Anno XLVIII Economia & Lavoro Lo Stato innovatore pp. 7-24 COSTRUIRE LO STATO INNOVATORE: UN NUOVO QUADRO PER LA PREVISIONE E LA VALUTAZIONE DI POLITICHE ECONOMICHE CHE CREANO (NON SOLO AGGIUSTANO) IL MERCATO di Mariana Mazzucato L’articolo sostiene che l’innovazione guidata dalla crescita richiede politiche pubbliche che creino e plasmino i mercati oltre a stabilizzarli. Infatti, gli investimenti orientati verso obiettivi specifici, che hanno portato l’uomo sulla Luna (con le conseguenti ricadute tecnologiche) – e che oggigiorno fungono da catalizzatori per gli investimenti volti ad affrontare il problema del cambiamento climatico a livello globale – hanno avuto bisogno di enti pubblici dinamici che fossero attivi nel plasmare e nel creare nuovi scenari di mercato. L’articolo prende in considerazione quattro questioni chiave che emergono da un tale quadro di “creazione del mercato”: il processo decisionale riguardante l’“orientamento” del cambiamento; la natura degli enti (pubblici) che sono in grado di accettarne l’incertezza intrinseca e il processo di scoperta; la valutazione delle politiche orientate verso obiettivi specifici e riguardanti la creazione dei mercati; e la necessità di condividere sia i rischi propri del processo di innovazione, sia i benefici – cosicché la crescita “intelligente” guidata dall’innovazione possa diventare anche una crescita “inclusiva”. This article argues that innovation-led growth requires public policies that create and shape markets, not only ‘fix’ them. Indeed, those ‘mission oriented’ investments that led to putting a man on the moon (with the resulting technological spill-overs) – and are today catalysing investments to tackle climate change world-wide – required dynamic public agencies to be active in shaping and creating new market landscapes. The article considers four key questions which arise from such a ‘market creating’ framework: decision-making on the ‘direction’ of change; the nature of (public) organisations that can welcome the underlying uncertainty and discovery process; the evaluation of mission-oriented and market creation policies; and the need to share both the risks underlying the innovation process and also the rewards – so that ‘smart’ innovation-led growth can also become ‘inclusive’ growth. 1. Introduzione L’importante per il Governo non è fare ciò che gli individui stanno già facendo, e neppure farlo un po’ meglio o un po’ peggio; l’importante è fare quanto al momento non viene fatto. J. M. Keynes, The End of laissez-faire (1926) Oggigiorno gli Stati di tutto il mondo puntano a una crescita “intelligente” guidata dall’innovazione e sperano che questa crescita, rispetto al passato, sia anche più “incluMariana Mazzucato, Università del Sussex. rm Phillips Professor in Economics of Innovation, spru – Science Policy Research Unit, 8 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 siva” e “sostenibile” (Commissione europea, 2010). Questo saggio dimostra come un obiettivo tanto ambizioso richieda un ripensamento del ruolo del governo e delle politiche pubbliche all’interno dell’economia – non solo finanziando il “tasso” di innovazione ma prevedendo anche il suo “orientamento”. Richiede poi una nuova giustificazione per quegli interventi del governo che vanno oltre il normale “far fronte ai fallimenti del mercato”, e obbliga a plasmare e creare i mercati. Inoltre, al fine di rendere tale crescita più “inclusiva”, esige che venga prestata attenzione alla conseguente distribuzione di “rischi e benefici”. Analizziamo il contesto: il capitalismo moderno si trova di fronte a grandi sfide sociali, tra cui il cambiamento climatico, la disoccupazione giovanile, l’obesità, l’invecchiamento e la crescente ineguaglianza. Queste sfide hanno dato vita ad un nuovo programma per la politica di innovazione e crescita, che richiede ai decisori di “pensare in grande” relativamente a quale tipo di tecnologie e politiche socio-economiche possa soddisfare l’ambizione visionaria di rendere la crescita più intelligente, inclusiva e sostenibile (si veda, per esempio, la strategia “Europa 2020”, in Commissione europea, 2010). Sebbene tali sfide non siano puramente di natura tecnologica (dal momento che richiedono anche cambiamenti comportamentali e sistemici), esse hanno molti insegnamenti da trarre dalle imprese umane orientate verso obiettivi specifici (Foray, Mowery, Nelson, 2012), come quelle che hanno portato l’uomo sulla Luna, o da quelle che hanno portato alla nascita di nuove tecnologie polivalenti, da Internet alla biotecnologia e alla nanotecnologia. Per portare a termine tali missioni ci sono volute aziende che fossero disposte e potevano investire nel lungo termine, e uno “Stato innovatore” sicuro di sé, disposto a farsi carico dei settori ad alto impiego di capitale e ad alto rischio, che i privati di solito temono (Mazzucato, 2013a). Uno Stato è innovatore quando è in grado e disposto a investire in settori di estrema incertezza, prevedendo con coraggio l’orientamento del cambiamento all’interno degli enti e dei dipartimenti pubblici. Uno Stato innovatore deve accogliere, piuttosto che temere, l’alto rischio e l’incertezza all’interno della filiera dell’innovazione (dalla ricerca di base alla commercializzazione) e dei processi di sperimentazione richiesti per l’apprendimento organizzativo lungo il percorso (Hirschman, 1967; Rodrik, 2013). Una cosa estremamente importante è che uno Stato imprenditore deve “pensare in grande” (Mazzucato, 2013a). Oggi, è sempre più difficile per gli Stati pensare in grande. Viviamo in un’era nella quale il ruolo del governo viene relegato ad una mera “facilitazione” ed “eliminazione dei rischi” dal settore privato, risolvendo i fallimenti del mercato piuttosto che avere un ruolo diretto nel creare e plasmare i mercati, determinando l’orientamento del cambiamento, con dotazioni finanziarie e strutture di governo adeguate per fare ciò. Per la verità, quando gli enti governativi abbandonano questo ruolo di “facilitazione”, vengono immediatamente accusati di causare “spiazzamento” (crowding out)1 e “puntare sul cavallo vincente” (picking winners). Le difficoltà che i governi incontrano nel pensare in grande derivano da vari fattori. A partire dagli anni Settanta, è diventata prevalente, parallelamente ai tentativi di ridimensionare lo Stato, l’idea del governo come semplice “regolatore” e “amministratore” (Judt, 2011). E l’enfasi che a partire dalla crisi finanziaria globale è stata posta sul taglio 1 Si intende l’idea che vi sia uno spiazzamento degli investimenti privati a seguito di un aumento della spesa pubblica. Mariana Mazzucato 9 del debito pubblico (sebbene sia stato il debito privato ad aver causato la crisi) ha inevitabilmente avuto ripercussioni sui bilanci di quegli enti statali responsabili della creazione delle tipologie di investimento, orizzontali e verticali, necessarie per favorire le rivoluzioni tecnologiche del passato. Negli Stati Uniti, i “tagli” hanno messo a rischio quasi un terzo del bilancio pubblico statunitense dedicato a ricerca e sviluppo (130 miliardi di dollari all’anno) (LaMonica, 2013). In Europa, il fiscal compact (che obbliga gli Stati membri a non avere deficit fiscali che superino il 3% del loro gdp) impone agli Stati di effettuare tagli alla spesa in settori come l’istruzione e la ricerca e sviluppo. La Spagna – un caso emblematico – a partire dal 2009 ha tagliato del 40% le attività di ricerca e sviluppo sostenute dai finanziamenti pubblici (Buck, 2013). Nel Regno Unito, il governo ha “separato” il bilancio dedicato alle attività scientifiche, tuttavia in termini reali (cioè depurati dagli effetti inflattivi), questo ha significato un taglio del 15% (Weir, 2014). Nel frattempo, nei paesi che continuano a crescere, assistiamo alla tendenza opposta. La Germania, a partire dal 2009, ha aumentato il bilancio dedicato all’istruzione, alla ricerca e alle attività scientifiche dello stesso ammontare (10 miliardi di euro l’anno), portandolo a quasi il 10% del suo pil (fmer, 2013); in questo settore, la Cina, dal canto suo, ha fatto aumenti del 170% negli ultimi cinque anni. Nonostante ciò, trovare un modo per i governi di “pensare in grande” non significa solo impiegare il denaro pubblico in diverse attività. Richiede anche un nuovo quadro economico che possa giustificare il ruolo del settore pubblico nel “dirigere” il cambiamento, dando vita alle giuste strutture istituzionali che possano sostenere il cambiamento e adattarvisi in modo dinamico. Esige un quadro che giustifichi il ruolo di “catalizzatore” del governo, la sua capacità di trasformare gli scenari, creare e plasmare i mercati e non solo di stabilizzarli. Richiede nuovi indicatori attraverso cui valutare gli investimenti pubblici, che misurino l’impatto “trasformativo” che secondo i suggerimenti di Keynes (1926) dovrebbe rappresentare il fine (“fare quanto al momento non viene fatto”). Richiede nuove idee sull’organizzazione del governo, e sulla distribuzione di rischi e benefici che derivano dallo sforzo collettivo verso una crescita “intelligente”, guidata dall’innovazione. 2. Oltre i fallimenti del mercato La strada verso il libero mercato è stata aperta e veniva mantenuta aperta dall’aumento enorme di un interventismo continuo, organizzato e controllato a livello centrale. K. Polanyi, La grande trasformazione (1944) La teoria dei fallimenti del mercato giustifica l’intervento pubblico nell’economia solo se esso è diretto a delle situazioni nelle quali i mercati falliscono nell’allocare le risorse in modo efficiente (Arrow, 1951). L’approccio di questa teoria suggerisce che i governi intervengono per “stabilizzare” i mercati investendo nei settori che hanno la caratteristica di “beni pubblici” (come ad esempio la ricerca di base o i farmaci con poco potenziale di mercato), e ideando meccanismi di mercato che internalizzano i costi esterni (come ad esempio l’inquinamento) o i benefici esterni (come ad esempio l’immunità di gruppo). 10 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 Nella fig. 1 sono rappresentate cinque principali cause dei fallimenti del mercato, in altre parole, fattori o comportamenti che causano costi o benefici che non si riflettono nel sistema dei prezzi. Figura 1. Tipi e cause dei fallimenti del mercato Fonte: schema basato su una tipologia di fallimenti del mercato sviluppata da Mazzucato e Penna (2014). All’interno del quadro convenzionale, il fallimento del mercato è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’intervento pubblico (Wolf, 1988). L’essere sufficiente deriva dalla valutazione che i benefici dell’intervento siano maggiori rispetto ai costi relativi dovuti ai “fallimenti del governo” (Tullock, Seldon, Brady, 2002) – come ad esempio il sopravvento degli interessi privati (nepotismo, clientelismo, corruzione, ricerca di rendita) (Krueger, 1974), cattiva allocazione delle risorse (ad esempio, “puntare sul cavallo perdente”) (Falck, Gollier, Woessmann, 2011), o una concorrenza eccessiva con le iniziative private (crowding out) (Friedman, 1979). Quindi, esiste un compromesso fra due risultati inefficienti; uno è generato dai liberi mercati (fallimento del mercato), l’altro dall’intervento del governo (fallimento del governo). Le soluzioni sostenute dai neokeynesiani si concentrano sulla correzione dei fallimenti come ad esempio l’informazione imperfetta (Stiglitz, Weiss, 1981). Le soluzioni avanzate dagli studiosi della teoria della scelta pubblica (Buchanan, 2003) lasciano l’allocazione delle risorse ai mercati (i quali potrebbero essere in grado di correggere i propri fallimenti da soli). La teoria dei fallimenti del mercato fornisce spunti interessanti, e se è utile a descrivere uno scenario statico nel quale la politica pubblica ha come obiettivo di correggere gli andamenti dei mercati, è meno utile quando vi è bisogno di politiche che creino e plasmino in modo dinamico nuovi mercati – cioè di un processo di “trasformazione”. Questo significa che tale teoria ha dei problemi nell’affrontare l’innovazione e le sfide sociali dal momento che non è in grado di spiegare i tipi di investimenti che vanno Mariana Mazzucato 11 a favore dell’innovazione e che sono orientati verso obiettivi specifici; investimenti, questi, che in passato hanno portato alla creazione di tecnologie e settori nuovi che non esistevano prima (Internet, nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie pulite), e di cui il settore privato aveva paura. Sono stati questi investimenti orientati verso obiettivi specifici a coordinare le iniziative pubbliche e private, a costruire nuovi network e a guidare l’intero processo tecno-economico che ha portato alla creazione di nuovi mercati. Vi sono quattro limiti significativi nella teoria dei fallimenti del mercato, che continua a guidare oggi il processo decisionale per quanto riguarda le concezioni sulla capacità dello Stato di definire l’orientamento del cambiamento, di costruire indicatori attraverso i quali valutare il suo impatto trasformativo, di dare vita ad enti nel settore pubblico disposti a, e in grado di accettare i fallimenti invece di temerli, e la capacità di coglierne gli aspetti positivi, ricavandone risorse per sostenere i molti e inevitabili fallimenti che sono parte del processo di innovazione. Questi limiti sono elencati di seguito: 1. Definizione dell’orientamento: prevedere “selezionare” in modo strategico. Le politiche volte a correggere i mercati partono dal presupposto che, una volta affrontate le cause del fallimento, le forze di mercato guideranno in modo efficiente l’economia verso un percorso di crescita e di sviluppo. Tuttavia, i mercati sono “ciechi” (Nelson, Winter, 1982; Dosi, 1982) e l’orientamento del cambiamento fornito dai mercati rappresenta spesso dei risultati subottimali da un punto di vista sociale. Ecco perché, nell’affrontare i cambiamenti sociali, gli Stati hanno dovuto porsi alla guida del processo e indicare la strada verso “nuovi paradigmi tecno-economici” (Perez, 2002), che non si manifestano in modo spontaneo a partire dalle forze di mercato. Nella rivoluzione della produzione di massa e nella rivoluzione informatica, i governi hanno fatto investimenti diretti “finalizzati a obiettivi specifici” in quelle tecnologie che hanno reso possibili queste rivoluzioni, e hanno formulato politiche coraggiose che hanno permesso alle rivoluzioni stesse di spiegare il loro potenziale in tutta l’economia (Mowery, 2010; Block, Keller, 2011). Come ho spiegato nel mio recente volume (Mazzucato, 2013a), ogni tecnologia che rende “intelligente” l’iPhone (Internet, gps, lo schermo touch-screen e il software siri) è stata finanziata con fondi pubblici (fig. 2). E perfino la diffusione delle tecnologie polivalenti (dall’elettricità all’informatica) è stato il risultato di politiche pubbliche (Perez, 2002). Inoltre, nella rivoluzione informatica, e perfino nella rivoluzione delle tecnologie pulite attualmente in crescita, il governo non ha solo finanziato le tecnologie stesse (come ad esempio gli elaboratori centrali, Internet, l’energia eolica e solare, e le pile a combustibile); ha anche creato un network di attori pubblici e privati decentrati (uno “Stato-rete di sviluppo”) (Block, Keller, 2011), ha fornito finanziamenti iniziali a imprese che i privati, avversi al rischio, non avrebbero finanziato, e ha stabilito esenzioni fiscali speciali che hanno favorito alcune attività piuttosto che altre (Mazzucato, 2013a, 2013b). Tutto ciò sembra condurci ad un problema analitico diverso di fronte al quale si trovano i decisori: il problema non è se il ruolo giusto sia quello di intervenire o restare in disparte, bensì comprendere come possono essere scelti “orientamenti” e percorsi particolari, e determinare come incoraggiare e gestire le attività che possono portarci ad avere successo nelle sfide dinamiche di natura sociale e tecnologica. 12 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 Figura 2. Gli investimenti statali che hanno finanziato tutte le principali tecnologie dell’iPhone. Fonte: Mazzucato (2013a, p. 109). 2. Valutazione: statica o dinamica. La teoria dei fallimenti del mercato ha sviluppato indicatori e metodi concreti per valutare gli investimenti di governo, i quali derivano dal contesto stesso, solitamente attraverso un’analisi costi-benefici che stima se i benefici dell’intervento pubblico compensano i costi associati sia con il fallimento del mercato sia con l’attuazione delle politiche (inclusi i “fallimenti del governo”). Tuttavia, esiste una discrepanza tra il carattere intrinsecamente dinamico dello sviluppo economico e gli strumenti statici utilizzati per valutare le politiche. L’approccio degli strumenti diagnostici e valutativi, che si basa sulla teoria dei fallimenti del mercato, implica l’individuazione delle cause del fallimento del mercato nonché l’orientamento degli interventi della politica verso la correzione delle stesse. Questo comporta delle considerazioni ex ante sui requisiti fiscali e amministrativi e sulle conseguenze politico-economiche di un intervento. Una tale indagine si compone solitamente delle seguenti fasi: – un’analisi costi-benefici ex ante che valuta i costi del fallimento, i benefici (privati e sociali) derivanti dall’affrontare tale fallimento, e i costi e i rischi dei fallimenti del governo; –un’identificazione ex ante delle cause dei fallimenti del mercato e degli strumenti politici di riserva per affrontare tali fallimenti; – una diagnosi ex ante della struttura principal-agent (mandante-mandatario) che eviti che il governo divenga preda degli interessi privati (isolamento/autonomia) e che costringa i mandatari privati a fare ciò che vuole il mandante (il governo); – una valutazione ex post dei risultati dell’intervento a fronte della previsione quantificabile ex ante dei probabili risultati dell’intervento. Tuttavia, questo è un insieme limitato di strumenti per valutare le politiche e gli investimenti pubblici volti ad affrontare le sfide sociali, dal momento che agire in questo modo rappresenta solo un esercizio statico di valutazione di un processo che è intrinsecamente dinamico. Non ammettendo la possibilità che il governo possa trasformare e creare nuovi scenari che non esistevano prima, si va a colpire la capacità di misurare un tale impatto, con gli economisti Mariana Mazzucato 13 che spesso ricorrono a un’analisi del settore pubblico come fosse un settore privato inefficiente (Mazzucato, 2013a). Questo è evidente non solo nel campo dell’innovazione, ma anche dei servizi pubblici. Questo porta poi ad accusare il governo di “spiazzare” le imprese, cosa che implica che quei settori all’interno dei quali il governo entra, avrebbero potuto rappresentare settori di investimento privato. A tali accuse si obietta tutt’al più con un’argomentazione di “incentivazione” (crowding in), che si basa sulla dimostrazione di come gli investimenti di governo creino una più ampia quota di prodotto nazionale, che può essere condivisa (i risparmi) tra investitori pubblici e investitori privati. Tuttavia, questa obiezione non coglie il fatto che il fine degli investimenti pubblici dovrebbe essere non solo di “dare avvio” all’economia ma di scegliere gli orientamenti che portano a “fare quanto al momento non viene fatto” (Keynes, 1926). Non possedendo indicatori per una tale azione trasformativa, l’insieme degli strumenti ha ripercussioni sulla capacità del governo di sapere quando sta operando semplicemente all’interno di orizzonti esistenti o quando invece sta raggiungendo nuove frontiere che altrimenti non sarebbero state esplorate (aggiungendo cioè qualcosa di nuovo ). Questo porta spesso a investimenti che sono troppo esigui o ristretti all’interno dei confini definiti dalle prassi economiche del paradigma tecno-economico prevalente (Abraham, 2010). 3. Organizzazione: apprendimento, sperimentazione e i processi di autoscoperta. Se portato all’estremo, come sostengono i critici a favore della teoria della scelta pubblica, la teoria dei fallimenti del mercato richiede che lo Stato intervenga il meno possibile in economia, in modo tale da minimizzare il rischio di “fallimento del governo” (ad esempio, il crowding out, il clientelismo e la corruzione). Questa visione richiede una struttura che isoli il settore pubblico dal settore privato (per evitare, ad esempio, che gli enti pubblici diventino preda di interessi privati) e ha condotto ad una tendenziale “esternalizzazione” che spesso priva i governi delle capacità e competenze scientifiche (per esempio in campo informatico) necessarie per gestire il cambiamento. Gli studi hanno esaminato l’influenza dell’esternalizzazione sulla capacità delle istituzioni pubbliche di attrarre talenti di primo livello con le conoscenze e le competenze necessarie per gestire le politiche di innovazione orientate verso obiettivi specifici (Kakabadse, Kakabadse, 2002). Senza tali talenti e competenze, sarà difficile per lo Stato coordinare e fornire un orientamento agli attori privati al momento dell’ideazione e della realizzazione di politiche che affrontano le sfide sociali. Per la verità, sembra esservi una profezia che si autoavvera, in base alla quale meno un governo “pensa in grande”, meno talenti/competenze il settore pubblico è capace di attrarre, meno bene agisce, meno gli è consentito di “pensare in grande”. Al fine di promuovere la trasformazione dell’economia, plasmando e creando tecnologie, settori e mercati, lo Stato deve organizzarsi così da avere l’“intelligenza” (la capacità politica) di pensare in grande e dare vita a politiche coraggiose. Questo non significa che riuscirà sempre nell’intento, quindi l’incertezza insita nel processo di innovazione comporta che lo Stato fallirà spesso (Nelson, Winter, 1982; Hirschman, 1967). Se l’accento viene posto sul processo decisionale (Rodrik, 2013) che può consentire al settore pubblico di prevedere e gestire il cambiamento trasformativo, è allora essenziale comprendere le strutture appropriate degli organismi pubblici e la loro absorptive capacity, ossia “l’abilità di riconoscere il valore di una nuova conoscenza, di assimilarla e di applicarla a finalità commerciali” (Cohen, Levinthal, 1990). 4. Rischi e benefici: verso un eco-sistema (fra pubblico e privato) simbiotico non parassitario. La teoria dei fallimenti del mercato dice poco in merito ai casi nei quali lo Stato è l’investitore principale e il soggetto che si assume i rischi nelle economie capitaliste attraverso investimenti e politiche “orientati verso obiettivi specifici” (Foray, Mowery, Nelson, 2012). Avere una visione di come guidare un’economia richiede investimenti diretti e indiretti in settori specifici, 14 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 non solo “creando le condizioni” per il cambiamento. Ciò richiede che vengano fatte scelte importanti, i frutti delle quali creeranno dei vincitori ma anche molti perdenti. La fig. 3 mostra quanto denaro pubblico sia stato speso inizialmente per i finanziamenti per l’avviamento con il Programma statunitense di ricerca sull’innovazione delle piccole imprese. Per la verità, proprio perché il capitale di rischio è diventato sempre più di breve termine, con particolare attenzione alla possibilità di uscita nel giro di tre anni (mentre l’innovazione porta via 15-20 anni!), tale finanziamento è diventato sempre più importante. Ugualmente importanti sono diventati i prestiti garantiti per i progetti innovativi ad alto rischio. Per esempio, l’amministrazione Obama negli Stati Uniti ha erogato di recente un prestito garantito a due imprese attive nel campo dell’energia rinnovabile: 500 milioni di dollari alla Solyndra, e 465 milioni alla Tesla Motors. Mentre la seconda viene spesso citata come un esempio di successo, la prima è andata in completo fallimento ed è diventata l’esempio più recente, di cui si servono sia gli economisti sia i più popolari programmi dei media, di come il governo sia incapace di “puntare sul cavallo vincente”. I contribuenti hanno infatti preso in mano la cartella esattoriale (Wood, 2012) e si sono lamentati. Questo evidenzia la necessità di costruire un quadro teoretico che possa aiutare il settore pubblico a comprendere (a) le sue scelte “programmatiche” (Rodrik, 2013) e (b) come distribuire sulla società non solo i rischi di quegli investimenti ma anche i benefici. È giusto che i contribuenti si sobbarchino le perdite della Solyndra, mentre non ricavano niente dai profitti della Tesla? Figura 3. Finanziamenti nella fase iniziale e nella fase di avviamento, Small Business Innovation Research (sbir) e capitale di rischio Fonte: adattamento da Keller e Block (2012). Mariana Mazzucato 15 Ci si chiede poi se, nel contesto della teoria dei fallimenti del mercato, sia giusto che il governo trattenga una quota diretta dei profitti generati dalla crescita che esso sostiene. O, detto in altro modo, se le tasse attualmente riportano nelle casse del governo risorse sufficienti a finanziare investimenti ad alto rischio, che probabilmente falliranno. È noto che le imprese che beneficiano in modo significativo degli investimenti governativi sono riuscite ad eludere la tassazione: Google, il cui algoritmo è stato finanziato dalla National Science Foundation, è stata criticata per l’elusione fiscale, come pure lo sono state la Apple e la Amazon e molte imprese della new economy. Anche se non stessero eludendo le tasse, le aliquote fiscali, come quella sulle plusvalenze, sono diminuite sulla base del pretesto che solo un numero ristretto di soggetti sono i veri innovatori e si assumono i rischi (Lazonick, Mazzucato, 20132). Torneremo su questo importante argomento più avanti. 3. Chi finanzia la green economy? Un elemento chiave per avere una scoperta fondamentale in campo energetico è una maggiore ricerca di base, che esige che il governo ne assuma la guida. Solo quando questa ricerca sarà diretta verso un prodotto, potremo aspettarci che il settore privato entri in gioco. B. Gates3 La finanza pubblica ha giocato un ruolo chiave nell’informatica, nelle biotecnologie e nelle nanotecnologie, e oggi possiamo vedere un ruolo altrettanto attivo del finanziamento statale a favore dell’innovazione nell’emergente green economy. Guardando agli investimenti su scala mondiale volti ad affrontare la sfida globale di limitare le emissione di anidride carbonica (come ad esempio gli investimenti nelle energie rinnovabili), le cifre sono sorprendenti (si veda la fig. 4). Nel 2012, la quota di “istituzioni finanziarie di sviluppo” di natura pubblica (conosciute anche come “banche di sviluppo” o “banche di investimento statali”) nell’orizzonte dei finanziamenti a favore del clima rappresentava il 34% (la quota più significativa di ogni singolo tipo di attore), in confronto al 29% dei soggetti che sviluppano progetti (inclusi gli enti pubblici), al 19% degli attori aziendali, al 9% delle famiglie, al 6% tra tutti i tipi di istituzioni finanziarie private e al 3% dei governi (investimenti provenienti dai bilanci governativi)4 (Climate Policy Initiative, 2013). 2 È stata la National Venture Capital Association che alla fine degli anni Settanta ha portato avanti una forte attività di lobby affinché la tassazione sulle plusvalenze scendesse dal 39,6% al 20% in cinque anni (Lazonick, Mazzucato, 2013). Warren Buffett ha ammesso che tale riforma fiscale non ha avuto un impatto sugli investimenti ma solo sull’ineguaglianza. 3 Fonte: American Energy Industry Council, in http://www.youtube.com/watch?v=x54bVuduggU (accesso effettuato il 1° giugno 2014). 4 La cifra riferita ai governi non considera la loro partecipazione per 37 miliardi di dollari in settori come i servizi pubblici che la Climate Policy Initiative ha classificato come investimenti privati. 16 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 Figura 4. Finanziamenti a favore dei progetti riguardanti l’adattamento al cambiamento climatico e la mitigazione dei suoi effetti, suddivisi per fonte (2012) Fonte: figura basata su dati provenienti da Climate Policy Initiative (2013). Negli ultimi decenni i ruoli tradizionali delle banche d’investimento statali – che svolgono attività creditizia anticiclica e promuovono lo sviluppo dell’economia – sono stati completati da due ruoli nuovi: il sostegno alle imprese innovative (in qualità di “investitori di capitali di rischio”) e la promozione degli investimenti che contribuiscono ad affrontare le sfide sociali (un ruolo “orientato verso obiettivi specifici” o “mosso da un sfida”) (Mazzucato, Penna, 2014). La filosofia distintiva delle banche d’investimento statali è stata riassunta in un recente rapporto del Global Wind Energy Council (gwec): Il fattore principale che distingue le banche di sviluppo dagli istituti di credito del settore privato è la capacità delle prime di assumersi un rischio più alto connesso con gli aspetti politici, economici e locali. Inoltre, dal momento che esse non sono obbligate a pagare dividendi agli azionisti privati, possono assumersi rischi più elevati rispetto alle banche commerciali al fine di conseguire il fine del bene pubblico a livello nazionale e internazionale. In più, i finanziamenti a lungo termine provenienti dal settore privato non sono disponibili per un periodo di maturazione di più di dieci anni (Fried, Shukla, Sawyer, 2012, p. 6). Quindi, i ruoli e l’obiettivo dell’operato delle banche d’investimento statali sono più vari e più complessi rispetto ai semplici progetti di finanziamento. Le banche d’investimento statali possono porre condizioni per l’accesso al credito, nel tentativo di massimizzare il valore economico e sociale per il loro paese. Ancora più importante, attraverso il loro ruolo di investitori di capitali di rischio e di soggetti orientati verso obiettivi specifici (questi due aspetti sono spesso interconnessi), le banche d’investimento statali danno allo sviluppo economico un orientamento chiaro: offrono il “capitale visionario” (Mazzucato, Penna, 2014) che permette la trasformazione qualitativa dei “paradigmi tecno-economici” (Perez, 2002); i mercati da soli non riescono a farlo. La questione della definizione degli orientamenti dell’innovazione tecnica è importantissima (Stirling, 2009). Lo sviluppo tecnologico possiede sia delle caratteristiche quanti- Mariana Mazzucato 17 tative (come l’entità della riduzione delle spese, gli aumenti di produttività ecc.) sia aspetti qualitativi (che possono essere ricompresi in questioni come il tipo di tecnologia e il suo obiettivo – in altre parole, il suo orientamento). Tuttavia, gli aspetti qualitativi sono spesso ignorati, e ciò porta a situazioni nelle quali gli investimenti pubblici vengono orientati verso settori discutibili o in una direzione completamente sbagliata. Il gas di scisto, che è stato completamente finanziato dal governo statunitense (Shellenberger et al., 2012), rappresenta un caso emblematico, in considerazione dell’impatto negativo che la tecnologia (fratturazione idraulica) necessaria per produrlo ha sull’ambiente. Pertanto, gli investimenti pubblici, per poter affrontare le sfide sociali, devono prestare particolare attenzione ai tipi di visione e orientamento che essi incarnano. Inoltre, è importante considerare il coinvolgimento della società civile nel dibattito riguardante questi “orientamenti” (Schot, Geels, 2007). 4. Distribuire i rischi e i benefici a livello sociale Invece di chiedere “Quali benefici [ha] prodotto questo progetto?”, sarebbe quasi più opportuno chiedere: “Quanti conflitti si è lasciato alle spalle? Quante crisi ha provocato e ha attraversato?”. E questi conflitti e queste crisi dovrebbero essere visibili sia dal lato dei benefici sia da quello dei costi, o a volte da un lato, a volte dall’altro, in base al risultato (che non possiamo conoscere con precisione per lungo tempo o addirittura mai). A. O. Hirschman5 Tornando al quarto punto trattato sopra, riguardante rischi e benefici, la spesa pubblica orientata verso obiettivi specifici, a favore dell’informatica, dell’ambiente o della salute porterà a molti esiti positivi ma anche a molti fallimenti. Questo perché l’innovazione è un processo molto incerto, è necessario molto tempo per sviluppare nuove tecnologie, e gli sforzi finiscono spesso in un insuccesso. Per ogni Tesla (aziende che ricevono finanziamenti pubblici, e diventano le beniamine del mercato), vi sono molte Solyndra (aziende che ricevono finanziamenti pubblici e poi finiscono in bancarotta). Per ogni Internet (tecnologie finanziate dai governi e che hanno un enorme successo), vi sono molti Concorde (progetti finanziati dai governi, che falliscono dal punto di vista commerciale). Quindi, il recente fallimento della Solyndra è stato preso come spunto per parlare del fallimento del governo, non considerando che se il governo deve agire come un investitore di capitali di rischio, cosa che storicamente ha fatto, sarà costretto – come tutti gli investitori di capitali di rischio – a subire molti insuccessi per raggiungere qualche risultato. Tuttavia, ciò su cui non si è riflettuto a sufficienza, è il modo in cui misurare il successo/fallimento dal punto di vista di un governo, e anche come assicurarsi che, al pari dei fondi privati ad alto rischio, lo Stato possa beneficiare dei successi, al fine di fornire una copertura per le perdite e per la prossima serie di investimenti: un fondo di rotazione. Gli economisti spiegano che lo Stato beneficia già di un ritorno sui propri investimenti, in modo indiretto attraverso il sistema fiscale. Vi sono quattro argomentazioni contro 5 Cit. in Adelman (2013, p. 313). 18 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 questo ragionamento: 1. l’evasione fiscale (lecita e illecita) è diffusa e realisticamente non sparirà; 2. le tasse, come le plusvalenze, sono diminuite drasticamente negli ultimi decenni, proprio sulla base di una concezione errata di chi siano i soggetti che creano la ricchezza; 3. i movimenti globali di capitale fanno sì che lo specifico paese o regione (ad esempio, l’Unione europea) che finanzia l’innovazione potrebbe non raccoglierne i benefici in termini di creazione di posti di lavoro a livello locale; e 4. se ovviamente è corretto pensare che gli investimenti nei “settori fondamentali”, come ad esempio l’istruzione, la salute e la ricerca, non dovrebbero essere concepiti come suscettibili di ottenere utili, sono questi investimenti diretti in aziende e tecnologie particolari che pongono un problema ben diverso. Se allo Stato viene chiesto di fare tali investimenti (cosa che indubbiamente ha fatto sempre più spesso, dal momento che i mercati finanziari sono diventati ancora più speculativi e a breve termine), è necessario che esso copra le sue inevitabili perdite quando esse si verificano. Quando le grandi scoperte tecnologiche sono state il frutto di investimenti statali mirati a favore di specifiche aziende, potenzialmente lo Stato può, nel corso del tempo, ottenere degli utili, detenendo una piccola quota della proprietà intellettuale creata. Questo non equivale a dire che lo Stato debba sempre avere una licenza esclusiva o detenere una quota del valore di un’innovazione sufficientemente grande da impedire una diffusione più ampia della sua applicazione (e questo non è mai stato il caso) – il ruolo del governo non è di gestire imprese commerciali bensì di aprire la strada all’innovazione altrove. Tuttavia, un governo dovrebbe verificare se sia possibile possedere parte del valore che ha creato, che nel corso del tempo potrebbe generare un valore significativamente maggiore e allora venire reimpiegato per effettuare investimenti a favore della crescita. Lo Stato deve fare questo attraverso l’adozione non di una linea conservativa che minimizzi il rischio di puntare sui progetti perdenti e massimizzi la probabilità di vincita, bensì di un approccio diversificato per i propri investimenti (Rodrik, 2013). Questo è molto importante perché l’attenzione ai potenziali utili non dovrebbe portare lo Stato a ragionare come fa il settore privato (massimizzazione del profitto, attenzione di breve termine ai risultati). Il settore pubblico deve occuparsi degli obiettivi e dei risultati sociali, concentrandosi sulle ripercussioni e i benefici significativi per l’economia, non tutti quantificabili in termini monetari. Questo può essere fatto se si pensa in grande, predisponendo politiche coraggiose finalizzate verso obiettivi specifici, per affrontare le sfide sociali. Non c’è motivo perché gli utili ex post non possano essere presi in considerazione se/quando si ottengono; tuttavia, i risultati monetari quantificabili non dovrebbero essere la misura del successo. Realisticamente, se il ciclo di finanziamento dell’innovazione deve continuare e non essere in balia dei capricci della politica, il successo dei pochi progetti remunerativi deve essere in grado di coprire le perdite causate da quei numerosi progetti che inevitabilmente hanno meno successo (e sono potenzialmente assai costosi). Ciò che importa in questo approccio non è tanto la corrispondenza fra fallimenti e soluzioni, ma una struttura istituzionale che assicuri che le politiche vincenti forniscano sufficienti “benefici” per coprire le perdite, e che le perdite siano utilizzate come casi di studio per migliorare e rinnovare le politiche future. Pochi studi hanno considerato gli investimenti pubblici come parte di un ventaglio più ampio, e li hanno analizzati nel loro insieme. Un’eccezione è rappresentata dallo studio del 2001 condotto dal National Research Council degli usa, che ha valutato i programmi riguardanti i combustibili fossili e l’efficienza energetica, realizzati dal Dipartimento dell’Energia dal 1978 al 2000, e ha riscontrato Mariana Mazzucato 19 che il suo portafoglio di investimenti in quel periodo (22,3 miliardi di dollari, ai prezzi del 1999) ha portato a benefici netti positivi, fondamentalmente grazie al buon esito di solamente tre progetti (National Research Council, 2001, citato in Rodrik, 2013). Il punto è che, adottando un approccio differenziato per gli investimenti pubblici a favore dell’innovazione, il risultato positivo di pochi progetti può aiutare a coprire le perdite derivanti dalla stragrande maggioranza dei progetti falliti. Ci sono vari modi di considerare l’utile diretto che uno Stato potrebbe trarre dai suoi investimenti a favore dell’innovazione. Uno di questi è assicurarsi che i prestiti e le garanzie che vengono forniti dallo Stato alle imprese non siano incondizionati. I prestiti e le donazioni possono essere sottoposti a condizioni, come ad esempio i “prestiti legati a profitti”, simili ai prestiti d’onore per studenti. Se un’impresa riceve un prestito/donazione dallo Stato, le dovrebbe essere richiesto di ripagarne una quota se e quando realizza profitti sopra una certa soglia. Questo non è ovviamente un concetto complicato ma va a scontrarsi con alcune convinzioni ben radicate. Attualmente, con i deficit di bilancio posti così tanto sotto pressione, non è più possibile ignorare tale questione. A parte i prestiti legati ai profitti, vi è la possibilità che lo Stato mantenga delle partecipazioni azionarie nelle aziende che esso sostiene. Questo succede in alcuni paesi, come ad esempio in Israele (attraverso il fondo pubblico di capitale di rischio Yozma) o in Finlandia (dove sitra, una delle agenzie che erogano finanziamenti pubblici, ha mantenuto partecipazioni azionarie nei suoi investimenti iniziali nella Nokia). Per essere chiari, le quote azionarie sono detenute dalle banche di investimento statali, come ad esempio la bndes (attraverso la bndespar, o la bndes Participations), la China Development Bank e la kfw, che sono due investitori leader nella green economy (Mazzucato, Penna, 2014). Tuttavia, le partecipazioni azionarie statali nelle aziende private vengono spesso temute in paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito (e in altri paesi che hanno ripreso il modello anglosassone) per paura che il passo successivo sia il “comunismo”! Nonostante questa paura, le economie capitaliste di maggior successo hanno avuto Stati attivi, che facevano investimenti rischiosi che poi hanno portato a delle vere rivoluzione tecnologiche (Perez, 2002). Siamo stati troppo rapidi nel criticare gli investimenti pubblici quando le cose vanno male (per esempio nel caso della Concorde o della Solyndra) e troppo lenti nell’apprezzarli quando le cose vanno bene (come nel caso di Internet o della Tesla). 5. Nuovi indicatori per analizzare la creazione e la configurazione dei mercati: dall’incentivazione (crowding in) all’introduzione di effetti di dinamizzazione Gli uomini della pratica, che si credono liberi da ogni influenza intellettuale, sono solitamente gli schiavi di qualche economista defunto. […] Sono sicuro che la forza dei poteri forti viene ampiamente sovrastimata in confronto all’impatto graduale delle idee. J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936) Il mondo si trova oggi di fronte ad un enigma. Troppo poche realtà sono attive nel campo dell’innovazione, e quelle poche che lo sono, sono spesso criticate per essere trop- 20 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 po attive e di provocare quindi un effetto spiazzamento (crowding out) e di “puntare sul cavallo vincente”. I critici affermano che gli investimenti pubblici, le politiche industriali attive e gli altri tipi di “intervento governativo” nell’economia, mentre sono potenzialmente giustificati nel caso dei fallimenti di mercato, solitamente portano a risultati peggiori dovuti ai fallimenti del governo. Le critiche comuni allo spiazzamento (crowding out) (Friedman, 1979) o al fatto di puntare sul cavallo vincence (Lisboa, Latif, 2013) – due tipi di “fallimento del governo” – derivano direttamente dalla posizione teorica limitata (maggioritaria) su cosa fanno le banche di investimento statali (Mazzucato, Penna, 2014). Le critiche verso l’effetto spiazzamento (crowding out) possono manifestarsi in due forme. Da un lato, l’investimento pubblico impedirebbe lo sviluppo di un mercato di capitali a lungo termine dal momento che andrebbe a sostituirsi (crowding out) all’iniziativa privata. I tassi di interesse controllati nel lungo termine spiazzerebbero il credito che verrebbe altrimenti offerto da agenti privati in un mercato libero, inibendo così sia l’attività delle banche commerciali sia la creazione di un mercato di capitali. Dall’altro lato, gli investimenti pubblici provocherebbero una diminuzione dell’ammontare di risparmio disponibile per l’investimento privato o porterebbero a modifiche dei tassi di cambio; entrambi i fenomeni comporterebbero un livello più basso di investimenti privati. Nel 2010, ad esempio, la banca di sviluppo tedesca kfw è stata accusata di spiazzare «gli Stati, gli enti sovranazionali e le istituzioni europei che emettono titoli di debito a breve termine» (“EuroWeek”, 2011), poiché stava emettendo “quantità significative” di titoli di credito. Teoricamente, questo risvolto delle critiche all’effetto spiazzamento (crowding out) è associato con alcuni modelli di crescita maggioritari (neokeynesiani o neoclassici) in base ai quali gli investimenti pubblici finiscono per spiazzare gli investimenti privati, in particolare se i deficit del governo vengono finanziati con il debito (Friedman, 1979). Tuttavia, l’ipotesi di spiazzamento (crowding out) è oggetto di ricerca più empirica che teorica, particolarmente se lo Stato fa precisamente quello che non fa il settore privato (Mazzucato, Penna, 2014). Una seconda critica diffusa ha come bersaglio gli investimenti pubblici orientati verso obiettivi specifici, rivolti a tecnologie e settori particolari, nel tentativo di “puntare sul cavallo vincente”. I critici affermano che lo Stato non riesce molto bene a fare ciò poiché manca della capacità, delle informazioni e degli incentivi che farebbero avere successo a questi tentativi (Hanson, 2004). Secondo questa visione, i politici e i burocrati sono degli amministratori mediocri o faziosi a cui manca la disciplina che hanno i mercati. Questa critica è riassunta in un articolo dell’“Economist” intitolato Picking winners, saving losers: the global revival of industrial policy (Puntare sul cavallo vincente, salvare i perdenti: il ritorno globale della politica industriale), che conclude: «L’attuale fase della politica industriale produrrà senza dubbio degli esiti modesti – e molti enormi insuccessi» (“The Economist”, 2010). Mentre l’incapacità dello Stato di “puntare sul cavallo vincente” è spesso una supposizione a priori di molti analisti, pochissimi studi hanno provato a valutare in modo sistematico i tentativi degli Stati di “puntare sul cavallo vincente” (dal Concorde all’Airbus) per stabilire come effettivamente si siano svolti i fatti (Mazzucato, Penna, 2014). Tali critiche sono fuori luogo perché tralasciano sia la vera natura degli investimenti pubblici orientati verso obiettivi specifici sia l’evidenza empirica. Dal momento che esse derivano da teorie e modelli particolari, è necessario sviluppare un nuovo quadro teorico in grado di spiegare e valutare nel modo giusto il carattere innovativo degli investimenti orientati verso obiettivi specifici. Queste critiche ignorano anche un fatto scomodo: la crescente finanziarizzazione dell’economia reale, nella quale la finanza privata sovvenziona la Mariana Mazzucato 21 finanza pubblica (aggiungendosi alla percentuale di valore aggiunto comprensivo dell’intermediazione finanziara), e le aziende private spendono a volte di più in stratagemmi, come il riacquisto di azioni proprie, piuttosto che su attività che creano valore come ad esempio la ricerca e sviluppo (Lazonick, Mazzucato, 2013). Un nuovo quadro pone nuovi tipi di domande e di critiche. Il punto non è difendere tout court lo Stato e i suoi investimenti/attività pubblici, ma assicurarsi che le critiche dirette allo Stato non ignorino i processi e i risultati innovativi dinamici, dal momento che essi si originano da un quadro limitato come la teoria dei fallimenti del mercato. Ciò richiede un nuovo insieme di prassi diagnostiche e valutative, con nuovi indicatori capaci di catturare la dinamica innovativa delle politiche orientate verso obiettivi specifici. Altrimenti, si ha una profezia che si autoavvera, in base alla quale un modello limitato giudica automaticamente in maniera negativa qualsiasi cosa che esca dai suoi confini. Ad esempio, lavorare con un portafoglio significa avere sia investimenti ad alto rischio (la maggior parte dei quali è destinata a fallire) che investimenti a basso rischio (la maggior parte dei quali genererà costantemente utili), dove i secondi potrebbero sostenere anche le imprese e le tecnologie più tradizionali che per una qualunque ragione potrebbero aver bisogno di un supporto continuo nei mercati competitivi. È interessante notare che lo Stato viene spesso criticato per entrambi i seguenti aspetti, ovvero qualora esso non finanzi i soggetti attivi al momento, o qualora esso non investa il denaro dei contribuenti nei settori ad alto rischio. Questo può condurre ad una paralisi completa. Inoltre, ha portato alla paralisi nel quadro del rapporto rischi-benefici, per cui la mancata assunzione, da parte del governo, del ruolo di investitore principale che si assume il rischio ha reso il governo stesso troppo timoroso nell’agire sulla base dei propri poteri (come concordato nella Legge Bayh-Dole del 1980) per mettere un tetto ai prezzi dei medicinali che sono finanziati con fondi pubblici o per esercitare la sua opzione nell’acquisto delle quote delle imprese alla quali lo Stato fornisce prestiti iniziali garantiti e ad alto rischio. Ad esempio, nel caso della Tesla, il governo statunitense, che è stato il primo finanziatore finanche del modello Tesla S, aveva il diritto di acquistare 3 milioni di quote della Tesla solo se il prestito non fosse stato ripagato. Al momento del prestito, il prezzo per ogni azione era solo di 8 dollari, in confronto ai 93 dollari nel momento in cui il prestito è stato restituito (oggi le azioni della Tesla fluttuano intorno ai 200 dollari). Non vedere lo Stato come investitore di primo grado ha fatto sì che questo diritto fosse negato. E quindi ha ridotto la possibilità dello Stato americano di continuare a giocare il ruolo di public venture capitalist. Questo ha impedito al governo statunitense la possibilità di disporre di fondi di rotazione per finanziare l’innovazione. 6. Conclusione: un nuovo quadro pone nuove domande Le soluzioni che derivano dalla teoria dei fallimenti del mercato (che riducono l’apparato statale, promuovendo i meccanismi basati sul mercato per contrastare i fallimenti del mercato stesso, allontanando gli enti pubblici dal settore privato ecc.) potrebbero essere valide per situazioni statiche, ma non per le situazioni nelle quali le politiche pubbliche vengono richieste per la trasformazione, come ad esempio quelle cui si è assistito grazie alle iniziative tecnologiche e socio-economiche del passato. Queste iniziative hanno richiesto un’attenzione particolare non sulla risoluzione dei fallimenti del mercato o sulla minimizzazione dei fallimenti del governo, bensì sulla massimizzazione dell’impatto trasformativo delle politiche, che può plasmare e creare i mercati. 22 Economia & Lavoro, XLVIII, 3 La considerazione del bisogno per la politica governativa di “trasformare”, di fungere da catalizzatore, di creare e di plasmare i mercati e non solo di stabilizzarli aiuta a riformulare le questioni fondamentali di politica economica, trasformandole da quesiti statici che si preoccupano dello spiazzamento (crowding out) e di puntare su iniziative di successo, a quesiti più dinamici che sono costruttivi nel plasmare i tipi di interazioni fra pubblico e privato, che possono creare nuovi scenari industriali e di innovazione. In quest’ottica, è fondamentale per il governo non puntare semplicemente su tecnologie e settori differenti, ma chiedersi ciò che desidera ottenere da quei settori. Portare l’uomo sulla Luna ha richiesto l’interazione di molti settori, allo stesso modo l’orientamento green di cui si dibatte oggi richiede che tutti i settori cambino. Il green non riguarda solo l’energia eolica, l’energia solare o i biocarburanti, ma anche i nuovi motori, i nuovi sistemi di manutenzione, i nuovi modi di concepire l’obsolescenza dei prodotti (Mazzucato, Perez, 2014). Ciò non significa prescrivere tecnologie specifiche, ma fornire orientamenti del cambiamento che sostengano dalla base le soluzioni che possono poi essere sperimentate. Come Stirling (2014, p. 2) ha recentemente affermato: «Più complesse sono le sfide dell’innovazione, come la povertà, le malattie o i danni ambientali, tanto più importanti divengono le politiche efficaci. Non è una questione di “puntare sul cavallo vincente” – un dilemma avvolto dall’incertezza, che viene in ogni caso equamente condiviso tra settore pubblico, settore privato e terzo settore. Si tratta invece di portare avanti un grande coinvolgimento della società, al fine di costruire le condizioni più favorevoli per decidere perfino cosa significhi “vincere”». Il governo trarrebbe beneficio dall’adozione di un approccio differenziato agli investimenti pubblici a favore delle innovazioni, promuovendo l’aspetto esplorativo, plurale e sperimentale del cambiamento. Ciò obbliga a pensare in modo nuovo non solo al cambiamento tecnologico, ma anche al cambiamento organizzativo: si tratta di costruire gli enti pubblici del futuro con capacità creativa, di adattamento e di esplorazione. Riassumendo, questo saggio ha spiegato che per affrontare la sfida dell’innovazione del futuro, invece di preoccuparci di “puntare sul cavallo vincente” e dell’effetto spiazzamento (crowding out), dobbiamo allargare il dibattito a quelle che dovrebbero essere le quattro domande per il futuro: 1.Orientamenti. Come possono essere intese le politiche pubbliche in termini di definizione dell’orientamento e del percorso del cambiamento? In altre parole, può essere intesa nel senso di plasmare e creare i mercati piuttosto che risolverne semplicemente i problemi? Che insegnamenti possiamo trarre dai modi in cui gli orientamenti sono stati definiti in passato? Inoltre, come possiamo stimolare un più ampio dibattito democratico su questa definizione degli orientamenti? 2.Valutazione. Come può una concettualizzazione alternativa del ruolo del settore pubblico nell’economia (alternativa alla teoria dei fallimenti del mercato) tradursi in nuovi indicatori e strumenti di analisi per valutare le politiche pubbliche, al di là dell’analisi microeconomica costi/benefici? In che modo tutto ciò modifica la versione interpretativa basata sull’effetto spiazzamento (crowding out) verso quello opposto di incentivazione (crowding in)? 3.Cambiamento organizzativo. Come dovrebbero essere strutturati gli enti pubblici per poter assumersi i rischi ed esplorare nuovi orizzonti, nonché per avere le capacità necessarie per prevedere e gestire le sfide di oggi? 4.Rischi e benefici. Come può questa concettualizzazione alternativa essere messa in pratica così da ricomprendere gli strumenti di investimento in modo che essi trasferiscano Mariana Mazzucato 23 sulla società non solo il rischio ma potenzialmente anche i benefici che fanno sì che una “crescita intelligente” sia anche una “crescita inclusiva”? Riferimenti bibliografici abraham j. (2010), Pharmaceuticalization of society in context: Theoretical, empirical and health dimensions, “Sociology”, 44, 4, pp. 603-22. (2013), Worldly philosopher: The odyssey of Albert O. Hirschman, Princeton University Press, Princeton. angell m. (2004), The truth about the drug companies, Random House, New York. arrow k. 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