviate come un sogno troppo bello per essere vero. Qualcuno, però, tira fuori un esperimento di Alan Turing – ma alcuni storici della scienza dicono che è da attribuire ad altri – in base al quale se un umano «dialoga» con una macchina che fornisce risposte dotate di senso, sarebbe legittimo parlare di intelligenza. Se prendiamo un numero più o meno esteso di macchine informatiche o di robot che «comunicano» possono produrre com- Dalle strategie militari all’intelligenza artificiale, all’analisi della realtà contemporanea. La fortuna accademica dello «sciame» portamenti che a un osservatore esterno appaiono «intelligenti». I soliti informati qualificherebbero i ricercatori che organizzano in questa maniera il software, la comunicazione e le modalità di reazioni di macchine informatiche o robot come «connessionisti»; Più prosaicamente qualcuno a cominciato a parlare di «sciami intelligenti». Stucchevole naturalismo La convergenza tra strateghi militare e ricercatori di computer science nell’uso del termine sciame non deve meravigliare. Il mondo animale è stato infatti spesso usato per parlare del funzionamento della società o della politica – La favola delle api di Bernard de Mandeville o il Leviatano di Thomas Hobbes -, anche per ratificare il fatto che anche gli umani sono una specie animale, seppur particolare. Gli sciami costituiscono, se osservati dall’esterno, una forma di sofisticata e precisa organizzazione, dove ogni componente svolge un’azione sincronizzata a quelle dei suoi simili. Ciò che è amorfo, annotavano gli studiosi della Rand Corporation, appare invece come una perfetta organizzazione. Lo sciame può dunque essere presentato come una forma di organizzazio- ne finalizzata a uno scopo che può essere sciolta ogni volta che l’obiettivo è stato raggiunto. Una prospettiva analitica che pecca di «naturalismo» e che nulla spiega del come lo sciame si forma e di come viene definito l’obiettivo. In altri termini è una rappresentazione che funziona come una fotografia, o un video che ha bisogno di una distanza ed esternità da quanto accade. Eppure lo sciame è usato per spiegare le modalità della comunicazione in Rete, per descrivere le azioni dei movimenti sociali dentro uno spazio definito – quasi sempre una metropoli -, quasi riuscisse a cogliere un nucleo di realtà altrimenti inafferrabile. Lo stile povero del web Il filosofo tedesco di origini coreane Han Byung-Chul utilizza lo sciame per descrivere le modalità della comunicazione nella Rete, assegnando ai social media e ai social network la responsabilità di una comunicazione povera dovuta ai «format» imposti agli utenti, sia a causa della limitazione fisiche – con Twitter non si possono usare più di 140 caratteri – che allo spirito gregario che favoriscono (i Like di Facebook). Sugli esempi di alienazione, impoverimento e conformismo GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 il manifesto CULTURE LA NEGAZIONE Si intitola «La negazione» il pamphlet-manifesto di Flore Murard-Yovanovitch, scrittrice, blogger e giornalista freelance nata in Francia, che verrà presentato venerdì 15 maggio alle 21 alla Libreria Comunardi (via G. B. Bogino, 2b) a Torino dal frontman degli Africa Unite, Bunna. «È in corso una rivoluzione migrante scrivono da Stampa alternativa che distribuisce il titolo . Non meri ’sbarchi’” ma una possibilità di trasformazione. Non dialettizzare con questo nuovo soggetto storico migrante, negargli l’uguaglianza, detenerlo, farlo sopravvivere ai margini o lasciarlo pagina 9 morire nel Mediterraneo, palesa la cieca psicopatologia dell’Europa. La negazione anti-migrante rischia di aver un esito politico regressivo per il progetto europeo: il fascismo della frontiera. Il Manifesto «La Negazione» vuole rendere pubblica la verità» NARRATIVA · «La scomparsa di Philip S.» di Ulrike Edschmid per e/o La riscoperta di un’epoca passata dove le scelte erano estreme post-belliche a partire dalla vita di una donna. Gli amanti della madre servono quindi a Ulrike per nominare momenti di passaggio necessari e di trasformazione. Nella stessa ansia di conoscere è da leggersi il lungo epistolario Wir wollen nicht mehr darüber reden (Luchterhand, 1999) tra Erna Pinner e Kasimir Edschmid. Alessandra Pigliaru C TORRE UMANA A TARRAGONA imento che l’autore propone non c’è molto da obiettare. È esperienza diffusa che tanto più è veloce lo scambio di informazione, più è facile deviare da quanto stabilisce la maggioranza. Nella riflessione di Han Byung-Chul lo sciame perde dunque i caratteri perturbanti messi in evidenza dalla Rand Corporation e dai «connessionisti» per assumere il profilo di un forma di azione sociale e comunicativa omologata allo spirito dominante nella società. Lo sciame digitale divine folla e a farle da padrone sono quei sentimenti, modalità di relazione gregaria che escludono ogni possibilità di trasformare l’esistente. La fusione oscurata La realtà è tuttavia più contraddittoria, ambivalente di quella definita dal filosofo coreano. Certo, l’azione di bullshit (la denigrazione attraverso l’insulto gratuito e violento, il bullismo in Rete) assume proporzioni difficilmente controllabili da qualsiasi «moderatore» o censore della comunicazione on line, ma il mail bombing è anche una forma di protesta contro il comportamento di una impresa nei confronti dei lavoratori, o della polizia o di una istituzione statale. Ciò che appare povero a Han Byung-Chul è, in questo caso, denso della ricchezza delle relazioni sociale nella definizione dell’obiettivo da raggiungere. La categoria dello sciame perde quindi la sua capacità analitica nel descrivere comportamenti sociali. In altri termini, funziona solo come una fotografia scattata dall’esterno. Più che il movimento definisce la staticità di una situazione. E nulla dice delle dinamiche all’interno dello sciame-movi- mento e tra questo e il contesto sociale «esterno». In altri termini, nulla dice dei processi di formazione delle soggettività, delle procedure attraverso le quali vengono prese le decisioni sulla modifica dei comportamenti dello sciame in azione. Lo sciame, anche quello assunto dal filosofo coreano, riduce l’azione e i conflitti sociali a fenomeni etologici che cancellano quella consumata fusione tra natura e cultura che caratterizza lo stare in società e nel mondo. Il saggio di Han Byung-Chul è tuttavia rilevante per comprendere il legame tra comunicazione e movimenti sociali, anche se in forma diversa da quanto prospettato nel saggio Nello sciame. La condivisione di un progetto e di un obiettivo segue logiche che possono essere ricostruire sempre a posteriori. Per comprendere il perché si forma uno sciame – che è immagine potente nella sua rappresentazione – occorre seguire altri sentieri, confrontarsi con la costituzione materiale che precede e talvolta viene modificata dallo sciame. Oltre i legami deboli Il nodo da sciogliere è quella semplicità difficile a farsi che è l’elaborazione di un Politico adeguato all’eclissi dei processi di formazione delle identità collettive del passato. Ma per questo non servono scorciatoie. Neppure quelle di mimetizzarsi per rendersi visibili e tornare anonimi e dunque invisibili nel momento in cui svaniscono i legami «deboli» dello sciame. Come insegna la giornata del primo maggio a Milano, esempio di uno sciame autocompiaciuto della sua rappresentazione ipermediatica. osa spinge a raccontare dopo quarant’anni la vita di una persona con cui si è trascorso del tempo, avendo per giunta pochissimi dati a disposizione e una cronaca assai controversa con cui misurarsi? È un desiderio di riappropriarsi di parti di sé o piuttosto un tarlo della mente che non vuole proprio abbandonare la dimora? La scomparsa di Philip S. (e/o, pp. 160, euro 16 – traduzione a cura di Monica Pesetti) è il primo libro di Ulrike Edschmid a essere tradotto in italiano e l’ultimo pubblicato dalla scrittrice tedesca. Quando in Germania esce Der Verschwinden des Philip S. (Suhrkamp, 2013) lei ha 73 anni e ha all’attivo alcuni volumi, tutti complessi perché si intrecciano con una storia politica e sociale che è quella tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. La vicenda è raccontata già dal titolo, in luogo della scomparsa di un tale Philip S. che la scrittrice ha conosciuto e amato. Alla storia della relazione tra Ulrike Edschmid e Philip Werner Sauber, svizzero di buona famiglia che arriva a Berlino ventenne nel 1967 per frequentare l’Accademia del cinema, fanno da sfondo gli anni delle rivolte studentesche, dell’antagonismo e della lotta armata. Realtà e omissioni Ulrike, ventisettenne e con un figlio piccolo, incontra Philip S. proprio all’Accademia, per caso la aiuta a fare un trasloco e poi resta a vivere con lei. Sono anni di conflitti sociali durissimi che Edschmid non racconta con l’algidità della cronaca dei giornali ma di chi ha vissuto dall’interno le radicalizzazioni studentesche fino alla decisione di non sottrarsi allo scontro. È il mutamento del tragitto politico di La sofferta e avvincente vita di una generazione tedesca ribelle. Il libro sarà presentato al Salone del libro Philip S. dentro il Movimento 2 giugno, la latitanza e la morte dopo una sparatoria in un parcheggio di Colonia il 9 maggio del 1975. Aveva ventotto anni. Proprio su questa che Edschmid descrive come una «morte pubblica», come pubblica seppure con ben altra risonanza è stata quella dello studente Benno Ohnesorg in quel 2 giugno del 1967, si apre il romanzo autobiografico in cui ben poche sono le invenzioni per chi conosce lo stato delle cose, anche rispetto a una ricostruzione storica che nonostante alcune omissioni si può ricondurre agli eventi accaduti in quegli anni e non solo in Germania. Alla scrittrice non sembra interessi riabilitare qualche memoria soggettiva, compresa la propria, né tantomeno restituire un’immagine falsata della crudeltà dolorosa e spesso vissuta, anche da lei in prima persona. Allora cosa le interessa? Difficile stabilirlo una volta per tutte. Il ritorno di questo fantasma che sostanzialmente è Philip S. raramente acquisisce un corpo e per questo lo si può da subito immaginare come chi ha scelto la clandestinità molto prima di abbracciarla deliberatamente. Del resto anche l’insistenza di nominarlo Philip S. dà la misura di quanto sia sorvegliata la narrazione di Edschmid che non ha avuto certo intenzione Il nemico assoluto di cedere a romanticismi né a sentimenti, nonostante i due abbiano condiviso tutto per quattro anni. Le scelte culturali, politiche e di posizionamento, dapprima la scommessa del cinema e della fotografia come modo di registrare fedelmente la realtà, farne qualcosa all’altezza della politica. Poi le prime riunioni, la scoperta di un nuovo lessico, l’asilo anti-autoritario secondo il modello di Sommerhill. L’ingiustizia di un mondo che stava andando in pezzi, e poi qualcosa che sfugge dalle maglie e non viene mai detto per intero. Due anni fa, in un’intervista radiofonica rilasciata a Liane von Billerbeck, alla domanda su cosa le sia rimasto di un’esperienza simile, Edschmid risponde di aver mantenuto «un certo anarchismo» e che vive provando a essere consapevole ma in un «fuorigioco critico». C’è da considerare l’ipotesi che lei sia stata sempre da un’altra parte e che questo libro sia il modo per esplicitare la libertà di uno smarrimento essenziale, anche davanti a chi preferirebbe un posizionamento più netto. Proprio per questo degli altri suoi libri, per il momento solo in lingua tedesca, sarebbe utile conoscerne almeno i tratti salienti per inquadrarla in ciò che è la sua storia biografica e letteraria. Per esempio Diesseits des Schreibtischs. Lebensgeschichten von Frauen schreibender Männer (Luchterhand) che rappresenta alcune conversazioni con sette donne (Pia Kipphardt, Anna Ditzen, Hildegard e Renate Bronnen, Liselotte Zoff, Katharina Leithäuser e Irene Kreuder) dove al racconto biografico si intrecciano alcune discussioni e analisi politiche tra donne. Oppure le due storie femminili di Verletzte Grenzen. Zwei Frauen, zwei Lebensgeschichten (Luchterhand, 1992) o Die Liebhaber meiner Mutter (Insel, 2006) in cui attraverso la ricostruzione della vita amorosa della propria madre riconosce le tappe dell’infanzia e delle fisionomie politiche e sociali Tra il 1971 e il 1972, e in particolare nel periodo trascorso in carcere, qualcosa cambia, un’incompatibilità che non è più valicabile tra lei e chi le sta accanto: «Lui adesso traccia una linea netta tra sé e quelli che considera suoi nemici. Io non riesco a vivere nell’ostilità, benché siano molte le cose che percepisco come ostili. Lui ha giurato di non farsi più mettere dentro. Io ho giurato di non farmi più mettere dentro per qualcosa di cui non sono responsabile. Lui è convinto di poter sfuggire alla prigione solo diventando qualcun altro. Io sono convinta che posso resistere solo restando me stessa. Lui è uscito per andarsene. Io sono tornata alla mia vita». All’orlo dell’impossibilità Ulrike Edschmid interroga una distanza, cerca di capacitarsi dell’ineluttabilità, e infatti ammette: «non c’era nulla che avrei potuto mettere sul piatto della bilancia se non l’incredibile varietà dell’esistenza e la convinzione che possa esistere una vita giusta in un mondo sbagliato». Alla fine della lettura il senso di interrogazione dell’autrice si somma al breve lucore di una scomparsa, che in mezzo a tanto buio e a molte domande brilla unicamente in quel vialetto frontale alla finestra da cui proprio Ulrike guarda l’allontanarsi di una figura. È un ragazzo ora di spalle, nella forma di un congedo. Non ha mai desiderato fare ritorno, forse lo si può davvero lasciare andare. NOIR · «L’intransigenza» di Paolo Calabò per Prato editore La soave lievità del «male radicale» Riccardo Mazzeo E siste un annoso dibattito rispetto alla possibilità e all’opportunità di trasmettere contenuti filosofici o politici o sociologici attraverso il genere letterario più amato e diffuso, il romanzo. Il romanzo, come ricorda Zygmunt Bauman ne La scienza della libertà, è l’architrave dell’esperienza soggettiva di cui ha un disperato bisogno l’esperienza oggettiva per non lasciare fuori dalla scena lo spazio incandescente che alberga in ciascuno di noi e che sarebbe dissennato oltreché ingiusto estromettere dalle narrazioni. Poi, va da sé, le grandi narrazioni riescono a gettare luce non solo sulle sensazioni, le emozioni e le vicende private descritte nei romanzi ma, facendo leva sul fatto il più delle volte oscurato che i problemi delle singole persone gravano su una moltitudine di altre persone, che si tratta di problemi condivisi, in un romanzo sarà possibile ritrovare non solo lo specchio incarnato di se stessi ma anche le iatture, le delizie o le trasformazioni del mondo che ci circonda. Si pensi ai Buddenbrook: la frattura che racconta il romanzo di Thomas Mann, l’implosione del mondo che Lacan definirebbe «del padrone» (un padrone mani- festo anzi ostentato, da Etica nicomachea aristotelica, che avrebbe in seguito assunto nuove vesti e nuovi mascheramenti), sarebbe impensabile oggigiorno, eppure quando venne scritto valeva per la comprensione umana più di cento trattati. O a L’uomo senza qualità, in cui il “matematico” Robert Musil dimostra in duemila pagine l’inanità di qualunque sforzo, foss’anche da parte di un genio come lui, di descrivere oggettivamente i sentimenti, persino dei due gemelli Ulrich e Agathe che tentano il triplo salto mortale della uno-duità nel secondo volume: niente da fare, l’opera resta incompiuta come la loro unione e il messaggio è che la scienza e la tecnica sono destinate ad arenarsi di fronte all’insondabile ambivalenza umana creatrice e insieme distruttrice. Sono questi gli aspetti del romanzo che emergono nel noir di Paolo Calabrò L’intransigenza (Prato editore, pp. 208, euro 10) sebbene il brio e l’umorismo che lo percorrono dall’inizio alla fine siano agli antipodi della pesantezza quasi consustanziale alla filosofia: la narrazione è lieve e dolce come una gita in barca a vela in una bella giornata di maggio, eppure dopo essersi affezionati all’io narrante Nico Baselice, vigile casertano laureato in psicologia, e al deu- teragonista Maurizio Auriemma, arrivato non si sa perché da Napoli, che veglia solo di notte e lo coadiuva nell’indagine che obtorto collo si trovano a dover effettuare, si arriva alla fine e si è costretti a fare i conti con il «Dio perverso» di Maurice Bellet a cui l’autore, poliedrico laureato in informatica e in filosofia, ha dedicato uno dei suoi saggi. La «intransigenza» del titolo è uno dei frutti avvelenati del «radicale stravolgimento della figura di Dio sviluppatosi nei secoli dell’esperienza cristiana». Dio, all’inizio padre benefico, «diventa un Dio sadico e crudele che condanna il piacere dell’uomo e ne apprezza la mortificazione» e può richiedergli il compimento di azioni criminali come le «guerre giuste» e «la tolleranza della pena di morte e della tortura». Nel corso della soavità del romanzo vengono alla luce azioni perverse che mai ci si sarebbe aspettato da personaggi incasellati in ruoli virtuosi, e in effetti se «i seguaci del Dio perverso possono essere i peggiori criminali» e la serie a cui dà inizio questo titolo si chiama «I gialli del Dio perverso», credo che ne vedremo (ne leggeremo) delle belle. L’autore presenterà la sua opera al Salone del Libro di Torino il 15 maggio alle 17,30 nella Sala Avorio. pagina 10 il manifesto Cannes Cristina Piccino CANNES N ell’ultima inquadratura Malony, il protagonista, si lascia alle spalle (forse) per sempre il palazzo di giustizia che è stato la sua vera casa, e una vita che in appena sedici anni si è già affollata di file giudiziari, processi, tribunali, giudici e avvocati. Non è andato a scuola, sa scrivere appena, le sue esplosioni furiose di sentimenti negati lo hanno sempre mandato fuori controllo.Ma ora è accaduto qualcosa di importante, come una Madonna Malony avanza sulla «retta via» stringendo tra le braccia un neonato, suo figlio, quella responsabilità di padre, genitore che all’improvviso cancella la sua violenza, i furti, la passione insana per le automobili che ruba e lancia a velocità massima. La colpa del destino di Malony è come sempre e come per tutti sua madre, puttana e tossica la sua (Sara Forestier) molto «alla» Ellroy, che a sei anni lo ha buttato in una casa famiglia dandogli un pizzicotto sul naso perché non sopportava la sua vivacità distruttiva. E poi ha sempre mischiato amore, bisogno, egoismo, rifiuto inseguendo i suoi uomini per i quali quei figli ne ha anche uno più piccolino - sono un peso da scrollarsi di dosso secondo le necessità. Per fortuna c’era il giudice minorile, Catherine Deneuve molto dentro la parte, che ha fatto da madre a Malony, lo ha visto crescere, lo ha seguito, messo di fronte alle sue scelte, dentro e fuori dagli istituti per minorenni per insegnargli a placare le esplosioni di rabbia, il furore cieco. Poi c’è quella ragazza, è la figlia di una delle educatrici della casa di pena per minori, ha la stessa sua rabbia, anche lei contro sua madre, box e capelli cortissimi da ragazzo, ma quando lo bacia è con tenerezza. Fanno l’amore e lei rimane incinta, il 23 dicembre, Gesù redentore di una vita predestinata allo sfascio, la serenità che a Malony fa sconfiggere i fantasmi. Per inaugurare l’edizione 68 del Festival di Cannes Thierry Frémeaux ha scelto un film francese di realtà sociale, periferia e adolescenze critiche contro le paillettes degli anni passati, LA GIURIA Guillermo Del Toro: «Non emettiamo sentenze» Consueto photo-call per la giuria della sessantottesima edizione - guidata dai fratelli Joel e Ethan Coen - e qualche battuta dei giurati, come il regista messicano Guillermo del Toro che ha assicurato: «La nostra missione come giurati è quella di «dare delle linee guida, non tanto di emettere sentenze». «Non siamo qui per dire chi è buono e chi è cattivo», ha sottolineato. Del Toro fa parte della giuria internazionale che il 24 maggio deciderà quale, tra i 19 film in concorso, merita la Palma d’Oro, e ha partecipato al concorso del festival francese nel 2006 con uno dei suoi lavori più acclamati da pubblico e critica, «Il labirinto del fauno». Ha aggiunto poi come Cannes ha cambiato la sua vita, con la vittoria della Seimane de la Critique con il film «Cronos». «Prendiamo molto seriamente ha aggiunto - il nostro ruolo di giurati. Perché chi accetta di competere merita di essere preso sul serio». Nei prossimi dieci giorni, Del Toro, ha detto di aspettarsi di «apprendere ed arricchirsi sull’arte cinematografica». Accanto al regista messicano, in giuria troviamo gli attori Jake Gyllenhaal (Usa), Sienna Miller (Uk), Rossy de Palma (Spagna) e Sophie Marceau (Francia), la musicista Rokia Traore (Mali), l’attore e regista Xavier Dolan (Canada). GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 VISIONI 68 • Adolescenza tormentata in «La Téte Haute», deludente apertura fuori concorso di Emmanuelle Bercot con la diva Catherine Deneuve Film che celebra il sentimento reazionario della Francia post Hebdo, quella delle unità nazionali e della compattezza morale DUE SCENE DA «LE TETE HAUTE» DI EMMANUELLE BERCOT, SOPRA A SINISTRA LA GIURIA SULLA CROISETTE/FOT O REUTERS, SOTTO «OUR LITTLE SISTER» DI KORE-EDA Malony «salvato» da patria e istituzioni i Grande Gatsby o Grace di Monaco. Ma soprattutto La Tete haute - A testa alta - firmato dalla regista, sceneggiatrice e attrice (è anche protagonista del film di Maïwenn in gara, Mon roi) Emmanuelle Bercot è un film che celebra al meglio i valori della Francia repubblicana, giustizia, educazione, responsabilità occuparsi dei propri giovani in senso lato per evitare di trovarsi all’improvviso dei delinquenti o dei potenziali terroristi (non a caso nei molti istituti correzionali a cui Malony viene assegnato è spesso l’unico «francese» non nero o arabo e per questo accusato dagli altri di beneficiare di maggiori indulgenze). Diciamo il sentimento (reazionario) «giusto» che chiede la Francia post-attentato Charlie Hebdo, quella delle unità nazionali e del bisogno di ritrovare una compattezza «morale»di valori per fronteggiare l’insicurezza dilagata ovunque. Perciò polizia, prigione che a piccole dosi fa anche bene per imparare i veri valori della vita. E famiglia naturalmente compreso un violento attacco all’aborto che i figli fanno solo bene pure se non hai lavoro e hai ancora molti problemi aperti. Il film ci crede «davvero» anche perché nonostante il riferimento esplicito al cinema dei fratelli Dardenne, Bercot non lavora come i due registi belgi sulle nuance ma illustra la sceneggiatura in modo piuttosto meccanico e artificioso, senza aprire nella sua narrazione alcun margine di ambiguità. E non respira neppure della critica alla Loach a proposito di madri borderline e istituzioni. Siamo più dalle parti di certa fiction tv italiana (ugualmente reazionaria), nei Dardenne c’è la tragedia, qui con Bach dispiegato a profusione in ogni scena madre i personaggi vengono utilizzati come dimostrazioni di una tesi: da una parte l’ambiente borderline del ragazzo Malony - attore intenso, il giovanissimo Rod Paradot - quella mamma inadeguata e fuori di testa, dall’al- tra le istituzioni comprensive, illuminate, che vanno in crisi quando sbagliano anche se, ovviamente, il solo a picchiare Malony sarà il suo tutore - Benoit Magimel - il quale lo sappiamo subito viene dallo stesso mondo, redento a sua volta da giudici e carcere. Tutto è molto chiaro, netto, esattamente come ci si aspetta, rassicurante nel celebrare (con molta convinzione) la fiducia alle istituzioni e a una loro immagine di cui c’è, appunto, molto bisogno. Che poi ci sia altro, che poi i figli come dice il personaggio di Magimel non possono essere una soluzione né un progetto, che tutti sono buonissimi dalla parte delle istituzioni - salvo una preside che non prende Malony a scuola e il procuratore che spinge per la prigione ma forse aveva ragione lui visto che al ragazzo giova non conta. Il film non interroga, da soluzioni pronte, celebra l’orgoglio nazionale e la sua generosità. «Quando ha preso il mio film per l’apertura del Festival, Thierry Frémeaux ha detto che voleva un film universale ma non consensuale, che riuscisse a toccare il pubblico parlando di un argomento che oggi è estremamente importante come quello dell’educazione» ha dichiarato la regista. E questa parabola «educativa» è perfetta allo scopo. L’istituzione ci salverà. Evviva. In gara/IL GIAPPONESE «OUR LITTLE SISTER» DI HIROKAZU KORE-EDA Memorie e silenzi, il diario intimo delle quattro sorelle C.Pi. CANNES I l primo film del concorso parla giapponese. Di per sè non è una notizia visto che il regista, Hirokazu Kore-Eda è tra i protagonisti della generazione di cineasti cresciuta negli anni Novanta in Giappone. E invece in questa Cannes 2015 «rischia» di diventarlo. La polemica dell’apertura nel «Cannes party» infatti è proprio quella della lingua. La Croisette parla inglese, o meglio «globish» sottolineano i media nazionali, con riferimento ai molti film in concorso che sfoggiano cast internazionali di star, e una lingua che non corrisponde a quella del regista. L’elenco è lungo, e tra questi vi sono ovviamente anche Il racconto dei racconti di Matteo Garrone - oggi in proiezione ufficiale - Youth- La giovinezza di Sorrentino, e poi Lanthimos, Villeneuve, Trier, il messicano Michel Franco. Effetto spettacolare Pierre Lescure, ex direttore generale du Canal Plus che ha preso il posto di Gilles Jacob alla presidenza del Festival? Non credo che l’impronta d’autore sia solo una questione lessicale, quello che piuttosto emerge è la mancanza (o quasi) in gara di un cinema indipendente e fuori dallo star system, e da qualche parte si fa notare che per Frémaux i magri incassi della Palma d’oro dello scorso anno - il film di Ceylant Winter Sleep sono stati decisivi nelle scelte divistiche. Torniamo a Kore-Eda, che adatta sullo schermo un manga «familiare» di grande successo scritto da Akimi Yoshida, girato nella cittadina balneare di Kamakura, in cui ritrova sentimenti e atmosfere del suo universo poetico - pensiamo al precedente Tale padre, tale figlio. In questo nuovo Our little Sister ci sono tre sorelle, la maggiore ha cresciuto le due più piccole quando la madre le ha abbandonate, appena adolescenti, nella vecchia casa di famiglia, dopo che il padre era andato via con un’altra donna. Al funerale dell’uomo le tre ragazze conoscono la sorellina, una ragazzina di tredici anni, Suzu, che la maggiore decide di portare con loro riconoscendo in lei la sua stessa dolorosa sofferenza alla sua età, quel sentirsi responsabili per tutto e per tutti che, come le dice l’uomo con cui ha una relazione, le ha tolto il piacere dell’infanzia. Ma la presenza di Suzu cambierà anche i rapporti tra le sorelle portandole dolcemente a riflettere su sè stesse e sulle scelte reciproche. Siamo in mondo declinato interamente al femminile, le sorelle, la anziana pro zia, la madre delle tre ragazze, la piccola Suzu, che condividono il fantasma paterno, quella figura per le tre fantasmatica, per Suzu concreta intorno alla quale continuano a fluttuare ricordi, rancori, delusioni, rimpianti. La memoria soffusa e delicata dell’infanzia, anche nel dolore, per una delle ragazze è l’odore della nonna, per un’altra i kimoni dell’estate, per Suzu le giornate col padre a pesca, per la sorella maggiore l’ostinazione a mantenere le tradizioni, come il liquore di prugna, e per quella appena più giovane, e molto fashion, lo smalto per le unghie che la madre le ha regalato quando aveva solo sei anni. Il Diario narra lo scorrere di queste giornate, il rito sospeso del tempo quotidiano in cui nulla sembra accadere, i passaggi dell’esistenza, gli incontri e gli addii, le lente scoperte di sè, la crescita dei desideri, la necessità di lasciarsi alle spalle l’infanzia mondo dell’infanzia ... Oltre i bordi delle immagini balena il Giappone in crisi delle piccole imprese oppresse dai debiti e dalle banche, di un’irrequietezza giovane, di sogni lasciati a metà. Non è facile mantenere teso questo filo dell’emozione, e renderlo immagine. Kore-Eda guarda al cinema classico del Sol levante, alle sfumature emozionali impalpabili di Ozu, e non solo per i fiori di pesco, nella delicatezza con cui costruisce la sua messinscena, il movimento delle esistenze tra conflitti, silenzi, ferite anche involontarie, sorrisi, umorismo che disegna questa geometria narrativa: le sorelle e la sorellina, il paesaggio, la memoria e i cambiamenti intimi del presente.Un film «piccolo», senza proclami, che trasforma la vita, e lo scorrere delle stagioni in immagine, luce, tempo del cinema. GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 il manifesto VISIONI BERENICE BEJO L’attrice francese nominata agli Oscar per «The Artist» sarà tra i protagonisti del prossimo film di Marco Bellocchio «Fai bei sogni», tratto dal best seller autobiografico di Massimo Gramellini. Nel cast del film anche Valerio Mastandrea, Fabrizio Gifuni, Guido Caprino e Barbara Ronchi. MAX MANFREDI E UN DETTAGLIO DELLA COPERTINA DEL DISCO, IN BASSO PINO MARINO INCONTRI · Max Manfredi pubblica una nuova raccolta «Dremong» Canzoni per orsi solitari nella macchina del tempo Guido Festinese I l Dremong, orso tibetano di piccola taglia, è diventato famoso suo malgrado. Quasi un animale totemico, ma cacciato e torturato per estrarne bile (ritenuta curativa nella medicina tradizionale cinese), balzato alle cronache per intervento di diverse associazioni animaliste che sono riuscite a interrompere quasi totalmente la crudele pratica. Max Manfredi da Genova con il suo carattere franco e schivo, malinconicamente allegro come tanti cresciuti e svezzati nelle ombre dei carruggi s’è identificato nel Dremong. E ne ha fatto titolo e quasi motivo conduttore per il suo nuovo, disco di «canzoni d’autore», realizzato anche grazie alla raccolta di fondi collettivi. Confermando ancora una volta che nella pattuglia dell’eccellenza dei cantautori italiani lui è nella prima rosa. Dremong si presenta con una policroma copertina con un orso dipinto da Ugo Nespolo, una chiazza di colori forti che non lasciano indifferenti. Come le canzoni del disco. Ma quanto è «orso» Max Manfredi? «Gli orsi fanno una vita piuttosto difficile. Io sono, come loro, letargico, conviviale e insieme scontroso. Ma penso che qui finiscano le similitudini. Però fin da bambi- no, l’orso è stato il mio animale totemico. Mi piace molto anche il lupo, però. E i gatti, onnipresenti. Anche se, per dirla col poeta, «sono venuto come un maestro solitario a celebrare i sorci». Penso che gli uomini siano sopportabili quando adottano certe strategie animali simpatiche.» Dremong è un disco molto «suonato» in cui risuonano note dal Mediterraneo e dal mondo. Ma che tipo di viaggiatore è Manfredi? «Guarda, è strano: quando vado in una città, di solito poi non la descrivo in una canzone. Le mie canzoni provengono da sedimentazioni mnemoniche, oppure da «invasio- ni». A volte mi ’invadono’ scene e strade di città dove non sono mai stato. Le storie del porto di Atene mi venne in mente nella stazione di Asti, ad esempio. Allora mi documento un po’ e le descrivo. Non è sempre così. Non sono un viaggiatore accanito, ma naturalmente nella vita sono stato in diversi posti del mondo, sia per suonare, sia per il piacere di visitarli. Eppure spesso nelle canzoni descrivo le città dove non sono stato. E chi c’è stato, o ci vive, stranamente le riconosce. Le cose mi piace viverle, ma non sempre c’è il passaggio fra quel che si vive e quel che si scrive». Piogge, in Dremong è una «can- UMBRIA JAZZ · Lady Gaga e Tony Bennett il 15 luglio Caleidoscopio di stili a dispetto del titolo - Umbria jazz - per l’edizione 2015 (10-19 luglio). Duecentocinquanta appuntamenti in dieci giorni distribuiti in sei stage: musica nel centro storico di Perugia da mezzogiorno a tarda notte, a pagamento e gratuita. L’evento clou è la data esclusiva che vede insieme Tony Bennett e Lady Gaga (15) ma nel cartellone tanti altri nomi di riguardo: Chick Corea con Herbie Hancock, Caetano Veloso con Gilberto Gil, Paolo Conte, Brad Mehldau, Subsonica, Cassandra Wilson, Charles Lloyd, Dianne Reeves, Bill Frisell, Enrico Rava, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea. Anteprima della kermesse il 9 luglio in piazza IV Novembre, dedicata ai trent'anni di collaborazione tra UJ e il Berklee College of Music di Boston, con il concerto della Faculty Band di Larry Monroe e Donna McElroy e di Alissia Benveniste & The Funketeers. L’autore del manifesto della nuova edizione è il maestro Alberto Burri. JENNIFER LOPEZ Un tempo era «il cimitero» artisticamente parlando, ora un contratto a Las Vegas è ambito da ogni artista. Come nel caso di Jennifer Lopez. La diva latina ha infatti annunciato che dal 20 gennaio e almeno fino a tutto giugno sarà impegnata in uno «show» al Planet Hollywood nella capitale del divertimento. zone enumerativa», come la canzone dei mesi di Guccini. Un modo per rapportarsi alla tradizione popolare oppure un esercizio di stile nel senso migliore del termine. «Tutto questo, penso agli affreschi e alle miniature che raffiguravano i mesi e le stagioni nel Medioevo e nei palazzi rinascimentali. Oppure certi più modesti calendarietti -cartolina. Però la mia canzone è anche una sequenza di impressioni liriche piuttosto accorate, e accurate. Non un esercizio di stile, a meno che non si contempli nell’esercizio anche l’emozione. La canzone di Guccini, precedente la mia ma di poco - Piogge risale agli anni Ottanta - è anch’essa servita da modello, e proprio comparando le due canzoni si può avvertire la grande differenza, e anche eventuali somiglianze del sentire e del dire in musica. Diciamo che mentre Francesco, cantando la rosa, il fiore dei poeti, confidava di pensare a Cenne della Chitarra e Folgore di San Gimignano, io ho preso le mosse anche un po’ da lui. Il modello musicale dell’arpeggio continuo, invece, l’ho mediato da certe canzoni di Leonard Cohen». C’è molto folk nelle passioni personali dell’artista ligure. «Ascolto un po’ di tutto. Quasi tutto è «folk», «I miei pezzi a volte provengono da sedimentazioni mnemoniche o da invasioni repentine» ci sono tracce di musica popolare e tradizionale anche nelle composizioni classiche. Le musiche più scalfite e attraversate nelle mie canzoni, e specialmente in Dremong, sono quelle greche e klezmer, insomma, musiche ambulanti, viaggianti, migranti, non stanziali». Chiude Dremong una canzone di resistenza e di anarchia ispirata a un racconto di Mario Mantovani… «Lui era un mago che s’inventava case di campagna, giornate ai laghi, caselli ferroviari dismessi, fiumi di prosecco e malvasia, cene e fumate intorno al fuoco, nelle colline e pianure lombarde. Ho voluto ricordarlo con una canzone cui ho dato il titolo di un suo racconto. Non so se gli sarebbe piaciuta, desolata com’è, ma spero di sì. Ho anche cantato una sua canzone, perché Mario scriveva anche belle canzoni, in un disco dell’amico Giorgio Cordini, che deve ancora uscire. E a questo proposito, delle cose nel cassetto: la priorità dovrebbe averla il lavoro che stiamo tenendo in frigo con il musicista torinese Giorgio Licalzi. Lì finalmente sono autore di testi e cantante, e lascio fare a lui per quanto riguarda le melodie o, almeno, gli arrangiamenti. Ne viene fuori qualcosa di inedito ma familiare. Le parole sono asciugate, calibrate, taglienti. Le musiche affascinanti, ritmiche e piene, come si dice, di «groove». PINO MARINO · L’esperienza con il Collettivo Angelo Mai e ora il ritorno da «solista» Il vero «Capolavoro»? Nasce in comune Stefano Crippa C apolavoro, proprio così con la o nera a sporcare la parola in rosso in copertina, per dare il giusto risalto al significato del titolo del nuovo lavoro di Pino Marino, il quarto a suo nome che arriva dopo dieci anni di «latitanza» solista. Ma in mezzo sono successe molte altre cose. Capolavoro dicevamo: «Che non è altro – spiega il quarantottenne artista romano – se non mettere a capo il lavoro di nuovo. Se non mettiamo il lavoro a capo delle nostre cose non ne veniamo fuori, anche l’arte non può più compiere il suo capolavoro se prima non torna a essere lavoro. Soltanto generando lavoro anche nell’arte si ottiene il processo di capolavoro». Uno scioglilingua assai efficace con cui Marino pagina 11 prova a spiegare come il mestiere dell’artista - per dirla alla Ciampi - sia un processo, lungo faticoso ma soprattutto deve essere «collettivo». Pino ci prova da tempo, prima portando negli ottanta la sua musica nei locali capitolini, partendo dallo storico Folkstudio e approdando anche a collaborazioni decisamente pop insieme a Maurizio Fabrizio. E arrivano anche i lavori da solo, il primo album Dispari (2000) con il quale ottiene il Premio Ciampi, tre anni dopo Non bastano i fiori e nel 2005 Acqua e luce e gas. Poi smette il nome in ditta, come si dice in gergo, e si dedica a una quantità di innumerevole progetti. «Mi sono occupato negli ultimi sette anni di molte cose, soprattutto spettacoli che ho scritto per me e per altri. E questo mi ha permesso di andare in giro – FemmineFolli Joan Jonas e il maleficio in una Venezia da sogno – Fabiana Sargentini S ono quasi 15 anni che non torno alla più grande esposizione d’arte contemporanea e, appena approdo a Giardini, subito mi torna alla mente che qui tutto è una vetrina. C’è il sole, sono tutti eleganti, mi fanno un po’ ridere ma so che presto mi adeguerò a loro, mi metterò in tiro, sarò anch’io parte dello spettacolo. Sono stata concepita a Venezia, al Danieli, alla Biennale del ’68, quella della contestazione. Questo luogo, ogni volta che ci metto piede, qualcosa mi dona ma sempre, in cambio, qualcosa mi toglie. A 8 anni furono le 2 Holly Hobbie tanto amate, a 17 l’oggetto transizionale (ancora? sì ancora!), a 25 la perla dell’anello materno, a 35 il libro culto edizione introvabile... Stavolta cosa? Sto in guardia, Venezia, stavolta non mi coglierai impreparata. Comincio il giro en passant, trangugio 2 prosecchini alle 4 del pomeriggio che, da astemia, mi salgono subito in testa. Mi guardo intorno, cose sgradevoli e cose piacevoli, nulla che colpisca il mio cuore né il mio cervello. Poi finalmente arrivo al padiglione degli Stati Uniti, unica artista invitata: Joan Jonas. Mi metto in riga attendendo pazientemente il mio turno. Entro e sono felice. Api alveari bambini si disegnano a memoria su tele circolari posizionate davanti al viso su cui vengono proiettate altre immagini di api in una circolarità labirintica ourobotica ombelicale. Il pesce giurassico segna i contorni in bianco e nero di una bambina a cavallo di uno stallone nell’acqua, di un fiume? di un lago? dello stesso mare dove, da uno scoglio, Joan adulta si tuffa? Sovrapposizioni, dissolvenze, simultaneità, doppia esposizione che confonde la e incontrare persone, a prescindere da ogni attività promozionale. Cito quello con Daniele Silvestri – E l’inizio arrivò in coda, uno spettacolo classico ma con una meccanica coinvolgente in cui credo siamo riusciti insieme ad abbattere un po’ gli argini del meccanismo della musica leggera, un po’ stantio». Capolavoro (Altipiani/distr. Audioglobe), undici canzoni di pura poesia acustica appena contaminata da qualche elemento di elettronica: «Oggi è cambiato tutto e l’oggetto disco è diventato di fatto una particella dell’intero settore, come una fotografia che fissa un particolare momento artistico e prepara al passo successivo». Compositore, autore, regista, pianista e chitarrista, Marino è personalità dalle mille sfaccettature. I pezzi dell’album sono – parole dell’artista che per l’occasione si fa poeta: «Una rassegna di tuffi, una raccolta di briciole in cui ciascuna trattiene in sé l’intero. Alla forma compiuta da cui provengono, capita spesso la sorte di un capoverso. Dimenticare il pane è un guasto, saperlo fare è un privilegio, come l’amore mente, fa ruotare gli occhi di qua e di là come un danzatore di katakali impazzito, un fantasma dalla maschera bianca vaga tra gli alberi, si affaccia a metà schermo, si riflette, sparisce, tutto nasce tutto muore tutto torna, uguale o diverso mentre le api rigurgitano il nettare che diverrà miele, overlapping Altmaniano prima e dopo Altman. I bambini giocano leggono vestiti di bianco indossano cappelli cilindrici di cartone assumono le sembianze di messaggeri della luna, su di loro, diventati monitor, scorrono pupazzi di cartapesta multicolori, piccoli cani, cerchi di balsa, la voce parla di memoria, di madri e di padri, di relazioni, di miti, di vita. Un flusso di emozioni ricordi rimpianti voci silenzi bui dentro cui sprofondare onde perdersi e ritrovarsi correre avere il fiatone scalare cime sondare abissi sfondare mura abbracciare il mondo come Amma ricondurre tutto a casa senza limiti senza paure senza sbattere le palpebre così al volo fluttuando leggeri e pulsanti come lancette di un orologio che non si fermerà mai. Ho guadagnato molto attraverso la visione del lavoro «They come to us without a word» di Joan Jonas. Sono arricchita, piena, consapevole, paga. Mi sento cambiata nell’aspetto tramite una mutazione involontaria e, forse, inevitabile. Che strano, che follia, che bello! Ma, oddio, possibile che stavolta non ci sia un prezzo da pagare, che Joan abbia infranto il maleficio, che io sia finalmente libera di venire qui senza rinunciare a qualcosa di importante? No, accidenti, ho capito, anche stavolta Venezia ha vinto. Si è presa la mia giovinezza. [email protected] non basta a se stesso, va diviso al pasto e mangiato in tempo». Già, la condivisione i dieci anni che intercorrono fra gli ultimi due album di Pino lo hanno visto tra i fondatori del romano Collettivo Angelo Mai e del Collettivo del Pane. «Ma prima c’è stata l’esperienza importante con l’Orchestra di piazza Vittorio. Nata da un’urgenza, quella di trattenere musicisti, fargli un contratto per evitare che venissero espulsi». L’importanza del confronto con altri artisti è fondamentale: «Il processo del collettivo regala a chi lo vuole la possibilità di retrocedere di qualche metro con il proprio nome per avanzare di parecchi metri con un progetto comune». Sono esperienze che ha vissuto a Roma: «Una città strangolata da vincoli, da poteri palazzinari e economici che di fatto impedisce a chiunque di poterla amministrare correttamente». Il tour di sostegno a Capolavoro è costruito a più livelli: «Ho previsto diverse situazioni, da solo, in duo fino a otto musicisti. Ma sarà scritto sempre in maniera diversa, in modo che possa funzionare dal piccolo spazio all’Arcimboldi di Milano...». pagina 12 il manifesto GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015 L’ULTIMA Arriva reloaded IL NUOVO SITO gettato un nuovo sistema di archiviazione che potrà farvi trovare qualsiasi firma e qualsiasi categoria/sezione in un istante. La funzione archivio, inoltre, è rafforzata e si trova in tutte le nuove «copertine di sezione» (politica, cultura, internazionale, etc.), in modo che si possa sempre trovare di tutto di più. Anche il nuovo store, finalmente, consente di poter gestire la vendita di tutti i vari prodotti in modo semplice e immediato sia nel backend (noi) che nel frontend (voi). ilmanifesto.info entra in una nuova fase. In anteprima il senso e le novità di un progetto editoriale dalla parte dei lettori, unico nel panorama digitale italiano Matteo Bartocci U n sito in cui il contenuto è sovrano e i lettori sono protagonisti. Questo volevamo quando abbiamo lanciato il nuovo manifesto digitale un anno e mezzo fa e questo resta il nostro «piano editoriale». Semplice è bello. Il meno è il più (less is more). Niente pubblicità on line, tutti i contenuti gratis da subito dietro un paywall (l’offerta a pagamento oltre una certa soglia ai propri contenuti su Internet), un’unica redazione integrata carta/web/app, uso di sistemi open source o quasi, licenza creative commons e ricerca della massima leggerezza possibile in tutte le soluzioni tecniche. Il tempo e i numeri dicono che l’esperimento è riuscito. Ora il progetto editoriale immaginato dalla nuova cooperativa del manifesto, con la preziosa consulenza di thePrintLabs, fa un altro passo avanti. Il nuovo sito su ilmanifesto.info e le nuove app per smartphone e tablet (tra qualche giorno) renderanno la vostra esperienza di lettura ancora più coinvolgente, senza rinunciare alla sobrietà e alla qualità radicale dell’informazione. Nuove «copertine di sezione» che possono “settimanalizzare” la vostra lettura, homepage ridisegnata con temi curati e selezionati, innovazione grafica, nuova barra di navigazione centrata solo sui contenuti, un velocissimo archivio, nuovo store, nuove font, possibilità di aggiornamenti quotidiani e notizie ultimora a prescindere dall’edizione digitale della sera. Non sono piccole cose quando si vogliono tenere sotto controllo i costi e offrire un servizio comparabile a quello di testate più grandi. Livelli di pubblicazione più flessibili Finora il nostro obiettivo editoriale è stato replicare su web e app l’edizione quotidiana del manifesto. Perciò un sito anomalo, con un unico grande aggiornamento attorno alla mezzanotte. Abbiamo cercato il privilegio del tempo lento dove tutto attorno invece è istantaneo e le notizie si leggono e si dimenticano dopo pochi clic. Adesso introduciamo elementi di flessibilità in più, che consentiranno a noi e a voi di modulare l’informazione secondo il ritmo più adatto, dalla breaking news di una riga fino a dossier tematici e curati che restano nel tempo, veri «mini magazine» che consentono di approfondire al di là dello spunto quotidiano. Il manifesto di carta e le edizioni sulle app in larga parte continueranno a coincidere. Il sito non più, si «sgancia» per navigare in modo più autonomo. Dall’homepage alla frontpage L’80% dei navigatori non visita la nostra homepage. Perciò, senza estremismi da nativi digitali o pessimismo cosmico, il cuore del sito è l'articolo singolo. La pagina dell’articolo è il «mattone» di cui è composto il manifesto digitale. Il pubblico si allarga – basti pensare ai social network – e la vera porta d’accesso al nostro sito è l’articolo. Per questo l’abbiamo ridisegnato donan- dogli profondità, freschezza, velocità, focus esclusivo sul contenuto, facilità di commento e condivisione. È l’articolo singolo l’unica frontpage che molti di voi vedono del manifesto. È quello l’inizio (o la fine) della vostra esplorazione nel nostro mondo. In modi sottili che speriamo apprezzerete, a partire da lì vi offriamo più spunti di lettura: articoli in evidenza (quelli che secondo noi dovreste proprio leggere), articoli collegati a quello che state leggendo, articoli che in quel momento altri lettori trovano interessanti e stanno commentando, l’edizione giornaliera in cui quell’articolo è pubblicato. Testo e contesto non solo per informarsi ma per poter approfondire secondo il proprio ritmo di vita e piacere personale. Questo non vuol dire che l’homepage passerà in secondo piano. È la nostra momentanea impronta di bit nel mondo. Tutto il sito del manifesto è responsive, cioè progettato per re-impaginarsi automaticamente su qualsiasi schermo, dal telefonino al desktop. Perciò abbiamo ridisegnato la barra di navigazione dedicandola solo ai contenuti, aggiornato la gerarchia delle varie sezioni/categorie, introdotto elementi importanti come le notizie ultimora, articoli in evidenza e articoli più letti negli ultimi tre giorni. Abbiamo rotto la gabbia grafica con una citazione e soprattutto con una raccolta curata di articoli che può variare a piacimento e che «accompagna» la nostra copertina. Un ulteriore livello di lettura sul fatto del giorno o della settimana. La scelta del Whitney Questa «rottura morbida» con il giornale in edicola è simbolizzata anche dalla nuova webfont scelta per i titoli e gli occhielli, il Whitney Condensed. Pagare per il web si può (e si deve) Quando con thePrintLabs abbiamo iniziato a valutare le nuove font da utilizzare sul sito, il Whitney ci è sembrata la soluzione. Una famiglia di caratteri «senza grazie», compatta e molto leggibile anche in piccole dimensioni, che è stata progettata originariamente per indicazioni, didascalie e cataloghi del Whitney Museum di New York (da qui il nome). È una webfont che senza essere protagonista spicca in pagine affollate e incoraggia la lettura. Per ridurre il peso del download e mantenere la leggerezza grafica, inoltre, abbiamo scelto di mantenere il Georgia per il testo degli articoli, visto che ILLUSTRAZIONE DI KLAUS ASMANN TRATTA DA 200 BEST ILLUSTRATORS è una font di base universale. Nuovo archivio e nuovo store Una delle lacune più gravi di wordpress (il sistema di impaginazione del nostro sito) è l’arretratezza delle funzioni di ricerca. Ricerca e archivio sono croce e delizia degli editori di tutto il mondo. Rendere disponibile tutto quanto si è prodotto negli anni è fondamentale per noi e per i nostri lettori. Se il giornale di carta dura un giorno, Internet conserva la memoria per sempre. Perciò accanto alla funzione normale di ricerca personalizzata (la lente in alto a destra), thePrintLabs ha pro- Il sito del manifesto non cerca «traffico» da vendere in pubblicità. Vende abbonamenti. Forme e contenuti che i lettori devono essere disposti a pagare. Perciò abbiamo il dovere di offrire un prodotto ben fatto, onesto e trasparente. Dove ciò che leggi è scelto da noi per voi e non in base alle statistiche di traffico o i «mi piace» sui social network. Non abbiamo alcun bisogno di piegare la nostra offerta in base ai clic. Ci interessano le persone, non i mouse: «Se non sei interessato a pagare allora dobbiamo ancora convincerti (e lo faremo). Intanto registrati e leggi gratis 15 articoli ogni due settimane». Degli 88mila lettori registrati sul sito solo il 3,5% è abbonato. È chiaro che se vogliamo convertire lettori in abbonati dobbiamo migliorare, e voi potete davvero aiutarci, scrivendoci e raccontando che cosa volete o pensate ([email protected]). Con una certa sorpresa, infatti, siamo ancora soli nella strada tracciata l'anno scorso. Nonostante vari annunci, nessun editore italiano ha ancora adottato un paywall, cioè l’offerta a pagamento oltre una certa soglia di articoli su Internet. A tutt’oggi in Italia lo fa solo il manifesto (all’estero è quasi la norma). Una caratteristica che forse ci penalizza nei numeri ma che siamo convinti sia l’unica strada (l’altra, i video e i banner pubblicitari, si sta rivelando un vicolo cieco) per rendere il digitale utile per un quotidiano che trova nell’edicola la sua forma principale di pubblicazione e ricavi. Il futuro è infinito A breve partiranno anche le nuove app, fin dall’inizio parte integrante di questo progetto. Mentre per l’edizione italiana di Le Monde Diplomatique stiamo sperimentando un nuovo sistema che potrebbe consentirci uno sviluppo digitale serio e coerente anche per questo prestigioso mensile. Alcune iniziative editoriali sono ancora in fase di progettazione. Perché non fare un manifesto anche in altre lingue, per esempio? LO SVILUPPO · I fondatori di thePrintLabs raccontano la passione di un lungo lavoro comune Nel caos dell’editoria il contenuto è il cuore di tutto Stefano Garavelli Nicola Pernice Q uando il manifesto ci ha chiesto di raccontare con le nostre parole la storia dell’aggiornamento che troverete online su ilmanifesto.info, qui a thePrintLabs abbiamo provato a raccogliere le idee sulle soluzioni tecniche, i ragionamenti che hanno portato alle varie scelte, e l’esperienza di utilizzo che avremmo voluto creare per i lettori del manifesto digitale. L’articolo qui sopra esprime già pienamente le riflessioni e le scelte che abbiamo affrontato insieme sul senso e la sostanza dell’ultimo aggiornamento. Invece gli aspetti su cui desi- deriamo soffermarci - il valore e la storia che vogliamo raccontare -, riguardano interamente la qualità del lavoro e la passione per ciò che facciamo, unita alla qualità dei rapporti professionali e personali. Da due anni siamo partner del manifesto per i canali digitali, una storia costruita giorno dopo giorno affrontando ogni ostacolo con il costante confronto, per trovare insieme le soluzioni migliori, condividendo pregi e difetti di ogni scelta, soppesandone i rischi e le opportunità. Grazie a questo atteggiamento siamo stati in grado di imparare dagli errori e migliorare le nostre capacità di risoluzione e i prodotti finali. A partire dal 2013 insieme al manifesto abbiamo affrontato prima lo sviluppo di una app per iPad che consentisse di raggiungere i lettori con un approccio esclusivamente basato su un’esperienza di lettura e di collezione delle edizioni efficiente e funzionale. Un ambiente privo di distrazioni, il download veloce, poche funzionalità ma pienamente utilizzabili. Una redazione unica per la carta e per il digitale al lavoro su un workflow semplice ed efficiente. Attorno a questo abbiamo poi sviluppato la versione per iPhone, una nuova app per i sistemi Android, la nuova presenza sul Web e i sistemi di gestione degli abbonamenti, del paywall e di e-commerce. Adesso il nuovo manifesto su Web, e tra pochi giorni anche su app, arriva alla seconda release, di cui abbiamo iniziato a parlare già un anno fa con una collaborazione continua, condivisione delle analisi, delle prospettive, dei risultati e delle difficoltà fin qui sperimentate. L’ultimo aggiornamento web che sarà on line ultimati i test è un sottile redesign che ha coinvolto centinaia di piccole componenti grafiche e introduce alcune nuove funzionalità che non consideriamo «rivoluzionarie» ma semplicemente frutto del ragionamento sulla fruizione delle informazioni da parte del pubblico del manifesto. Il valore, anche in questo caso, risiede nell’essere stati in grado, condividendo con la redazio- ne il merito per i successi e la colpa per gli errori, di stabilire un obiettivo e dirigere ogni sforzo esclusivamente verso di esso. Presentare i contenuti nella loro forma migliore per agevolarne la fruizione e permettere al contenitore di sparire, lasciando lo spazio alle parole e alle immagini che raccontano storie e opinioni. In un panorama editoriale ormai intossicato da articoli click-baiting, banner pubblicitari e advertorial, se il manifesto digitale sarà l’anomalia che riuscirà a farsi strada con un’offerta limpida e una forma coerente sui vari canali, questa bella storia potrà anche essere chiamata un successo. * thePrintLabs
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